Don't you feel powerless living in
other people's worlds?
Oltre le cascate, il vento è in confusione. Avanza, sospira, trema – è un plotone d'esecuzione, d'aria gelida e gocce di tempesta. Eppure, mi dico, la giornata è limpida: il sole è un oltraggio al presente, il grido di un cielo che conosce armonia e che, a sua volta infedele e codardo, cela una tela d'ombra. Ho come l'impressione di arrestarmi – il volto granitico, l'incarnato pallido, il velo di una smorfia che veste l'illusione infranta dell'ultimo sorriso. D'altronde, penso, non è poi una novità. Scendere a compromessi con me stesso è stato il tassello vincolante per partecipare a questa gita. Non posso negare di aver desiderato, nel profondo, un momento di pace – l'idea di vincere lo scacco con il mio tempo, di godere semplicemente un cambio di rotta. Quanto è durato, tuttavia, non mi sorprende. Tutto, in me, è condanna. Ho la presunzione di legare le mie parole alla scintilla d'esordio, a credere di essere stato io – soltanto io – ad appellare il dissapore che ci coinvolge. Scioccamente, ancora, accuso la voce, il cuore, infine la mente... è colpa vostra, vorrei gridare loro. Colpa vostra, non più mia. Anelo alla rabbia, d'un tratto, come un fiume in piena. Le mani tremano, insieme confuse e impossibilitate all'azione. Comprendo, invero, la reazione che mi attrae e respinge di pari modo: è nervosismo, perché ho il timore d'essere posto alle strette; eppure... è soprattutto patimento, perché sento di essere – per voi – invisibile.
Talvolta, infatti, è come se fossi un'altra persona ai vostri occhi. O forse, penso, agli occhi di tutti. Oliver Brior, la patina d'oro di una vita di successi. Cassetti traboccanti di spille e di targhette di spicco, boccette di memoria di chi non accetta la resa. Ma... è caotico, in me, il disegno del tempo. Porta con sé domande di cui, oramai, conosco la risposta. E trascina – nel visibilio dei miei anni più giovani – il passo costante della Morte.
Credete che io sia impeccabile, penso. Credete che sia il cavaliere tutto d'un pezzo, l'eroe di una fiaba che è destinata al lieto fine. E... mi delude, mi travolge la percezione di essere questo, semplicemente questo, perfino per voi. Io, che ho pedinato la decadenza dei mondi. Io, che ho vissuto l'angoscia di chi anticipa, inerme, ogni trapasso. Io, che ho visto amore, amicizia, ogni affetto estirparsi alla mercé del tempo. Dimenticate, vorrei urlare. Dimenticate i mesi che ho trascorso in infermeria, e in ospedale, e in letti di cui ho tuttora spavento. Dimenticate la solitudine che mi ha sconvolto e che ora, a malincuore, torna, torna, torna in eterno. Sei più intelligente di così – il modo in cui pesti la spilla che io, io per primo ti ho donato – so che sia dolore – che vuoi morire – hai nutrito passione, io, io, io... Voci, le vostre, che mi tormentano. Mutano in spoglie demoniache, si nutrono del sonno che ho relegato altrove. Vi prego. Vi scongiuro. Pietà.
Poco dietro, l'Alato percepisce la mia inquietudine. Il vento si rende amaro per entrambi, le ali brillano candide nel brivido che le percuote. Raccolte al busto, indietreggia di pochi passi – non si lascia carezzare da nessuno, non più. Attende un ordine, il nitrito più simile al ringhio. Ira è tempesta, lo sono anch'io. Ma è tempesta che argina la pioggia, è tempesta che bagna la terra, e la carezza. Il vento, in noi, è un arcano che muta consistenza – il mio cuore, infatti, è triste. La verità è disarmante.
«No, Cas.» Ho seguito Nieve andare via, senza dire una parola. A te, Casey, rivolgo il mio tono spezzato. La mia voce ha il richiamo dell'acqua piovana, è culla dolce di sentimenti più grandi di me. Cosa provo, chiedo perfino a me stesso. Forse è tensione, rabbia, dispiacere? No, è un connubio che non distinguo. Mi abbasso appena, raccolgo la spilla da Vice-Capitano che Nieve ha appena abbandonato. Questa scena – rapida, in evoluzione – è l'emblema del mio sentire. Carezzo la spilla, pulendone la superficie da terra, polvere ed erba. Questa, penso, è la testimonianza del fallimento: né il Quidditch, né il mio passato, né le mie parole concluse. Il modo in cui ci separiamo, è questo che mi annienta.
