Out of the ordinary

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view post Posted on 2/4/2023, 19:04
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Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts

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Le giornate avevano iniziato ad allungarsi, sebbene la stagione fosse ancora ben lontana dal lasciarsi alle spalle il clima rigido dell’inverno. Mi stava benissimo così; non aspettavo la primavera con particolare entusiasmo e per una folta lista di motivi. Primo fra tutti: il torneo di quidditch. La finale si faceva ogni giorno più vicina e, in tutta onestà, non attendevo con particolare entusiasmo quel tipo di pressione. Poi veniva il fastidio per le giornate di sole cocente, le allergie, la vicinanza agli esami… Finché avessi potuto, avrei continuato a godere del freddo. Era decisamente più facile da gestire, oltretutto: bastava una buona giacca. La mia era piuttosto confortevole, di jeans e imbottita del tipo di lana che riscalda senza dare prurito. Mi piaceva indossarla, anche quando ci sentivo sopra l’olezzo di quel qualsiasi cosa fosse con cui Sinister si era fissato nell’ultimo periodo. Aveva ripreso i suoi esperimenti nel retrobottega e, che fosse una mia impressione o davvero quel puzzo impregnava ogni superficie nel raggio di dieci metri, mi rimaneva per ore nelle narici l’esito dei suoi loschi affari. Forse, per altri, non era poi così male… Mi ricordava il sapore del gelato alla fragola. E c’erano davvero persone che trovavano quel gusto piacevole; in maniera evidente, non ero tra quelle. Quale pozione potesse avere un simile odore non mi era dato saperlo, ma nemmeno ci tenevo troppo a scoprirlo. Conoscendo il soggetto da cui derivava, ero abbastanza sicuro che il ‘profumo’ dolce servisse a ingannare.
Quando uscii dal negozio, nonostante l’aria fredda mi penetrasse nelle ossa dalla giacca aperta, la tenni così nella speranza che il vento potesse portare via la fragola che prepotentemente continuava a irritarmi l’olfatto. Starnutii almeno tre volte nel breve tragitto fino a Diagon Alley e, di certo, non per colpa dell’aria gelida. Mi piaceva, il freddo, sicuramente più del caldo e non sentivo mai l’esigenza di vestirmi troppo per porvi rimedio. Anzi, nel tenere la mente impegnata con quei discorsi noiosi sulle temperature rigide, mi venne voglia di qualcosa da bere che rimarcasse il concetto.
Approfittai del fatto che nel tardo pomeriggio non c’erano quasi mai ragazzini chiassosi da Florian e, dopo un’occhiata di sicurezza al suo interno, varcai le soglie del locale. L’odore di tè, latte e cacao investì le mie narici facendomi quasi rimpiangere quello del gelato alla fragola. Forse avevo un olfatto troppo sviluppato o, semplicemente, anche ai miei sensi - come a tutto il resto che mi riguardava - piaceva rompermi i coglioni per minuzie a cui nessuno prestava così tanta attenzione.
Dribblai un paio di clienti. Tenevo le mani nella tasca della giacca e i gomiti larghi con lo scopo di ampliare il mio spazio personale, ma fui costretto a stringerli quando mi avvicinai al bancone. Tutta la gente che, piacevolmente, non avevo visto seduta a occupare tavoli, si trovava, spiacevolmente, tutta lì. Ero stato disattento.

Milkshake alla menta. Senza panna, per favore. – ordinai, quando uno dei garzoni mi rivolse attenzione. Parlai con abitudine; a dirla tutta, avevo preso quello stesso ordine quasi ogni giorno negli ultimi mesi. Ma mentre pronunciai le parole - sempre perché ogni fibra del mio essere lavorava per rendermi nervoso e indispettito ogni volta che capitava l’occasione - le mie orecchie captarono il suono di una voce familiare al mio fianco. Mi voltai per istinto, apparteneva a una ragazza slanciata, con lunghi capelli rossi e il profilo definito.
La Caposcuola Tassorosso. La fidanzata di Mike.
Non proprio l’ultima degli stronzi e, comunque, continuavo a dimenticare come cazzo si chiamasse.

Ciao...? – avrei detto, se avessi incontrato il suo sguardo in quel frangente di curiosità che mi aveva fatto sostare più del necessario a mettere a fuoco i suoi connotati. In tono più alto, come fosse una domanda, per via dell’incertezza. Insomma, in situazioni di circostanza ci si salutava quantomeno per educazione, giusto? E che ricordassi come si chiamasse o no, comunque la conoscevo per via dei suoi ruoli, per cui… L'avrei salutata, nonostante l'espressione di totale indifferenza sul mio viso.


