«Tu. Io. Festa di Halloween. Harrington Square. Tra un’ora.» rompo burrascosamente la quiete dell’appartamento di Jordan. Scivolo al suo fianco sul divano, picchiettando vivacemente l’indice su un volantino – la grafica in bianco e nero, il testo macabramente colorato in risalto – che sventolo davanti al suo naso.
«Non accetto un no come risposta.» sollevo un sopracciglio mentre attendo impaziente la sua reazione. Stranito, chiude di scatto il libro che tiene in grembo.
«Allora?» lo incalzo.
«Allora cosa? Lo sai che non fa per me già da un bel po’ partecipare a questi eventi.» fa spallucce sperando di liquidarmi in fretta, ma si sbaglia.
«Oh andiamo! Per una volta che fanno qualcosa d’interessante nel tuo quartiere….» insisto, certa che avrò la meglio su di lui come al solito.
«…ci saranno cibo e attrazioni a tema.» riporto nuovamente l’attenzione sul volantino, indicando un paio di righe in rosso scuro sul fondo.
«Vuoi provare a corrompermi con del cibo e dei giochi per ragazzini? Davvero?» tremendamente sarcastico, l’espressione di chi vorrebbe tornare agli affari propri senza ulteriori interruzioni.
«Che gran simpaticone…» lo rimbecco, ruotando le iridi al cielo prima di continuare
«Da quanto non festeggiamo Halloween insieme?» l’euforia comincia a perdere le sue tinte accese, si assottiglia fino a svanire.
«Camille…» il mio nome suona come una predica, lo pronuncia assieme ad un sospiro.
«È chiedere troppo voler passare questa giornata con mio cugino? Come ai vecchi tempi?» i toni s’ingrigiscono totalmente.
«Ti preegooo…» lo supplico.
«Va bene, tanto lo so che continueresti a tormentarmi.» rassegnato poggia il volume sul tavolo
«Prometti però che non mi chiederai d’indossare maschere assurde!» un sorriso illumina il mio volto istantaneamente, felice che abbia cambiato idea.
«D’accordo, ma solo se mi concedi una sfida al loro famigerato tirassegno stregato!» lo stuzzico, rifilandogli una gomitata scherzosa nel costato.
«Ci tieni a perdere, come ai vecchi tempi?»«Vincevi perché baravi usando la bacchetta, lo sai benissimo. Lì non potrai farlo, però.»«Ancora con questa storia? Lo dici solo perché non riesci a digerire la sconfitta.»«Io non digerisco le sconfitte? Ma non dire bolidate!»«Lo vedremo, vai a prepararti.» ammicca verso le nostre giacche spiegazzate, poste senza troppa cura su una sedia vicino all’ingresso. Non me lo faccio ripetere due volte.
Pregusto già la spensieratezza che ci doneranno le ore successive: il ritornare piccoli, le luci ed i suoni delle giostre, le risate dei visitatori di passaggio, il profumo di zucchero che invade le narici. Non immagino minimante che questo possa andare in frantumi in un battito di ciglia.
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L’allegria pervade ogni angolo della piazza, incorniciata dalle sfumature autunnali. Il tramonto è alle porte, il cielo prende fuoco, si fa aranciato diventando un tutt’uno con le foglie che costeggiano il percorso che serpeggia attraverso le bancarelle. Gli schiamazzi della folla si mischiano a quelli dei venditori ambulanti e dei giostrai.
“Non siate timidi!
Venite a fronteggiare le vostre paure nel tunnel degli orrori!
Morti che camminano, vampiri, spettri. Questo e tanto altro vi attende!”
Un uomo con un completo viola stinto e rattoppato tiene banco, la faccia coperta di cerone e gli occhi contornati di nero, dietro di lui – di guardia all’accesso – il fantoccio di una mummia piuttosto realistico. Noi, intanto, passiamo oltre.
«Ti sei ricreduto?» mostro orgogliosa la coccarda da primo posto che ho guadagnato al tirassegno
«Che ti avevo de-» m’interrompo, un bambino ci viene incontro correndo:
“Tanto non mi prendi!” grida al suo inseguitore, una bambina dalle trecce bionde che gli sta alle calcagna.
