Infusione, Thalia Moran

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view post Posted on 3/2/2023, 00:47
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entropia.

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Un odore invitante di foglie di tè lasciate in infusione nell’acqua bollente risveglia i miei sensi, allorché percorro i corridoi del castello con flemmatica rassegnazione. Lascio scorrere le dita sul corrimano in pietra delle scale in una carezza leggera, covando intimamente la speranza che la lusinga basti a farle muovere. I miei tentativi di seduzione, stavolta, non hanno alcun effetto e raggiungo il quarto piano con un tonfo sordo delle scarpe laccate.
Davanti ai miei occhi, la porta pesante di assi di legno crea una barriera tra me e l’inevitabile. Una pennellata di rosso si dipinge davanti al mio sguardo, portando con sé un ricordo: Hogsmeade, un proposito comune, cautela contro mancanza di criterio, un nemico dai modi piuttosto eccentrici, l’inizio di un’amicizia. Non dovrei farlo —abbandonarmi ancora ai ricordi come ho fatto questa mattina in Sala Grande—, ma più si avvicina il momento del confronto più si indeboliscono le mie difese.
Ho scoperto amaramente che è semplice indossare la maschera della frivolezza, del disinteresse e del distacco quando si ha di fronte qualcuno di cui non ti è interessato. E che è intollerabile se ti trovi di fronte una persona del cui affetto ti sei nutrito e alla quale hai votato una parte della tua vita. Pertanto, non importa quanti programmi abbia fatto negli ultimi due anni rispetto a questo preciso momento: non ho idea di ciò che accadrà e del modo in cui andranno le cose. Non so cosa dirò, come mi comporterò, cosa pretenderò da lei e da me stessa —che è forse l’eventualità più pericolosa che si potesse verificare.
Il profumo del tè continua a solleticarmi le narici, contrastando l’odore della polvere che si annida agli angoli dei corridoi. Oltrepasso una fila di armature perfettamente allineate e non posso fare a meno di concedermi una risata. Un valzer serale durante un giro di ronda è un’altra delle pietre miliari del nostro rapporto, quella che tiro fuori più spesso quando voglio prendermi gioco di lei. Cioè, tiravo e volevo.
“Ora si spiega come mai ti piacesse Minotaus” era la battuta che le avevo fatto una volta. Ci eravamo fermate un attimo, sorprese entrambe dall’accostamento. Poi, eravamo scoppiate a ridere e non eravamo riuscite a fermarci finché i muscoli del ventre non avevano chiesto pietà.
Un momento di tenerezza da assaporare prima che ogni cosa deragli.

L’ennesima barriera di assi, l’ennesimo ostacolo da superare. Se mi concedo un solo attimo per riflettere, sono certa che mi esibirò in un dietrofront e la deluderò, finendo per mancare di rispetto al nostro rapporto. Per questa ragione, apro la porta senza annunciarmi e m’introduco nell’ufficio dei Caposcuola senza nessuna cerimonia. Silenziosa come uno spettro, prepotente come sono sempre stata.
«Ciao» comincio, guardandomi intorno al solo fine di individuarla. Non nutro alcuna curiosità per l’ambiente circostante. Non m’importa se i Caposcuola giochino agli scacchi dei maghi o se sfoglino riviste osé al riparo dagli occhi del resto della scolaresca. Sarebbe interessante scoprire se giochino al FantaHogwarts, ma non ho il tempo di verificare. «Non so se sono in ritardo o in anticipo. Non mi sono ancora abituata agli orari inglesi per quanto riguarda il tè».
È una verità parziale. In Islanda, le mie abitudini con il cibo sono sempre state molto discontinue e questo rapporto controverso con l’alimentazione —radicato dopo anni di patimento e vessazioni— non è riuscito a trovare una cura neppure con l’amore dei nonni e la pazienza di… Non riesco neppure a nominarla, a pensare a lei senza impazzire. Un muscolo nella mia mascella si contrae, mentre stringo involontariamente i pugni per trattenere un flutto di rabbia.
«Comunque, dimmi cosa vuoi sapere sulla vicenda di stamattina» concludo.

È interessante notare come, nonostante l’apparente imperturbabilità della superficie, io non abbia compiuto che pochi passi e abbia preferito rimanere in prossimità della porta, piuttosto che avvicinarmi alla scrivania. Com’è interessante che io abbia sollevato immediatamente la questione della mia presenza senza tergiversare.
Vigliacca, è l’accusa che rimbomba nella mia testa.
So di esserlo. Il motivo per cui Thalia ha richiesto la mia presenza qui trascende l’episodio di cui sono stata vittima —o partecipe. Lancio una rapida occhiata alle nocche lese, ma non me ne preoccupo. C’è troppo in ballo tra di noi perché Thalia si lasci distrarre dall’occhio nero che ho gentilmente regalato al suo concasato. Lo scoprirà a tempo debito, quando la tempesta si sarà abbattuta su di noi e avrà decretato cosa ne sarà della nostra nave.
La osservo. È cambiata negli ultimi due anni, e molto. Nuove sfumature di cupezza stanno incastonate sul suo viso, puntellando di un ulteriore strato di serietà i suoi lineamenti graziosi. Dev’essere accaduto qualcosa, mi dico, qualcosa di grave.
E io non c’ero, torno ad accusarmi.
Ma sarei stata davvero d’aiuto? O l’avrei spenta come ho fatto con Astaroth?
Il pensiero mi atterrisce e un fiotto di gelo corre su per la spina dorsale, irrigidendo la mia posa e rinvigorendo i miei propositi di chiudere in fretta la faccenda.

«Perché sono qui?»

Le lancette dell’orologio da taschino che preme contro il mio costato ticchettano. E il profumo delle foglie di tè continua a chiamarmi a sé.

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Per tutto il giorno non aveva fatto altro che pensare a che cosa sarebbe accaduto quello stesso pomeriggio. Non le interessava il contorno di lezioni e interazioni generali con professori e compagni, perfino Pix le avrebbe dato meno noia del solito. Su quest’ultimo punto, però, non aveva la certezza assoluta: il Poltergeist era una spina nel fianco a prescindere, quindi forse la sua era stata un’esagerazione.
Tornando dall’ultima lezione aveva capito di non essere pronta ad affrontare Nieve o, meglio, quella che doveva essere la nuova versione di lei. A Trasfigurazione, quel mattino, avevano rivisto brevemente le tecniche di camuffamento e subito l’immagine di lei, con quei capelli e quelle iridi, aveva fatto capolino tra i suoi pensieri. Che cosa le era accaduto in quei due anni? Che cosa l’aveva spinta a cambiare?
Avrebbe mentito a se stessa se non avesse ammesso che, in fondo, quella ragazza pronta a dare battaglia in Sala Grande era la stessa che con lei aveva condiviso gli anni migliori in quella Scuola. Una parte di lei era sempre stata così, solo che aveva saputo nasconderla bene, affinché nessuno la vedesse e avesse motivo di giudicarla.
Varcata la soglia dell’Ufficio dei Caposcuola, però, sapeva di non avere scelta: doveva sapere.

Era in anticipo, quindi con una certa mal celata casualità aveva disposto degli oggetti ben precisi sull’ampio tavolo di legno massiccio: un pacco di pergamente piegate a rettangolo legate insieme con un cordino ingiallito, un anellino colorato e una scacchiera di cristallo. L’ordine non era casuale: la prima cosa che Nieve avrebbe visto entrando, naturalmente, sarebbe stata lei, poiché finché il momento giusto non fosse arrivato, Thalia se ne sarebbe rimasta in piedi dando le spalle al tavolo così da nascondere gli oggetti disposti dietro la sua figura. Dovevano essere una sorpresa, proprio come lo era stata Nieve per lei quel giorno.
A caricare i suoi gesti, come un gioco a molla, era la rabbia di sapere che non sarebbe mai più stata importante per lei. Se lo fosse stata, si sarebbe degnata di farle sapere che era tornata, che tutto sarebbe stato spiegato e ogni torto perdonato. Perché - e questo Nieve lo sapeva - Thalia le avrebbe sempre perdonato tutto.
Certo, questo prima di constatare che nel corso di due maledettissimi anni l’aiuto di cui aveva avuto bisogno - e lei mai le aveva negato - Nieve lo aveva cercato altrove. Come se lei, Thalia, non fosse stata abbastanza degna di sopportare il peso di nuovi drammi, ingiustizie e dolori.
Se ne stava così, dunque, in piedi e appoggiando il fondoschiena al bordo del tavolo, le lunghe gambe incrociate all’altezza delle caviglie e le braccia conserte al petto; i capelli rossi, liberati dalla costrizione della treccia che per tutto il giorno le aveva garantito un aspetto ordinato, le scendevano lungo le spalle e sul petto, mentre il capo chino nascondeva l’espressione furiosa nei suoi occhi. Guardava il pavimento nella speranza che potesse inghiottirla, augurandosi che quell’attesa fosse breve, pregando che lo strazio potesse finire.

