Condanno le mie parole al vuoto, avvinte alla prigionia della carta che straccio una volta, e un'altra, e infinite volte. È una pagina violenta, quella che si presenta all'assenza: un nome, il tuo, ne interrompe il silenzio e spalanca, spalanca vertiginosamente ogni mia rivelazione. Un nome, il tuo, così vivido sulla pergamena – porta con sé il sussulto che di tanto in tanto torna a fare capolino, il singhiozzo di un pianto che diffida a sua volta: di me, di quel che potrebbe offrire, di quel che potrebbe... guarire. Sei relegata nel taccuino che stringo con me, via via dolcemente – tra le mani che tremano, sulla pelle brillante d'inchiostro. Sei nelle gocce che scivolano lontane, nel sentiero che tracciano ancor prima d'asciugarsi. Non c'è altro, su questo foglio di carta; non c'è altro, da tempo. Non scriverò nulla, nulla di più – il tuo nome, soltanto il tuo nome. E il canto della tua voce, la promessa che ho pronunciato e che tuttora, miserabile, non ho mantenuto. Condanno la tua storia al segreto, e me ne pento. Questo è il rimorso peggiore di tutta una vita, la consapevolezza d'aver peccato fin nel profondo. Avrei voluto parlare di te, avrei voluto raccontare di noi – ad amici, a familiari, alle statue. Nella mia mente s'infiamma la gloria del tuo volto, e non sei più, non sei qui, non sei che memoria. E in ogni momento felice, ho temuto d'aver fatto un torto a te, più che a chiunque altri – come posso essere felice, mi interrogavo, quando tu non ci sei. Allora sì, avrei voluto parlare di te. Del modo in cui ci siamo incontrati, del modo in cui ci siamo avvicinati, del modo in cui le nostre vite sono cambiate. Forse... forse avrei dovuto. La mia ricerca è iniziata già dopo aver abbandonato la grotta, già pronto a tornare indietro. La mia colpa, mi ripeto, è stata quella di abbandonarti – per necessità, è pur vero... ma forse, con il senno del poi, avrei potuto trovare una soluzione che non fosse drastica. E di te, ora, non ho che il ricordo, e la pietra, e l'idea di aver vissuto un sogno tramutato in incubo. Di te, ora, non ho che la paura di non vederti più. Sei via, lo sei da così tanto: il tempo, meschino, è troppo lento per seguirti. Ho indagato confini più grandi di me, appellandomi al sangue, all'acqua, al divenire. Mi sfugge quello che la mente tenta furiosamente di proteggere – di te, ora, perfino il pensiero è condannato. E sei sbiadita, e sei sfuggente, e sei una goccia d'inchiostro dispersa nel lago. Alla rimessa delle barche, qui e ora – non ci sei,
dove sei. La pioggia è scrosciante, la tempesta imperversa. Chiamano il mio nome, non sei tu. Chiama il mio nome, ti ordino. Chiama il mio nome, ti prego. Nell'assalto del vento, raffiche gelide scuotono la barca – ancorata ad un nodo di tela, è tutto quel che mi resta. Il Lago Nero rinnega la mia presenza, la pergamena che ho tra le mani è bagnata, è sale, è pioggia,
è gelo. Questo è il mio posto, mi dico. Un giorno, un altro, un altro ancora, il tempo infinito di chi non è abituato a contare – ed ero qui, in compagnia della mia solitudine; ed ero qui, e sono qui, e sarò qui finché ne avrò modo, finché non chiamerò il tuo nome e finché tu,
tu non chiamerai il mio. Condanno le mie parole al vuoto, la carta è oramai a brandelli: il temporale ne porta via alcuni, in alto, più in alto. Una lettera che non ha messaggio, la rinuncia in partenza di chi ha perso ogni ispirazione – non sei qui, è un grido che mi spezza. E per un attimo anelo all'assenza a mia volta, e per un attimo chiudo gli occhi e scivolo, scivolo in avanti – la barca mi disprezza, pretende che vada via,
mi spinge lontano. Nell'impatto che ne consegue, schegge di legno graffiano la pelle, e gli ultimi frammenti di carta filano via. No, no,
no. C'era il tuo nome, sulla carta restante; il tuo nome in macerie, lettere disperse su pezzetti di pergamena. La pioggia aumenta terribilmente al punto da impregnare il mio cappotto, ed è pesante come il macigno nel cuore. Sognavo te, e di te non ho nulla. Quando tiro la fune che unisce la barca, tremo da cima a fondo – poco dopo, ferito, bagnato, disperato. Potrei apparire come uno spettro, una figura vestita di nero, un'ombra illuminata da sprazzi di tempesta. E tuoni, e lampi, e scoppi di luce e di suono, e lo sciabordio delle onde, e la mia voce che si consuma, e il tuo nome che chiamo, chiamo una volta, chiamo per l'ennesima volta. Il Canto del Lago è memoria, e tu non ci sei.