“Ridammi il mio pupazzo!” si picca lei.
Tirano dritto senza accorgersi della nostra presenza, rischiando di far cadere le bibite ormai dimezzate che abbiamo in mano.
«Per Merlino, c’è mancato poco.» stringo d’istinto il bicchiere in plastica, cercando di riprendere il filo del discorso
«Quindi? Che mi dici?»«La fortuna del principiante.»«Cosa! Sei proprio un Troll figlio di Morgana.» gli rifilo un’occhiataccia
«Ricordami un po’ chi tra noi due non accetta le sconfitte, eh?»«Io no di certo, ma se ci tieni a darmi la rivincita per dimostrarlo…»«Ummm vedremo, dopo forse, volevo fare prima un salto alla casa degli specchi.» si trova poco più avanti, una struttura in legno dall’esterno anonimo, l’unica non addobbata.
«Come vuoi. Però comincio ad avere fame, prendo qualcosa da mangiare e poi entriamo insieme, ok?»Annuisco.
«Porto qualcosa anche a te?»«Per ora no, grazie. Ti aspetto là.» ci separiamo. Vedo Jordan dirigersi verso il chiosco più vicino, io invece mi avvio nella direzione opposta.
Quando arrivo dintorno è deserto, ne approfitto per salire le scalette che conducono all’entrata e aspettarlo lì e, perché no, per dare una sbirciata preliminare all’interno. Raggiungo la cima e la schiena tocca la ringhiera, provo a portare il bicchiere alla bocca per terminare il contenuto, ma neanche le sfiora, si ferma a metà avanzata.
«È proprio piccolo il mondo.»La voce è come una stilettata, perdo la presa e avverto un tonfo sordo. Il latte corretto con sciroppo di lamponi si spande ai miei piedi in una chiazza – sangue che sgorga da un taglio letale –, intride le assi irrimediabilmente. Non c’è nessun cadavere però, anche se sono fredda e pallida come se fossi già tre metri sotto terra.
Percepisco i suoi passi, i gradini scricchiolano reggendo il suo peso.
La rabbia cresce e le unghie si conficcano nei palmi. Finalmente decido di muovermi, mi scosto dalla ringhiera – i pugni ancora serrati lungo i fianchi – mi volto verso di lui e arretro finché lo spazio me lo consente. Uno spazio vitale che preferirei condividere con chiunque tranne che con Maxwell Morris.
«Fin troppo.» nonostante detesti trovarmelo davanti, ingoio il rospo e mi pongo in maniera piatta, gelida.
«Talmente tanto che manca l’aria.» aggiungo. A quel punto non mi resta che cercare d’imboccare l’unica via di fuga rimasta – ovvero dentro l’attrazione –, sperando che non mi segua. Se ha da dirmi qualcosa non voglio ascoltarlo, non ora, non in mezzo alla gente.
Appena varco la soglia avverto una pressione sulla spalla. M’irrigidisco e stavolta non mi trattengo, scaccio la sua mano con cattiveria.
«Non farlo mai più.» alle sue orecchie potrebbe risultare un ringhio sommesso.
«Non posso neanche provare a fornirti delle spiegazioni?»«Credi veramente che delle spiegazioni valide cancelleranno quello che hai fatto? L’esserti intrufolato nella mia mente senza…senza…» senza che ti dessi il consenso? Mettendomi alle strette,
letteralmente? Ho ancora il voltastomaco, ma evito di vomitargli addosso bile mista a ciò che penso di lui.
Mi fissa e tace.
«Bene, non abbiamo altro da dirci.» faccio per andarmene, di nuovo.
«Aspetta.» perché non mi lascia in pace?
«Ti ho detto che non voglio parlare.»«Capisco che-» Capire? S’illude veramente di capire? Non resisto, esplodo e le parole esondano come un fiume in piena.
«Capisci cosa?» tronco il suo discorso sul nascere
«Che sei stato uno stronzo? O peggio?» la mia intenzione di non affrontarlo sta andando in fumo, mi costringe a fare i conti con lui, con quello che provo.
