CASEY BELLvs. Sirius White
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• PC:254/254 •
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LA GIORNATA DEL DUELLANTESi era chiesta spesso come fosse possibile che in Congrega facessero duellare persone adulte e con una lunga carriera magica alle spalle contro dei semplici ragazzini. Aveva cominciato a covare un odio profondo verso l'istituzione e, in particolar modo, verso se stessa. Se non ce l'avesse fatta, se non avesse vinto contro Sirius White, evidentemente si sarebbe confermata una debole. Partendo dal ragionamento che se tali scontri erano plausibili e che per gli arbitri della Congrega era scontato che un ragazzino potesse battere un mago adulto, allora lei doveva trovarsi ben al di sotto della media. Perché da quando avevano cominciato aveva preso solo calci in culo.
Casey non era il tipo che si dava tregua. Non credeva nelle gerarchie né nel darsi tempo per migliorarsi. Tutto per lei si era sempre ridotto ad una dimostrazione di forza, e l'aggressività era sempre stata la sua arma più micidiale. Sentirsi con le spalle al muro era quanto di peggio le potesse accadere, e come un animale selvatico non sapeva far altro che farsi grossa e partire all'attacco.
Si era ripetuta spesso che di fatto la Congrega, come qualsiasi altra istituzione sotto i riflettori dei media, fosse un mondo estremamente performativo. Il duello fra uno studente e un adulto ne risaltava un altro aspetto del tutto tossico: porre un ragazzetto nella posizione di farsi pestare a sangue oppure di risaltare come il nuovo fenomeno da baraccone,
enfant prodige, era un modo su cui speculare come cani lobbisti. E lei? Mica lo era un
enfant prodige. Quei
cani erano in attesa, seduti sugli scranni ai lati della pedana, a giudicarla, a capire se fosse un genio o una nullità. Proprio in quel momento alla fitta lancinante alla testa si unì la stretta alla parte inferiore del corpo e capì di aver perso altri punti ai loro occhi. Non poteva più muoversi e aprì le palpebre prima serrate.
Un altro mito era passato da quelle parti circa un anno addietro. Un altro oggetto su cui speculare. Raven Shinretsu fra le aule della Congrega aveva ucciso uno dei suoi duellanti e innumerevoli persone. Un duello senza dubbio leggendario secondo le voci di corridoio che glielo descrissero, ma una leggenda che divenne tragedia in un rogo di maledizioni.
Era molto piccola quando sentì per la prima volta parlare di Shinretsu. Vath Remar non le risparmiò dettagli cruenti, anche se si trattava di una bambina di undici anni. In qualche modo l'affascinò, forse per il trasporto con cui il mago ne parlò. Interessi criminologici senza dubbio, forse perché era uno dei primari obiettivi del Ministero, e Remar era un tutt'uno col Ministero.
In sostanza si domandò a lungo cosa potesse portare un uomo a tanto, a uccidere una persona con cui non aveva nulla a che fare solo per sport, e innocenti che assistevano o che passavano lì per caso facendo implodere lo stesso edificio.
Un pensiero sottile come una lama si insinuò nel suo cervello, un ago che iniettava strane sensazioni. Dopo tanti anni, nello stesso luogo sebbene ricostruito dopo il tracollo, finalmente poteva far boccheggiare una risposta dal mare ignoto in cui navigavano le sue domande sul terrorista. Stava provando compassione per lui, poiché il garbuglio d'odio e miseria in cui era avvinghiata sotto quei riflettori - in cui era
sempre stata avvinghiata - non poteva che convincerla di poter carpire almeno un millesimo di quanto lo spinse a divenire una bestia.
Raven Shinretsu aveva ucciso per un motivo. Magari perché qualcosa gli esplodeva nel petto, magari perché questo mondo così inautentico e stretto al potere desiderava solo un'altra capriola per cui applaudire. Provava a empatizzare, falsando ogni cosa, in un lampo di dolore alla testa e in un istante di fitte alle gambe. Ma sapeva che tutto ciò che egli aveva fatto era sbagliato, vergognoso, da condannare.
Si trattava solo di una combinazione molto buffa, però, trovandosi forse nella stessa aula che egli aveva varcato, con occhi e bacchette puntate contro, e il desiderio di purificare ancora una volta col fuoco il mondo dal suo cancro.
Lei però non era Raven, e nemmeno Sirius. Non era potente quanto loro. Se lo sentì nella testa e nelle gambe.
Questo era il dolore più atroce.
Non avrebbe potuto contrastare nessun incantesimo del suo sfidante. Anche un
Protego sarebbe valso la metà di un suo attacco. L'unica arma di cui si sarebbe potuta avvalere era l'ambiente esterno. Poteva torcergli contro qualsiasi cosa. Distrarlo, rendergli impossibile camminare sulla stessa terra che aveva sotto i piedi.
Non appena aprì gli occhi, dopo il lampo di luce solare e la fitta al corpo attanagliato dalla morsa dell'
Incarceramus, l'istinto la guidò sulla soluzione dell'inciampo. Qualsiasi cosa avesse fatto Sirius, qualsiasi incantesimo dalla potenza inaudita le avrebbe scagliato contro, sarebbe stato del tutto vano se egli fosse scivolato sul sedere. Testa contro il pavimento, gambe all'aria, bacchetta verso il soffitto, e magari gli sarebbe caduto pure un pezzo di cemento addosso se malauguratamente avesse scagliato uno Schiantesimo. Doveva solo scivolare, come se stesse duellando su un vialetto ghiacciato. Sul ghiaccio non bastava restare fermi e immobili per non cadere. Figuriamoci castando un incantesimo.
La sua bacchetta era ancora puntata verso di lui. Le ci sarebbe voluto poco per spostarla verso i suoi piedi, la porzione di pedana su cui erano poggiati. Un'area piccola, ma su cui si fondava tutto l'equilibrio di Sirius. Il ricordo della sensazione di profondo disagio dovuta al ghiaccio che rivestiva i vialetti degli esterni della scuola nell'avvicinarsi dell'inverno, prima che Gazza lo stanasse col sale, sarebbe tornato immediatamente in suo aiuto. Il legno di quella porzione di pedana sarebbe dovuto diventare liscio e scivoloso al suo volere, come il giaccio della superficie del Lago Nero all'arrivo della primavera, che sta per sciogliersi e su cui l'acqua comincia a scorrere levigando ogni appiglio per le scarpe.
Dopo aver puntato l'obiettivo con la bacchetta, il polso si sarebbe mosso lesto e deciso dall'interno all'esterno mentre Casey avrebbe pronunciato la formula:
«Lapsus!»