Amor, avrebbe voluto bisbigliare. Chiamando il suo nome, vivendo il suo nome – in quel momento, in quella sera, e per ogni altra occasione. [...]
Mary Grenger era lì, come un punto fisso nel tempo.
Negli ultimi mesi, di notte, il dormiveglia lo guidava ad una tappa fissa: una porta verde, incastonata in un agrumeto che a lungo aveva soltanto sognato. Restava così, perduto al confine dei tempi – nella posizione scomposta cui costringeva il corpo, piegandosi sulle poltrone della Sala Comune sotto la vigile presenza del buio. Nell'insonnia disastrosa che condannava il sonno, Oliver non aveva pace: un turbamento, quello, che ricordava da lungo andare, che gli era fin troppo familiare. Il cuore, in gabbia, s'abbandonava irrimediabilmente – di tanto in tanto chiudeva appena gli occhi, il respiro cadenzava il battito greve di un animo ferito; lo avvolgeva un abbraccio che profumava di braci sempiterne, dai caminetti che i sortilegi di Godric tempestavano di vita. Altro non era, tuttavia, che una parvenza, il tepore di una sera che lo accompagnava indietro nel tempo: e si sentiva al sicuro, come non gli capitava da molto. La notte, tra quelle mura, cullava una melodia così simile ad una ninnananna – gli ultimi pedoni che trottavano sulla scacchiera, animati dalla magia di una partita appena conclusasi; il borbottio di cornici e ritratti, tutti alle pareti del pianoterra; il cicaleccio di confidenze di concasati, celati dalle scale a chiocciola che portavano ai dormitori superiori; tanto, tanto altro ancora dondolava il riposo che gli mancava. Capitava spesso, allora, di trovarlo sulle postazioni oramai vuote – il divanetto, il
loro divanetto, era il suo luogo preferito. Memorie d'altri giorni offuscavano la nostalgia, anestetizzando dolcemente tutto quello che gli era stato negato... tutto quello che credeva in definitiva perduto. Sir Nicholas era l'ultimo a lasciare l'ingresso, e il saluto che scambiava con la Signora Grassa – oltre il ritratto – rappresentava per Oliver il déjà-vu d'ogni sera, d'ogni giorno. Non tornava in camerata da tanto, Penny era l'unico che talvolta scendeva al primo piano e restava con lui, in silenzio, stretti entrambi da una coperta colorata a mo' di mantello. Prima del risveglio dei concasati, i bagliori dell'alba dalla vetrata più vicina ponevano in allerta, così lui spariva subito. Capitava che fosse preda del cuore, di continuo – il prezzo di chi violava l'equilibrio del tempo sommava la malinconia peggiore, e lo sguardo allora tardava ad affievolirsi. Né stanchezza né rimedi vinti dalla magia, infatti, avevano saputo guarire qualcosa che sentiva fin nel profondo. La ragione dell'insonnia era versatile, ultimamente – l'aveva oramai accolto con consapevolezza – tinteggiava una porta verde. Ad occhi fissi nel vuoto, incerto se fosse un sogno o una memoria ancora da realizzarsi, viaggiava verso l'immagine che aveva
di lei. Sentiva di affrettare il passo, lungo Craven Street. Il profilo di Westminster lo invitava a procedere oltre, sempre oltre: un momento che non aveva né inizio né fine, un momento in cui altro non desiderava che perdersi. Quando il numero dodici s'intrecciava all'attenzione, le mani cercavano il tronco fedele degli alberi – e la bocca gustava la delizia dei limoni, e del miele, e del suo profumo. Credeva d'essere di fronte la sua porta, un giorno, una notte,
in ogni vita.
Amor, cantava. E pregava che la vernice verde si consumasse, sotto l'assalto di un cuore affranto. Superava la staccionata, correva sul vialetto – da te, diceva; soltanto da te, chiedeva. Ma la porta, impassibile, non accoglieva né grido né sussurro. Aveva pensato di spezzarne i cardini, reciderla con il fervore dei sortilegi che non aveva mai nominato; e invece, colto dall'assenza, lasciava scivolarsi lungo le radici del piccolo agrumeto – le foglie di smeraldo, all'essenza dei limoni, brillavano di promesse che beffeggiavano il presente. Nel sogno, nell'illusione, nel ricordo, lei non apriva la porta.
Non più, non una volta..