«Non puoi sapere come ci si sente ad essere violati così.» la sensazione d’impotenza, la totale incapacità di reagire. Restare semplicemente preda di un manipolatore, un abile burattinaio, come lui stesso s’era descritto in qualche modo.
«Non puoi.» ripeto con durezza.
«Ho desiderato…» deglutisco a fatica, la gola è cartavetrata
«Ho desiderato che tu sparissi per sempre, che non restasse traccia di te nella mia vita.» ma non sarebbe bastato un Evanesco ben castato.
«Ho desiderato che la persona che ho visto quel giorno, quel…quel-» non so come definirlo. Vorrei chiamarla quella che era solo l’ombra di un umano – senza luce o gentilezza negli occhi – posta sulla mia strada – oppure, molto semplicemente, io stessa avevo cercato ossessivamente quell’essere –.
Magari se gli trovo un nome, se glielo grido in faccia se ne andrà come un Tremotino qualunque smettendo di torturami.
«…quella specie di demonio fosse un brutto sogno.» purtroppo non è stato sufficiente sollevare le palpebre, l’incubo era reale, tangibile, mi ha tolto il sonno per settimane.
«Ho sperato che il tocco della bacchetta sulla tempia fosse frutto della mia immaginazione, ma non è così.» rabbrividisco al ricordo. Il terrore dell’incertezza, il non comprendere cosa stesse accadendo.
«Pensa che non credevo di poter odiare fino a quel momento.»«Invece adesso avverto solo repulsione quando ti vedo. Nient’altro.» mi aveva fatto sentire sporca, in colpa. Era riuscito davvero a convincermi che fossi stata
io a volerlo, che
io avevo abbassato le difese facilitandolo. Tant’è che non l’ho raccontato a nessuno per timore di sentirmi dire che ero stata ingenua, sciocca, che non avrei dovuto intromettermi.
«Era questo che volevi sentire?» i dotti lacrimali bruciano, ma neanche una stilla a rigare le guance.
«Sei proprio come mio padre.» sibila.
«Tuo padre aveva ragione….su tutto.» il mio sguardo – umido e astioso – inchiodato nel suo.
Rammento tardi le cicatrici diafane che lo segnano, tracciate ad arte dal genitore sulla sua pelle come una mappa. Mi pento di quell’affermazione violenta, ma non riesco a formulare delle scuse.
I suoi occhi increduli si posano su di me ed io – codarda – non riesco a sostenerli, lascio che sia la mia schiena a farlo. La bestia feroce che ho dipinto comincia a sgretolarsi, lascia spazio ad un ragazzo come tanti sul quale sto sputando il mio livore – anche se giustificato –.
Accosto la fronte sulla superficie fredda di uno degli specchi, il corpo pretende sostegno. La consapevolezza di essermi messa allo stesso livello dell’uomo che lo maltrattava mi disgusta, mi trafigge il petto come una spada.
Io non sono così.
Il mio riflesso dice il contrario. Mi stacco appena dal vetro, una figura distorta che stento a riconoscere mi osserva.
Mi giudica.
Per eliminare un mostro mi trasformo in uno di essi. Il viso deformato, le dita allungate allo stremo come artigli che solcano gli arti in profondità e affondano nell’anima.
Una creatura oscena, spietata, senza scrupoli, con i denti avvelenati che mordono la carne viva, tenera e delicata.
*Sale sulle mie labbra:
è pianto.
Un pianto catartico che esorcizza lo schifo che ho provato – e sto provando – verso Maxwell, verso me stessa. Un macigno che mi schiaccia e che non posso sopportare, mi blocca il respiro.
Uno schianto mi risveglia.
Una rete caotica di venature adorna quello che ormai è un portale per l'inferno.
Qualcosa di caldo scorre sulle mie nocche.
Mi sento afferrare il polso. Non mi ritraggo, anche se la tentazione di strattonare è alta.
«Perdonami.» sussurra.
No, non c’è perdono oggi.
Oggi esistono solo due fiere che si leccano le ferite dopo uno scontro, promettendosi silenziosamente di non intralciare più il cammino l’una dell’altra.