«Non mi sento morire, non sono mai stato così lucido.» Ed è vero. Così com'è vero quanto detto dal Caposcuola. Per me, infatti, il Quidditch è sempre stato passione, è stato gioco. Una parte di me, però, ha oramai compreso che non sia mai stato competizione: il Quidditch mi ha tolto troppo, nel tempo. Tengo per me l'idea di voler ritirarmi perfino dall'intera squadra, è un pensiero affrettato. Stringo le spille, tutte e due, finché ti cerco.
Ti sorrido, Casey. Ti sorrido timidamente: forse perché ti chiedo perdono, forse perché ascolto la tua ultima battuta, forse... perché voglio che sia questa, di me, l'immagine presente. Le visioni, incastrate in palpebra, mi guidano via, via da te, via da noi. Ma non ho paura, non è sconfitta. La mia mente è in confusione, di nuovo. Lo sono i miei pensieri, lo sono i miei sentimenti. Ogni mia reazione, oggi, è pericolosa. Mi lascio portare ovunque tu voglia, Cas. Quanto mi comunichi riguardo Nieve mi opprime – la schiena s'inclina, il volto pure. Il tempo, d'un tratto, è infranto. Cosa è accaduto, mi chiedo. Cosa ci ha portato all'eclissi d'ogni bellezza? Ho il cuore che batte convulsamente, le gote sferzate. Quello che mi dici è troppo grande, è una rivelazione che non afferro pienamente. Forse, mi dico, non voglio. Non voglio farlo. Mi manca il respiro, mi scoppia la testa. Dove ho sbagliato, mi incolpo. Ira, Ira, Ira.
Oliver. Sento il tremito della terra – Ira calpesta, impaziente. Harvey aveva ragione, è un legame – questo – che non posso più sottovalutare. Chiudo gli occhi, la maschera del volto è spezzata: sono affranto, ora è facile scoprirlo. Alla fine, rido, avevate ragione: Oliver Brior cede, cede sotto gli occhi di tutti. Mi abbandono all'oblio, riapro gli occhi.
Ti cerco le mani, Casey. Vi lascio le spille, entrambe. Tutto, in me, ti chiede misericordia.
«Risolveremo tutto, Cas. Risolveremo tutto.» Ti sorrido, mentre tremo.
Vorrei stringerti a me, e portarti indietro. Vorrei svelarti il passato – è l'unico porto sicuro che resta. Deglutisco, chiedendoti indirettamente di occuparti degli altri. Mi allontano di poco, in avanti. Lascio l'impressione di voler disperdermi, a mia volta. Eppure, mi giro indietro verso te... come a voler dire di non perderti, di tornare. Il passo, subito dopo, muta in corsa. Dietro di me, l'Alato è in tensione: ha le orecchie sollevate, il muso verso l'alto. Scalcia via il fascio di carote, solleva una zolla di terra.
«Nieve, fermati.» La mia voce, ora, è una maledizione. Sferza l'aria, è rabbia, rabbia, rabbia. Devasta l'ordine, intreccia, intrappola, sviscera il tempo. Indugio nell'orrore del momento, nell'idea di poter attingere ai sortilegi oscuri. Cos'è che fai, Oliver? Corro.
Potresti colpirmi. Potresti respingermi. Potresti sfruttare la magia, la forza fisica, la lingua violenta. Tu, che hai creduto d'essere sola. Tu, che credi tuttora d'essere sola. Chi sono io, ora, per ordinarti di fermarti? Chi sono io per dire di aver seguito i tuoi passi, di averti cercata? Non l'ho fatto, è vero. Ho ripagato tutti voi, affetti lontani, della stessa moneta che ho ricevuto: l'abbandono, la solitudine, la diffidenza. Ma è il silenzio, per me, ad aver condannato tutto. E il Quidditch. Che ha separato entrambi una volta, che separa entrambi anche ora. Non lo farà di nuovo, è questo che ti sussurrerò.
«Cazzo, fermati.» Ti stringo. Ti avvolgo.
Le mie braccia sono una trappola. Sei in gabbia, Nieve.
Potresti essere lontana, potresti aver bloccato anche me. Se così fosse, io riproverei. Ovunque, costantemente – sono qui, ti grido. E prima o poi, senza fretta, ti stringerò a me. Le mie mani, lacci d'antitesi, strideranno nella presa cui le costringerò – dita verso dita, l'intreccio di carne e di rabbia, di carne e di dolore, di carne e di affetto. Perché io...
«Io sono qui.» Colpisci. Distruggi. Annienta.
Ho la schiera dei demoni, dentro di me.
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