Quando il cigolio della porta annunciò il suo arrivo, Nieve non fece fatica a simulare un tono leggero e cordiale. La naturalezza di quell’incipit la disarmava per la sua banalità e non sarebbe sembrato nemmeno così grave se - dopotutto - Nieve non fosse ricomparsa nella sua vita dopo così tanto tempo. Il confronto di quel mattino, del resto, lo aveva categorizzato come un incontro casuale e disinteressato, con lo stesso valore di un saluto ad un conoscente per strada quando si ha troppa fretta per cominciare una conversazione. Quei dieci minuti a colazione non significavano nulla nel grande disegno lasciato in bianco da Nieve.

«In ritardo o in anticipo non importa.» mormorò sollevando il mento e guardandola in tralice «Sei qui.»
Il suo tono non lascia spazio a interpretazioni: la sua voce è scura, carica di un rancore che trascende l’arroganza e si nutre del dolore della loro separazione, della consapevolezza di essere stata volutamente ignorata, di non essere voluta e basta. Non è abituata ad essere abbandonata. Di solito è lei a lasciare.
«Non ti siedi?» le mostra la sedia alla sua destra, dalla quale riuscirebbe a vedere non solo il muro rigido costituito dal suo corpo, ma anche la disposizione precisa degli oggetti che ha portato con sé. Li vedrebbe comunque, d’altro canto, poiché l’intenzione di condividere il suo spazio vitale non è una priorità. Anzi, nel pieno rispetto del suo comportamento nei suoi riguardi, che Nieve si sieda o resti in piedi non le importa: sarà lei a mettere una distanza fisica tra i loro corpi molto presto, così che non sia soltanto quella emotiva a subire la peggior fine. La osservò dalla testa ai piedi, come se la vedesse davvero per la prima volta e cercasse le differenze con la fotografia di lei che aveva stampata a fuoco nella memoria: la magrezza e il cambio netto di colori erano evidenti, ma non c’era solo questo. C’era tensione nei suoi muscoli, in quella mascella serrata, nella rigidità di collo e spalle. E c’era un ombra attorno a lei, qualcosa che temeva di immaginare, ma in qualche modo sapeva anche che non fosse così. Era reale quanto la carne e le ossa di cui entrambe erano fatte.
«Immagino che le nocche sbucciate siano dovute ad una caduta accidentale.»
Se pensavi di tenermele nascoste, Rigos, ti sbagliavi.
«Comunque non me ne frega un accidenti di stamattina.» commenta, rilasciando le braccia lungo i fianchi e spostandosi prima che lei possa rispondere al suo invito ad accomodarsi.
Così vedrà l’Anello dei Gemelli Weasley con i colori di Tassorosso che lei le aveva regalato. Il principio.
Poi il pacchetto di lettere, circa una a settimana per due anni interi. Avrebbe fatto da sola il conto di quanto fosse stata pesante la sua assenza.
La scacchiera di cristallo, l’ultimo suo regalo prima di separarsi.
«Sai che cosa succede quando una figura degli scacchi cade accidentalmente?» chiese, degnandola di uno sguardo fugace e mimando una camminata con indice e medio sulla superficie dura e fredda dell’oggetto «E’ straordinario. Sono oggetti incantati per infrangersi e ricomporsi entro la successiva partita, ma una caduta accidentale è definitiva. Puoi riparare la forma, ma la sostanza… la magia che li anima…» si fermò, afferrando un Alfiere e scrutandolo con intensità «La magia che li anima non si ripristina. Non allo stesso modo.»
Sospirò e lo rimise al suo posto.
«Non lo sapevo finchè non mi è capitato.»
La guardò e la linea dritta e seria delle sue labbra non avrebbe lasciato spazio a nessun sorriso. Non si poteva sorridere quando, dopo essere andati in frantumi, non si riusciva a rimettere insieme i pezzi. Questo Nieve doveva saperlo.


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Il profumo delle foglie di tè è nella mia testa. Proviene da un ricordo ormai lontano, eppure così vicino che ho l’impressione di poterlo toccare. Se solo riuscissi ad allungare la mano un po’ di più, a tendere le dita quel centimetro che manca per colmare la distanza…
La voce di Thalia me lo impedisce e io ritorno al presente, trasalendo appena. Percepisco la sua cupezza e comprendo immediatamente che il tempo delle finzioni è concluso. Tergiversare e svicolare non sono più un’opzione praticabile. Una crescente sensazione di rigidità serpeggia lungo la mia schiena, avviluppandomi i fianchi e stringendo le mie spalle in un abbraccio di metallo.
Sono i ricordi a imprigionarmi: quelli di Villa dei Gigli, quelli del mio corpo venduto ai margini delle strade pur di annullarmi, quello della bacchetta abbandonata e della mia incapacità di produrre la più minuscola scintilla di magia —un essere prosciugato di ogni forma di vitalità. Non c’è vanità nel mio aspetto, nelle scelte della metamorfomagia. È solo l’assenza di colore che si presenta nel momento in cui non c'è più tela dove lasciar aggrappare le tinte dei pastelli.
Nel perdere Astaroth io ho perso anche me stessa, un po’ come quando ho perso Ỳma ho perduto quel che rimaneva della mia infanzia.
Avanzo lentamente nell’ufficio, seguendo inconsciamente il disegno di Thalia. Il suo riferimento alle nocche cade nel vuoto —non ho intenzione di cogliere la sua provocazione. So che è arrabbiata. Forse non conosco ogni ragione del suo repertorio, ma ho dalla mia anni di esperienza per poterne decifrare le emozioni. Non importa quanto sia cresciuta, cambiata, maturata. Per me, sarà sempre l’anima affine le cui increspature saprei disegnare anche a palpebre serrate.

Vorrei poter spiegare la voragine che scava dentro di me la vista degli oggetti che hanno segnato il nostro rapporto, esibiti studiatamente sulla scrivania. È ipocrita, me ne rendo conto, perché sembra che io mi sia già lasciata indietro ciò che è stato di noi, ma non riesco a sopportare che lei faccia lo stesso. L’idea è talmente intollerabile che serro nuovamente i pugni e torno a lei con lo sguardo, le labbra ridotte a una linea sottile e una muta accusa sul volto.
Come puoi fare questo…
«Guardami». La mia voce risuona nella stanza con l’intonazione di un ordine. L’espressione sul mio viso non aggiunge alcuna smentita. «Guardami». Il significato del mio invito è differente, adesso. Le sto chiedendo di soffermarsi su di me, sull’essere umano che le sta di fronte, sulla vita che arranca per non perdere la partita contro il Fato. «Credi davvero che non sappia di cosa stai parlando?»
C’è qualcosa nella devastazione che emana da tutto il mio io che apre uno spiraglio sui due anni trascorsi. Non voglio spostare il focus della conversazione su di me. Non voglio giocare a chi ha sofferto di più. Non ho bisogno di dimostrare niente, né credo che lei voglia dimostrarlo a me.
«È questo che vuoi fare?» Indico gli oggetti disposti sul tavolo alle sue spalle. «Una scenetta in cui mi dimostri che sei pronta a mettermi da parte? Cazzo, Thalia! Non così». Mi piacerebbe essere in grado di celare l’esasperazione, ma le mie doti da attrice sembrano essere rimaste sulla soglia della stanza, troppo modeste per intromettersi in una conversazione così intima. «Se vuoi buttarmi via, fallo ma in silenzio. Non…»
M’interrompo, gli occhi grandi nei suoi. Sa cosa temo sopra ogni cosa. Di essere gettata via come si fa con gli oggetti in disuso. Di essere dichiarata pubblicamente inutile. Di sentirmelo dire e avere la conferma che non valgo nulla per l’ennesima, fottuta volta.
«Fallo e basta!»

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I n f u s i o n e

Si aspettava che Nieve smantellasse il suo muro di ricordi fingendo che non le importasse assolutamente nulla di ciò che per loro quegli oggetti avevano significato.

Costruire un’illusione del genere doveva esserle costato molto, in termini di emozioni quantomeno, ma sapeva quanto la Grifondoro fosse capace di selezionare accuratamente gli elementi che più le erano affini in un dato momento. La scacchiera e l’anello, quindi, non erano oggetti che potessero scaturire in lei un senso di colpa; no, l’idea di essere in torto non la sfiorava nemmeno. Glielo leggeva negli occhi, nonostante le iridi nivee fossero così diverse dal loro colore originale che aveva imparato a conoscere così bene, e la voce - attraverso quell’unica parola pronunciata due volte in un tentativo di rafforzare la sua posizione rispetto a lei - era quella di una Nieve che voleva la massima attenzione.
Il punto era che, anche se avesse sollevato lo sguardo su di lei, non sarebbe cambiato niente.