«Kàlha» Nella melodia che vibra nella lingua che appartiene al tuo nome, c'è una nota stonata che offende la bocca, perché tu non sei qui, non più. Chiudo gli occhi, ho paura – l'unica pace che mi concede il tempo è nella tua immagine, nell'etereo riverbero delle tue squame, nel profumo delle alghe e delle pietre marine. L'immagine di una casa brilla impossibile, perduta tra i confini in attesa, e in quelli – ci spero – in arrivo. E allora c'è un'ultima domanda, la stessa che mi porta alla rimessa delle barche ogni giorno, ogni singolo giorno.
Cos'è che sogni? E sei tu, in ogni sogno celeste.
***
Condanno il mio corpo all'abbandono, al tepore delle coperte di rubino; una goccia, un'altra, un'altra ancora, e il sonno s'incastra alla necessità del riposo. C'è una routine di suoni, visioni, intrecci che considero di continuo – il respiro del mio migliore amico, il dischiudersi delle foglie delle mie piante, il frusciò delle ali di Cassandra, tutto è cantilena, tutto è déjà-vu. La notte inneggia alla codardia che non ho mai creduto – e sperato – di avere. Le mie mani scivolano nell'intreccio che avvolge una conchiglia, l'unica testimonianza che mi rende lucido nella ricerca che non ho mai concluso: è stretta tra le dita, è sul petto – ascolta i battiti del cuore, ne è custode e chissà, mi piace immaginare possa portarli lontano, così lontano. Mi piace immaginare possa portarli a te, e sentire,
sentirmi, sentirti. Alla rimessa della barche, oggi. E ieri, e domani.
Vorrei vederti, ovunque tu sia. Perché nei miei ricordi stai sbiadendo, e questo fa male più di ogni altra sensazione. Nel respiro del mio amico, così vicino, percepisco il ritmo della vita. E comincia a cullare anche me, fin quando tutto è buio. Ho paura dei miei sogni, così profondamente da non ricordare quando sia stata l'ultima volta ad aver dormito senza interruzioni. Il mattino, per me, ha il senso di una salvezza che ammiro e disprezzo allo stesso modo; questa notte, però, è diverso. C'è un'aspettativa che ha condizionato il mio animo nei giorni precedenti, la stessa aspettativa di visioni prossime alla realizzazione. Ma non ti vedo ancora, non ci sei – nell'ascesa del sonno, nella discesa del sogno. C'è acqua, intorno a me. C'è buio, c'è solitudine, ne ho paura. Mi accorgerò soltanto in seguito dei segni rosei sulla pelle, di come abbia stretto la conchiglia convulsamente – presago, forse, di un incubo. Nella violenza delle alghe che mi si avvinghiano contro, nelle pietre che stridono lungo il mistero, tutto in me grida di te. Ne ho consapevolezza, come un brivido lungo la schiena. Avanzo, avanzo, avanzo – dove sei, vorrei dirti; dove sei,
dove sono. Ed è così breve, tutto, che per un attimo temo d'essere sempre stato sveglio: un battito di ciglia ti porta via, porta via la tua voce, porta via il tuo canto. Non ci sei, è il primo pensiero che mi attorciglia il cuore; non ho visto la tua figura, sei in dissolvenza – eppure,
eppure so che sia tu, che nessun'altro possa essere stato. Cassandra è sveglia, le ali purpuree attirano l'unico riflesso degli stemmi d'oro del baldacchino; mi scruta, gli occhietti vispi – mi sporgo dal letto in cui mi trovo, il cuore è in tumulto. Allungo la mano destra per carezzarne le piume, e lei mi becca dolcemente. Sei sveglio, Oliver. Sei sveglio, ne ho certezza. Nel silenzio del mio dormitorio, è il respiro del mio migliore amico che mi guida realmente – volgo a te il mio sguardo, e sappiamo, sappiamo che sia giunto il momento. Questo, mi dico, non è un sogno. Non può esserlo, non
deve. Scivolo via dalle coperte come in tensione, ogni nervo nel visibilio del ricordo avvenuto. Dove sei, penso. Dove, dove, dove. Come un'ombra, è uno zaino quello che recupero da sotto il mio letto; è la maledizione di chi come me, la certezza che tutto possa avvenire.
