Quando il Carro avanzò all'attenzione, era già troppo tardi. S'accostò lentamente, come l'ultimo tra gli arrivati – terribilmente scortese. Pur nell'incanto che governava, brillante nelle rifiniture d'oro e bronzo, non conquistò la gloria dello sguardo: la sua, d'altronde, era una strada in corso, non era che parte di una processione più complessa. Al trotto di cavalli sempiterni, d'inchiostro e di carta, l'Auriga appariva in ogni caso maestoso – nel porgersi alla vista, scivolando nel contatto della pelle e del legno, trottò come sospeso a mezz'aria, e gli zoccoli delle bestie suonarono fortemente. Nella solitudine cui s'era invischiato, incuneato tra simbologie che nulla potevano in confronto, il Carro primeggiava delle luci dell'alba: oltre la finestra imperversavano le tinte pastello, in un turbinio che s'accentuava istante dopo istante; e dalle crepe sottili, di vetro e di ferro, raggi nuovi omaggiavano la corona regale, e lo scettro, e le ruote in successione. Pur nella staticità cui s'era avvinto, l'Arcano viveva di potere, un potere naturale che s'addiceva al senso delle cose. Portava così segreti, e fiere impavide, e coraggio, e
vittoria. Il Carro infondeva certezza.
«Mi sembra buono.» Sembrare.
Sembrare. Assaporò la parola a sua volta, lasciando che danzasse dalla bocca rosea di chi gli era accanto. Nell'ingenua, semplice rivelazione che l'Arcano offriva agli occhi di Penny, lui vi scovò la delicata promessa di un sorriso; e tremulo, allora, scoprì l'incresparsi delle guance, coinvolgendo labbra tirate. Non commentò, e sul volto non comparve sollievo: l'amico peccava, avventato com'era nella lettura degli enigmi del tempo. Non s'avvedeva, dolcissimo, dell'ambivalenza manifesta.
Osserva i cavalli, voleva dirgli. Guidare l'ambra delle pupille dell'altro, portarlo con sé, stringerlo a sé, non desiderò altro. Nel portarsi avanti, verso il tavolino già vestito di carte, concesse al gomito di sfiorare l'avambraccio del compagno, nel contatto vicino di chi non parlava, ma tutto comunicava. Osserva i cavalli, voleva chiarirgli. Nell'intreccio del moto in atto, il trotto era asimmetrico: l'uno verso destra, l'altro verso sinistra, la direzione offriva la scelta intangibile. Il Carro, tra tutti, paventava il rischio di cui più aveva timore, e mai, mai avrebbe potuto sottovalutarne l'imprevedibilità. Gli garantì, tuttavia, un collegamento: una vittoria, una protezione, un supporto, tutto sfumava perfettamente alla cornice d'insieme. Nel limbo della notte prima del Duello che avrebbe visto Casey e Sirius affrontarsi magistralmente, lui leggeva tarocchi. Non chiudeva occhio, non un attimo, rinnegando innaturalmente quel riposo di cui continuava ad essere più o meno privo; nel silenzio delle ore lontane, al pianoterra della Sala Comune, c'erano soltanto loro – lui e i tarocchi, al punto da dimenticare per un attimo d'avere qualcun'altro accanto. Penny lo aveva raggiunto poco prima dell'alba, forse accortosi d'essere solo,
di nuovo, nel dormitorio condiviso. E se l'amico vestiva comodità, nel pigiama azzurrino e nella coperta colorata sulle spalle, l'altro accoglieva la compostezza di cui invece non avrebbe avuto bisogno: in divisa, scarpe allacciate, l'unico segno in disordine s'avvicinava alla cravatta allentata, il nodo disperso in un colpo di mano.
Erano insieme, com'era già stato – notti d'occidente, notti d'estate. Penny lo tallonava, e nell'apatia che germogliava energicamente nel suo cuore, talvolta lo aveva respinto bruscamente. Non ora,
non ora. Averlo affianco, pur nei commenti che sciorinava incessantemente, era quanto di più simile ad un dono stesse compiendo verso di sé, soltanto per sé. Cacciarlo via gli era stato impossibile, e nel profumo di caffè che gli aleggiava attorno, lui stesso ne trovava il risveglio dei sensi. Non pretese una tazza, non pretese nulla. Chiuse gli occhi, stemperando in quel modo il brivido che lo aveva colto: Penny ne ebbe immediato sentore, perché l'attimo seguente scostò la coperta ad avvolgere le spalle proprie, e quelle di Oliver. Restarono così, sul divano tappezzato: il camino acceso pur nei mesi di calura, lo zampillio di fiamme raffreddate dalla magia, l'intera Sala Comune era un porto d'approdo. Le carte erano spezzate: pretendeva verità da tarocchi maldestri per l'assenza cui aveva condannato il mazzo.