Edited by Draven. - 5/5/2023, 13:39
 
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view post Posted on 13/4/2023, 17:38
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Non mi piaceva sprecare il tempo in futili questioni ordinarie. L'attesa al bancone di Florian, ad esempio, riusciva a urtare i miei nervi già tesi, come se non fosse già abbastanza difficile aver trovato la forza e il coraggio di finire quella giornata a Diagon Alley. Non avevo idea del perché ci fossi venuta proprio quel giorno, ma forse la spinta vera e propria mi era stata data dai discorsi farneticanti di mia sorella sui buoni propositi e le questioni irrisolte. Solo Morgana sapeva quante ne avessi delle une e delle altre!
Fiona, che Merlino l'avesse in gloria, aveva quel modo tutto suo di affrontare la vita, come se tutto fosse in equilibrio precario su un filo sottile e lei dovesse mantenere ben tesi i due capi dell'esistenza stessa, bilanciando dare e avere, così come bene e male. Non le invidiavo certo tutto quel male di vivere e mi ero risolta a credere che fosse la sua natura di Grifondoro - coraggiosa e leale fino alla morte - a costringerla a quell'esercizio, mentale e spirituale, del tutto avvilente. Non avevo dubbi che mia madre ci avesse messo del suo nel darle una precoce infarinatura in merito.
Dal canto mio, non ero e non sarei mai stata per la pacata accettazione delle cose perché così doveva essere: certi dogmi andavano estirpati alla radice e, se proprio non potevo farci niente, almeno potevo cercare di sovvertire gli esiti. Se da bambina un divieto mi aveva imposto di andare in un certo luogo o fare certe cose, mi ingegnavo con solerzia degna di questo nome e, naturalmente, a mio discapito. Crescendo avevo imparato che certe lotte me le sarei potuta risparmiare ed altre, invece, avrei faticato a lasciarle perdere; quel tardo pomeriggio, mentre stringevo in una mano i volantini che avevo trovato su appartamenti da acquistare o affittare fuori Diagon Alley, avevo imparato un’altra lezione: non avevo idea di che cosa significasse davvero diventare un'adulta autosufficiente in un mondo popolato da gente ben più strana di me.
Da qualche minuto tamburellavo indice e medio sul bancone, indicando al garzone di turno la mia pazienza agli sgoccioli: ad una richiesta di una signora attempata, vestita a somiglianza di una bomboniera, il responsabile del banco si era diretto a rotta di collo in magazzino, seguito dal collega che - però - era poi tornato quasi immediatamente. Forse una delle torte aveva preso vita e si era mangiato vivo solo il primo dei due, pensai. Peccato fosse lui l'unico predestinato a soddisfare ogni mi richiesta: tutto pur di placare la mia fame chimica. Sì, perché non era solo la ricerca di una casa ad avermi fatta sconfinare sino a Londra. Dovevo incontrare qualcuno e non sapevo ancora se ne avevo davvero l’intenzione. Questo pensiero, ovviamente, mi innervosiva. Non ero mai stata impreparata in nulla: nessun incontro era mai troppo spontaneo, perché nella mia testa dirigevo le conversazioni come un maestro farebbe con la sua orchestra, bacchettando il musicista impenitente di turno riportandolo con autorità sulla giusta strada. Eppure, quella persona era stata capace di farmi vacillare in momenti in cui avevo un discorso pronto, azioni già decise in precedenza e - oltretutto - sentimenti ben definiti in merito alle faccende che ci riguardavano. Ero sicura di essere tornata in me, la vecchia me - la maniaca del controllo -, ma dopo l’ultimo incontro non ero più così certa delle mie capacità manipolatorie.
Così, più tamburellavo veloce, più l'anziana strega mi guardava male e quasi godevo del fastidio che parevo procurarle - disagio nullo, rispetto all'attesa che la sua richiesta aveva sortito sui miei programmi ben definiti, ritardandoli - sorridendo cortese, continuando i miei esercizi di ritmica imperterrita e irrispettosa come di rado ero stata.

Quando il garzone ebbe la decenza di tornare, smisi seduta stante il mio atto di rumorosa ribellione. Dopotutto la prossima in attesa ero io. Nessuno mi avrebbe privato della gioia di addentare un muffin o di assaporare una fetta del mio dolce preferito. Il fatto che tutto quel tempo non mi avesse aiutata a decidere che cosa volessi davvero era sintomo di una ben più che chiara situazione di disagio interiore.
Stavo per aprir bocca quando una voce accanto a me ordinò un milkshake alla menta, con altre due richieste ben precise che mi avevano fatto capire non solo che quella giornata era stata segnata, di nuovo, da un mio ritardo di reazione, ma anche che chi si era avventurato da Florian aveva le idee certamente più chiare delle mie. Ben mi stava a perder tempo su inutili elucubrazioni riguardo la metafisica della vita e le relazioni interpersonali.
«Per me una fetta di Red Velvet e un tè ai frutti rossi. Grazie. » intervenni immediatamente, senza badare troppo a chi mi aveva sconsideratamente preceduta. Il mio sguardo veleggiava tra gli opuscoli nella mano sinistra ai movimenti del garzone davanti a me.
Avevo ordinato il solito, in sostanza. Non c'era occasione in cui non mancassi di ordinare sempre lo stesso set: la mia torta preferita, memore di un periodo non proprio idilliaco della mia infanzia, e la bevanda capace di calmare - per assurdo - i miei nervi sollecitati.
Non avrei dovuto fingere sorpresa per il fatto che il tutto si fosse svolto in modo veloce e quasi meccanico, ma la verità era che aspettavo la fine della giornata per vedere una persona che - ancora una volta - mi chiedevo se, e in quale misura, volessi incontrare. Non che avessi scelta. Prima o dopo avrei dovuto strappare il cerotto, quindi meglio farlo subito. Anche questo era uno dei miei sacri dogmi.

Il saluto incerto che richiamò la mia attenzione, facendomi voltare il capo a sinistra, cancellò immediatamente tutti i miei progetti. Non perché Draven Shaw fosse oggetto del mio particolare interesse, ma per la ragione ignota secondo la quale una divinità sconosciuta doveva avergli picchiettato un indice fastidioso sulla spalla e sussurrato all'orecchio di rivolgermi la parola. Povera anima, non sapeva di avermi trovata nello stato peggiore che gli potesse mai capitare.

