baby doll, Privata.

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view post Posted on 18/8/2021, 17:50
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Children don't grow up
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Le ciglia di Sylvie sbattono a intervalli regolari. Lunghe e bianche, sono due farfalle di ghiaccio sul fiocco di neve in cui è scolpito il suo volto pallido. Si aprono e si chiudono mostrando i loro ocelli, trappola e illusione per qualsiasi predatore. Questi, invece, sono due biglie lisce, fatti di vetro e attraversati da una patina di colore scuro che ne crea l'iride. Le macchie nere al centro, sottili come spilli, sono un portale d'accesso a mille fantasticherie.
«A cosa pensi?» Le chiede. I due spilli si muovono per pungerle il volto. Le farfalle sbattono le loro ali, imperturbate dalla sua presenza.
«A cosa potrebbe mai pensare una bambola?»
Le ginocchia sono un semplice meccanismo ad incastro. Le muove facendo dondolare nel vuoto le gambine avvolte nelle calze ricamate. E' seduta infatti su una mensola, assieme a un'altra decina di bambole mute e immobili, piccole e snelle. Non aveva mai badato alla loro presenza prima di allora. Magie Sinister non era mai stato un negozio di giocattoli - di giocattoli convenzionali.
«Io penso che tu sia cambiata.»
La sua voce marca le parole rendendole un rimprovero. Si sente infelice.
Sylvie resta in silenzio ad osservarla con ali tremolanti, spostando una ciocca dei lunghi capelli nivei dietro l'orecchio.
«Un tempo eri la mia fedele compagna di giochi. Ci sporcavamo di fango e combattevamo contro i mostri. Adesso... tu sei cambiata. E continui a cambiare.»
I suoi capelli, infatti, si stanno allungando in centinaia di morbidi boccoli. Raggiungono le ginocchia piegate sulla mensola, poi quella di sotto. Ne superano il bordo e cadono verso il pavimento.
«Siamo cambiate entrambe.»
Sylvie ruota la testa. Si avvita di poco sul collo conficcato sotto il cervello di porcellana e si guarda attorno. Lei rimane interdetta, ma non appena la imita e si volta per seguirne lo sguardo, le si dipinge di fronte il putridume del negozio: polvere, ossa, manufatti macchiati di nero, specchi e vetrine opacizzati dal tempo e dall'oscurità riflessa.
«Non è poi così diverso dal Saint Vincent. Non avrei comunque potuto trovarmi un posto migliore.»
«Ma questo posto pullula di cattivi pensieri. Qui non c'è spazio per i bambini.»
«Ognuno cresce come può, Sylvie.» Il suo tono è scocciato, anche se il parere viene dalla bocca di una bambola. In fondo lei era la sua compagna di giochi. Se la teneva stretta, la nascondeva per non farsela prendere dalle compagne, e passavano insieme innumerevoli pomeriggi. Più che una bambola era il suo fantoccio: una sé di fronte ai suoi occhi, protagonista intoccabile dalla miseria.
«Ti sei solo scelta un buco e hai scavato più in profondità.»
Le labbra di Sylvie diventano a un tratto carnose e si tingono di rosso ciliegia. Le ciglia si allungano e le farfalle volano via, spinte dalla malizia che incalza la sua crescita. «Lo hai semplicemente voluto!»
Civetta, si accascia contro la parete. Le braccia delle bamboline l'accolgono, tese in avanti con bocche sorridenti. La tirano a sé, benché siano immobili. Lei, invece, distoglie lo sguardo amareggiata per posarlo su una specchiera. Si vede, si contempla con disgusto e non trova altre giustificazioni se non...
«Non avrei mai voluto diventare una bambola.»
Il silenzio ripiomba sul negozio e tornano i passi e il vento che percorrono le stradine di Nocturn Alley nella sera. Casey si volta di nuovo verso le bambole, ma al loro posto vi è solo uno scompartimento in penombra colmo di feticci in saldo abbandonati nella polvere.
Si mette le mani sulla testa, le dita stringono le ciocche bionde. Torna a guardarsi, respirando profondamente, nello specchio consunto dal tempo.

 
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view post Posted on 28/8/2021, 20:24
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P l a y

Knock my chest, emptiness
Sound of death and loneliness
All this walls crush my head
Sound of broken bones and death

Il sospiro di una farfalla, così lieve al mondo da sembrare figlio dell’immaginazione.
E una nebbia fitta come il tulle di una gonna che sfiora gli steli d’erba di un labirinto.
Inclino il capo, prima da una parte e poi dall’altra, e con interesse osservo il paesaggio. Nocturn Alley non è mai stata così, così… eterea. Da sempre trattata come la sorella meno attraente, stanotte sembra lei la protagonista del ballo.
A labbra accostate, canticchio una melodia che rimanda a un passato del quale non conservo alcuna memoria, lontano al punto da non poter emergere, e lascio oscillare ritmicamente la testa. L’infinita cascata d’argento che m’incornicia il viso pendola piano, ora a destra ora a sinistra. Poi, ritta sulla punta dei piedi, compio un passo timido — le braccia aperte all’altezza dei fianchi.
Un sorriso infantile sale ad arricciarmi le labbra sottili.
L’assenza di coscienza mi rende leggera e illusoriamente felice.
Metto una gamba avanti all’altra.

Non avevo mai provato questa droga prima di stasera e devo dire che un po’ mi spaesa.
Ti lascia vivere senza appartenere a niente e a nessuno, nemmeno a te stessa.
Poco alla volta, il mondo attorno a me e i confini del mio corpo si sono rarefatti, restituendomi un barlume di pace. Così, le rughe sulla fronte si sono distese e la tensione alle spalle è finita con l’allentarsi. Insieme alla consapevolezza di me, sono spariti i ricordi — quelli impastati con la pena di essere ancora al mondo e con la colpa — e la pesantezza che ha condito gli ultimi sette mesi della mia miserabile esistenza s’è dissolta. Sto bene finalmente o così mi pare.
Avanzo piano con l’incedere leggiadro di un funambolo e l’aspetto di una bambola intrappolata tra gli scomparti di un carillon. Dopo aver eseguito la mia breve danza, tornerò a sparire nell’oscurità — ad esistere solo a metà. Non avrei mai imboccato le strade di Diagon prima e di Nocturn poi, del resto, se gli effetti della polvere non avessero ottuso le mie capacità di raziocinio. Mi avrebbe fermato il timore di incontrare una vecchia conoscenza, anche se oggi mi chiedo spesso cosa accadrebbe.
Se mi vedessero, mi riconoscerebbero? E, se mi riconoscessero, inorridirebbero?
Anche Thalia fuggirebbe, seppellendomi in un angolo buio della sua mente?
Spero tanto di sì. Lo so che sembra paradossale: io, che per una vita ho lamentato il rifiuto degli altri e ne ho cercato l’approvazione e l’amore, adesso voglio proprio che mi respingano. Che mi evitino come si farebbe con l’autore di un crimine riprovevole.
Vieni più vicino e accostati allo schermo, ché ti rivelo il mio segreto.
Ci sei? Riesci a sentirmi anche se parlo piano?
Bene. Ho una strategia in mente per salvarli tutti, soprattutto chi mi vuole bene. Scomparire e far sì che mi detestino è il solo modo per impedire che io li distrugga, che li intossichi. Che faccia loro ciò che ho spinto Astaroth a fare. Non che lo abbia preventivato o ne abbia il controllo. La Metamorfomagia, però, deve aver letto nei fondali della mia anima torbida e scelto di attivarsi per aiutarmi. Cioè, per aiutare gli altri. E io ne sono contenta. Nella mia solitudine, smetto di sentirmi pericolosa.
Un urlo percuote la via in cui mi trovo, a pochi passi dall’ingresso di Magie Sinister. Una mendicante sta seduta sul selciato, rannicchiata contro la parete di un edificio fatiscente. Ha la bocca marcia aperta e gli occhi sbarrati per il terrore. Mi fermo, guardandola con pietà, e allungo la mano nella sua direzione. Desidero consolarla, dirle che andrà tutto bene e che non ha nulla di cui disperarsi.
Voglio far credere a lei ciò che ho deciso essermi precluso.
La lucidità mi è estranea. Se l’avessi, comprenderei che sono io il motivo del suo turbamento, che è a causa mia che sta gridando. Invece, rimango dove sono, sorridendole con l’aria inebetita dello stordimento e l’evanescenza mortale che mi fa apparire come la protagonista di un incubo. E canticchio piano piano senza accorgermi che l’approssimarsi delle mie dita rende la sua disperazione più profonda e il suo appello sempre più acuto.
Gli occhi, nelle mie orbite, sono di un bianco che porta con sé la minaccia d’inghiottire.