Sarò pronto, mi dicevo. Per un giorno, per un altro, per troppo tempo – è una premonizione che ha vibrato nel profondo, mi ha distratto a lungo. Nella tracolla c'è lo stretto indispensabile, una boccetta di foglie spente è l'unica aggiunta che recupero dal comodino e infilo in una tasca; è pesante, le tavole di pietra – incastrate alla meglio – sono quello che di te mi resta, in questo zaino di promesse. Ho il timore di dimenticarti, qualora non faccia in fretta. Ho l'improvvisa percezione di ogni dettaglio, così mi sembra: il ticchettio dell'orologio, il tempo che finalmente s'arresta per noi; il borbottio di uno studente, che si gira tra le coperte; il battito di ali del Fwooper, che mi osserva incuriosito ancora una volta. E una bolla, limpida, traslucida, ad attirare spicchi di luna dalle finestre più vicine – una bolla d'acqua, è incantata, è lì dove un pesciolino mi segue, sospeso a mezz'aria. Non ho tempo, vorrei urlare. Non ho tempo, non più. Con lo zaino alle spalle, sul pigiama, recupero il primo cappotto dell'appendiabiti, è probabile che non sia mio: gli occhi sono spalancati sul buio, le ultime avvisaglie del sonno rendono tutto appannato. Ma è un'altra Vista, quella che cerco. Silenziosamente sguscio via dal dormitorio, non ho scarpe, e il contatto dei piedi sul pavimento è gelido. All'esterno, sulle ultime scale che portano al pianterreno della sala comune, mi siedo rapidamente; è quasi come lasciarsi cadere, abbandonarsi ancora. Le mani sembrano incerte quando aprono la cerniera dello zaino, tentano così di catturare l'oggetto più circolare. E tastano alla rinfusa, al buio, nonostante la bacchetta sia in una di quelle stesse tasche; non ho luce, non la voglio. Pretendo di vederti, e di vederti al buio – ho bisogno di sapere che sia tu, che sia stata davvero tu. Ho bisogno di sapere che non sia stato un sogno, perché – di me – non mi fido più. Il Cristallo è tra le mie mani, altrettanto gelido nell'incanto pericoloso che detiene. Seduto scompostamente sulla scala dei dormitori, sono da solo. Chiamo il tuo nome, di nuovo. Indago il tempo, chiudo gli occhi – è buio, è notte, tutto è assenza. Perché se tu non ci sei, non voglio luce. Perché se non sei stata tu, allora non voglio più dormire. Rivelati, impongo. Il contatto dell'indice sulla sfera di cristallo, il turbinio delle spirali del tempo – mischiatevi, distruggetevi,
formatevi.
Mostrati, ordino. Mostrati, mostrati adesso. Attingo alla Vista, al buio. Alghe, pietre, canto. Ripercorro le memorie recenti nella mia mente, e accompagno il dono alla preghiera, alla più intima, vivida possibilità. Voglio tornare da te,
devo tornare. Hai chiamato il mio nome.
«Kàlha» Ed io canto il tuo.