«Non mi serve guardarti.» rispose pacata, allontanando dal bordo al centro del tavolo la scacchiera «Ti vedo anche senza guardarti. L’ho sempre fatto.»
Solo allora si sarebbe permessa di deviare lo sguardo dagli oggetti per portarlo sulla sua espressione ferita e arrabbiata, domandandosi perché - tra le due - quella a soffrire in apparenza dovesse sempre essere Nieve. Sembrava scontato per lei che dovesse essere Thalia a mantenere la facciata di ordine, serenità e forza, come se non potesse mai cedere al lusso di provare emozioni negative e contrastanti. Come se, in fin dei conti, il dolore e le brutte giornate toccassero sempre e solo a Nieve.
«Per metterti da parte dovrei ancora valere qualcosa. E mi sembra chiaro…» si soffermò per un momento, il tempo di un profondo respiro e di afferrare il pacco di lettere abbandonate sul tavolo «...che mi abbia gettato via prima tu.»
Gliele infilò tra le braccia a forza, sperando che lei le afferrasse prima che potessero scivolare a terra, sul freddo pavimento di pietra. Anche l’aria sembrava gelida, ma forse quella era solo suggestione. Forse, la rabbia le aveva drenato tutto il sangue dal corpo, facendolo sparire dalle estremità di mani e piedi, risalendo braccia e gambe e concentrandosi all’altezza dello stomaco. Quasi non riusciva a respirare, tale era l’angustia nei propri confronti e in quelli della Rigos.

La sceneggiata degli oggetti sulla tavola doveva scaturire una reazione in Nieve - e ci era riuscita -, ma non aveva calcolato l’effetto domino che avrebbe avuto su di lei. Spalmare in mezzo metro tutta la loro amicizia e metterla in mostra come un articolo da museo le aveva fatto male. Posizionando ogni singola parte di quel quadretto un tempo felice si era sentita sola e persa. C’erano questioni, rapporti ed emozioni che, semplicemente, non erano destinate ad essere.
«E quelle sono solo una parte di quelle che ti ho scritto.» si puntellò con la mano sul tavolo, alla ricerca di un sostegno fisico per quanto poco fosse utile in quel momento.
Non ce la faceva e basta. Sarebbe crollata se non avesse avuto qualcosa a cui appigliarsi.
«Grimilde me le ha rispedite tutte. Dalla prima all’ultima. Per due anni.»

Non lo sapeva, forse? Di tutti quei pomeriggi, dopo il turno da Zarathustra, passati a guardare la casa di Grimilde e Julian nella speranza che qualcuno, finalmente, si degnasse di darle una risposta? Quando, alla fine, Grimilde si era affacciata sull’uscio di casa le sue parole erano state solamente Lei non c’è.
Che voleva dire? Se lo era chiesto così tante volte senza trovare una risposta e l’unica che era riuscita a darsi era che forse, dopotutto, Nieve poteva aver avuto bisogno di capire chi fosse tornando alle sue origini. Là dove tutto era cominciato.
L’Islanda e il piccolo villaggio in cui era cresciuta bistrattata e malnutrita erano diventati l’unica cornice possibile per quella storia impossibile. Sarebbe tornata - pensava - e sarebbe stata diversa.
Guardandola si era resa conto che sì, un cambiamento c’era stato davvero, ma non come lo aveva desiderato lei.
«E poi ho scoperto che cosa stavi facendo mentre io ti aspettavo, dandoti il giusto spazio per capire qualsiasi cosa ti fosse accaduta.» il suo tono adesso era acido, velenoso quasi, perché la rabbia di saperla sciupata a quel modo la atterriva e la faceva infuriare allo stesso tempo. Non aveva reagito quando Casey Bell le aveva confidato quale tipo di vita Nieve stesse conducendo, delle cose che aveva detto e fatto in quel periodo; del modo in cui avesse deciso di volgersi all'autodistruzione. Quella consapevolezza era stata una pugnalata al cuore. Sapere di non essere con lei era stata una ripetizione dello stesso colpo.
«Solo in quel momento ho capito che ti avevo persa e non potevo fare niente per portarti indietro.»


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«NON NOMINARLA».
Il grido che prorompe nell’ufficio scuote le pareti di pietra e si abbatte come un’onda sulla mia migliore amica, travolgendo qualsiasi ostacolo incontri sul proprio cammino. Una nota di isteria sporca la mia voce, che non mi sono accorta di aver sporto leggermente il busto in avanti e di aver inclinato per converso i pugni all’indietro. Ciocche di capelli pendono ai lati del mio viso, accentuando la ferocia albina che neppure stavolta sono riuscita a controllare nel sentir menzionare la persona che più detesto sulla faccia della terra.
Fili perlacei smossi dal vento, dinanzi a una platea di gigli appassiti, incoronano il mio volto spento. Giaccio tra le braccia di nonna Lucrezia, che sussurra parole di conforto al mio orecchio, ma quello scivola sulle mie membra immuni a ogni forma di consolazione.
Mi scuote un singulto, mentre guardo il vuoto e la certezza di averLa persa incide la mia carne, nidificando nello spirito e cospargendolo di pece. Consapevolezze, vecchie e nuove, si incastrano nella mia mente.
Percepisco il velo dell’inganno crollare definitivamente e assumere una valenza nuova, mostrarmi quale costo ha avuto la mia ingenuità. Una fitta alle tempie genera un sobbalzo, che induce nonna Lucrezia a stringere la presa e a rinforzare il dondolio con cui tenta di cullarmi e alleggerire i miei affanni. Il mio pensiero —così simile all’odio— è tutto su Grimilde adesso.
Come ha potuto cancellarmi la memoria? Come ha osato giocare con i miei ricordi, spazzarli e trasformarli a suo piacimento come fossi una bambola da modellare nelle sue sporche mani?
La mente ritorna ad Astaroth e il disprezzo cede il passo allo strazio. Su questi stessi gradini, rammento di averle domandato di privarmi della traccia da cui si era originato mio innamoramento per Christopher Channing. Rammento anche il suo rifiuto e la sua dolce reprimenda sull’importanza di vivere le emozioni e saperle controllare, invece di rimuoverle.
Grimilde non ha avuto la stessa accortezza e ha giocato a rimestare nel baule della mia intimità con la prepotenza che le appartiene per carattere. So che non riuscirò a perdonarla —per la sua arroganza, per la sua violenza, per la sua gelosia. So che, oggi, ho perso più di quanto abbia mai avuto.
Respiro in affanno. A scuotermi è un turbamento che origina dall’esecrazione. Un soffio improvviso scuote le ciocche d’argento e agita le fiamme delle candele e delle torce presenti nella stanza.
Nella foga, ho lasciato cadere a terra il plico con le lettere, l’ennesimo tesoro di cui Grimilde mi ha privato ma della cui esistenza ero edotta. Tremo di rabbia, mentre mi chino sulle ginocchia per recuperarle. Le stringo tra le dita con gentilezza e timore, poi le restituisco al gruppo di oggetti che segnano le tappe del nostro rapporto. Ho desiderato a lungo conoscerne il contenuto, ma trascinarla in quel delirio… non avrei mai potuto permetterlo.
Avrei? Al passato?, la domanda è diretta e insistente, almeno quanto ostinato è il mio silenzio.

«Per gettare qualcosa dovrei avere qualcosa. Ma io non ho più niente perché non sono niente» dico al termine di una pausa riflessiva. Alzo lo sguardo su di lei. Scrollo le spalle. «Sono ancora viva solo come punizione per i miei crimini, altrimenti…»

Lascio la frase in sospeso e mi volto in direzione del camino acceso. Ossimoricamente, ricerco il calore per non esserne rimasto alcuno dentro il mio corpo e nel mio essere tutto. Raggiungo una delle poltrone e deposito le mani sullo schienale. La corteccia mi restituisce l’immagine del drago del mio passato e della me bambina —tutta capelli corvini e abiti stracciati— che osserva silenziosamente la sua maestà accucciata in uno spiazzale della foresta.
Non ho mai smesso di temere il fuoco, ma oggi i mostri che infestano la mia veglia e il mio sonno sono altri.

«Astaroth è morta». La mia voce è spenta, priva di ogni accenno di vita. «E io ho ereditato la sua villa» proseguo, imperterrita, contro ogni previsione. «Si è tolta la vita. È morta da sola, abbandonata da tutti, me compresa, che le avevo urlato il mio odio». Un accenno di tremore, gli occhi illuciditi da una sofferenza che non ho imparato a dominare. «È successo quando frequentavo ancora Hogwarts, tre anni fa. Grimilde —mi costa fatica pronunciare il suo nome, stringo forte la pelle della poltrona finché le unghie non perforano la copertura più superficiale — me lo aveva detto, ma la mia reazione è stata così forte che ha pensato fosse giusto cancellarmi la memoria. Ripetutamente».