Edited by ~ Nieve Rigos - 30/8/2021, 21:44
 
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view post Posted on 13/9/2021, 23:29
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Sto trattenendo il pianto. Sto trattenendo i pensieri, le emozioni e ogni lingua di dolore che tenta di far breccia nel mio cervello.
Mi sto guardando allo specchio. Da quando la scuola è finita e mi sono ritrovata da sola, lontano dal vociare del brefotrofio e dalla concitata quotidianità di Hogwarts, sono in balìa delle visioni. Mi considero più responsabile ora che ho un appartamento, benché orribile e in un quartiere malfamato. Ostento forza aprendo e chiudendo a chiave la porta di casa mia, comprata con le mie forze, abitata da me, una persona indipendente che si costruisce un futuro da sola. Ma sono fragile, e le visioni me lo ricordano giorno dopo giorno.
Mi piombano addosso, sviscerano il mio io a partire dalla vista di un piega nei tessuti della mia maglia o dalle pagliuzze artificiali degli occhi di una bambola impressi nei ricordi. Ho sempre pensato di essere io l'artefice dei miei pensieri; invece, non so per quale maledizione o difetto di un brandello del mio DNA ignoto, un essere infido perfora la mia carne padroneggiando i miei sensi alla pari di un domatore scaltro, che ammansisce il leone con un pungiglione e la vaga promessa di un pezzo di carne: la ritrovata quiete.
Talvolta mi separano dal mio corpo, talvolta appaiono come materia e menti pensanti che dialogano con me nei giorni solitari. Riesco a vedermi, di tanto in tanto, come un'attrice estranea nella pellicola che mi gira e mi rigira nella mente, proprio come è appena accaduto. Mi sono vista fluttuare nella memoria del gioco, in limine fra nostalgia e presente; parlavo con una bambola animata in perpetuo mutamento, simbolo di un che ricalcante un presagio sul mio essere.
Oltre a ridestare il sapore amaro del passato, la Divinazione non è riuscita ancora a tentarmi. L'invito per aggiungermi al suo desco giace accartocciato sul fondo di un cassetto nella lurida dimora del mio io razionale. Rifuggo una spiegazione ad ogni suo ammiccamento.

Mi sto solo guardando allo specchio.
Vedo un essere imperfetto - afrore e miscela ottenuti da una manciata di sfighe e un etto di bruttezza. Il negozio, la casa, sono il mio specchio, e forse Sylvie ha ragione: non c'è più spazio qui per i bei pensieri da quando mi sono resa conto di non poter essere ciò che altri si aspettano, tantomeno quel che desidero io. Per questo lei è cambiata? Tramutava se stessa in qualcosa che non era per adattarsi al mio mondo traviato dal crescere. Vorrei solo un po' di quiete.
Infine sono giunta alla conclusione che le visioni sono l'horror vacui della mia mente, stanca del silenzio dell'esterno e del mio disinteresse. Vorrei solo un po' di quiete.

Mi volto e porto via lo sguardo dal corpo sbagliato che giornalmente nascondo sotto i vestiti. Sinister si appresta a chiudere, mi vuol mandare via per accogliere sul retro un cliente importante che desidera rimanere anonimo a chiunque al di fuori di lui. Spengo le luci e ora la stradina sporca luccica viva sotto la luna calante. Pochi passi e sarei stata a casa per controllare il mio Distillato d'Assenzio, riscaldarmi una scatola di fagioli per cena ed auspicare in una lettera. Fulge il solito finale in fondo alla sera, condito di cose da fare per rubare il vuoto colmabile dalla Vista. Ma non appena faccio per cogliere le mie cose da terra, lo specchio mi mostra ancora quanto vissi poco prima.
«Sylvie?» Sussurro. E' sconcerto, è panico. Faccio un passo indietro e mi cade la borsa dalle mani.
Poi un urlo squarcia la sera e mi porto le mani alla gola perché penso di averlo prodotto io. Ma era troppo rauco, troppo lontano. Guardo la mensola e la vedo vuota; poi realizzo. Lo specchio è rivolto verso la finestra, ed io ho visto un fruscio d'argento librarsi nell'ombra intinta di luna, come uno spettro. Che si tratti davvero di uno spettro?
E il grido?
Il cuore mi perfora la carne col suo battere. Respiro a fondo per calmarlo, perché so che non è raro che le visioni si protraggano per lunghi periodi. Le stesse immagini si ripetono imperterrite come campanello d'allarme per eventualità che io non comprendo. E se è davvero Sylvie che ho visto, essa non è reale, e non lo è nemmeno il grido.
Mi avvicino alla porta. Apro. Mi sporgo. Nelle pieghe della via, la luce di una lanterna sbeffeggia la luna con la luce calda di una fiammella, e si posa sui tratti appuntiti delle spalle di una giovane. I suoi capelli argentei le scendono lungo il corpo, dietro un mantello lei è una sparuta ombra di carne o porcellana che freme nella brezza notturna. Sto per sussurrare ancora il suo nome, quando il passo successivo mi permette di vedere la carcassa raggrinzita della vecchia Hoover.
Una carcassa - l'eco di una donna che ha smarrito il senno. Dicono che i Dissennatori siano riusciti a strapparle ogni ricordo per cui valesse la pena vivere; brancola per le stradine di Nocturn Alley in cerca della sua memoria. Ma pazza o no, i suoi occhi venati di sangue, la sua gola tremolante per lo sforzo, reagiscono alla presenza di Sylvie. Può vederla.
«Non avvicinarti a lei. Ormai non è più tra noi.»
Tocco la mia bacchetta, la impugno dentro la tasca. La gola mi si è ghiacciata e io vorrei chiedere alla ragazza di voltarsi e di dirmi che, perlomeno per adesso, il mio vuoto non verrà colmato.

 
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view post Posted on 19/9/2021, 22:28
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Una voce, poche parole, vaghi ricordi e il loro riaffiorare.
Quella che mi giunge, più che di un’ammonizione, ha l’aspetto di un consiglio. Lo so bene perché detesto da sempre le reprimende per averne ricevute troppe, spesso ingiustamente. È per questa ragione che accolgo le frasi della sconosciuta con sorpresa — a tratti, con gratitudine. I miei occhi indugiano sul viso deforme della vecchina: sono velati di una pietà sincera, che però non riesce a toccarmi nel profondo, a superare la barriera di ottundimento issata dalla polvere che ho assunto stanotte.
Espiro, allora, e prendo coscienza della disfatta. Se la persona alle mie spalle ha detto che è troppo tardi, non ho motivo per credere che stia mentendo. Perché dovrebbe? Per prendere per sé una delle carezze che, altrimenti, avrei riservato alla mendicante? Il ragionamento è così evidentemente sciocco che l’ombra di un sorriso sale al arricciarmi le labbra. Ed è con questa espressione che compio una mezza piroetta — come si conviene alla ballerina di un carillon — e accolgo la sconosciuta solo per rendermi conto che sconosciuta non è.
È Casey, uno dei fantasmi del passato che temevo d’incrociare.

Non la riconosco immantinente, non con la ragione almeno.
S’innesca, di contro, un meccanismo a fasi che coinvolge, dapprima, gli occhi e il cuore e, solo in ultima battuta, le mie connessioni neurali. Dunque, la modulazione della bocca muta per esprimere sgomento. Un soffio d’aria attraversa lo spazio che separa le mie labbra schiuse e raggiunge i polmoni. Dopodiché, ripercorre lo stesso sentiero all’inverso, assumendo le sembianze di un sospiro.
Sono stupita in tanti, tantissimi modi.
A sorprendermi non è soltanto la consapevolezza di trovarmi in una situazione in cui mi ero ripromessa di non cascare, ma anche ciò che ho di fronte. La persona che ho lasciato a Hogwarts, molti mesi fa, sembra non esistere più se non nella caparbietà del piglio e nella profondità abissale degli occhi. Cosa ne sia stato di Casey Bell, dopo la mia sparizione, non mi è dato saperlo. E lo stesso vale per tutti coloro che mi sono lasciata alle spalle: Rose Marie, Oliver, Mary, Thalia…
Mi accorgo di aver allungato la mano verso la ragazza solo quando i miei polpastrelli stanno già ridisegnando i contorni del suo zigomo, il profilo del naso e la curva delle labbra. Infine, risalgo sui capelli di una tonalità simile ai miei.
«Sei molto bella, Casey, come un fuoco fatuo.»

Non aggiungo altro.