Arcani maggiori mancavano all'appello: la
Forza, perduta nell'empatia per Nieve; e le
Stelle, che non aveva più chiesto indietro da Casey, o che forse – perdeva memoria, assuefatto dal distacco – aveva dimenticato nelle miniere dei goblin, anni addietro. Frammenti privi d'ordine, con un esito a malincuore comune: i tarocchi erano incompleti. Penny aveva preteso più volte di comprarne un blocchetto nuovo, uno che potesse favorire una visione maggiore: lui che sapeva, lui che gli era sempre accanto, comprendeva l'impatto che un artefatto come quello aveva verso chi come Oliver.
No, no,
no, gli aveva ripetuto. Non poteva essere Penny, non poteva nessuno. Aveva bisogno di un nuovo mazzo, era vero. Ma avrebbe dovuto pensarci da sé.
Non volle continuare, non di più. Sentì d'essere stanco, ad un tratto più di quanto non fosse mai stato – stringendo un lembo della coperta con la mano destra, accolse in grembo le carte dorate che non aveva scoperto, e si abbandonò alla familiarità dei cuscini dietro di sé. Forse aveva tempo, pensò. Un'ora, almeno un'ora, prima che gli altri scendessero in fretta, prima che la giornata iniziasse. Non poteva mancare al Duello, sentiva d'esserne intimamente coinvolto – per Casey, per Sirius, per Grifondoro. Eppure, una parte di lui credeva di non aver motivo d'esservi presente; una parte di lui, perfidamente codarda, rintracciava già il prosieguo di qualcosa che s'accingeva a realizzarsi. Quando sollevò le palpebre, di nuovo, il sole inondava la saletta circolare: lo spettro di Sir Nicholas s'aggirava furtivo, paradossalmente assonnato, trascinandosi oltre un'armatura, e via verso il ritratto della Signora Grassa, la cui voce in saluto giunse come eco del buongiorno. Non aveva idea di quanto avessero dormito, la Sala Comune cominciava tuttavia a riempirsi, e qualcuno svettava occhiate curiose verso entrambi. Mentre i primi concasati scivolavano dalle camerate, tutti già vestiti in modo diligente, percepì un brivido lungo la pelle. Gli bastò un'occhiata per comprenderne il motivo: nell'assopirsi, le carte erano scivolate dalle mani a terra, e formavano così una ragnatela scomposta di colori, decorazioni e raffigurazioni singolari. Colse l'una dopo l'altra, nel movimento svegliò indirettamente l'amico – imprecò silenziosamente, la bocca contratta in una smorfia: alla fine si gettò in basso, come un cacciatore sulla preda, e le carte si strinsero convulsamente nella presa di dita che non ammettevano la consueta gentilezza. C'erano tutte, tutte quante: perfino sotto il divano, per sicurezza, non ne scovò altre. Quando si sollevò per recuperare i tarocchi sul tavolino in legno, le carte gli ricordarono la lettura approssimativa che aveva compiuto durante la notte.
Il Carro, simbolo di potere, emblema di vittoria. Altre, altre carte...
«No.» La voce s'era spenta, roca com'era nel silenzio scelto fino ad allora. Si disperse come un sussulto, nei convenevoli di chi popolava le schiere di leone; soltanto l'espressione crucciata, tra le sopracciglia e giù nello sguardo, intrappolava lo spavento. Sul tavolino era apparsa una carta di cui non aveva concreta memoria, certo com'era di non averla recuperata dai tarocchi. Era lì, l'Arcano Maggiore. Ed era bellissima, infinitamente – nel connubio del corpo che mutava in spirito, nell'approssimarsi di dita che si tendevano fin quasi a sfiorarsi, nell'intreccio di occhi che svestivano l'antica promessa d'unione. Ed era bellissima, lo era davvero. In alto, bagnato di candore, il Cherubino incoccava la freccia docile, in volo, sospeso in cornice; e il Regnante, il Sacerdote, il Cerimoniere, pure s'accostava vivamente nella mano sulla spalla dell'uno, e nella conferma sul cuore di entrambi. Herbelia, apparsa d'improvviso, portò con sé profumo di rose, e partì di raffica nel racconto dell'omaggio di fiori che qualcuno,
qualcuno, aveva lasciato il giorno prima per la Caposcuola Bell.