Mi volto verso Thalia. Voglio guardarla adesso. I miei lineamenti sono solo parzialmente illuminati dalla luce aranciata del camino. Mi ha accusata di averla dimenticata, di averla gettata via, di averla trascurata. Posso convenire soltanto sull’ultima dei suoi rimproveri, ma sugli altri… Ho bisogno che lei capisca che nessuna delle cose che ha immaginato abbia un fondamento. Che qualsiasi malignità ha attecchito in lei rispetto al mio comportamento non abbia motivo di esistere.

«Mi dispiace se sono scomparsa, se non ho risposto, se ho dato l’impressione che non m’importasse…» È buffo pensare che avrei voluto mostrare assoluto distacco e che ora mi trovi qui, con le ciglia asperse di lacrime, incapace di porre un solo accenno di barriera tra me e Thalia. «Ma ho smesso di esistere nell’esatto momento in cui l’ho saputo».

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I n f u s i o n e

La voce di Nieve esplose in un vero e proprio ruggito, come se finalmente una valvola di sfogo si fosse aperta lasciando fuoriuscire tutto il suo risentimento. Non aveva idea di che cosa fosse accaduto tra lei e Grimilde, ma sapeva che sebbene il loro rapporto non fosse sempre stato idilliaco, entrambe avevano più o meno cercato di farlo funzionare. Lo aveva visto tra Nieve e la donna che l’aveva consapevolmente accolta come una figlia di sangue e lo aveva visto accadere a se stessa, quando Leanne non faceva altro che criticare ogni sua decisione e azzardo. Solo che, a differenza di sua madre, Grimilde pareva aver prima sfiorato e poi premuto con forza tasti che non dovevano nemmeno essere presi in considerazione. Come se, dopotutto, Grimilde non avesse conosciuto affatto Nieve.
Era confusa, le sopracciglia corrucciate non potevano lasciare spazio al dubbio, e non sapeva che cosa dire o come farlo. Restava immobile, lasciando che l’onda di energia negativa emanata da Nieve, col corpo e con la voce, andasse affievolendosi, finché la quiete non fosse tornata e quel momento, attualmente in pausa, non avesse dato spazio a quello successivo. Le sembrava di essere bloccata in uno spazio-tempo infinito dove nulla si muoveva, eccetto il suo cuore che batteva a raffica per la sorpresa e lo spavento, e ogni parola le pareva superflua.

Le scavava una voragine nel petto vederla rannicchiarsi in se stessa davanti al camino, come se il calore del fuoco acceso raggiungesse e si fermasse alla sua pelle diafana. Non aveva sbagliato ad eguagliarla ad un Thestral: la sua Nieve era morta, ma perché? Come? Quando?
Voleva delle risposte, le pretendeva e ne aveva bisogno come si ha bisogno d’aria per respirare. E al posto delle parole c’era solo il silenzio.

«Non dire…» stava per contraddirla, come aveva fatto altrettante volte in passato, ma le parole le erano morte in gola al sentirla parlare di crimini e punizioni. Ora che non la stava nemmeno guardando un sorriso amaro le aveva distorto la linea sottile delle labbra altrimente strette tra loro.
«L’unico crimine è avermi esclusa da tutto.» mormorò, sedendosi sulla prima sedia a disposizione. Era stanca di sentirla parlare così, come se il mondo ce l’avesse con lei e lei sola. Se in quei due anni era accaduto qualcosa di così grave perché non dirglielo? Forse un po’ di onestà avrebbe fatto bene ad entrambe.
Eppure, la chiarezza era una merce rara e pericolosa. Poteva spianare la strada o erigervi ostacoli insormontabili e nulla, nel secondo caso, avrebbe potuto risolvere la situazione. A quel punto, ogni cosa sarebbe stata perduta, ogni passo falso solo l’ultimo di una lunga serie. Thalia sapeva che, se avesse pronunciato quanto le frullava nella testa in quel momento, sarebbe finito tutto. Nieve era come una pozione lasciata cuocere troppo a lungo sul fuoco, gli effetti incalcolabili, e lei il maldestro che l’aveva lasciata sola troppo a lungo.

«Quindi sono nulla?»
La sua voce era come un respiro soffocato, mentre le mani coprivano il suo volto e rendevano impossibile a Nieve comprendere la forma di quelle parole ed il loro peso. Avrebbe avuto senso, considerato quanto avvenuto fino a quel momento. Il silenzio, il suo fingere di essere tornata ad Hogwarts come la figliol prodiga affidandosi alla clemenza e alla curiosità degli altri, con la spavalderia con la quale l’aveva affrontata quella stessa mattina. Era ovvio che fosse andata oltre: il passato è passato per un’ottima ragione.
Il capo chino e coperto dai palmi era solo una delle tante declinazioni assunte dallo sconforto che la colse. Poi, così come Nieve aveva saputo confonderla, riuscì anche a zittirla.

Astaroth Morgenstern era morta.

Per lei, che di quella donna serbava il minimo ricordo necessario a far riaffiorare la sua fisionomia alla mente, quella era un’informazione di secondaria importanza; per Nieve, però, significava aver perso una parte di se stessa. Sapeva che la donna le era stata accanto, come mentore ancor prima di essere una sua docente, e le aveva sempre sconsigliato di avvicinarsi a lei, se non altro per questioni di mera professionalità. Le aveva suggerito di non sbandierare ai quattro venti, come invece aveva fatto con lei, del suo rapporto privilegiato con l’ex Docente di Divinazione e di fare attenzione, poiché nessuno, nemmeno lei, poteva sapere dove sarebbero potute arrivare le conseguenze.
Ricordava piuttosto chiaramente le discussioni che l’argomento Astaroth aveva portato tra loro, come una specie di malattia che colpisca a fondo e brutalmente. Era diventato quasi un ostacolo - così l’aveva percepita Thalia - tra lei e la sua migliore amica. Sapere che fosse morta, per lei, non era importante. Per Nieve doveva essere stato tremendo.
Eppure, aveva tratto profitto da quella dipartita assurda ed improvvisa: una villa, per lei che era nata senza avere nemmeno di che coprirsi e sostentarsi, doveva essere sembrato un sogno e una dannazione insieme. Come darle torto?
Immagazzinava le informazioni che Nieve le stava fornendo con la passività data dallo sconcerto, cercando di trovare la quadra senza avere tutti i dati necessari. E poi la chiosa finale: Grimilde le aveva cancellato i ricordi. Ciò che di più prezioso un essere umano possa avere.
Le grida di Primrose Moran le riecheggiarono nella mente, e si costrinse ad abbassare le mani sulle labbra che, scoprì, erano schiuse per il naturale stupore. Non era stata meglio di Grimilde in questo, dunque come poteva giudicarla? Sarebbe stato troppo facile se le avesse detto quello che voleva sentirsi dire e non sarebbe stato nemmeno giusto, perché la magia era un'arma a doppio taglio e l’onestà veniva pagata a caro prezzo.
Nonostante questo, se al principio il primo istinto era stato quello di alzarsi e coprire quel metro e mezzo a separarle per cingerla in un abbraccio che le desse conforto, quando i suoi occhi finalmente la presero in considerazione la vide: la tristezza, il vuoto dentro e fuori, il nulla a cui aveva accennato poco prima. Una voragine in cui perdersi. E Nieve lo era: persa in un oceano di dolore e rancore, forse impossibile da navigare.

Si schiarì la voce, prima di parlare, e lo fece con l’intenzione di trovare la forza per non lasciarsi andare allo sconforto. «Quello che mi ferisce è che...» si morse il labbro inferiore, mentre gli occhi si inumidivano fastidiosamente «...che pensi di non avere più niente.»
Avrebbe voluto andare via, scappare da quell’incontro cercato contro ogni logica e razionalità, ma i piedi se ne restavano piantati a terra, come se niente potesse smuoverla.
Portò l’indice al petto, picchiettandolo in silenzio, sentendo dentro di sé tutto quello che non si era concessa di sentire in quell’intervallo interminabile di tempo. Abbandono, frustrazione, incomprensione… tutto ciò che in quei due anni si era accumulato, una catasta di emozioni e sentimenti pronti ad essere stivati come ninnoli e suppellettili antiquati senza curarsi di quanto spazio potesse rimanere nella soffitta; la parte peggiore era scoprire che non c’era più spazio per la comprensione, per quella voglia di sapere ascoltare senza riserve, il proposito di non giudicare mai prima di aver capito tutta la storia. Nessuno si era proposto di farlo con lei o per lei. Solo adesso ne capiva la vera ragione.
«Io non valgo abbastanza per te. Se tu non vali niente, allora niente e nessuno vale abbastanza. E io sono parte di quella categoria, non è vero? Io non sono importante. Non quanto lei.»
Pronunciò l’ultima parola con un velo di rancore e si aspettò che Nieve scattasse come una molla, ma non le importava: aveva atteso due anni per conoscere le risposte alle sue domande e adesso che le aveva voleva togliersi un macigno dal petto. Voleva essere libera. Libera di provare tutte le emozioni che aveva soffocato con il bisogno di trovare un modo per andare avanti.
«Se lei era così importante e soffri per averla lasciata sola a morire… che cosa dice di me e te questo? Chi sono io? Che valore ho per te? Perché…» strinse le dita in un pugno, serrò il maglione tra loro con una forza che le fece sbiancare le nocche e tacque per un momento. Se Nieve avesse osato interromperla l’avrebbe incenerita. Se fosse morta lei, Nieve si sarebbe ridotta così? Se lo chiese, stupidamente, ricalcando un disegno infantile che non le faceva affatto onore. Eppure, per quanto fosse assurdo mettere a confronto se stessa con il fantasma di un affetto passato, era proprio questo che voleva: capire perché, alla fine della storia, dovesse sempre essere lei a rinunciare a qualcosa o a qualcuno.