 
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view post Posted on 17/10/2021, 23:29
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Mi sono interrogata spesso sul significato della Divinazione e delle visioni. Ho cercato sui libri, ho chiesto ai docenti, ho parlato con estranei. Tutti giungevano alla stessa conclusione che, a partire dall'etimo, si trattasse di una connessione col Divino. L'Essere o gli Esseri onniscienti o il Tutto o quello che sia, conoscono passato, presente e futuro, e rendono pochi eletti loro vassalli della conoscenza sulle trame della Terra.
Alla pari di un demone che affiora sulla Terra degli uomini per tormentare le anime, però, ogni visione si insinua silenziosa nella mia vita e fa breccia nel raziocinio per cibarsene. Non vi ho mai dato corda, non ho mai teso la mano verso Sylvie e tutti i suoi pari fatti di immagini fittizie refrattarie alla logica della catena causale degli eventi. Anche se si issano imperturbabili al di sopra delle probabilità più sicure verso cui ogni momento potrebbe cadere, e sconvolgono il ritmo regolare dei passi del mondo, fermandolo, dirottandolo, capovolgendone i significati.
Questo è uno dei tanto scherzi del mio demone: oltre al provocarmi dolore fisico, a generare l'impaccio mentale e non solo di farmi credere di trovarmi in una stanza con qualcuno finché esso non svanisce nell'etere a visione terminata, egli gioca con la mia consapevolezza di essere una Veggente e mi porta sull'orlo del delirio spingendomi ad analizzare le connessioni fra gli eventi. Sa che vorrei avere il pieno controllo di me stessa, sa che vorrei prevedere ogni cosa comprendendone ogni sfumatura di significato. Sa che ancora non sono pronta ad accettare l'idea che noi infime creature terrene possiamo spiegare con concetti e sillogismi la metà della metà della metà di un'unghia dei fenomeni che coinvolgono il tutto. Suor Maria Orsola ci ha provato negli anni ad inculcarmi il sapere cattolico, e a farmi considerare l'uomo un contenitore fin troppo piccolo e inutile per inscatolare tutto ciò che egli pretende di spiegare. Ma con risultati fin troppo scarsi.
Fino a questo momento mi sono solo stati chiari i migliaia di motivi per cui non avrei mai ritrovato la mia bambola avventuriera in Nieve Rigos fra le strade di Nocturn Alley ad un'ora indecente e al capezzale del lurido giaciglio della mendicante che incrocio tutti i giorni andando al lavoro. Ora ogni nesso fra un'immagine e l'altra, fra un presagio e un incontro, si perdono nel caos del Caso, e ne ignoro con orrore ogni possibile legame.

Non respiro.
«Dimmi che sei Nieve.» Cos'ha agli occhi? Mi chiedo.
Serro il pugno nella tasca sulla bacchetta. Abbandono ogni cervellotica analisi e scivolo in un gorgo bollente di ricordi e frustrazioni.

Ho fissato a lungo il letto vuoto di Nieve Rigos nel nostro dormitorio. Dondolavo spesso fra un foglio di carta e una penna e il letto per incaricarmi di scrivere una semplice lettera. Il fine era chiederle come stesse, dove fosse, perché non si palesasse a scuola. Perché avesse mollato la carica di Prefetto senza alcun preavviso. Non che io avessi chissà quale importanza nella sua vita - non ho mai creduto di essere importante per nessuno, men che meno per lei, e non riesco a crederlo tuttora. Volevo tacciarla di indolenza ed arroganza.
Ci ha lasciati e si è portata via il suo bel premietto, mi ripetevo allo specchio la mattina mentre mi lavavo i denti, dopo esser passata accanto al suo letto. Non gliene è mai fregato un cazzo dei doveri, si starà facendo scopare in giro sputtanando i valori a cui era tanto fedele. Mi ci vorrà tempo, molto tempo per realizzare pienamente che gli altri esseri umani abbiano una loro vita e che non facciano parte dello sfondo della mia.
Dopo i primi due mesi di reiterata assenza giunse la preoccupazione. Chiesi ad Oliver, ma non seppe dirmi niente. Chiesi a Kurt, a Penny, ai professori, ma nessuno aveva idea di cosa le fosse successo.
Ritrovarmela davanti in un'inaspettata sera a Nocturn Alley è come imbattersi nel fantasma di un ricordo d'altri tempi. Una foto antica in bianco e nero ingiallita dal tempo.

«Le hanno strappato il cuore per mangiarlo, i denti per venderli, gli occhi per non farle vedere lo scempio che avrebbero fatto col suo corpo! Oh cara, oh mio tesoro, cosa ti hanno fatto, cosa è successo, dove sei andata? Sei bianca come una salma, putrida nell'anima martoriata dall'odio e dalla violenza. Soccombi, non soffrire! Queste strade non battere, non tornare a tormentarmi col rimorso! Tu non sei lei, non sei lei, sei un'ombra malevola, un ricordo che ha perso di vita!»

«Nieve.»
La mia mano lascia la presa sulla bacchetta e si impone sulla sua per fermare i brividi scaturiti dal tocco. Nello smarrimento che provo, la sequela di cattive emozioni viene soppiantata dall'aura della sottile figura che ho davanti. Le maledizioni insensate della vecchia mi inquietano ma sono consapevole della sua follia. Non c'è davvero più niente da fare per lei. Ma ho sondato inerme e incapace di consolidare opinioni vere i solchi e i colori di quel volto emaciato di Nieve, e seppur perdendomi nel labirinto di presagi e deduzioni che potrei trarne, mi arrogo la possibilità di poter far qualcosa per lei.
La sua mano è fredda sulla mia pelle e sotto il mio palmo, i suoi occhi sono vacui e spenti. C'è qualcosa di malandato in lei, come una pila scarica che viene dimenticata in un congegno e che si ossida prima di poter essere ricaricata. Mi stupisco - quasi mi danno fastidio - della lunghezza dei suoi capelli, e mi ricordo delle mutazioni di Sylvie. Lo stomaco si accartoccia al suono di una risata argentina che mi riecheggia nelle orecchie, per me vera, per l'esterno inudibile. Le labbra di Nieve sono schiuse e dedite ad aprirsi al suo respiro, eppure mi soffermo su di esse come se la risata sia la sua.
«Cosa ci fai qui?» Chiedo. «Non è un buon posto per fare una passeggiata serale.»
Pare ciondolare, pare riconoscere a stento quel che la circonda, me compresa. Ha lo stesso sguardo e la stessa espressione di chi ha appena ingerito una pozione stordente, un infuso di artemisia e distillato d'alcol. Forse è l'ora tarda, forse ha bevuto nello squallido pub dell'isolato vicino, e questo la rende la preda più semplice per quei mostri bipedi che abitano Nocturn Alley. Corrugo la fronte al suo complimento, traendone una conferma alle mie ipotesi e provando disgusto per me stessa.
«Lascia stare la vecchia. Crede sempre di vedere in giro la figlia morta.» Mi divincolo a parole e trattenendola le porto via la mano dal mio volto. La donna urla e fissa Nieve intimandole di andarsene, coprendosi gli occhi con le mani sudicie.«Non stiamo qui. Ti porto a casa mia, ok? Non ti vedo da troppo tempo.»
La tengo per mano e tento di camuffare la mia preoccupazione con l'invito, rabbia da parte ora innecessaria.



Edited by ion` - 18/10/2021, 00:45
 
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view post Posted on 25/11/2021, 21:16
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Knock my chest, emptiness
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Com’è buffo questo mondo in cui vivo solo a metà! Ci sfioriamo, incontriamo, evitiamo tutto il tempo, sconosciuti e non, ma siamo sempre invincibilmente soli. Non possiamo fonderci ad un altro e diventare qualcosa di nuovo e, anche quando ci congiungiamo, il nostro corpo mantiene i suoi confini. Il tempo di illuderci che non sia così.
È a questo che penso, mentre osservo Casey senza cogliere la miriade di reazioni che i miei gesti — la mia semplice presenza — stanno innescando in lei. Ai miei occhi, risalta soltanto la diversità che la distingue dal passato. È cambiata come lo sono io, rifletto, ma mi ritrovo presto a sperare che non sia per le stesse ragioni.
No, non è possibile. Guarda quanta vita c’è ancora in lei!
Notarlo genera una risatina infantile in me, lieta. L’ho sentita venire ad esistenza ruzzolando sul pavimento della mia coscienza alterata. Il suo suono argentino echeggia stonato nel putridume di Nocturn Alley. Se non fosse per il mio aspetto sinistro, potrei essere scambiata per una fanciulla sperduta, capitata per caso in questo luogo di perdizione. Invece, i capelli innaturalmente lunghi e candidi e le iridi di latte mi conferiscono pieno titolo a permanere. Anche questo mi rende felice.
Ruoto appena il viso in direzione della mendicante, fissandola con un occhio di luna e i denti piccoli scoperti tra le labbra sottili. Il grido che le esce di bocca è spaventoso, addirittura fastidioso, così acuto che scorgo un figurino emergere dall’ombra e tirarle il primo di una sequela di calci per zittirla. Rido, ma stavolta non c’è gaiezza nella mia reazione. Una nota d’isteria, di contro, imbratta ogni nota del suono che riproduco. Se Casey mi ha appena preso la mano nella speranza di portarmi lontano da lì, deve temporaneamente rivedere i suoi piani. Intanto che osservo lo sconosciuto infierire sulla vecchina, un furore di ghiaccio monta nel mio petto e su fino alle meningi. Stringo con virulenza le dita della giovane senza rendermene conto. Tutto ciò che riesco a sentire è l’ondata prepotente che preme per uscire dalla mia pelle.
Non ne sono consapevole, come non lo sono di molte altre cose, ma è magia — la stessa che ho smesso di usare da quando ho appeso la bacchetta al chiodo. L’atto di violenza cui sto assistendo e il parallelismo con il mio passato sono l’innesco per una detonazione inattesa. Nella via, le fiamme nelle torce divampano più forte e i vetri delle case tremano come se qualcosa stesse per accadere da un momento all’altro. E, in effetti, così è.
In un battito di ciglia, la mia mano scivola via dalla presa di Casey e io mi lancio in avanti. Un mantello di lunghe onde d’argento svolazza alle mie spalle; sul mio volto, un’espressione feroce. Mi abbatto sul carnefice con la violenza brutale che alberga nel nucleo del mio io, quello che raramente riesco a contattare e che contiene tutta la vita cui è precluso raggiungere la superficie. Lo colpisco con le mani, con le ginocchia. Lo prendo a testate. Lo trattengo con le unghie fino a scavare profondi solchi sulle porzioni scoperte di carne. Lo mordo.
L’effetto sorpresa gioca a sfavore dell’estraneo, che impiega tempo a realizzare cosa gli stia capitando. Quando prova a calciarmi via, un urlo d’arpia esce fuori dalla mia bocca e un tuono esplode nel cielo sopra di noi. Non mi curo del gruppo di criminali attorno a noi, un campanello che sghignazza e mi incita alla violenza con suoni gutturali e frasi meschine. Voglio ucciderlo e posso farlo, ora che le mie mani sono strette attorno al suo collo e sto a cavalcioni sopra di lui. A salvarlo sono soltanto i mesi di denutrizione che hanno indebolito il mio corpo.
L’istinto di sopravvivenza, invero e da ultimo, prevale in lui. Con un colpo di reni e uno schiaffone assestato sul volto, mi spedisce contro il muro dove si trova la mendicante — una balia, la mia, ai miei occhi. Batto la testa sulla pietra, mugolo e, per un attimo, tutto si fa scuro.
Ỳma. Devi salvare Ỳma. Alzati, sussurra una vocina dentro di me.
Riapro gli occhi e mi ritrovo carponi, un rivolo di sangue sul mento e un altro che dalla fronte scende sul naso. Sono pronta a un nuovo attacco.