Dal falò in cui ci eravamo incontrati, scambiando forse due parole in croce, ne era passata di acqua sotto ai ponti: un'estate intera, l'inizio di un nuovo anno, una cerimonia di Natale e il Torneo Crownspoon. Nei corridoi nemmeno un accenno di saluto - se c'era stato non me lo ricordavo - e comunque ero troppo impegnata a risolvere i miei conflitti da potermi occupare di altro che non fosse, egoisticamente, me stessa. Sapevo chi era - Prefetto e collega stretto di Mike -, chi frequentava per sentito dire e tanto mi bastava. Non ci avrei messo una croce sopra per amore del suo Caposcuola che di lui pareva essere abbastanza fiero.
«Ciao» risposi, dando spazio alla sorpresa piuttosto sincera di trovarlo lì senza però esagerare «La tua schiena come sta?»
Era un colpo basso, lo confesso, ma a mio discapito dovevo ammettere che la curiosità c'era e la preoccupazione pure. Non ero totalmente un'insensibile di fronte al male altrui e, dopotutto, la Grenger sapeva andarci giù davvero pesante con quei Bolidi. Mi ricordava l’altra Mary, la Corvonero che mi aveva lussato una spalla per amore dello sport preferito di noi maghi. Vedere Shaw in quello stato mi era perfino dispiaciuto, sul momento, e immaginavo che qualcuno sugli spalti si fosse sperticato in insulti verso la nostra difesa come pegno per tanta vigliaccheria. Che avessimo perso quella partita era tutto un altro paio di maniche.
«Vedo che la Grenger non ha fatto troppi danni… sono contenta.»
Appoggiai i volantini sul bancone per trovare il sacchettino con i Galeoni nella borsetta di pelle nera a tracolla. Dovetti sfilarla e appoggiare sul bancone anche quella per trovare il fuggiasco e solo allora ricordai di non averlo, ma di aver sapientemente nascosto monete e un miscuglio di Falci e Zellini nelle tasche della giacca di pelle. Trovato il necessario lo deposi soddisfatta sul bancone, con un sorriso ben più felice stampato in volto di quanto si potesse immaginare.


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I suoni e gli odori che riempivano l’aria nel locale mi avevano investito di prepotenza già al mio arrivo, ma ero entrato lì con la consapevolezza di dover resistere qualche minuto a quella tortura, era un’inevitabile conseguenza del vivere in una società fatta di altri esseri umani. Il vero problema fu l’attesa al bancone: nettamente più snervante. C’era chi tamburellava le dita sul lucido legno, chi si spostava da un lato all’altro per osservare le leccornie in vetrina, chi passando mi aveva inavvertitamente urtato, chi gridava ordini e richieste, chi spostava gli sgabelli facendoli stridere sul pavimento senza alcuna educazione, chi sbuffava spazientito. Per quanto la mia concentrazione si fissò sui garzoni iperattivi con l’intento di attirare la loro attenzione, chiedere il mio milkshake e scappare via a gambe levate, comunque non riuscii a isolare tutto quel chiasso. Ciliegina sulla torta: la presenza di una persona conosciuta. Nell’intento di focalizzarmi sul mio ordine, non riuscii a ignorare la sua voce di fianco a me. Fosse stato chiunque altro, probabilmente avrei finto di non vederlo… Ma si trattava della ragazza di Mike. Una Caposcuola, per giunta! Pensai che salutarla fosse doveroso. Ero stronzo, ma educato.
Me ne pentii immediatamente.
Innanzitutto perché, quando incontrai il suo sguardo, mi parve sinceramente sorpresa del mio saluto, segno che non mi avesse notato e che se non le avessi rivolto la parola io per primo non si sarebbe accorta della mia presenza, rendendo inutile e controproducente la mia azione. Secondo poi, perché la sua frecciatina prevedeva una risposta da parte mia che avrebbe potuto condurre a una conversazione che non avevo voglia di avere. Chissà per quanto si era tenuta dentro l’impulso di volermi sfottere per la bolidata. Chissà perché la divertiva ed era di suo interesse.

Mi ha preso sul costato, non così forte come dev’essere sembrato. - replicai, sollevando le spalle con aria indifferente.
Quella bolidata era, in qualche modo, rimasta impressa a tutti nonostante durante il torneo fossero state diverse le vittime colpite dalla palla ferrata. Quanta importanza mi dava la gente per ricordare cose su di me che a malapena ricordavo io stesso?!
Ero caduto dalla scopa per mia disattenzione, non per la forza con cui ero stato colpito. Avevo sottovalutato le mie ansie… Non avevo tenuto in considerazione l’incognita di giocare sotto lo sguardo di mille e più persone. Al pensiero di come mi ero sentito osservato da tutta quella gente sugli spalti rabbrividii; pensando di conseguenza che presto mi sarei trovato di nuovo in quella condizione, per via della finale, mi venne la nausea.
Mi piaceva il quidditch. Mike e Vagnard ritenevano che avessi anche un acerbo talento che poteva portarmi a migliorare. Ero resiliente, nonostante la pigrizia, e non avevo mai avuto problemi in allenamento. Per citare il mio Caposcuola: ero bravo quando mi impegnavo.
Nessuno aveva notato la differenza in campo. Avevo coperto la disattenzione con l’apatia, l’ansia con la noia. Nessuno aveva messo in discussione la mia incapacità di giocare bene quanto in allenamento. Draven è pigro, insofferente, disinteressato; tutto nella norma se decide di non inseguire la pluffa. Invece no, cazzo. Avrei voluto inseguirle e pararle tutte. Avevo iniziato il torneo con l’intento di primeggiare, ne uscivo con un complesso d’inferiorità derivante dall’ansia sociale.
Strinsi le mani a pugno, ancora nascoste nelle tasche della giacca. Il nervosismo mi infiammò le viscere, ne percepii il familiare calore all’altezza del petto, ma l’espressione sul mio viso rimase totalmente impassibile.
Mi accorsi di aver continuato a fissare la ragazza; anche quando la vidi maneggiare con le monete non distolsi lo sguardo dal suo viso.
Non mi sembrò per nulla contenta, quanto piuttosto ironica, al suono delle sue parole seguenti. Con un pizzico di perfidia.
Non che pensassi di starle simpatico, insomma, non sto simpatico a nessuno, credo. Ma ebbi come l’impressione che le avrebbe fatto sinceramente piacere vedermi ferito; ero abbastanza sicuro di non averle mai concesso abbastanza rilevanza da portarla a volermi male così.

