Studente - III anno - 14 anni - Serpeverde
I mesi passavano veloci lì a Hogwarts ed erano cambiate tante cose in quel lasso di tempo. Era cambiato lui. Da bambino, a seguito di eventi che lo avrebbero segnato per il resto della vita, era arrivato alla conclusione di doversi fidare solo di sé stesso e aveva imparato presto che, tenersi a distanza da chiunque, gli avrebbe evitato forti delusioni. Ogni mattina, per anni, si era svegliato carico di rabbia verso il mondo e si era tenuto da solo, sulle spalle, il peso di quelle emozioni. In qualche modo, però, era rassicurante aver capito che quella solitudine non lo avrebbe mai ferito o intralciato. In fin dei conti, per mettercela tutta ed essere il migliore, non serviva nessun altro. Non importava farsi amici o ricordi quando, a soli cinque anni, hai già settato il tuo obiettivo. Era rimasto ligio alle proprie convinzioni, giuste o sbagliate che fossero, ed era andato avanti a testa alta. Il susseguirsi di eventi dal momento in cui suo padre era morto non aveva fatto altro che accentuare questo lato della sua personalità. Così, era arrivato a Hogwarts carico di ambizione e buoni propositi. Bacchetta e libri alla mano, pronto a superare qualsiasi ostacolo pur di diventare il mago migliore di tutti i tempi. Sarebbe stato perfetto, se non avesse incontrato lei, che lo aveva fatto crollare come un castello di carte senza che nemmeno se ne accorgesse. In un battito di ciglia aveva abbassato le proprie difese, perché era stato facile, naturale come respirare… E se n’era reso conto troppo tardi. Solo dopo averla persa. Solo quando il dolore lo aveva riportato con i piedi per terra, facendogli capire di essere venuto meno alla silente promessa fatta a sé stesso molti anni prima: si era fidato, anzi, peggio, si era innamorato di una ragazza che lo aveva gettato via come un panno vecchio. Il suo primo amore… e aveva fatto a dir poco schifo.
Non aveva pensato a Christelle per settimane… Ed era bastato uno stupido sogno di lei per riportare a galla ogni singola cosa andata storta nei suoi quattordici anni di vita. Perché l’aveva dovuta sognare proprio quella notte?
Dopo i primi giorni di assestamento, a seguito della furiosa lite che li aveva divisi, aveva imparato a evitare i luoghi da lei frequentati, perché non aveva alcuna intenzione di rendersi ridicolo, o peggio, di permetterle di distrarlo dai propri obiettivi ancora una volta. Era andato tutto bene, era stato eccezionale a rimettere in riga le giuste priorità… Aveva di nuovo smesso di pensare alle cose brutte del proprio passato.
E allora, perché era da ore che fissava la pergamena, rimuginando non solo sulle delusioni che lei gli aveva inferto, ma anche su tutte le altre?
Non valevano niente tutti gli sforzi per evitare lei e la propria famiglia, se comunque la mente lo riportava a quei brutti pensieri così facilmente, per via di un sogno.
Era una sensazione orribile, insopportabile, quella che gli dava l’impressione di non avere il minimo controllo sulla propria vita, l’incapacità di tenere a bada e controllare le proprie emozioni.
Accartocciò con rabbia la pergamena tra le dita. Strinse i denti. Testa china e sguardo basso. Era furioso. Non con lei, che aveva un così devastante potere su di lui, ma con sé stesso. Doveva tornare in sé, al più presto. E nella sua visuale, con un terribile tempismo, apparirono proprio in quell’istante di furia cieca un paio di braccia incrociate sul tavolino, indisponentemente troppo vicine.
Draven saettò lo sguardo davanti a sé, carico come un fucile, pronto a sparare contro l’ignara vittima che gli si parava davanti. Con gli occhi iniettati di sangue, gelido e calcolatore, guardò la ragazzina di fronte a lui, in attesa del La che avrebbe fatto scattare la miccia di quella rabbia repressa. Sarebbe bastato poco e sarebbe esploso, inveendo contro quell’essere umano solo per sfogo. Una parola qualsiasi.
Eccetto quel nome.
Nel silenzio che seguì le inaspettate parole della ragazzina, nella mente di Draven si accavallarono una serie di immagini che, per un fortuito caso del destino, furono in grado di dissipare in un istante tutta la furia accumulata in quelle ore di autodistruzione.
Iris, l’unica maga che aveva risposto all’appello disperato di sua madre quando era stato allontanato da lei e portato in orfanotrofio. Nel suo essere un solitario, passava spesso inosservato e, soprattutto da bambino, quella dote gli era tornata molto utile per origliare, dato che nessuno della famiglia aveva mai pensato di metterlo al corrente dei fatti; tutto ciò che sapeva di sé stesso, dei suoi genitori e della famiglia di sua madre lo doveva alle ore passate a origliare… E l’aveva sentita, sua madre, piangere al telefono e ringraziare Iris di aver convinto Lilien ad aiutarli. Se non fosse stato per lei, chissà lui ora dove sarebbe…
Il viso sembrò rilassarsi in un'espressione più docile e lasciò andare la pergamena che aveva tenuto in ostaggio, con forza, tra le proprie dita.
Si. Perché? È morta? – si decise a dire, dopo un lungo momento di silenzio. Per qualche motivo, probabilmente scaturito dalla montagna russa di emozioni provate in quella giornata da dimenticare, fu quello il primo pensiero che gli passò per la testa dopo aver realizzato chi fosse quella Iris. Era andata lei a prenderlo in orfanotrofio insieme a Lilien. Ma non l’aveva mai ringraziata. Non aveva più pensato a lei dopo quel giorno.
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