 
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Nessun corpo potrà mai essere toccato.
Questa frase mi rotea in testa non appena sento le dita di Nieve sulla mia mano. Il contatto da lieve si trasforma piano ad una stretta, e la frase mi balena come un lampo fra i pensieri.
Nessun corpo potrà mai essere toccato.
Ancora faccio una certa fatica a chiarirmi i meccanismi del mio cervello. Se è in grado di tradurre il futuro in illusioni, non devo stupirmi dei parallelismi inconsci che rigurgita.
Lessi questa frase su un tomo in biblioteca, presso il reparto delle bestie, degli esseri e degli spiriti. C'era un mago, un tale Chernobog Sarolt, che aveva speso tutta la sua vita a studiare la composizione fisica dell'anima basandosi sull'osservazione ravvicinata di quelle che accademicamente vengono definite Ombre. Più notoriamente detti Spettri, essi contrariamente al resto del tutto concreto possono attraversare la materia.
Non esiste un solo incantesimo in grado di permettere ad una strega o ad un mago di rendersi intangibili. Si può volare, ci si può smaterializzare, si può ridere in faccia alla morte più e più volte. Ma la verità è che nemmeno la magia può sovrastare la scienza. Nulla si crea, nulla si distrugge. Tutte le cose concrete sono fatte di atomi, che a loro volta sono fatti di altre particelle. Stanno nell'aria, sulla pelle, nella carne, nell'asfalto su cui io Nieve poggiamo i nostri piedi, nelle nostre mani che ora si intrecciano. Apparentemente sono strettissimi fra di loro ma in realtà sono infinitamente lontani gli uni dagli altri a causa di forze fisiche così potenti da determinare le regole dell'universo. Questa è la forza che permette agli elettroni di respingersi, e dato che il guscio di particelle che avvolge il nucleo dell'atomo è fatto di elettroni, gli elettroni che sembrano toccarsi in un qualsiasi contatto in realtà sono separati da una infinitesimale striscia di lontananza che gli impedirà di essere vicini, per sempre.
Mi sorge un sorriso sul volto al pensiero che io e Nieve ci stiamo mentendo a vicenda. Io stringo la mia mano alla sua, lei viceversa. Non poggiamo realmente i piedi sull'asfalto, né siamo finalmente così vicine. Non ci stiamo toccando, non ci potremo mai toccare. L'aria che respiriamo non ci sfiora per davvedo la pelle e nemmeno un taglio viene aperto dalla lama di un coltello, bensì dalla stessa forza di repulsione degli elettroni e dalla pressione applicata. Sembra che la Natura ci abbia dato tutto, eppure è ben più cinica di noi.
Mi sorgono tali pensieri perché, nonostante l'odio e la mia reticenza nel voler bene, sento che lei mi è mancata. Perché la sto toccando e ho paura che sia un'altra visione.
E perché la Nieve che ho di fronte sembra più uno spettro che una persona.

Dove sei stata per tutto questo tempo?
A tratti crediamo di star vivendo solo noi, ma quando i mesi scorrono imperterriti come l'acqua di un fiume durante una lontananza l'evidenza ci ghiaccia.
Quanto è cambiata?
Cosa le è successo?
Cosa ha dovuto vivere?

Ho mille domande in testa eppure non le espongo. C'è qualcosa nell'aria, nella litania della vecchia, se non in quel vuoto sordo che progressivamente germina nel rumore di passi e nella loro eco fra i palazzi che mi consegna incertezza. Ma il cattivo presagio giunge al mio corpo solo quando Nieve lascia la mia stretta.

Resto muta.
Ho visto la scena: l'uomo è comparso dal buio della strada e ha cominciato a prendere a calci la vecchia. Mi ha dato fastidio, mi ha generato un conato d'ira. Ma Nieve si è impossessata del frangente immediatamente successivo.

Orrenda, si abbandona al martirio. Ho pensato che volesse cavargli un occhio con la bacchetta ma in realtà nemmeno ce l'aveva in mano.
Perché? Perché non usa la bacchetta? Sarà lo stato alterato in cui si trova o l'eccessiva ira provocatale dalla visione?
Sgomenta, non agisco e mi pietrifico di fronte al morso. Nieve morde l'uomo e vuole graffiarlo, strappargli la carne. Ma non l'ha vinta ovviamente. Lui la spinge via con forza e lei cade sull'asfalto.
«Puttana rachitica!»
«Fermo!»
urlo esasperata.
Finalmente mi muovo. Mi getto in mezzo, copro col corpo Nieve dall'uomo e l'uomo da Nieve. Non so chi possa arrecare all'altro danno maggiore.
La mia bacchetta è diretta verso di lui. Colgo i suoi zigomi alti e i canini in vista sotto la luce del lampione. Con una mano si tiene la parte dolente a causa del morso, con l'altro la bacchetta. Ha il volto di un lupo che tenta di emergere dallo scheletro del corpo di un uomo con estremo dolore. Mi terrorizza sotto il manto buio della notte, ma non scappo. Mi terrorizza anche Nieve, ma non posso vederla dietro le mie spalle.
«Levati di mezzo» mi ordina l'uomo.
«Vattene!» sputo di rimando io.
Mi carica e ogni forma di rabbia e resistenza che mi sono sussurrata alle orecchie in questi giorni dopo il martellare delle visioni, si riversa su di lui dalla punta della mia bacchetta.
«Bombarda!»

 
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view post Posted on 2/1/2022, 22:39
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La detonazione aggiunge scompiglio alla frenesia esplicita che ha invaso le strade di Nocturn Alley. Richiama le esalazioni di una pozione eccitante, i cui effetti siano stati portati alle estreme conseguenze.
Porto il braccio sinistro davanti al volto e, d’istinto, mi rannicchio. Riduco più che posso la mia estensione corporea per evitare — o provarci, quantomeno — di essere colpita dagli scarti prodotti dal Bombarda di Casey. La pietra si è spaccata sotto la violenza della magia e ha spedito lontano l’uomo che avrebbe voluto attaccarci entrambe. A proposito…
«Casey!»
La chiamo con una nota di disperazione nella voce, scrutando l’ambiente attraverso le polveri che lo scoppio ha generato. Tossisco, infastidita dalle minuscole particelle che mirano a banchettare sui miei polmoni, ma non lascio che questo mi fermi. La individuo davanti a me, solida sulle gambe come si conviene all’eroe della storia — la mia salvatrice.
Mi alzo di scatto, la raggiungo e la abbraccio. È un gesto fuori contesto, che non so spiegarmi. Credo, a scavare un po’ più a fondo, che sia il mio modo di sincerarmi che stia bene, che non si sia fatta male nel tentativo di proteggermi. La avvolgo da dietro, corpo contro corpo, le mani premute sul suo petto e il naso nascosto contro la sua nuca.
«Casey» ripeto e, stavolta, il mio tono di voce rivela una dolcezza languida, che vuole dire sollievo.
Ho gli occhi pieni di lacrime e il viso rigato. Sto tremando contro di lei, ora che ho abbandonato le vesti della belva per tornare umana. Non posso perderla. Non posso permettere che accada di nuovo, che succeda quello che è accaduto con Astaroth. Per questo mi sono allontanata da Hogwarts e ho preso le distanze da tutto ciò che mi è più caro al mondo: non riuscirei a sopportare l’eventualità di diventare cagione delle disgrazie di un’altra persona che amo.
«Andiamo via» le dico ché mi sono già staccata da lei e le ho avvolto le dita in una morsa.
La strattono verso sinistra più volte per smuoverla dal punto in cui si è piazzata. Arrivo anche ad afferrarla con entrambe le mani. Il mio istinto di sopravvivenza mi dice che non possiamo rimanere a lungo e, se c’è una cosa in cui sono brava, è proprio la capacità di mantenermi in vita anche — e forse soprattutto — quando non vorrei.
«Andiamo via. Adesso!»
Ascoltami, Casey, ti prego!