Non sembri sinceramente contenta, ma grazie per l’inopportuno interesse nei confronti della mia salute. - risposi, il tono di voce calmo, come se le avessi commentato il colore del sua giacca tanto per fare conversazione. Non c'era astio da parte mia, avevo solo la pessima abitudine di esprimere ad alta voce ciò che pensavo con le persone che mi mettevano a disagio e sì: lei mi metteva a disagio.
Uno dei tanti controsensi del mio essere mi portava a parlare molto, molto meno con le persone con cui ero a mio agio. Una sorta di meccanismo di difesa, attaccare quando mi sentivo colpito e restarmene in disparte, silenzioso, quando mi sentivo tranquillo.
Distolsi lo sguardo da lei per rivolgerlo al garzone che mi porse il milkshake. Posai i galeoni sul bancone, bofonchiai un "grazie" a labbra strette e mi voltai con tutta l'intenzione di andarmene da lì.
Quella manciata di minuti d'attesa mi aveva deconcentrato dal tenere d'occhio il locale. Mi ritrovai una muraglia di persone pressate l'una contro l'altra ed esitai.
Quando cazzo era arrivata tutta quella gente?!
Rimasi immobile.
Con la coda degli occhi osservai i movimenti della Caposcuola. Pensai che la mia unica possibilità di uscire da lì senza avere un attacco di panico dipendesse, probabilmente, da lei: seguirla nello spazio che avrebbe generato tra un "permesso" e una spallata per far spostare quelle persone con cui non avevo alcuna intenzione di interagire.
Merda.


Edited by Draven. - 5/5/2023, 13:40
 
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Parlare con le persone non era mai semplice: il dialogo non si limitava davvero soltanto alle parole, ma si esplicitava soprattutto attraverso quelle sfumature che il carattere e le espressioni dell'interlocutore riuscivano a trasmettere. Il messaggero era sempre parte del messaggio e, per quanto mi riguardava, non avevo mai avuto problemi a far trasparire chiaramente quello che pensavo in quanto andavo dicendo.
Non ero subdola, ma schietta con quella maniera - spesso fastidiosa - di chi voglia essere rispettoso senza cedere nulla in fatto di opinioni. Sapevo essere maliziosa e pungente quando lo desideravo, ma capitava di tanto tanto un momento di difficoltà palese nel quale, volente o meno, non riuscivo proprio a celare i miei sentimenti e le emozioni che, altrettanto chiaramente, mi si leggevano in volto. Tolte rare eccezioni, sapevo anche mentire con una discreta abilità: se non ne fossi stata capace non avrei saputo nascondere tanto bene la verità che mi circondava alle persone a cui più ero legata, oltre a mascherare le mie fragilità perfino a me stessa. Eppure, nonostante fossi tanto brava - e avevo bisogno di esserlo - non avevo considerato che, una volta tanto, le mie lusinghe potessero mostrare una beffa, persino laddove io stessa non l'avevo del tutto intesa. Ne vidi l'effetto negli occhi di Shaw: l'esito delle mie parole, simili ad una presa in giro, che si scontrava con l'orgoglio del Serpeverde senza farlo vacillare o scalfirlo in minima parte. Era un ragazzo tenace, non avrebbe potuto essere altrimenti - realizzai - poiché servivano fegato e buona stima di sé per sopravvivere sotto l'egida di Vagnard Von Kraus.
Mi chiedevo se Mike lo avesse consolato a modo suo, fraternamente, nonostante il ruolo che copriva. Non era tipico del mio ragazzo fare sfuriate infervorate per una partita di Quidditch che poteva rischiare di andar perduta. Sapeva il fatto suo in materia, ma non esagerava mai nel commentare determinati momenti ed azioni di gioco: Mike era l'espressione in carne ed ossa del fair play e forse era proprio questo ad avermi attratta sin dall'inizio; il fatto che agli stessi stimoli rispondessimo con reazioni diverse e complementari, così che l'unione di intenti e strategie portasse comunque ad un esito positivo, risparmiandomi la fatica di dover fingere atteggiamenti che non fossero propriamente miei.

Mi chiedevo, quindi, se la reazione di Shaw fosse dovuta all'offesa che pensava di aver subìto o se, al contrario, tutto ciò evocasse in lui lo spettro e la memoria spiacevole di una reprimenda del suo Capitano.
Avrei voluto dirgli che mi aveva fraintesa, che non aveva capito quanto fossi empatica per quanto gli era accaduto, ma la verità era che non volevo giustificarmi affatto. Shaw poteva pensare di me quello che voleva. Se credermi una stronza poteva farlo sentire meglio, allora speravo che ciò lo soddisfacesse pienamente.
La vista degli annunci mi costrinse a constatare quanto le nostre vite fossero diverse in quel momento e quanto lo sarebbero state in futuro. Avevo già un piede fuori Hogwarts, eppure tutta la mia vita era ancora lì, comprensiva di drammi adolescenziali, stupide rivalità senza fondamento e quotidianità pedante.
Sospirai ringraziando il garzone ed indossando la mia tracolla; raccolsi tutto ciò che mi apparteneva con le mani libere, cercando un posticino appartato dove accoccolarmi in santa pace. Con la coda dell'occhio vidi un tavolino in disparte, snobbato dalla ressa che si accalcava piano piano nel locale; sembravano tutti preda di una crisi d'astinenza da zucchero, ma io sarei stata soddisfatta prima di tutti gli altri. Richiamai l’attenzione del cameriere, indicandogli dove avevo intenzione di sedermi - così che mi trovasse più facilmente - e feci per avviarmi, salvo fermarmi quasi immediatamente.