Ormai non nascondeva più la sofferenza, le lacrime scendevano giù incorniciandole le guance.
«Sei il mio sangue fuori dal mio corpo» citò con voce rotta le ultime parole che si erano dette, prima di lasciarsi alla stazione di King’s Cross, due natali prima, e quelle parole le si annodarono doloramente nella gola. Faceva male scoprire quanto una menzogna fosse difficile da digerire e capì, per la prima volta, come dovesse essersi sentito Mike. Quando la verità era un velo sottile pronto a scoperchiare le menzogne, sostenuto dalla barcollante struttura di illusioni pure e semplici.
«Ero il tuo baricentro, me lo dicevi sempre, perché figuriamoci...! Ho una bussola morale invidiabile! Non sbaglio mai, scelgo sempre bene e non so nemmeno che cosa voglia dire soffrire per qualcuno!» le sputò addosso tutta la rabbia e il risentimento come mai aveva osato fare, infischiandosene per la prima volta se il suo dolore - quello di Nieve - veniva messo al secondo posto.
«Quando te ne sei andata ho smesso di essere me e sono diventata te. Incurante delle regole e dei privilegi, la morale nel cassetto e… adesso ho capito molte cose.»
Nieve aveva bilanciato per così tanto tempo le parti più oscure di se stessa da aver contagiato anche le sue: non aveva bisogno di eccedere, poichè la Grifondoro era il suo promemoria ricorrente di che cosa potesse accadere se solo si fosse permessa di lasciarsi andare. Conoscere Lucas, un Mangiamorte, nel periodo di più grande fragilità era stato solo il principio di una serie di eventi di cui si sarebbe pentita. Eppure, non poteva più tornare sui propri passi, non quando la porta sul baratro era rimasta spalancata tanto a lungo. La bussola morale aveva finito per impazzire, non più soggetta alla scelta tra giusto e sbagliato, ma pronta a valutare il male se - alla fine - poteva portare ad un briciolo di bene. «Mentre non c’eri mi sono legata ad una persona sbagliata per me, perché cercavo comprensione e condivisione là dove speravo di trovarla. Ero nella merda, Nieve, e tu non c’eri. E non hai idea di dove sia arrivata senza di te.»
Le lacrime si erano ormai asciugate, la voce era tornata alla sua integrità originaria e il suo respiro, finalmente, era regolare. Aveva alzato la voce, le aveva puntato un dito contro, si era scavata dentro per tirare fuori tutte le più piccole cose rimaste impigliate; avrebbe potuto fare di più, ma era sfinita.
Stanca di essere messa da parte.
Esasperata dal suo silenzio.
Mortificata per non aver saputo andare avanti come avrebbe dovuto.


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Alla fine, contro ogni previsione e forma di buonsenso, è effettivamente diventata una gara a chi ha guaito di più di fronte ai calci molesti del padrone. Mentre ascolto Thalia snocciolare quanto mi sia persa della sua vita e osservo la rabbia farsi presto frustrazione e, ancora, la frustrazione farsi disperazione per i cedimenti strutturali che non sa perdonarsi, mi sento mancare il fiato. Una pressione ingestibile sta schiacciando il mio cuore, simile per forza e temperamento alla stessa che ho già provato innumerevoli volte nella vita —soltanto, non con Thalia.
I miei occhi la fissano puntarmi il dito contro, piangere, raccontarmi dei suoi sbagli e, per una parte di me che si affligge empaticamente di fronte a tutto quello sconforto, ce n’è un’altra che non riesce a fare a meno di ascoltare l’eco sgomento della mia stessa voce che risuona tra le ossa del mio cranio.
Le ho detto che Astaroth è morta e non ha significato nulla per lei…
La nausea che avverto, il tremore che mi scuote sottopelle e la virulenza di una nuova, eppure familiare consapevolezza mi annichiliscono. Così, per evitare di crollare sul pavimento, compio qualche passo incerto attorno alla poltrona e mi lascio andare all’indietro sul suo unico cuscino. Non mi curo dell’impatto irruento con lo schienale, né dell’attimo di confusione che segue lo schianto tra la mia nuca e la durezza della spalliera. Un essere deforme si sta rivoltando dentro di me. Lo sento piangere prima ancora di essere venuto al mondo.
Come una stupida, ci ho creduto solo per vedermi smentita e guardami adesso.
La scomparsa di Astaroth, per me, è equivalsa alla perdita di tutto al punto che mi risulta impensabile credere che non tocchi chiunque ne venga a conoscenza. Soprattutto, è inconcepibile che le poche persone rese partecipi di questo segreto non capiscano quale effetto possa avere avuto su di me. Serro la mascella così forte che sento il mio viso tremare, mentre fisso il fuoco e le retine chiedono la pietà di un battito di palpebre.
Ho perso un’altra delle poche persone che abbiano veramente avuto significato per me, l’ennesima figura di riferimento alla quale avessi fatto dono di una parte del mio essere. E la reazione di Thalia —l’unica, insieme alla mia famiglia, a sapere di Astaroth— è stata… questa.

«Importi così tanto per me che ho pensato di non volerti fare la stessa fine che è capitata prima a Ỳma e poi a Lei per il solo fatto di starmi accanto» le rispondo, rendendola partecipe dei miei deliri, ma stavolta la mia voce è fredda. Una lastra di ghiaccio spessa e crudele. «Non ho mai avuto bisogno di fare un confronto, perché non è così che amo» continuo senza nascondere il biasimo nella mia voce. Le sto dicendo che non mi ha mai conosciuta se ha sentito il bisogno di fare una comparazione; addirittura di paventarmi la sua di morte per comprendere la profondità del mio affetto. «Tu vuoi vedere nella mia sparizione quello che non c’è: la dimostrazione che non sei abbastanza. Ma non è che il tentativo di riflettere una tua insicurezza su di me, attribuendomi un comportamento che non mi appartiene. Io non dimentico chi amo. Non sono in grado di farlo… purtroppo».

Due anni dopo, la Nieve che Thalia ha di fronte è in grado di ragionare con una lucidità e una maturità che la Nieve del passato non avrebbe mai dimostrare. Due anni fa, le avrei strillato addosso per non avermi capita, le avrei detto che mi dispiaceva per ciò che aveva passato e non avrei potuto fare a meno di incolparmi per ognuna delle sue accuse. Oggi, riesco a scorgere oltre il velo dell’apparente inoppugnabilità di Thalia le crepe che la rendono fragile e che l’hanno portata a parlarmi così. A vederle ma non a perdonarle.

«Non voglio fare né a te né a nessun altro di cui mi importi quello che ho fatto a loro. Non lo sopporterei». Un soffio di tramontana avviluppa il muscolo che spasima in cento e una contrazione nel mio petto. «Ma i tuoi errori — prendo una pausa, l’espressione imperturbabile, la posa rigida nonostante i tentativi del camino di addolcirla— non sono dipesi dalla mia assenza. Quello che hai fatto è stata una tua libera scelta, come io ho scelto di buttarmi sulle droghe per non soccombere allo strazio che sento tutti i giorni. La differenza tra me e te è che io so di dover incolpare solo me stessa». Non sono mai stata così caustica con lei, ma quello che ha fatto —lo spregio mostrato verso i miei sentimenti più profondi— mi risulta intollerabile. «Mi dispiace per quello che hai affrontato» proseguo e lo intendo veramente. «Dev’essere stato terrificante per te perdere le coordinate della tua identità, dopo tutti gli sforzi compiuti per costruirla. Penso che fosse destino che accadesse, però. Hai bisogno anche tu di concederti il lusso di contare su qualcuno e di poterlo dire come lo stai urlando a me adesso, prima di arrivare al punto da detestarlo e incriminarlo».