 
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Mi guardo le mani. Sono la prima cosa che vedo non appena le polveri si diradano. Le guardo e penso *Cosa ho fatto?*, incapace di parlare e respirare con la lingua impastata dal fumo. La rabbia è esplosa da esse, riproducendo uno dei gesti più violenti che ho in repertorio. Ho innescato io stessa l'esplosione, e sul volto di un uomo.
Cosa ho fatto.
Sento solo un fischio. Le mie orecchie hanno momentaneamente perso la capacità di discernere i suoni. Mi capita spesso quando lotto in preda alle visioni: allucinazioni uditive di urla e musiche, bisbigli e silenzi. Ma questa volta non è un suono fittizio. È reale, è il fischio del timpano causato dall'esplosione che ho provocato a pochi metri da me.
Mi afferrano. Percepisco la pressione di un corpo sulla schiena, delle mani che mi stringono e mi tirano, ma non mi importa. Potrebbe essere Nieve, la vecchia, un amico di quell'uomo, un Auror, ma non mi importa. Dalle mie mani coi palmi aperti e la bacchetta incastrata fra le dita, sposto gli occhi sul cumulo di pietra spaccata e sulla sagoma di un uomo spezzato. Accasciato sull'asfalto, lurido di sangue e di terra, si rigira scomposto e respira con violenza tossendo.
Piano piano sento i colpi di tosse coprire il fischio. Poi vedo Nieve di lato a me tirarmi il braccio, e lascio vagare lo sguardo dalla sua figura allo spazio intorno.
La vecchia. Dov'è la vecchia? Non c'è più alle nostre spalle.
«...amo via.»
La cerco lungo la via tentando di penetrare il buio con la vista, invece mi catturano le piccole e le grandi luci che si accendono vicine e lontane. Il fracasso ha attirato i pochi abitanti di Nocturn Alley che, forse restii a scendere in strada, tentano di scorgere qualcosa dalle finestre.
Il tirare di Nieve diventa insistente e capisco perché.
«Andiamo via. Adesso!»
Non l'ho vista in volto fino ad ora. Il terrore l'attanaglia e scava col rossore di piccole vene sotto i suoi occhi candidi di neve. Trema e alterna veemenza a sussurri, preghiere e silenzi strozzati. Non ho idea di come io appaia in questo momento, se sono anch'io sporca, se la mia espressione è contorta o annichilita dai fatti. Sento solo di aver ancora una volta dato mostra del mio io più nascosto, spronato dall'assenza di sonno e dall'esasperante slavina di visioni che mi trascina in fondo. Sono, di fatto, un mostro.
La seguo per prima cosa, confusa e incerta su quel che dovrei fare. Poi sento delle voci da una strada alle nostre spalle e mi risveglio parzialmente.
«Di qua.»
Vi è solo un posto per me sicuro a Nocturn Alley, e non è il negozio. Bones Street è una perpendicolare della strada che accoglie Magie Sinister e in cui siamo. Vi accediamo dopo una ventina di metri. La stretta di Nieve sul mio braccio è divenuta un intreccio, capovolti i ruoli di guida. Inforco la via e la trascino. Il suono delle nostre scarpe scuote il mio cuore di sussulti nel silenzio della notte.
Finalmente nella corsa vedo il numero undici. Mi arresto bloccando Nieve, mollo la presa su di lei e cerco forsennatamente le chiavi. Tasche dei pantaloni? Borsa? Tasca interna della borsa? Tasca piccola? Tasca grande?
La trovo e scuoto involontariamente la mano in un tremore mentre cerco di infilare una delle chiavi nella serratura.
«Dentro.»
Il timbro della mia voce è secco e da tono sbrigativo a quel che dico. Mi rendo conto di quanto sia simile a un ringhio rauco e che, oltre al fumo inghiottito, è per l'aria che sale e scende dalla mia gola senza riempire del tutto i polmoni.
Mi fiondo su per le scale. Primo, secondo, terzo, quarto piano. Gli scalini sono stretti, luridi di umidità accorpata alla terra portata dalle scarpe degli inquilini. Finalmente vedo la porta del mio appartamento e, seguendo la stessa trafila scossa della chiave col portone d'ingresso, la apro, faccio passare Nieve e la chiudo celere col corpo.

Inspiro, espiro ripetutamente. Ho la mano destra ancora attaccata alla maniglia. Mi affloscio e poggio la testa sulla porta. Tento di calmarmi. Il miagolio di Julius Marvin mi chiama alle mie spalle, e chiudo gli occhi trovando in esso un po' di conforto. All'improvviso mi sento solo fragile, abbandonata la concitazione della corsa. Non riesco a realizzare che in questo covo sicuro ci sia Nieve, è ancora presto per me interfacciarla e costruirne con la mente le forme nello spazio. Lascio cadere le chiavi per terra, mi scrollo la borsa di dosso e ne sento il tonfo sul pavimento.
Mi stacco dalla porta e barcollo nuotando nell'aria fino alla zona cottura di quell'unica stanza d'appartamento. Mi piego sul lavello e, fregandomene del tutto, col braccio sinistro sposto via le stoviglie in attesa di esser lavate dall'angolo di scolo e le faccio cadere a terra. Le forchette e i coltelli rimbalzano sul cotto, i piatti e i bicchieri si spargono sul pavimento in mille pezzi con i rimasugli dei pasti. Io apro il rubinetto e ci ficco la testa sotto ansimando, come se scorrendovi sopra l'acqua possa respingere la pressione dall'interno contro la scatola cranica.

 
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view post Posted on 26/1/2022, 20:55
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La confusione detta il ritmo della mia vita, oramai è noto a chiunque mi segua da un po’. Se mi hai letto qualche altra volta, sai che esiste un algoritmo sotteso alla mia esistenza che aggiunge una punta di Caos a qualunque situazione io viva — dentro e fuori di me.
Sono a casa di… un’amica? Una compagna? Una complice, rea quanto me? Più che una casa, è un bugigattolo lasciato marcire, dove le uniche tracce di vita giacciono ora sul pavimento per volere della stessa proprietaria. A confronto con i fasti di Villa dei Gigli, sembra la copia di una rete fognaria degna solo di essere confinata nel sottosuolo.
C’è silenzio dopo lo scroscio dovuto alla caduta del pentolame. Solo il rumore dell’acqua che scorre dal rubinetto interrompe l’immobilità circostante. Casey è evidentemente sopraffatta, come lo sono stata io qualche minuto fa, ma adesso… Come mi sento adesso?
Vorrei sapertelo dire. È a questo che penso, mentre un magma di emozioni ribolle nel mio petto, facendomi percepire ora un terribile freddo e ora un insopportabile caldo. Si scambiano di posto come i partecipanti di un gioco di ruolo e io le subisco, inerme.
La prima a fare apparizione è stata l’adrenalina. Sulle ali della fuga, è salita ad eccitare il mio cervello e a facilitarmi, allorché correvamo tra i vicoli e speravamo che le chiavi entrassero nella serratura prima di scoprire di essere state seguite, scovate.
Dopodiché, si è palesata la paura. Un gelo sottile si è insinuato nei pori della pelle e ha preso a solleticarne ogni singolo strato, facendomi rabbrividire con la schiena contro il muro. Ho pensato che non sarei più riuscita a muovermi, che da un momento all’altro sarei crollata sul pavimento e lì sarei rimasta — un po’ come la mendicante cagione del nostro attacco.
Adesso… Adesso, invece, c’è un filo di fuoco che mi accarezza le viscere, lo sterno, le spalle e scende giù fino alle mani. Tremano.
Alzo il capo di scatto e dirotto la mia attenzione sulla sola altra anima presente, staccandola dalla macchia di sporco che l’ha tenuta imprigionata finora. I miei occhi individuano Casey, taglienti e fermi. Quando la raggiungo, mi vedo prenderla di scatto per le spalle e stringerle forte tra le dita. Non è il gesto affettuoso di chi si senta sollevato. È la morsa virulenta della rabbia.
«Che cazzo fai, cretina?!» sibilo a denti stretti — un serpente albino che sussurri la sua condanna. «Cosa pensavi di fare, eh?» continuo e la costringo a indietreggiare.
Sembrerà ingrato da parte mia perché è evidente che, pur nelle sue molteplici sfumature, il gesto di Casey sia stato innescato dal bisogno di proteggermi. E non riesco a non esserlo, perché nel mio caotico mondo interiore provo solo biasimo per lei. Non avrebbe mai dovuto mettersi in pericolo per me. Nessuno dovrebbe mai rischiare nulla per me. Non me lo merito. Non ha senso. È inutile. Non…
È a me stessa che sto rivolgendo ogni accusa, ma fatico a realizzarlo finché il senso di colpa non sale alla gola e quasi mi impedisce il respiro. Mi ero ripromessa di stare alla larga dalla mia vita precedente e, invece, eccomi al punto di partenza. Ho creato le condizioni per incontrare Casey, mossa da una nostalgia che le droghe devono aver acuito e supportato. L’ho addirittura messa nelle condizioni di fare e farsi del male.
Ah, i miei deliri di onnipotenza! Se non fossi troppo presa dai miei ragionamenti colpevolizzanti, concederei agli altri — a Casey, nella fattispecie — il beneficio del libero arbitrio.
«Tu…» Mi fermo, gli occhi di latte fissi nei suoi. La mia fragilità esteriore e il modo in cui le sto parlando creano un contrasto sgradevole, come di una creatura di cui non ci si possa fidare. «Non avresti dovuto!»
Nell’istante in cui pronuncio queste ultime parole e riduco la pressione dei polpastrelli sulla carne della mia complice, decreto che il mio sia un congedo. Senza attendere, intraprendo dunque la via che conduce alla porta dell’appartamento.