Non avevo sviluppato una sensibilità talmente sottile e definita da farmi percepire il disagio altrui senza dovergli posare lo sguardo addosso, ma la figura alta e dinoccolata di Shaw era impossibile da ignorare. Specialmente se, nonostante le sue silenziose maniere, la sua espressione gridava - letteralmente - di essere salvato dalla frotta di avventori dell’ultima ora.
Strinsi le labbra in una smorfia divertita, avendo premura questa volta di voltare velocemente il capo dalla parte opposta alla sua così che non vedesse quanto quella scenetta mi divertisse nel profondo. Esistevano esseri umani incapaci di avere a che fare con i loro simili, tanto che l’imbarazzo li pietrificava all’istante. Shaw non poteva saperlo, ma quelle visioni mi procuravano un immediato divertimento, sostituito altrettanto velocemente da quello che - ormai lo avevo compreso - era puro istinto di sopravvivenza pronto ad essere dispensato al più disperato dei miei simili. Sovente allungavo la mano a chi ne avesse bisogno - probabilmente era questo ad avermi trascinata nelle fila di Tosca Tassorosso - e non riuscivo proprio a farne a meno. Era viscerale il bisogno che mi spingeva a cercare di capire l’altro, far sì - talvolta - che il meccanismo avvenisse anche al contrario e porgere una parola di conforto laddove fosse più necessario.
In pratica, convivevano in me due nature discordanti: l’una pronta al sacrificio di sé, l’altra al sacrificio altrui. Probabilmente sarei finita per implodere, ma non mi sembrava questo il momento migliore per farlo.

«Di qua, Shaw.» gli mormorai, accompagnando alle parole un cenno del capo. Mi sarei diretta al tavolino scelto in ogni caso, ma mi sembrava doveroso dargli a intendere che - qualora avesse voluto uscire indenne dal locale - l’attesa nello stesso punto in cui consideravo di stazionare sarebbe stata la sua unica opzione. Quindi, senza degnarlo ulteriormente di uno sguardo, cominciai a farmi largo, facendomi strada nel modo più opportuno e senza fretta. Ero curiosa: Shaw mi avrebbe seguita o avrebbe continuato la sua posa inorridita al bancone?


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Era apparsa evidentemente affascinante, per gli interlocutori lì in ascolto, la storia di come il gatto della signora in fila aveva avuto una colite da biscotti gufici e del suo rapace che si era rifiutato di portare le sue lettere per giorni perché non riceveva ricompense, ma lei non poteva uscire a comprare altri biscotti perché doveva tenere d’occhio il gatto. Quando mi volsi, pronto ad allontanarmi da loro e dalla Caposcuola, nessuno, ma proprio nessuno, aveva accennato a fingere anche solo un passo pur di allontanarsi da quella piaga; anzi, la piccola folla che si era raccolta intorno alla narratrice, intorno a me, sembrava quasi volerne sapere di più. Non mi interessava se la gente di Diagon Alley trovava piacere nell’intrattenersi in fila in una caffetteria chiacchierando del più e del meno, semplicemente non volevo esserne coinvolto. Per un lungo istante, ebbi l’impressione di avere addosso gli occhi della signora, come a voler attirare l’attenzione di quell’unica persona nei suoi pressi che non mostrava alcun interesse per il suo aneddoto. Ebbi la lungimiranza di ignorarla, per evitare di offendere lei e la sua cricca chiacchierina senza alcun ritegno. Davvero, non me ne fregava niente di come la gente passasse il suo tempo. Volevo solo andare via da lì senza attirare più attenzione di quanta ne sentii in quel breve frangente. Lo sguardo di sbieco rivolto alla Caposcuola doveva aver avuto l’effetto di una tacita richiesta d’aiuto, perché la sentii chiamarmi subito dopo e direzionarmi verso la salvezza, come uno spartiacque per non lasciarmi affogare.
La seguii. Ovviamente. Che altro mai avrei potuto fare, se le opzioni erano restare lì incastrato nel panico senza una via d'uscita o mostrare a una sconosciuta a cui non credevo nemmeno di piacere la mia più grande fobia? Non era comunque qualcosa che riuscivo a nascondere con particolare capacità, anzi: ero piuttosto sicuro che su di me si sapesse per certo che non mi piacevano le persone, tantomeno starci in mezzo. Quella dell’ansia sociale non era un tipo di ansia da prestazione, non riguardava le aspettative o la possibilità di rendersi ridicolo in pubblico; o almeno, la mia non era così, non aveva a che fare con umiliazione o imbarazzo. Stare in mezzo alle persone mi ha sempre fatto sentire troppo. Tutto. Troppi suoni, troppi odori, troppo tatto, troppo da vedere e percepire tutto insieme. È qualcosa di soverchiante, per me ingestibile. Il mio corpo reagisce di conseguenza e, in base alla gravità del contesto, può decidere di sua spontanea volontà di arrestare le sue normali funzioni, dalla semplice capacità motoria a quella di respirare. L'istinto di sopravvivenza mi ha portato, col tempo, a decidere che una personalità scontrosa come la mia torna utile per stare in disparte e isolato.
Azzardai uno sguardo verso l’ingresso; le persone continuavano a entrare a fiotti. Mi ritrovai seduto al tavolo scelto dalla Caposcuola ancora prima che qualcuno potesse darle conferma di poterci mettere lì, perché capii nell’immediato istante che attraversare tutto quel flusso di gente per uscire non era al momento un’opzione da poter prendere in considerazione, per i motivi di cui sopra.
Riuscii a mantenere la testa alta e lo sguardo fiero solo grazie a quel mio strano meccanismo di difesa che ci teneva troppo a farmi apparire spavaldo e arrogante se la situazione, o qualcuno, mi metteva a disagio. E, cazzo, se ero a disagio. Non solo perché mi era stata ostruita l’unica via di fuga, ma perché mi trovavo in compagnia della ragazza di Mike. Strinsi il bicchiere del milkshake tra le dita, in risposta a un improvviso moto di nervosismo… Se qualcuno ci avesse visti e pensato male?

Non era mia intenzione interferire con i tuoi piani. Volevo solo salutarti, per mera educazione, e andarmene per i caz… per i fatti miei. – esordii, abbassando lo sguardo per dare una sorsata al milkshake. Il sapore fresco e aromatico della menta sembrò alleviare il senso di oppressione che aveva avvolto la gola e il petto negli istanti precedenti. Presi un altro lungo sorso e, quando rialzai lo sguardo sul viso della ragazza, rimasi con le labbra ancorate alla cannuccia, il diversivo perfetto per evitare di dover parlare ulteriormente.