Le voglio bene, forse per questo fa così male il pensiero della sua indifferenza. Mi tornano in mente i suoi moniti su Astaroth, l’atteggiamento guardingo tanto simile a quello di Grimilde, il desiderio di proteggermi. Chi avrebbe mai pensato che tutto sarebbe sfociato nella stessa conclusione del cazzo?
Desidero abbandonare l’ufficio, eppure non ne sono in grado. La nausea e il tremore non hanno smesso di indebolirmi. Sento che, se solo compissi lo sforzo di reggermi sulle gambe, il lavorio delle mie sinapsi smetterebbe di tenermi sveglia e cederei all’oblio per porre fine al supplizio della veglia.

«Hai fatto bene a togliere l’anello gemello» le dico infine. «Mi rendo conto solo adesso che non c’è Reparo che possa sanare la nostra rottura».

Un decreto imperiale letto a voce alta dinanzi al popolo.
La lama affilata del boia che cala sul collo della preda, mozzandogli la testa.

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Da quando Nieve era entrata a far parte della sua vita non c'era mai stato un silenzio così lungo, interrotto solamente dai singhiozzi dell'una e dal respiro arrabbiato dell'altra. Non era mai esistita quella tensione tra loro, perché sì di frasi non dette e concetti inespressi ne avevano ancora, ma la voglia e il desiderio di darsi addosso… quelli no. La quiete calata su di loro era soltanto una farsa, una delle tante che sembravano aver messo in scena, ciascuna per conto proprio e per ragioni ben diverse, in quegli anni.
Avrebbe voluto dirle tante cose, prima tra tutte che non si salvava nessuno ignorandolo per settimane, che il silenzio uccideva più del caos e che - se pensava di doverla proteggere - allora non aveva capito niente di lei.
Da quando Nieve era entrata nella sua vita, Thalia era stata quella tra le due a investirsi del ruolo di scudo umano, mentale e fisico in egual misura. Per ogni screzio che si generava nella vita della Grifondoro, la Tassorosso era presente. Proprio come accaduto quel mattino in Sala Grande.
Nieve ci aveva provato ad essere la paladina del suo benessere - non aveva dimenticato la sua lotta con Aiden Weiss per il rispetto che lui non le aveva portato all'inizio - e questo, forse, doveva averle dato l'illusione di avere a che fare con una persona fragile. In quei mesi passati da sola, Thalia si era riscoperta debole nel cedere agli stimoli esterni, ma questo era avvenuto dopo che lei se n'era andata. Prima le cose erano diverse e, forse, anche il futuro lo sarebbe stato.

«Che cosa vorresti dire? Che io sono in grado di farlo?»
Era una domanda retorica, si aspettava che la Grifondoro non la cogliesse, perché per come la vedeva lei, non era stata altri che Nieve a creare della distanza tra loro, così come - in quella stupida gerarchia di affetti - Astaroth sarebbe sempre venuta prima. Era sciocco fare dei confronti, specialmente con un defunto nel mezzo della conversazione, ma non riusciva a fare a meno di pensare alle stretta tra Nieve e Casey in Sala Grande, al modo in cui la Bell aveva saputo delle sue difficoltà e lei, invece, no.
«Non ti sei mai chiesta cosa volessi. Mi hai allontanata senza ragione, nel silenzio e nella più totale mancanza di rispetto. Pensavi di farmi del bene, ma… Ho scoperto da sola che non è così che funziona. Se vuoi proteggere qualcuno lo metti al corrente fin da subito, senza riserve.» la voce roca era solo un ricordo adesso, nitido come le guance umide sotto le dita nervose.
«Restare o fuggire doveva essere una mia scelta. Invece hai deciso tu per me. E mi sono sentita persa, Nieve. Persa.»
La rabbia stava risalendo il livello di sicurezza, ma non poteva farci niente. La guardava e provava un dolore fisico talmente forte che dal centro del petto irradiava al resto del corpo come se un miliardo di scosse le stesse percorrendo le carni. Furia e dolore insieme erano un mix letale.
«Ti sei avvicinata molto a Casey, pensi che le farai il favore di abbandonarla quando le cose si faranno di nuovo difficili?»
Una stilettata, ne era certa. Non si sarebbe mai aspettata che Thalia potesse puntare ai sensi di colpa prima ancora che il torto avesse origine. Ma Nieve aveva giocato sporco per prima.
Il suo sguardo virò all'anello sul tavolo, al piccolo oggetto che tanto aveva significato per loro. Si alzò in silenzio, lo sfiorò con le dita e guardandola in tralice le disse parole che mai avrebbe pensato di pronunciare.
«Non l'ho mai tolto dal giorno in cui me l'hai regalato. Lo sapresti se tu avessi indossato il tuo. Quindi non venirmi a dire che ho fatto bene a liberarmene, perché la prima a lasciare indietro l'altra sei stata tu.»
Raccolse il pacco di lettere e, dopo averle degnate di un sospiro con uno sguardo pieno di dolore, le gettò tra le fiamme.
In quelle parole c'era Thalia, la sua preoccupazione, il tentativo di instillare in Nieve una curiosità e il bisogno patologico di condividere con lei dettagli essenziali della sua vita in un linguaggio che soltanto loro avrebbero capito. Parlava di Lucas, di Primrose e di quello che era diventata. Dell'ombra che l'aveva reclamata all'improvviso e di come alla fine avesse quasi ceduto.
«Sono già abbastanza giuria, giudice e boia per quello che ho fatto. Non mi serve il tuo biasimo.»
La pergamena si accartocciava nel caminetto, il suo crepitio un suono dolce e soffuso. Voleva andarsene, ma c'era ancora qualcosa che valeva la pena di essere detta.
«Dall'anello fanne ciò che vuoi, non mi importa.»
Mosse un passo verso la porta, incurante di qualsiasi cosa avesse da dire. L'ultima carta se la stava giocando adesso: dalla tasca dell'uniforme lasciò cadere una fotografia. Due ragazze in abito da sera, sorridenti e contente, amiche e quasi sorelle, una famiglia per scelta; non tutte le famiglie, però, finivano per essere davvero felici. Loro non ci erano riuscite, dopotutto.


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Le mie parole non penetrano gli scudi di Thalia e le sue non penetrano i miei —o forse sì. A un livello subliminale, riesco a cogliere quello che sta tentando di dirmi. Chiudo gli occhi e scuoto il capo: prima Astaroth, ora Casey. È delusione quella che sento? Dovrei provare appagamento per la sua gelosia? Allora perché percepisco il mostro continuare a crescere nel mio ventre e rivoltarsi con più vigore?
Il primo istinto è rinfacciarle di Camille. Il ricordo del modo in cui l’ha stretta a sé, della fierezza che le ho visto sfoggiare, della complicità naturale maturata negli anni passati accanto riappare nitidamente alla prima richiesta di rievocazione. Eppure, le labbra si serrano e nessun suono fuoriesce dalla bocca. Non so se a prevaricare sia la voglia di non concederle la soddisfazione, la consapevolezza della sterilità della conversazione o l’ancòra bruciante delusione per il disinteresse mostrato verso la morte di Astaroth e gli effetti visibili che essa ha avuto su di me.
Qualcosa mi dice che, di tutte le opzioni messe in esposizione sul piatto della bilancia, l’ultima sia quella ad avere il peso maggiore.
«Non puoi abbandonare qualcuno che non hai mai preso» le dico, non perché le debba una spiegazione ma per rimarcare un concetto che evidentemente non ha assorbito. Mi volto a guardarla e ripeto, serafica: «Io non ho più niente e nessuno. Forse non ti è ancora chiaro. Io non sono niente».
Pronuncio le parole con una tonalità che manca di ogni forma di vitalità. Non m’importa che possa tornare a inveirmi contro, che i suoi pensieri finiscano per catalizzarsi sugli errori che sto commettendo, che trovi altri motivi per biasimarmi. Smettere di esistere non è una scelta. Accade e basta. E, quando succede, spesso è troppo tardi per tornare indietro.
Lascio che Thalia sfoghi il suo livore gettando le lettere nel camino e mi limito a osservare le lingue di fuoco lambire la carta e cancellare le tracce dei suoi tentativi di raggiungermi; di instaurare un contatto con me nei due anni trascorsi. Poggio il capo sullo schienale della poltrona e sembra quasi che mi stia godendo la scena, il profilo illuminato dall’arancione caldo del fuoco. In realtà, sto riflettendo sul successo involontario della mia missione.
Volevo che Thalia mi detestasse per tenerla al sicuro dalla possibilità di contagiarla con il disastro che sono diventata; con la turpitudine della mia vita. Mi ero preparata a farlo con la menzogna, persuasa che l’unico modo per raggiungere l’obiettivo fosse fingere e maltrattarla. È impensabile che sia stata la verità a sancire un risultato così tristemente fruttifero.
Uno scatto involontario è la reazione del mio corpo all’ennesimo stimolo della serata. Le dita afferrano una polaroid lasciata cadere tutto fuorché accidentalmente da Thalia. Poco dopo, mi osservo sorridere con una treccia laterale e un vestito azzurro all’indirizzo della fotocamera. Che bella serata fu quella! L’immagine di Maurizio che mi prende per la vita e mi innalza sopra la folla in un passo di danza del tutto fuori contesto mi strappa un ghigno. Poi, i miei sussurri maligni sul Midnight mezzo nudo, le chiacchiere e i preparativi nell’ufficio vuoto… Era ancora tutto così semplice e innocente!
«Ne scatterai tante altre con Camille» sussurro, ma non c’è provocazione nella mia voce mentre continuo a scandagliare con gli occhi le profondità di quel frammento di memoria.