***
Da quando erano iniziate le vacanze estive, Oliver soggiornava a Villa Glicine, ancora una volta. La gentilezza di Penny rappresentava un valore inestimabile e, per la seconda stagione consecutiva, la famiglia Laurence aveva fatto di tutto affinché lui non restasse al Castello di Hogwarts né gironzolasse per il paese. Non si sarebbe trattenuto a lungo, ad ogni modo – cercava la solitudine come la panacea d'ogni male. Nella stanzetta adibita per lui, come ospite, c'era lo stresso indispensabile: un armadio, un letto, un calendario e un grammofono – con la bacchetta, ogni mattina, tracciava una
x rossa, di fuoco, a bruciare una nuova data appena cominciata; inneggiava allo scorrere delle lancette, nella speranza che l'incontro giungesse prima del solito. La sua lettera era un cimelio che portava perennemente con sé – talvolta nel taschino della giacca, nelle pieghe del pigiama, perfino sotto il cuscino a conciliarne la veglia vera e propria. Aveva riconosciuto la sua calligrafia ben prima che l'attenzione volgesse al nome del mittente, e nella semplicità di carta ed inchiostro – di luoghi così remoti, di cui nulla aveva saputo – gli appariva tutto come un tesoro. Il breve messaggio che mesi addietro gli era stato recapitato, in volo, lo aveva colto estremamente impreparato: da molto non aveva sue notizie, da molto l'assenza s'era macchiata del prezzo della fuga. Aveva pensato fosse dipeso da lui, forse per non aver saputo agire al momento opportuno, per aver taciuto i sentimenti sinceri nei riguardi dell'altra. Il rimorso, poi, aveva lasciato spazio al nervosismo, nelle fasi che propiziavano la reazione di un animo che non voleva perdonarsi. Aveva saputo da altri, di lei. Dov'era, com'era partita, cosa faceva – domande che aveva ricamato con l'immaginazione, e in ogni spiaggia, in ogni terra, in ogni deserto, foresta o sentiero battuto dalle intemperie, era dolce il pensiero d'essere con lei. Non aveva risposto. Mi manchi maledettamente, avrebbe voluto scrivere a sua volta. Ma la bocca s'era spenta nel sorriso che lei, tra molti, riusciva a regalargli. Ora che il tempo s'era eclissato, restava il dubbio –
è stata colpa mia?E alla fine, annebbiato dal dolore, aveva ridotto in cenere ogni sua parola. Nessun incantesimo aveva saputo ripristinare la pergamena, il pentimento era giunto l'istante successivo alla prima scintilla: impavido, triste e scosso com'era stato, aveva tentato invano di spegnerne il fuoco con le mani, e sul palmo della destra sfilava la cicatrice di una scottatura che non aveva mai voluto curare davvero. In quel segno, si diceva, c'era la sua testimonianza. Aveva voluto cercarla, aveva voluto investire il tempo d'ogni condanna fino a sventrarlo, come una bestia: eppure, intrappolato nel passato, non aveva saputo attingere al divenire in modo assoluto. Non aveva fatto lo stesso sbaglio, quando era arrivato l'invito all'incontro – il biglietto lo aveva raggiunto sotto una cascata purpurea, alle radici del glicine del cottage dell'amico. Non aveva mai pensato di rifiutarsi, di non andare: come avrebbe potuto, lui che l'aveva cercata oltre ogni confine? Aveva stretto la pergamena al petto, l'aveva stracciata, piegata e consumata come chi cerca l'impronta familiare.
La stessa lettera, ora, attendeva nella giacca di jeans che aveva indossato – una maglietta bianca, una camicia sulle tonalità del blu, si disperdeva come uno dei tanti giovani passanti al Villaggio di Hogsmeade. Il tratto distintivo s'esprimeva nel mazzolino di lavanda e di glicine, che spuntava visibilmente dal taschino superiore. Non vi avrebbe rinunciato neanche in un'occasione simile: forse, si diceva, lei avrebbe ricordato che quelli, tra tutti, fossero stati i loro ultimi, più preziosi fiori. L'odore della terra, degli agrumi, delle note del cioccolato e del caffè, allora, lo trascinarono avanti, avanti ancora. Sostava di fronte la porta di Madama Piediburro, lasciando che un cliente, e un altro, e un altro subito dopo lo superassero. Per la prima volta in tutta la sua vita, Oliver arrivava in ritardo – pur in anticipo com'era, attendeva infatti come in rapimento.
Non lasciarmi, chiedeva: a sé, a lei, al presente. Oltre la porta, alla fine, inseguì il tremito del cuore fino ad accostarsi al bancone principale. Sembrò che tutto si fosse fermato, in ogni tempo. E la vide, lei che era stato incanto fin dal primo incontro. E la vide, lei che aveva distrutto – in lui – ogni equilibrio. Mi manchi, mi manchi,
mi manchi. Non comprendeva il suo cuore, non poteva più: sapeva con certezza, però, di aver sognato quel momento così a lungo.
Si avvicinò, gli occhi vitrei di chi non credeva d'essere sveglio – una maschera di cristallo, le gote diafane. Era lei, era proprio lei.
Gli sembrò un omaggio del tempo, la nota soffusa di un grammofono vicino: una sinfonia romantica, con l'inconfondibile voce di Celestina Warbeck. Nel ritrovo d'amanti e d'amicizia, tutto intorno, la canzone giungeva appena soffusa, e già si chiedeva – ora che le era davanti, in piedi – se anche lei l'avesse riconosciuta. Mentre il cuore si spegneva, e viveva, e tremava nuovamente, lui le porgeva soltanto una mano. La delicata richiesta di stringerla, com'era stato una volta.
Amor che hai stregato il cuore. Amor che tutto hai potuto.
You Charmed the Heart Right Out of Me, alla radio, passava per tutti inosservata. Non per lui, non per Oliver. La prima strofa vibrava promesse, nella memoria di quelle stesse parole tracciate in inchiostro su tasselli di un puzzle: ricordava anche lei?
Oh, my poor heart, where has it gone? / It's left me for a spell / But I don't mind, 'cause with you I find / I'm always feeling well.Stringimi la mano, non chiedeva altro. Oltre ogni tempo, oltre ogni esito. Comunque andrà tra noi, questa sera e per sempre.
«Balla con me, Mary Grenger.» Un'unica frase, una voce spezzata. L'incavo di una spalla che attendeva soltanto lei. In una saletta gremita, dove il tempo s'era appena fermato.