Edited by Draven. - 5/5/2023, 13:42
 
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Scostai la sedia con la sicurezza di volermi accaparrare il posto che desideravo: spalle al muro e una visione completa dello spazio attorno a noi. Fu così che mi accorsi che, dopotutto, Draven Shaw mi aveva seguita come immaginavo avrebbe fatto. Non reagii alla cosa con determinate espressioni, giacché avevo compreso abbastanza bene quanto ci fosse bisogno, almeno con lui, di una sorta di periodo di adattamento: non aveva idea di chi fossi al di fuori del mio ruolo e della scuola che frequentavamo, era ovvio avesse interpretato male le mie parole di poco prima ed era mio preciso compito, se me l’avesse permesso, di spiegargli come la pensavo realmente sui Bolidi e gli scontri in volo.
Mi accomodai rilassando finalmente le spalle, sfregando lentamente i palmi sui jeans per tutta la lunghezza della coscia: cominciavo ad accusare il fastidio di una giornata passata in piedi in giro per la capitale, visitando appartamenti angusti e loft che non potevo decisamente permettermi, con vicini che viaggiavano soltanto sui mezzi pubblici per questioni economiche ed altri che - al contrario - potevano addirittura concedersi il lusso di avere un autista.
Sospirai, ricordando i volti che avevo incrociato sulle rampe di scale, lungo le vie affollate e quelle meno frequentate, mentre lo sguardo ripercorreva le minuscole scritte degli annunci a cui mi ero affidata nella ricerca. Shaw aveva detto qualcosa circa il non voler interferire coi miei piani e abbozzai un sorriso che voleva essere gentile, questa volta, e meno sarcastico.
«Non preoccuparti, puoi restare quanto vuoi. Se ti va.» dissi, il tono leggero e spigliato di chi non si sente affatto in imbarazzo a parlare con qualcuno conosciuto solamente di vista «Non ho particolare fretta e non sto nemmeno scalpitando per uscire da qui. Quello che mi aspetta dopo non è così piacevole.»
Stavo parlando troppo e lo sapevo, ma non potevo farci nulla. Anzi, non volevo farci niente: avevo bisogno di esprimere a parole l’inquietudine che mi scuoteva le viscere al pensiero di quello che - davvero - ero venuta a fare a Londra quella sera. L’unica certezza era che la notte l’avrei passata ad Hogwarts, come tutti gli altri studenti. Era la mia via di fuga, la mia scusa per sparire in uno schiocco secco quando la situazione si fosse fatta davvero insostenibile. E qualcosa mi diceva che - in quanto a percezioni - non dovevo essere una Veggente per sapere quanto l’impressione avuta fosse vera.
Sperai che Shaw non avesse colto dalla mia espressione nulla di tutto questo: il mio turbamento doveva restare mio e mio soltanto, ma l’aver concesso alle parole di trovare spazio - incuriosendo il mio inconsapevole interlocutore - era qualcosa che, forse, non mi sarei perdonata tanto facilmente.
Stavo cercando di lavorare su me stessa in quel senso: niente bugie, qualche segreto senza esagerare e onestà prima di tutto con me stessa. Era una strada lunga, in questo tornare con Mike era stato un banco di prova vero e proprio, ma non significava che ogni occasione disponibile si sarebbe dovuta rivelare il momento perfetto per rompere le scatole alle persone che mi stavano intorno.
«A giudicare dalla fila sarò accontentata e non dovrò sgomitare per uscire da qui almeno per una buona mezz’ora» aggiunsi quasi subito, volgendo lo sguardo al bancone e incrociando la figura del cameriere che, coraggioso, reggeva un vassoio con la mia ordinazione. Così tornai a degnare Shaw di tutta la mia attenzione, nonostante fosse evidente quanto quella nuova dinamica mettesse a disagio il Serpeverde. Non volevo fingermi più forte di quanto fossi in realtà: la situazione era strana anche per me, se non altro perché in tutti quei mesi di pace ritrovata avevo sperato di trascorrere un pomeriggio in santa pace da Florian con Mike e non, come invece stava accadendo, con il suo Prefetto.
«Grazie.» mormorai al cameriere che, superata la calca, era riuscito a consegnarmi indenne la mia fetta di torta e il mio té. Avvolsi la tazza di ceramica con le dita, beandomi del calore e assaporando il primo sorso; il profumo mi faceva impazzire, ma cercai di tenere a freno l’entusiasmo, nonostante continuassi ad inspirare silenziosamente e con le palpebre serrate l’aroma di frutti rossi. Aspettavo con ansia il momento in cui Draven si sarebbe defilato con una scusa banale pur di non restare con me in quel luogo così soffocante ed affollato. Eppure, d’altro canto, ero curiosa circa la motivazione reale che l’aveva spinto a sedersi al mio tavolo. C’era qualcosa nei suoi gesti che mi comunicava tensione e nervosismo, ma era talmente impercettibile mascherato com’era dal muro che si era creato tutt’intorno, da farmi desiderare di poterlo abbattere. Il muro, ovviamente.