«Hey tutto bene? Sembri impaurito.» Sentiva d'essere sul punto di... bruciare, di bruciare tutto. Le carte, il tavolino, l'arredo, tutto. Nel sorrisetto di Penny, percepiva l'idea folle che quell'Arcano – così poetico – offrisse il privilegio di una relazione sincera. Invece...
invece. C'era molto di più, tanto da averne paura.
«No» ripeté.
«Sono in attesa.»Gli Amanti, rovesciati, beffeggiavano il tempo.
***
Che vi fosse un legame, che
sentisse un legame verso Casey e Sirius, non ammetteva dubbi. Per entrambi custodiva quell'affetto genuino che il tempo aveva già posto alla prova, in modi impossibili, tanto da averne infine fatto tesoro – era grato per l'amicizia, il rispetto e la vicinanza di cui avevano saputo fare dono, e oltre gli anni credeva fortemente che fossero tra le persone più importanti. Allora, s'interrogava. Se all'una s'era accostato per vie traverse, nella connessione di un diario fitto di segreti, dall'altro s'era invece allontanato per vie dirette – il ricordo del fuoco, nella sfera di cristallo, divorava l'insonnia. Non ricordava quanto fosse stata l'ultima volta che avesse volto attenzione alla coppia di amici, quando fosse stata l'ultima vera occasione che avessero trascorso insieme: sentiva d'esserne colpevole, e d'esserne... bloccato, imprescindibilmente bloccato. C'era qualcosa, nella ricerca delle linee future, che poneva i sensi in allerta. Come a dirgli: attento, bambino mio; attento,
attento. Non sapeva se per la connessione che nutriva verso entrambi, per i pericoli che già aveva svelato, o forse ingenuamente per la stupida certezza d'essere una minaccia di cui entrambi avrebbero voluto – e dovuto – fare a meno. Quando s'avviò lungo il pendio che conduceva all'esterno dei confini scolastici, la mente divagava da sé. Penny parlottava, i concasati ridacchiavano, e lui s'appesantiva in quel modo di una solitudine che non gli donava grazia. Stringeva una coccarda rosso-dorata, che avrebbe dovuto appuntare al petto, e nello zainetto alle spalle portava con sé festoni che gli erano stati affidati. Era felice, felice per Casey e per Sirius. Ma era assente, per qualche ragione che non comprendeva per bene. Oltre il cancello, altri studenti inseguivano la strada che avrebbe condotto tutti loro alla Congrega di Londra; non sarebbe stato un percorso semplice, ma erano in molti e pur di evitare la trafila di caminetti, passaporte e treni all'occorrenza, lui stesso aveva proposto al gruppetto dei concasati una serie di tappe tramite Materializzazione Congiunta. Già stringeva la bacchetta magica, attingendo alle dinamiche che una pratica magica come quella imponeva – s'affidava alla familiarità del percorso che spesso, a sua volta, compiva verso Evviva Lo Zufolo. Stessa direzione, poco più lontano: offriva così l'avambraccio a chi tra gli amici, e lo stesso facevano Penny, Herbelia, e i più grandi tra loro. Pronti com'erano, s'accorse tuttavia di un profumo particolarissimo, che risvegliò il borbottio di uno stomaco a digiuno.
«Chi ha portato una pizza?» Si allentò la propria tensione mattutina con quel commento, accompagnato dal bizzarro cenno del capo. Poco dopo, al sapore di formaggio filante, pomodoro e basilico, volteggiarono insieme fino ad essere inghiottiti dal buio. Il viaggio, in effetti, durò abbastanza da far rimpiangere ad alcuni concasati d'aver mangiucchiato troppo; evitando spiacevoli conclusioni, si diresse così in compagnia verso la Congrega dei Duellanti, e da lì scovare la sala d'interesse non risultò affatto difficile. C'erano segni, ospiti e spettatori vari, e apprezzò tanto pensare che fossero tutti lì per qualcuno che lui stesso conosceva dal vivo. Più rasserenato, cercò rapidamente posto in una delle file migliori, nella tifoseria della Caposcuola Grifondoro. Provò ad individuarne uno abbastanza centrale da far capire che parteggiasse per entrambi. Sì, avrebbe fatto un po' avanti e indietro, tra un momento propizio e l'altro: c'era anche lui, c'erano anche loro. Come poteva mancarvi?