Sto facendo e disfacendo tutto da sola, come sempre.

 
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view post Posted on 3/2/2022, 21:28
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Mostro.
Sono stanca al punto di non reggermi in piedi. I miei nervi sono a pezzi, il mio respiro è affannoso. Vorrei infilare la testa nel lavabo pieno d'acqua e respirare. Addormentarmi con la pressione del liquido nelle orecchie e non sentire più nulla.
Ma sto anche tremando dall'ira e l'unica pressione che avverto è quella del cuore che batte inferocito nel petto, mentre pensieri mi sconquassano l'ordine del cervello.
Mostro. Mostro. Mostro.
Sei sempre così, mi dico. Dovresti farti ricoverare ed espellere da Hogwarts per tutte le stronzate che non sanno.
La Vinstav che brucia, Minotaus accartocciato sotto il peso di un gargoyle, Nelson in bilico sulla ringhiera della terrazza della Torre di Astronomia. Ora un altro volto si aggiunge alla schiera di coloro che hanno subito i miei scatti di rabbia.
Mostro.
Benché abbia già dato vita a un'esplosione mi sento io in procinto di esplodere. La pelle formicola, le punte delle mie dita sono ghiacciate e tremo, tremo per il calore che mi risale dallo stomaco e il freddo della paura.
Mi sembra di essere sola in questa stanza, un lurido locale unico dove passo le notti e miscelo pozioni. Tutte le mie cose sono qui, e ricordarlo mi tranquillizza. Ci dovrebbe essere Julius Marvin acciambellato da qualche parte, o più probabilmente sarà nei paraggi attratto e spaventato al tempo stesso dai rumori. Nel frigo c'è una bottiglia a metà di salsa di pomodoro con un po' di olio per non farla ammuffire subito, del burro, del latte e degli avanzi di pollo arrosto con patatine fritte del pranzo. Negli armadietti sopra di me ci sono piatti e bicchieri - no, quelli li ho appena rotti - poi del pane e, ben separato, del Distillato d'Assenzio in fase di ultimazione. Devo comprare la pasta.
Ripasso mentalmente la realtà che mi circonda, le poche certezze che ho davvero fra le mie mani. Devo concentrarmi su di esse per tranquillizzarmi, per sapere che sono vere e non fanno parte di una visione. L'acqua è vera, mi sta bagnando la testa e il collo.
Nieve non c'è. Nieve era la bambola. Nieve era la mia visione.
E io non ho schiantato un uomo e non l'ho lasciato in mezzo alla strada, di notte, privo di conoscenza.
Qualcuno sta parlando però, mostro.
«LASCIAMI!»
Chiunque fosse, mi ha preso per le spalle e ha acceso la miccia.
«LASCIAMI, CAZZO!»
Mi divincolo e sento la stretta svanire. Estraggo la bacchetta e mi volto. Vuole fuggire, ma non può provarci prima di aver fatto i conti con me.
Colloportus. Mostro.
Sigillo la porta. Le punto l'arma contro.
«Dov'è finita la tua bacchetta, eh? Dove cazzo ha messo la bacchetta la fantomatica vincitrice del Premio Barnabus Finkley per incantesimi eccezionali?» Sottolineo con pomposità un beffeggiamento ben articolato di Midnight che presenta il torneo.
«Tu non sei Nieve. Io so chi sei, Sylvie. Razza di mostro! Ora dimmi che cazzo vuoi da me e perché hai fatto tutto questo. Io faccio quello che cazzo mi pare, hai capito? Tu non mi farai fare niente.»
Sto urlando, la sto minacciando. Faccio un cenno con la testa verso il tavolo e le sedie. Il mio non è un invito. Le visioni mi sfuggono sempre dalle dita, ma da ora non più.



Edited by ion` - 3/2/2022, 23:48
 
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view post Posted on 29/3/2022, 22:03
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Non dovremmo essere qui, né io né lei. Non dovremmo essere insieme e, probabilmente, i nostri cammini non avrebbero mai dovuto incrociarsi — proprio nella vita, intendo. Ci sono tante similitudini nei nostri vissuti, così tante che a volte trovarmi di fronte a Casey è come specchiarsi sull'acqua: il riflesso non è identico, ma la somiglianza spaventa.
Nel presente, io non ho paura di lei. Non potrei averne di nessuno, sconvolto com'è il mio sistema psicoemotivo. Provo eccitazione dove il buonsenso suggerirebbe diffidenza o, addirittura, timore; e curiosità verso ogni forma di pericolo, specie se affiancata dal rischio di annullamento. E la Bell mi sta offrendo pane per i miei denti senza saperlo. Dunque, penso baldanzosa mentre le osservo con un mezzo ghigno storto sulle labbra sottili, se pensava di spaventarmi ha sbagliato persona.
Non che me lo stia chiedendo, sia chiaro, ma è piuttosto palese che le droghe che ho assunto abbiano aggiunto una pennellata di spocchia al mio comportamento già poco raccomandabile. Mi sento onnipotente, mentre la guardo, e ho involontariamente portato le mani ai fianchi. Sono piccolissima nel mio corpo troppo sottile per quest'altezza, eppure occupo uno spazio gigantesco con la criniera d'argento che circonda la mia figura e quest'aura a metà tra il fisico e l'onirico.
Così, mi ritrovo a pensare che non mi serva una bacchetta per farla a pezzi.
«Sylvie è la tua ragazza?» dico con una voce che non mi appartiene, non per il suono ma per i suoi sottintesi. Ricorda la malignità melliflua di chi, a scuola, sia abituato alle prese in giro verso i compagni più indifesi — la spocchia dei Purosangue nei confronti dei Nati Babbani. «Ti ha lasciato e hai le allucinazioni su di lei?» continuo, beffarda, sempre con le mani posizionate sui fianchi fragili. «È un po' da disperata, non trovi?!»
Odierei questa versione di me, se fossi la persona che sono sempre stata — la ragazzina buona oltre ogni brutalità ricevuta. Mi domanderei, guardandomi, chi è quest'estranea dall'aria spettrale e dallo sguardo vacuo. A chi appartenga quel sorriso mefistofelico e cosa muova le sue azioni. Chi l'abbia ridotta in questo stato. Probabilmente, abbraccerei Casey e la porterei con me, lontano dalla portata della sua cattiveria.
«Se è il sesso che cerchi, forse qualcosa posso fare...» La guardo dall'alto in basso, come squadrandola, per poi aggiungere con aria supponente: «Ma non ti prometto nulla perché il materiale... be', vedo che è quel che è!»
Bastarda.



Edited by ~ Nieve Rigos - 1/4/2022, 14:15
 
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view post Posted on 10/5/2022, 13:50
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Le visioni hanno sempre alcuni tratti distintivi. Appare tutto più vivido, nei colori e nelle sensazioni. Mi sembra di essermi finalmente immersa nella vita, e di avere squarciato la placenta che mi ancorava al grembo materno. Se qualcosa mi provoca gioia, la gioia che sento è enorme. Se vedo di star cadendo in uno strapiombo la paura che provo mi mangia da dentro. Se un coltello mi trapassa la carne, il dolore più fitto mi fa desiderare di strapparmi il cuore.
Nonostante questo, c'è sempre una via di fuga dalla loro ricca illusione.
Le visioni sanno dove vogliono portarmi. Non sono casuali, non mirano a stordirmi senza uno scopo. Può trattarsi di piccole cose a me vicine, può trattarsi di qualcosa per me significativo. Pretendono di essere innocenti nella loro crudezza, puri sprazzi di futuro che prendono vita dal mio immaginario per parlarmi in una lingua che conosco. E' solo che quando si apre la porta io la chiudo, e la richiudo, e la sigillo, senza darle ascolto, finché un'ondata non la spezza e tutto esplode, sparpagliando schegge in ogni dove. Solo in modi simili si genera il caos, con cecità e paura.