Suona quasi come un augurio.
Perché, in fondo, non ho voluto —e non continuo a volere— altro che la sua felicità.

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Aveva lasciato cadere la fotografia nella speranza di farla rinsavire, sapendo quanto poco invece le sarebbe importato. Perché Nieve sapeva essere tante cose, ma una più di tutte le altre: imperdonabile, persino nel momento in cui avresti voluto darle tutto, ben oltre il merito che le fosse spettato; sapeva essere crudele, forse addirittura meschina nel fingere che di lei, di Thalia, non le importasse più niente. Non l’avrebbe sentita trattenere il respiro per un secondo, altrimenti, mentre raccoglieva la foto dal pavimento. Non si illuse, però, di aver toccato un nervo scoperto. Del resto le sue parole erano state chiare. Non puoi ferire qualcuno che ha scelto di non esistere.

«Sei proprio un’imbecille.» sbottò, ferma ad un passo dalla porta e da lei. A metà strada, com’era sempre stata in quegli anni, tra la possibilità di sfiorarla e comprenderla e la certezza di non poterla davvero afferrare. Nieve era come l’aria, sfuggiva e ti avvolgeva con la stessa intensità, ti riscaldava e congelava con la stessa facilità.
Si voltò, negli occhi il riverbero della fiamma e la rabbia pronta a risalire dall’antro oscuro in cui era rimasta nascosta. Non lasciava spesso che quel sentimento reagisse agli impulsi esterni, non era così che voleva essere vista e non sapeva - non dopo quanto aveva vissuto - quali sarebbero potute essere le conseguenze delle sue azioni. Con difficoltà si aggrappava alla parte di lei che Nieve aveva conosciuto e, in ogni caso, sentiva quel legame logorarsi giorno dopo giorno.
Aveva senso mantenere vivo un sentimento anche quando tutto il resto ti spingeva a rinnegarlo?
«Vorrei entrare in quella testa e farti tornare.» pronunciò quelle parole a denti stretti, trattenendo il veleno che altrimenti sarebbe stata capace di sputarle addosso. Era furiosa, triste e amareggiata insieme, ma a Nieve questo non doveva importare poi molto.
Non si rese conto di quanto volesse coprire lo spazio di quei pochi passi finché non li ebbe compiuti. Le guardò il volto, il capo reclinato sullo schienale e l’espressione beffarda dipinta in viso. Provava persino tenerezza nel ripercorrere con la vista i lineamenti smagriti dei suoi zigomi pronunciati, di quel naso che - nonostante tutto - anche adesso le dava l’impressione di essere quello di un folletto delle fiabe babbane; le labbra appena schiuse in quell’espressione di sfida, il marchio delle sue ultime parole ancora impresso sulla carne rosa. Su tutto questo, però, vedeva l’ombra del suo passato e quella più oscura del presente: di tutte le cose che Casey le aveva riferito, di quello che aveva già patito e sceglieva, adesso, di soffrire. Le scavava un vuoto dentro, fatto di quelle piccole abitudini quotidiane tra loro che s’infrangevano come cristalli fragili, il suono acuto della loro amicizia andata in pezzi. E non era nemmeno soltanto questo. Era Nieve ad aver sbriciolato se stessa, in parti tanto minuscole e insignificanti ai più da non voler essere raccolta e rimessa in sesto. Era quel pezzo della scacchiera che non sarebbe più tornato intero. Le mancava il cuore e, quindi, la vita.
«Se… se potessi lo farei.» sussurrò, accorgendosi solo in quel momento di aver rilasciato le dita - dapprima strette in un pugno - e di averle protese verso il bracciolo della poltrona là dove la sua mano scheletrica e diafana se ne stava appoggiata con grazia, la fotografia in bilico tra indice e medio. Un equilibrio precario per la dimostrazione passata di un rapporto ora destinato a finire al tappeto.
«Forse…»
Forse che cosa? La stava guardando con l’aria di chi prenda coscienza di un insetto inutile, pronta a schiacciarlo e a mettere fine alle sue sofferenze; il disgusto, quasi, a fare da contorno. Scosse il capo allora, certa che Nieve sapesse che cosa stava per proporle. Torna con me e resta.
Ritratta la mano con lentezza, passò le dita tra i capelli, lasciando che il palmo prendesse tutto lo spazio della sua fronte, adesso calda. Il caminetto illuminava la sua figura, ma c’era solo il buio dentro e fuori di lei.
«Il tuo corpo esiste.» disse alla fine, stringendosi nelle braccia e riprendendo la strada verso la porta «Fai pure a pugni con chi desideri, drogati e sfinisciti. Renditi irriconoscibile se vuoi.» strinse le labbra per non lasciarsi andare alla supplica che avrebbe voluto aggiungere, rischiando di contraddire se stessa, e deglutì prima di terminare la frase «Io so che sei lì da qualche parte. Forse, dopo tutto il dolore sarai pronta ad emergere di nuovo. Cercami quando e se lo farai. Io non ti dimentico. Non posso.»
Con un movimento svelto si allungò sul tavolo, afferrò l’anello e lo infilò al dito dov’era sempre stato. Aveva odiato ogni singolo giorno in cui quell’oggetto aveva smesso di legarla a Nieve, ma non avrebbe mai davvero potuto odiarla per essersi lasciata andare. Poteva essere arrabbiata e lo sarebbe stata per un po’, ma non avrebbe smesso di volerle bene.
«Sei mia sorella, anche se sei un’imbecille di prima categoria. E ti amo per questo. Perché ti ho scelto come tu hai scelto me. Al di là del sangue e del corpo che hai deciso di distruggere.» Trattenne il fiato, lo imprigionò nel petto e lasciò che la pressione nel torace fosse la spinta che le sarebbe servita per prendere la via d’uscita.
«Sono arrabbiata con te per questo. Da morire.» rilasciò il respiro, lo fece scorrere sulle labbra con straziante lentezza percependo in esso tutto il dolore che provava dentro «E forse non parleremo mai più come oggi, qui.» si aspettava una reazione a quel punto, ma Nieve sarebbe stata capace di restare in silenzio, come se niente fosse. Ora lo sapeva.
«Voglio che ritorni. Per favore.»
Le era sfuggito. Ci aveva provato a trattenerlo, a non lasciarsi andare alla preghiera, ma alla fine era di questo che si parlava, o no? Non era per questo, forse, che le aveva chiesto di trovarsi lì quel pomeriggio? Suscitare in lei un'emozione, una qualunque, per accertarsi che fosse davvero lì - se non nello spirito - almeno nel corpo?