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Il sapore fresco della menta aveva alleviato il bruciore alla gola e la pressione nel petto, quelli che sapevo riconoscere come i primi segnali di un attacco di panico in piena regola. Evitavo i luoghi affollati perché ero consapevole delle reazioni che mi procuravano. Ero accorto nel restare sempre nei margini della mia tolleranza, ma non mi era passata per la testa la possibilità di ritrovarmi così accerchiato in una semplice caffetteria. Sì, certo, era una delle più rinomate e apprezzate di Diagon Alley ed era molto frequentata, di questo ero a conoscenza, lo avevo già notato iniziando a frequentarla, però entravo, prendevo il mio milkshake e uscivo sempre senza problemi. Lo avevo fatto per tutto l’inverno, quasi ogni giorno; una simile folla non era prevedibile, semplicemente perché mai, a quell’ora, mi era capitato di vederla, tantomeno di ritrovarmici immischiato. Lanciando un’altra occhiata di traverso in direzione dell’entrata, pensai che dovesse essere stato pubblicizzato un nuovo prodotto o che fosse in procinto di iniziare una festa… A quest’ultima ipotesi, rabbrividii. Scrollai le spalle e mi spinsi indietro col torace per appoggiarmi allo schienale della sedia. Stare lì seduto, circondato da una tale mole di esseri umani, non era il massimo ma perlomeno il tavolino scelto dalla Caposcuola consentiva di tenermi a debita distanza da tutti loro e di mantenere un briciolo di spazio personale. Fermo restando che stare lì di fronte a lei non era comunque il massimo, solo un esito meno peggiore viste le circostanze. Non ero una creature socievole.
Parlare lo ritenevo sfiancante. In generale, mi richiedeva un impegno che di rado avevo voglia di esprimere. E quella non era una circostanza in cui mi sentivo invogliato ad affrontare una conversazione; oltre a non avere un cazzo da dire, c’era anche il fatto che fossi completamente inetto nell’affrontare argomenti di circostanza.
Mi limitai ad ascoltarla. Picchiettai distrattamente le dita intorno al freddo bicchiere del milkshake sperando, così, di riuscire a mantenere alta la concentrazione sulle sue parole. Il disinteresse mi portava alla facile distrazione e per uno che aveva appena dato credito alla propria educazione sarebbe risultato quantomeno inappropriato non ascoltarla… Ma non sapevo che dire. Percepii un altro brivido di puro terrore alla sua previsione di restare lì per un’altra mezz’ora; per una frazione di secondo sgranai gli occhi, senza riuscire a contenermi, ma tornai immediatamente impassibile. Che cazzo avrei fatto per mezz’ora lì dentro? Con lei?! Dovevo parlare? Che cosa mai avrei potuto dire?
Presi un altro sorso dal milshake. Qualche altro secondo per ragionare, un modo come un altro per temporeggiare.
Posai lo sguardo sul suo ordine: un pezzo di torta rosso e bianco, un tè ai frutti rossi. Odiavo l’odore dei frutti rossi, la dolcezza dell’aroma mi dava la nausea, nonostante fossi un grande amante di mirtilli e lamponi. Tenni vicino alle labbra il milkshake, concentrando l’olfatto sulla menta.
Un’altra occhiata all’ingresso mi confermò che non potevo ancora scappare e non riuscii a trattenere un sospiro, praticamente sbuffando.
Solitamente, nemmeno i silenzi più imbarazzanti erano in grado di spingermi a parlare; anzi, quasi ci trovavo gusto a nutrirmi del disagio che ne scaturiva. Doveva essere colpa del tarlo che continuava a ricordarmi che non ero seduto al tavolo con una persona qualunque a farmi ritenere che non avessi creato un silenzio piacevole. Era piuttosto snervante, a dire il vero.
Schiusi le labbra e mi affidai all'istinto.

Non ti ho mai vista fumare. Perché alla pira mi chiedesti una sigaretta?


Edited by Draven. - 5/5/2023, 13:43
 
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Con l'arrivo della stagione primaverile, il mondo magico aveva aperto i battenti al turismo: stregoni, adulti, bambini, di tanto in tanto megere e giganti di passaggio, un troll qui e un elfo domestico lì, tutti preferivano abbandonare le stanze chiuse per una boccata d'aria fresca. Se poi si aggiungeva l'occasione di festività – per uno spettacolo all'aperto, una giornata d'acquisti o semplicemente un caffè in compagnia – il dado, allora, era ben più che tratto. Si assisteva così da giorni, infatti, ad un'autentica sfilata – colori variopinti, di concittadini e visitatori all'occorrenza. Florian Fortebraccio, poi, non era da meno: la fortunata predisposizione del locale al turismo era conosciutissima, in parte perché si trattava di un café in una zona visibilissima della cittadella, in parte perché nel tempo aveva guadagnato la fama di sito storico (non propriamente storico, ma di gran lunga tappa fondamentale a Diagon Alley). Non guastava che Fortebraccio, il proprietario, fosse un omaccione affabile, con il sorrisetto sempre pronto e con l'espressione gioviale di chi conosce e apprezza profondamente il proprio mestiere. C'era un vecchio detto, tra i dintorni: ricevere una coppetta di gelato in omaggio da Florian in persona significava aver vissuto pienamente l'esperienza magica – di studenti alle prime armi o, perché no, di vecchi maghi e streghe più in là con gli anni. I clienti erano in estasi, in una cornice pittoresca come quella. Pasticcini stregati, di crema e di frutta, volteggiavano costantemente tra vassoi e bicchieri, tazzine di caffè e di tè, latte freddo, caldo, al caramello e al peperoncino (nota curiosa: il gusto preferito dei folletti, così girava voce). L'alta stagione era appena iniziata e già c'era da impazzire: i clienti abituali, invero, spedivano raffiche di lettere via gufo, nella vana speranza di riservare un tavolino per un momento di riposo, di spensieratezza o, come spesso accadeva, per vari festeggiamenti. Diventava impossibile, di recente, accontentare tutti – la strillettera di un'anziana donna continuava a stracciarsi da sé, minacciando di non tornare più e di essere stata trattata terribilmente dopo tutte le torte di compleanno acquistate da voi! Jacob, alle prese con più richieste del solito, sentiva d'impazzire da un momento all'altro. La strillettera era l'ultimo dei suoi problemi, il cicaleccio delle voci dispersive sovrastava fortunatamente di netto le grida offese della mittente. Ad ogni modo, c'era un'altra vecchiaccia che gli stava facendo saltare i nervi. Da più minuti al bancone, la strega aveva cambiato ordine con una tenacia che faceva pensare d'essere... calcolato, a mo' di presa per i fondelli. Dapprima un caffè, poi un milkshake, poi un tè freddo, poi uno bollente ma non troppo. Jacob, alla fine, aveva rifilato la problematica al collega, adocchiando invece un volto familiare subito dopo. Non conosceva il suo nome, eppure ricordava la visita frequente del ragazzo, così come la sua ordinazione preferita. Milkshake alla menta.
«Senza panna, arriva subito» concluse quasi all'unisono con l'altro. Non impiegò molto, grato di aver beccato perlomeno un cliente sicuro di sé. Vi aggiunse, poco dopo, un paio di cookie alla menta, tutti in un sacchetto di carta che accostò al bicchiere grande. Con un galeone di pagamento, passò a malincuore al resto della fila. La vecchietta, per giunta, non s'era ancora risolta nella sua ordinazione, Jacob poté soltanto trattenere le peggiori imprecazioni e scoccare un'occhiata di comprensione (oltre che di scusa) verso la Caposcuola Tassorosso. Anche lei era un volto conosciuto, da quelle parti. Una fetta di red velvet, un tè ai frutti di bosco: risultò rapidissimo, in parte condizionato dalla tensione in atto, in parte per interesse tutto personale. Sul piattino della fetta di torta disegnò il saluto xoxo, in glassa rossa. Portò tutto alla ragazza, chiese i dieci falci in totale e le scoccò un sorrisetto con tanto di occhiolino. Un attimo tutto per sé, prima di scoprire d'essere tuttora alle prese con la vecchia maledetta.