Osservo la ragazza che ho davanti: è una bambola, sporca e arruffata, passata di mano in mano da bambini bisognosi di sfruttarne la versatilità al gioco. E' un simulacro di vita, lo scheletro di un ritratto.
Ed è Sylvie, in quell'immaginario infantile che si è reso adulto, divorata dagli eccessi e dalle aspettative.
Lei non è la visione, è il frutto della visione. Era ciò che dovevo trovare oltre quella strada, era il modo in cui ella si aggirava per Nocturn Alley. Era il disastro che dovevo compiere. Queste sensazioni, invece - questa paura, questa ira, questo dolore - le provo perché sono sopraffatta dall'idea di aver compiuto ciò che ho compiuto.

Questa bambola vuole giocare con me.
Non rispondo, le sue parole non acquisiscono senso nella mia confusione. L'onnipotenza nella mia mano, tutta in un bastoncino, mi fa rabbrividire. Non intendo mollare la presa, non intendo scagliare un incantesimo.
«Sylvie è la tua ragazza? Ti ha lasciato e hai le allucinazioni su di lei? È un po' da disperata, non trovi?!»
Respingo l'impulso del mio cervello a richiamare il volto di Megan. Quel ruolo non le appartiene, ma soprattutto non voglio in alcun modo che il pensiero di lei si macchi di questo sporco presente.
«Se è il sesso che cerchi, forse qualcosa posso fare… Ma non ti prometto nulla perché il materiale... be', vedo che è quel che è!»
Aggrotto le sopracciglia. Le mie pupille e la bacchetta sono fisse su Nieve. La sua nota sagoma leonina è inselvatichita, sporca e smunta. Non ha carne: è una bestia affamata che divora e divora senza mai riuscire a nutrirsi. Quei suoi occhi incavati nel teschio hanno perso tutto il loro colore. Anzi, Nieve ha perso tutto il suo colore. La pelle è pallida, i capelli sono più bianchi della neve dei monti e ora anche le iridi sono state inondate dall'assenza. Assenza di vita, assenza di una meta, assenza e basta.
«Non sono solo allucinazioni.»
Ho abbassato il tono della voce. L'ira non mi ha abbandonata, ma ora è il carburante del mio ragionare. L'atteggiarsi di Nieve mira a sminuirmi e a pungermi per farmi reagire. È sempre stata così: irriverente, dispettosa, bramosa dell'ultima parola. Ma mai fino a questo punto. Mai fino al punto di mordere qualcuno o di sminuirlo per colmare il suo vuoto.
Sento forte l'impulso di scagliarle contro un'offensiva, ma al contempo questa consapevolezza mi porta a compatirla.
«Sono scorci sulla realtà. Sono cose per cui non posso fare niente. Accadono nel futuro più immediato e sono al di fuori della mia portata. E io ti ho vista. Ho visto tutto… questo.» La indico con un gesto del mento. «Poi ti ho incontrata. Non è un caso, Nieve.»
Non è lucida. Nemmeno io lo sono, ma in maniera diversa. La mia è rabbia, la sua… ho visto simili atteggiamenti solo dopo la somministrazione di alcune pozioni. Come ad esempio gli scagnozzi di Boris, dopo che gli rifilai la Pozione dell'Illusione rinforzata di Sensk Ama. Solo che in loro si espresse in paura, in Nieve adesso… è tutto molto più complicato e confuso. Come se non abbia più freni inibitori.
Fatico a credere si tratti di droga. Eppure qui a Nocturn Alley non è così raro vedere qualcuno farsi.
Fatico a credere che Nieve si droghi a tal punto. Non erba, non una semplice sbevazzata e mischione. Roba molto più pesante. La stessa roba che le ha scavato la pelle fino a renderla uno scheletro.
«Non mi va di scopare, grazie. Hai perso tutta la tua procacità. Ora come ora mi parrebbe di scopare un morto animato da chissà quale incantesimo. E poi» lo stomaco mi si stringe al solo pensiero «c'è un uomo ferito fuori da questo palazzo. È l'ultimo pensiero che mi passa per la testa.»
Un rapido gesto della bacchetta e un sussurro nella mente. Una sedia del tavolo ingombro si sposta per farle spazio.
«Siediti, e io abbasserò la bacchetta, forse. Ti conviene farlo, dato che sono stata io a schiantare quell'uomo. E tu sei la stupida senza bacchetta che non può aprire quella porta.»

 
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Oh, se solo Casey sapesse cosa mi sono fatta!
È questo il pensiero che attraversa in sordina la mia mente, aggiungendo una venatura di amarezza alla tracotanza della mia espressione. Le parole di Casey hanno fatto male, perché hanno usato l’arma che mi sono vista scagliare contro più di frequente da piccina: il disprezzo. Mi hanno disprezzata per il mio aspetto, per il mio cattivo odore, per la mia sporcizia. Mi hanno disprezzata per le stranezze che accadevano in mia presenza, le stesse a causa delle quali la pietà e la comprensione si sono pian piano trasformate in sdegno, paura e rifiuto. Mi hanno disprezzata per ciò che rappresentavo ai loro occhi — la mediocrità dalla quale tentavano di emanciparsi ogni giorno.
Negli ambienti che ho iniziato a frequentare di recente, è difficile ricevere un no quando proponi il tuo corpo come merce di scambio. E io l’ho venduto al miglior offerente per combattere l’astinenza, distaccandomi da esso per il tempo necessario ad ottenere quel che mi spettava. Mi chiedo se Casey lo sappia, se riesca ad intuirlo in qualche modo da un dettaglio visivo oppure se abbia sempre provato questo sprezzo per me. E, ovviamente, sposo l’ultima delle tesi perché ricalca il pattern del mio vissuto in modo talmente preciso da combaciare con ogni sua singola cucitura.
A chi sarei mai potuta piacere?!

«No» dico con la mascella tesa, la fronte lievemente aggrottata e le braccia distese attorno al corpo in una posizione di rigidità. «No» ripeto, quasi cantilenante, come se Casey fosse stupida e non riuscisse a comprendere il senso di una negazione. Come se io fossi costretta a spiegargliela, a istruirla come ho sempre dovuto fare a Hogwarts, vegliando su di lei e sulle sue cazzate da matricola. «No» continuo e, stavolta, il tono della mia voce non lascia spazio ai dubbi: sto sicuramente canzonando la mia interlocutrice.
Le pupille, nel solco grande delle orbite, sono dilatate e trasmetto un messaggio di serietà che in tutto cozza con il resto della posa. Sto sorridendo di nuovo, gratuitamente impertinente, ma non c’è alcun segno di divertimento nel mio sorriso, sul mio volto, nell’energia che trasmette il mio corpo. Sembro nervosa, irrequieta, instabile.
Sono molte le cose che vorrei dire a Casey in questo momento, tutte celate dietro quell’unica sillaba ripetuta a mo’ di sbeffeggio. Vorrei spiegarle, ad esempio, che non prendo ordini da nessuno perché l’ultima volta che qualcuno ha avuto controllo sulla mia vita l’ha distrutta, nascondendomi la morte di Astaroth. Oppure vorrei farle presente che la quiete può anticipare o seguire la tempesta, ma mai mescolarsi ad essa o esserle imposta. Sopra ogni cosa, vorrei sbatterle sulla sua faccia di cazzo che io non sono stupida.

«NOOOOOOOOOOO!»

L’urlo esplode dal petto, mentre con il corpo mi protendo in avanti verso Casey. Sul mio volto, rughe feroci lasciano spazio a ciò che effettivamente si agita sotto la superficie. E, tuttavia, Casey è capitata sulla linea di tiro per un mero errore del destino. La rabbia che le sto scagliando addosso, il rancore venefico che fluisce nei capillari della sclera, l’odio furibondo che mi consuma da dentro hanno un solo destinatario e non è lei, ma Grimilde. Alle droghe, il merito di sfocare i confini e giocare d’azzardo con la vita delle persone.
Un tremito sottile attraversa tutta la struttura dell’appartamento, spostando appena i cocci sul pavimento e agitando i vetri delle finestre. L’ambiente è il catalizzatore di una magia di cui ho perso il controllo — il solo che risponda alle mie disperate richieste d’attenzione. Non è giusto, nulla lo è nella mia storia e in quella di Casey: nelle nostre separatamente e nell’unica che ci vede protagoniste insieme.

Scatterei verso di lei per farle quello che ho fatto allo sconosciuto, per illudermi di aver consumato la mia vendetta ai danni della donna che ha rovinato la mia esistenza. Invece, qualcosa mi tiene ancorata alle assi del pavimento logoro. È qualcosa di pesante, potente, esistenziale. Non riesco neppure a sentirlo oltre tutto quello che provo, ma c’è perché non avanzo e non le torco un capello. È il bene che le voglio, l’umanità che pulsa e che non sono riuscita ad annullare — il motivo per cui soffro e distruggo me stessa, invece di distruggere gli altri.

