Oblivion, Contest a tema, settembre 2020

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view post Posted on 23/9/2020, 16:08
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Oblivion - contest a tema settembre 2020
Che cosa lasciamo, quando abbandoniamo qualcuno?
Una casa, una famiglia, il passato, un’idea di futuro, la nostra peggiore fotografia impressa a fuoco negli occhi di chi abbiamo amato. Passiamo la vita a spaccare vasi e incollare cocci illudendoci di essere nuovi di zecca e cerchiamo di non guardare troppo indietro, perché il tempo dei bilanci è un tempo vano, ridicolo e struggente.
Che cosa siamo disposti a sacrificare, pur di non sentirci in trappola? E che cosa perdiamo, quando scegliamo di tornare sui nostri passi? Perché niente è più radicale della memoria, ma niente è più tenace di quei lacci invisibili che legano le persone le une alle altre.
E a volte basta un gesto minimo per far riaffiorare quello che abbiamo provato a mettere da parte.
Esistono determinati ricordi che non si possono dimenticare, nemmeno se lo desideriamo con tutto il nostro cuore.
Un volto, un sorriso, uno sguardo.
Quel tardo pomeriggio, un Lucas in versione adolescente sedeva sopra una delle panche di pietra che a intervalli regolari spezzavano la linearità del corridoio del primo piano. La schiena poggiata alla fredda parete, le ferite oramai rimarginate dal corso nefasto del tempo. Lo sguardo, cristallino e chiaro, liquido come le turbolente acque di un fiume in piena, annaspava sul luminoso cielo di Settembre: Hogwarts salutava sorniona l’arrivo di una nuova stagione, nel dolce tepore di una domenica calma e rilassante.
Ogni giovane che percorreva i corridoi del Maniero non poteva fare a meno di scrutare con terrore ogni angolo del Castello, ogni scala, ricordando con riluttanza ciò che era avvenuto solo qualche mese prima: l’invasione, la fuga, la morte di molti.
Come un fulmine a ciel sereno, le immagini di quell’avvenimento gli si pararono di fronte, costringendo il suo corpo a tremare brevemente: i sotterranei, Mokushi, il mostro dalle mille forme, quel folle di Raven che più volte aveva tentato di fregarlo.
Poi Aryadne Cavendish e il resto dei Mangiamorte, una serie di componenti che l’avevano aiutato a superare incolume una sfida di sopravvivenza fuori dall’ordinario.
Il labbro inferiore, carnoso e rosso a causa dei denti che lo stringevano in una morsa d’acciaio, vibrò visibilmente e il giovane si costrinse ad abbassare lo sguardo sulle proprie mani in grembo: tra le lunghe dita pallide stringeva delle fotografie magiche, di quelle in cui le persone ritratte si muovono, le tipiche foto lontane e sconosciute al mondo Babbano.
Erano tre e le teneva una sopra l’altra.
La prima, raffigurava i suoi genitori, lui che doveva essere appena nato tra le braccia di sua madre Emily, i capelli un tempo biondi e arruffati sventolavano mossi dal vento.
Lo sguardo si soffermò sul volto di suo padre, giovane e meno rigido, meno teso rispetto a quello che era abituato a vedere ora, gli occhi grigi e privi della crudeltà che li animavano adesso, privi dell’ira, privi dell’odio che tante volte gli aveva visto sopra.
Sorrideva, ed era sincero.
Spostò la fotografia in fondo, dietro l’ultima e guardò la seconda: rappresentava la famiglia di sua madre. I suoi nonni materni sedevano in mezzo alle loro figlie, sorridenti e gioconde, come se parlassero tra di loro, complici.
Sua madre, i lunghi capelli chiari e luminosi e gli occhi ambrati sorrideva in direzione di Lucas mentre teneva la mano a sua nonna. Accanto a lei, un’altra ragazza dai capelli scuri, leggermente più giovane di sua madre, i brillanti occhi azzurri, intelligenti e vispi sembravano osservarlo mentre il viso si inclinava curioso.
Era sua zia, Alianore Patel, che non vedeva da moltissimi anni, talmente tanti che non riusciva più a ricordarsela. Parevano davvero felici.
Le labbra di Lucas si strinsero maggiormente. Perché non riusciva a rammentare il dolce sapore di quella gioia?
Chiuse gli occhi per un istante e alla cieca spostò la foto in fondo, per poi riaprirli e posare lo sguardo sull’ultima fotografia che aveva: erano quattro persone, due uomini e due donne. Erano seduti intorno ad un tavolo rotondo, su di esso poteva intravedere i resti di un pasto, forse una cena.
Riconobbe le due donne, e uno degli uomini. I lunghi capelli chiari e gli sguardi erano inconfondibili.
Le due sorelle Patel, la più grande e la più piccola, salutavano con la mano sorridendo felici, mentre l’uomo accanto a sua madre, Norman Scott, beveva da un calice un liquido violaceo, facendo ogni tanto scattare lo sguardo arguto e impenetrabile verso la macchina fotografica, il braccio libero posizionato sopra la spalla della moglie.
Lucas sorrise lievemente vedendo le dita di suo padre accarezzarla con dolcezza, tutta la durezza di quello sguardo eliminata dalla morbidezza di un semplice gesto.
Sospirò, mentre l’indice della mano destra andava ad accarezzare l’immagine di sua madre. Quanto avrebbe voluto aiutarla nel suo periodo più difficile, consigliarla, darle sostegno, salvarla dalla parte diabolica e infetta del suo caro padre.