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È finita. Avrebbe dovuto esserlo. L’epilogo era sancito dalle mie parole, dai passi fermi che conducevano Thalia verso la porta, dai gesti di abbandono verso i cimeli di un’amicizia iniziata e finita sotto una stella il cui umore è mutato nel corso degli anni. Poi, con l’abilità del narratore che sorprende i suoi lettori incrociando a maglia la trama di un libro, Thalia modifica le regole del gioco ed esplode in scintille infuocate che superano per calore i ciocchi ardenti del camino.
Sollevo lo sguardo dall’istantanea e lo poso su di lei, i lineamenti ora incapaci di nascondere la sorpresa. Schiudo le labbra, intanto che accolgo il ruscello insidioso delle sue parole colpire le parti di me lasciate scoperte nella convinzione che non necessitassero di protezione.
Il suo amore mi travolge, spogliandosi delle vestigia della rabbia che pure non smette di sobbollire sotto la superficie. Sono tanti i sentimenti che la agitano, gli stessi che deve aver covato negli anni trascorsi ad aspettarmi: preoccupazione, mancanza, agitazione, frustrazione, affetto, deprecazione, ira, paura, addirittura terrore. Sopra ogni cosa, sento il bene che non riesce a fare a meno di volermi.
Un leggero pizzicore sale agli occhi, trasformandosi presto in luccichio. Oltre il velo del candore, sono le mie emozioni adesso mescolarsi, calde, quelle che soltanto un amore tanto grande —dopo un vuoto altrettanto immenso— avrebbe potuto smuovere dalla letargia. È un attimo di pura beatitudine nel quale mi illudo di poter tornare indietro; da lei, per davvero. Nel quale mi lascio cullare dall’illusione che esista una sola, fragile possibilità di recuperare il sorriso della fanciulla immortalata tra le quattro pareti di una polaroid in movimento. Poi, l’immagine del cadavere di Astaroth, affiancato a quello di Thalia, congela la scena. Il piacere si trasforma in tremore.
Scatto in piedi, spaventata. Il tepore rubato alle fiamme rende la fermezza delle mie gambe e dei miei collegamenti neurali sufficiente a reggere il mio peso senza che io sprofondi negli abissi dell’incoscienza. Annuso l’odore del pericolo, ferroso e gelido, insinuarsi nella stanza e sussurrarmi promesse di morte. Allora, scenari nitidi di distruzione fanno capolino oltre l’uscio schiuso dall’affetto di Thalia per ricordarmi la ragione del mio allontanamento. E la porta si chiude, la serratura scatta e la mia espressione recupera l’indifferenza studiata che la salverà da me.
«Vorrei» le confesso perché la verità è il solo dono che riesca a concederle. «Vorrei tornare, ma non posso». Un rivolo di sconforto mi attraversa il petto. So di star voltando le spalle alla sola opportunità di guarigione che mi sia rimasta; che non esiste nessun altro sulla faccia della terra in grado di riportarmi indietro. A un tempo, la preziosità di Thalia rappresenta il motivo per cui devo proteggerla ad ogni costo. «So che pensi che non sia mio compito, che non spetti a me prendere questa decisione, ma non posso metterti in pericolo. Preferisco saperti viva e lontana da me, piuttosto che al mio fianco e preoccuparmi che tu faccia la stessa fine di Ỳma e…»» Mi blocco. Pronunciare il Suo nome porta con sé uno strazio che non riesco ancora a sopportare. «Crederai che io sia irrazionale, sciocca, fuori di senno e probabilmente avresti ragione».
Chino il capo, raccogliendo stralci del recente passato, di ciò che ho fatto e di quel che mi è accaduto: gli ambienti e le persone che ho frequentato, il modo in cui ho venduto il mio corpo per una fiala di psilocibina, i danni al Ministero per il desiderio di uccidere Grimilde. Thalia non sa, non può sapere e non può essere coinvolta. La Nieve che ha conosciuto e amato… Forse ha ragione a credere che non esista più e non possa essere recuperata. Forse, aggrapparsi a questo pensiero le sarà più utile che aspettare un mio ritorno.
«Ma tu non hai idea!» Riporto le iridi di bianco puntellate nelle sue. «Ed è un bene che tu non ce l’abbia perché inorridiresti. Preferisco che conservi di me i ricordi che ci hanno legato e che tu non conosca mai la persona che sono diventata, perché non saprei più come percorrere all’incontrario la via che mi ha portato dove sono ora. Perché morirei di fronte al tuo disprezzo».
La voce è ferma e risuona nella stanza sicura. Vorrei correrle incontro, stringerla tra le braccia, sentire il calore del suo corpo e l’esasperazione che sta provando condensarsi in un unico sospiro. Respirare il suo profumo, riparare lo strappo che non posso permettermi di ricucire, non se la voglio al sicuro.
É drammatico sapere che, nonostante il suo sforzo e nonostante i miei desideri, il solo epilogo previsto per la nostra storia porti il peso dell’infelicità. Usciremo da questa stanza con la certezza di esserci abbandonate senza volerlo, entrambe aggrappate alla rabbia per sopravvivere al dolore della separazione. Io testardamente focalizzata sul tuo disinteresse verso la morte di Astaroth, tu probabilmente incredula di fronte alla mia scelta di lasciarci andare.
Mi avvio verso la porta prima che le ultime forze mi abbandonino, scossa da un tremore interno che minaccia di inghiottire quel po’ di raziocinio rimasto a rendermi un essere umano. Poggio la mano sul pomello, non oso incrociare di nuovo il suo sguardo.
«Odiami».

Supplice, arranco oltre l’uscio e mi nascondo tra i corridoi.
La mia stanza, il porto sicuro dove mi lascio crollare —svenuta— con una fiala vuota tra le dita.

©Mistake (layout e codice) ©petrichor. (codice)
 
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view post Posted on 19/2/2023, 19:02
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You can take the darkness out of the man, but you can't force him to step into the light.

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I n f u s i o n e

Era finita.
Non c’era spazio per il dubbio o la costernazione: tutto ciò che c’era di buono era andato perduto, non le restava che prenderne atto, partendo dal silenzio nel quale l’Ufficio era piombato improvvisamente.
Al netto dello scoppiettio del fuoco nel caminetto, al netto del martellare incessante del cuore nel petto e nelle orecchie, a dispetto dello spiacevole suono prodotto dai denti stretti… niente era comparabile al senso di vuoto e sconfitta che portava dentro.
Era rimasta sola con le vestigia della loro amicizia e le osservava tutte, dall’anello infilato all’indice alla scacchiera di cristallo sul tavolo, sperando che la risposta alla domanda che non osava pronunciare ad alta voce si rivelasse prima o dopo diversa dalla precedente.
E adesso?
E’ finita.


Strinse i pugni e s’irrigidì completamente, a stento riuscendo a comprendere quanto stava avvenendo in lei: le mancava il respiro e al contempo ne aveva a sufficienza per espirare a fondo, la sensazione che qualcosa di enorme e forte le stesse restringendo le pareti attorno al corpo, occludendo ogni possibile movimento. Sentiva la gravità attirarla al pavimento, come se quell’unico punto sulla terra potesse accogliere la sua figura accettandola, come se quanto c’era fuori da quella porta lasciata spalancata non valesse la pena di essere esplorato.
Fissava lo spazio che Nieve aveva occupato, il cuoio logoro della poltrona che ancora ricalcava la forma della sua figura dal peso leggero, ma presente; sentiva le guance inumidirsi senza controllo, la vista appannata e la voglia di urlare impigliata nella gola dal bisogno di mantenere il controllo.
La tensione dei muscoli insopportabile, il bisogno di respirare a pieni polmoni e il rischio di emettere un lamento così profondo e straziante da non potersi permettere di rilasciarlo. Se avesse dato sfogo all’emozione travolgente che la scuoteva adesso da capo a piedi si sarebbe sentita meglio, ma… non poteva. Piangere non avrebbe mai risolto nulla, su questo sua madre aveva ragione, completamente.
Se Nieve avesse udito quel lamento non sarebbe tornata sui suoi passi: se avesse capito quanto lacerante fosse stato per lei sentirla usare le stesse parole che lei aveva rivolto mentalmente a Mike - prima di capire quanto tutto ciò fosse stupido - avrebbe comunque preso la via d’uscita come unica salvezza possibile.
L’aveva aspettata per così tanto e non era servito a niente.
Crollò su se stessa come un castello di carte instabile stringendo il bordo del maglione con le dita e lasciando che fossero soltanto le lacrime a testimoniare la sua sofferenza; non voleva che nessuno la sentisse o la vedesse così, poiché sarebbe stato l’equivalente di una sconfitta pubblica. Le labbra distorte in una smorfia di puro dispiacere e il viso arrossato dal pianto mutavano i suoi lineamenti al punto da aver bisogno di ben più di qualche minuto per ricomporsi. Non riusciva ad emettere un solo suono, poiché nella sua testa riascoltava le ultime parole di Nieve.

Non seppe per quanto tempo fosse rimasta in quella posizione, con le gambe rannicchiate sotto il peso del suo corpo, ma la perdita di sensibilità agli arti inferiori fu una spinta sufficiente a riacquisire la giusta spinta, se non emotiva quantomeno fisica, per rialzarsi; barcollò singhiozzando, si asciugò le lacrime con il dorso delle mani e lanciò uno sguardo al soffitto come a cercare la quiete che sapeva non avrebbe ritrovato. Non subito, almeno.
Fuori dalla finestra solamente l’oscurità e capì che dovesse essere trascorsa almeno un’ora da quando era rimasta sola.
Un fremito fastidioso le percorreva la pelle da capo a piedi, come se una scarica di adrenalina fosse appena partita e avesse rianimato muscoli e cuore. Capì di non poter restare immobile, non più di quanto avesse già fatto.
In silenzio prese la scatola degli scacchi, li ripose uno ad uno al proprio posto, degnandoli di uno sguardo distratto ciascuno. Richiuso il coperchio della scacchiera fu tentata di riporvi anche l’anello, ma non se ne liberò. Strinse, invece, la scacchiera chiusa al petto, come avrebbe fatto un bambino col suo giocattolo più caro, e imboccò l’uscita dell’Ufficio senza guardarsi indietro.
Non le avrebbe fatto la cortesia di assecondarla, odiandola, ma si sarebbe riservata il diritto di piangerla, elaborando la sua perdita come un lutto.


© Thalia | harrypotter.it

 
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