 
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view post Posted on 1/6/2022, 19:54
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Children don't grow up
Our bodies get bigger
but our hearts get torn up.

C'è chi vuole convincersi che le Arti Mantiche mirino a sviluppare l'Occhio. Il supremo Terzo Occhio che volge al futuro, che rende onnipotenti e onnicoscienti.
Sono tutte stronzate. E non c'è nulla di buono in queste stronzate, nulla che possa giovare all'anima. Occhio o altro che sia, vorrei strapparmelo dalla fronte, dalla nuca, o da dove Diavolo dicono si collochi.
Tutto ciò che vedo è pura confusione, un aleph sottosopra che rivolta le figure dall'interno come vestiti usati. Se solo quei pazzi - fanatici dell'invisibile - smettessero di lasciarsi ammaliare dai cartomanti e dai chiromanti in trance per un po' di puzzo d'incenso, capirebbero che prima di poter davvero trarne beneficio diventeranno dei cadaveri.
Preferisco gli scienziati. Lo spirito d'osservazione, il metodo scientifico, la logica e le leggi di azione e reazione dicono molto più sui fatti, e in modo tanto asettico da permetterti di venire classificando ogni cosa. Questo dovrebbe essere il mio mondo. Non la continua angoscia del divenire cieco.
Se adesso mi concentro su chi sto osservando, se mi sforzo davvero di associare una semantica intrinseca ai gridi di diniego che sento, i dati raccolti confluiscono in un unico categorico punto: Nieve è una drogata e non c'è molto da fare per lei. Non ascolta, da di matto, non contiene la propria magia e sembra aver barattato ogni grammo di grasso che aveva in corpo per una dose.
Dovrei sbatterla fuori di casa. Chiamare il San Mungo o qualcuno che possa prendersi cura di lei e togliermi di mezzo perché non siamo in grado di comunicare. Altrettando dovrei fare per il povero Cristo schiantato nella perpendicolare. Non faccio altro che pensare a lui, il suo naso sporco di sangue invade l'immagine di ogni cosa che ho di fronte.
Ma se fosse stato così semplice in partenza non mi troverei qui a pensare. Resto immobile, sotto le sue urla, respirando affannosamente, e mi faccio attraversare dalla sua fioca essenza vitale in ribellione.
Alla stregua di un messaggio subliminale del mio cervello, a un tratto, fotogrammi di Sylvie si interpongono fra le mie sinapsi e Nieve. I discorsi nel sogno ad occhi aperti affiorano sulle mie labbra senza essere di nuovo pronunziati.

A cosa pensi? A cosa potrebbe mai pensare una bambola? Non pensi, non agisci, non vivi. Sei solo un gioco, che dura finché non ci si stanca, finché non ti rompi del tutto o ti usuri col passare del tempo. Non esisti più come persona in quel corpo. Sei solo un corpo che tenta di aggrapparsi alla vita per non essere seppellito.
Io penso che tu sia cambiata. Un tempo eri la mia fedele compagna di giochi. Ci sporcavamo di fango e combattevamo contro i mostri. Adesso... tu sei cambiata. E continui a cambiare. Hai detto addio a tutto quel che c'era di bello. Hai detto addio alla casata e agli amici, all'amore di cuori disinteressati, ai sorrisi, agli abbracci, agli scherzi e alle serate pizza. Ti celi dietro un vizio, ti armi di uno scudo pronta a difenderti prima ancora che attacchino. Per nasconderti dentro il corpo solido ma vuoto di una bambola, e ci urliamo contro perché lo sappiamo che siamo cambiate entrambe.
I tuoi capelli crescono. Lo fanno perché diventi donna e si sa che le donne dai capelli lunghi sono più appetibili e perché quando un corpo va in putrefazione la pelle si ritira e sembra che si allunghino. I miei si accorciano perché voglio solo punirmi per non avere un seno, recido ogni simbolo femmineo dal mio corpo per confondermi in un'armatura socialmente accettabile come maschile, o come lesbica-uomo. Perché, sotto sotto, mi sento meglio così, dentro un bunker portatile fatto dell'idea del mondo virile costruito a partire dalle notti passate d'infanzia in un decennio composto da figure femminili sottomesse a Dio e alle top model sulle riviste. Ho solo voluto andarmene, ho solo voluto non diventare un clone di cotanta scempiaggine. Godermi la mia maschilità, schiaffarla in faccia al prossimo, rendermi tagliente, cinica, asettica come i risultati di quelle scienze, perché così non sono feribile e sono sempre preparata al peggio. Ho preferito vivere in un buco e di stenti con un salario da mendicante. Non è poi così diverso dal Saint Vincent. Non avrei comunque potuto trovarmi un posto migliore. Sono indipendente, sono forte, sono... da sola, circondata dalla mia apparente forza. Uccido ogni germoglio prima che possa fiorire, punto la bacchetta contro le persone, le minaccio. Allontano chi vuole aiutarmi, come Alice sulla Torre che intendeva abbracciare ogni mio demone per trasformare il veleno delle loro fauci in medicina. Le dissi che non c'è rimedio, e sono tornata a casa d'estate, in questa casa che raccoglie in uno stanzino polveroso e mangiato dalle tarme tutta la mia forza. Ma questo posto pullula di cattivi pensieri e qui non c'è spazio per i bambini.
Perché anche io sono una bambola in disuso, ecco perché. Perché preferisco un mondo vuoto piuttosto che raccogliervi dentro qualcosa con la paura di farlo morire. Quindi attacco, ferisco, mi arrabbio ed esplodo, come con l'uomo che giace ora nella perpendicolare. Ognuno cresce come può, Nieve, e io non potevo fare di meglio. Da sola. Tu ti sei solo scelta un buco e hai scavato più in profondità. Lo hai semplicemente voluto, e sei costretta ogni giorno ad uscire dal corpo adesso, a diventare un simulacro di carne che chiunque può usare per gioco. E io ho fatto altrettanto, con la sola differenza che la mia droga è l'ira e la uso per ostacolare la paura di diventare quella bambola con cui nessuno più gioca perché non rispetta i suoi canoni, e resta per sempre seduta in un armadio sotto il ciarpame dimenticato e la polvere.
Non avrei mai voluto diventare una bambola.

«Ok. Basta.»
Abbasso le braccia e di conseguenza la bacchetta. Ho calmato il respiro dopo l'ultimo "no" di Nieve. Ho allentato la tensione della mascella e allargato lo spazio fra le palpebre.
La guardo per una decina di secondi, poi l'immagine dell'uomo schiantato mi torna in mente e faccio un passo indietro. Un altro, un altro ancora. Mi volto e raggiungo il comodino, apro il cassetto e ci chiudo dentro la bacchetta.
«Basta.» Mi giro e la guardo con i palmi aperti all'altezza del viso per farle vedere che ho smesso. Ho smesso, davvero, ho smesso di fare tutto.
Alice mi ha detto che sono troppo severa. Pretendo troppo, da me e dagli altri. Se gli altri sgarrano la mia punizione incombe su loro, e sono parole che tagliano, ira che ferisce come una mazza chiodata. Nieve non ha bisogno di questo. Io sì - mi viene difficile concepire una giustificazione per quel Bombarda - ma è Nieve, dietro quei "no", che ha bisogno di leggerezza. La leggerezza della tenerezza.
"No" è l'unica parola che ha saputo dire di fronte ai miei tentativi di regolare la situazione e di manipolarla per la mia calma.
"No" è tutto, è puro rifiuto. Per ciò che probabilmente l'ha spinta a dimenticare ogni cosa con una pasticca, per ciò che io stessa le ho fatto vivere là fuori.
"No" è il rifiuto del rifiuto.
Le mie difese crollano di fronte a questo "no", perché questo fottuto Terzo Occhio vedrà sprazzi del futuro ma il caos che crea mi fa aprire gli occhi sul presente e su tutto ciò che potrebbe causare gli orribili destini che ci siamo scelte.
Mi avvicino a lei, e combatto con me stessa per convincermi che un Bombarda non basta ad uccidere un uomo e che si trattava di legittima difesa.
«Basta.»
Mi avvicino, tanto, e i miei occhi e le mie sopracciglia si piegano con dolore mentre reprimono i pensieri e convincono le mie barriere a frantumarsi.
Ricominciamo da dove abbiamo lasciato, prima che ci mordessimo a vicenda. Prima che le emozioni prendessero il sopravvento e la paura ci soffocasse.
«Tu sei qui.»
Tento di abbracciarla. Spero me lo permetta, perché ho abbandonato ogni forza nel cassetto del comodino e non ho la capacità di controbattere ancora.
La circondo e la stringo leggermente, poggiando il mento sulla sua spalla sinistra.
Tutto quel che prova Nieve ora è estremo, tutto quel che le dico suona come una cacofonia raccapricciante. E tutto quel che io sento mi uccide.
La leggerezza di cui lei ha bisogno non può tradursi in una droga. Che si tratti della gioia di una redenzione, della liberazione da un tormento, dell'affetto di un amico, io la trasmuto in tenerezza.
«E' finita addesso.»
E probabilmente anche io ne ho bisogno di una dose.

 
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