Per sopravvivere a quella quotidianità sbilenca, caratterizzata dai continui insegnamenti perfidi di Norman, il carattere un tempo solare di Emily era cambiato, raggiungendo con il tempo una strana negazione del piacere di vivere. Quante volte gli tornava alla mente il silenzio di sua madre di fronte ai soprusi cagionati del marito crudele, mesi interi trascorsi in completa solitudine a tentare di ricucire ferite sempre più profonde, sempre più dilanianti. Quante, quante volte.
Cento, mille, forse milioni. Più di quanto si possa contare, più di quanto esistano i numeri per poterlo fare. Infiniti? No, non credo. Prima o poi ti stanchi di contare, prima o poi ti stanchi di lottare, di crederci, di battere i pugni sopra la porta, contro il muro, di calciare i pochi mobili rimasti. E poi? Ti siedi a terra stremato, quando le mani sanguinano come la schiena e non puoi nemmeno sederti o mangiare, o bere. Quando non hai più niente a cui pensare. Quando non hai più lacrime da versare. Cosa resta? Nulla.
Lucas rimase ad ascoltare con rabbia il flusso remissivo dei propri pensieri prendere forma, l’odio covato nei confronti del padre crescere a dismisura.
Il cuore prese a battergli forte e dolorosamente, senza tregua, senza riposo, senza attimi, il respiro corto e affannoso.
Come si sentiva? Morto. Un morto vivente.
Una fitta gli attraversò il dorso costringendo il resto del corpo a subire una scossa ben visibile, l’espressione del volto vacillò e perse la solita compostezza, mostrando tutto il dolore che provava, nel corpo e nell’animo.
La rabbia non si era placata e quelle foto continuavano a rimandare alla mente i ricordi della sua infanzia più recente. Rivedeva suo fratello, vedeva gli elfi domestici, suo padre, i nonni, il ringhiante lupo di famiglia, il buio.
Il buio era, difatti, la presenza più persistente.
Forse, alla fine dei conti, era proprio il buio l’essere che più l’aveva amato, popolando le sue notti e spesse volte anche le mattine.
Purtroppo, il vero errore commesso da suo padre era stato quello di non essere stato in grado di rifiutarli fino in fondo, lui, Nathan e la mamma.
Una volta che hai agito in modo da ferire in profondità, in modo da uccidere o comunque rovinare per sempre altri essere umani, non devi fare passi indietro, ti devi assumere la responsabilità del crimine fino in fondo, un crimine non si commette mai a metà.
Ma lui niente, lui era solo un ometto rattoppato dentro, un uomo cattivo e pronto a tutto pur di plagiare le convinzioni dei propri cari, della sua famiglia di sangue.
Un groppo in gola anticipò il bruciore agli occhi. Delle lacrime improvvise, incontrollabili, bagnarono le guance di quel volto pallido che si sforzava, tuttavia, di restare impassibile.
Inizio a detestarmi per questa fragilità incontrollabile. Cerco di soffocare i singhiozzi, e asciugandomi le lacrime inizio a riflettere.
Non mi hanno mai amato, penso. E me la prendo con la gratitudine che i figli dovrebbero dimostrare ai genitori per la vita che hanno ricevuto.
Gratitudine?
Rido. Sono i miei genitori che mi devono un risarcimento. Per i danni che mi hanno causato al cervello, ai sentimenti. O no?
Mi soffio il naso, mormoro qualcosa battendo la mano sulla panca.
Spettro, vieni qua.
Il gatto gli obbedì, un balzo ed era accanto al ragazzo.
Le iridi chiare del Corvonero si muovevano lente su ogni piccolo particolare di quella figura animale, come a voler rendere proprie le indifferenze di un comune gatto davanti le problematiche esistenziali della vita. Sospirò.
Suo padre aveva vinto, era riuscito a distruggere la parte di sé più pura e innocente, creando differenti strati di compostezza nel suo animo: i cristalli di gioia o di solitudine sul fondo, le conseguenze di una memoria che è evaporata, tutto ciò che è stato scavato e poi inondato, solo per rendersi conto che non è vero che il tempo guarisce: c’è una frattura che non verrà mai riempita.
L’unica cosa che fa il tempo è portare con sé polvere ed erbacce, in modo tale che quella crepa venga ricoperta fino a trasformarsi in un passaggio diverso, lontano, quasi fiabesco, in cui si parla un idioma che non conosci più. Passeggi sulle rovine della tua famiglia e ti accorgi che alcune parole sono state cancellate ma altre sono state salvate, alcune sono sparite mentre altre faranno sempre parte del tuo riverbero, e poi finalmente arrivi al margine di tuo padre a di tua madre, dopo anni in cui hai creduto che morire o impazzire fosse l’unico modo per essere alla loro altezza. E lì capisci che tutto nel tuo sangue è un richiamo, e tu sei solo l’eco di una mitologia maligna tramandata da Norman Scott.




Specifico - l'episodio a cui faccio riferimento all'inizio del racconto è collegato al famoso attacco di Hogwarts; una mega quest svolta nel lontano 2013 in compagnia degli utenti Raven Shinretsu e Aryadne Cavendish. Nome della role "la strada del soffocamento", link reperibile nella mia scheda piggì.
 
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