Draven
Milkshake alla menta (1G)

Thalia
Fetta red velvet (5 F)
Tè freddo (5 F)

Aggiornati. Se desiderate altro, battete un colpo.
xoxo, Jacob

 
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view post Posted on 5/5/2023, 17:14
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Il silenzio, avevo imparato col tempo, raccontava molte più storie di tante parole; grandi o piccole che fossero, il tacere di fronte ad una situazione qualunque favoriva sempre l'emergere di tutta una serie di sfumature caratteriali. Ansia ed eccitazione, paura e felicità mal nascoste da labbra leggermente curvate all'insù, sopracciglia corrugate o gesti presumibilmente involontari. Che fosse per la mia capacità di entrare in contatto con la sfera empatica dell'essere umano, avendo accesso alle sensazioni e ricordi più reconditi, o che il merito fosse da attribuire alla mia predisposizione forse naturale - o forse no - nell'uso degli incantesimi che avevano a che fare con la mente, avevo imparato presto a cogliere gli indicatori non verbali di ciò che non poteva essere espresso a parole, premurandomi di non cadere nella sciocca tentazione di cedere a gesti tipici del nervosismo. Ovviamente non ero stata in grado di domare del tutto quell'abitudine, ma volevo riuscirci. Faceva tutto parte del mio folle piano di crescita personale: mettere una distanza fisica e non tra me e gli altri, eludendola soltanto quando l'avessi deciso io stessa. In passato ero stata troppo aperta e disponibile ed avevo, come si suol dire, esposto il fianco. La lezione mi era stata dolorosamente chiara, impressa a fuoco nei miei ricordi così marcatamente da non poter più essere ignorata.

Di certo non mi aspettavo che Draven rievocasse il nostro incontro alla pira, la notte del Ballo di Fine Anno. Credevo avesse dimenticato quei pochi minuti di silenzio disagevole a favore di memorie più significative. Mi era rimasto impresso il suo silenzio, anche allora, così come l’espressione annoiata del suo volto - come se tutte le parole fossero nella sua testa e lì dovessero rimanere. Rammentai anche la corsa attraverso le pendici della collinetta, alla ricerca di chi - tra tutta la popolazione femminile di Hogwarts - lei non sopportava affatto.
Lo guardai negli occhi, dopo aver depositato la tazzina sul tavolo, cercando di capire a che cosa stesse pensando: i miei esercizi mentali di comprensione dell'altro erano frutto di una necessità atta a rafforzare un'arte magica - la Legilimanzia -, ma molto prima di scoprire la mia affinità con una simile pratica quello era semplicemente rimasto un gioco. Leggere le persone, conoscerle senza scambiare una parola e costruire la loro storia fondandola sui non detti. Era divertente, all'inizio, ma poi avevo scoperto e capito - con mio disappunto estremo - quanto questo non fosse davvero un gioco o un passatempo.

«A dire il vero? Non lo so.» feci spallucce, afferrando la forchetta da dessert per servirmi del primo boccone di torta «Non era un bel periodo, quello. Io… »

Mi faceva schifo quello che avevo vissuto in quel momento: mantenere un ruolo, due maschere intercambiabili a seconda dei miei scopi e far finta che tutto intorno a me non stesse andando in frantumi. Non potevo e non volevo raccontarlo a Shaw, ma non avevo scelta. Per certi versi avevo bisogno di gridare al mondo la mia insoddisfazione, l’impasse emotiva a cui ero sottoposta costantemente - tra il sapere che cosa dovevo fare e cosa mi sarebbe piaciuto, invece, non fare. Sapevo anche che dovevo concedere qualcosa se volevo superare indenne quella mezz'ora - o forse più - prima che la vera sfida della giornata cominciasse.
Era sempre così. Non riuscivo ad alzarmi il mattino senza dieci obiettivi aspettandomi di portarli tutti a compimento entro sera e, più questi erano difficili, più il cuore mi incalzava ad andare avanti.

«La scuola e le regole in generale iniziano a starmi strette, mettiamola così. Avevo voglia di sperimentare, ma sono troppo quadrata per uscire dagli schemi.»

Sorrisi, prima di concedermi finalmente il primo pezzetto di torta. Non era nulla di speciale, niente a che vedere con la Red che mia nonna preparava così bene da far invidia al miglior pasticcere, ma era mangiabile e mi aiutava a prendere tempo. Anche io ero curiosa di quello che Shaw aveva, o non aveva fatto, quella sera al Ballo. Inoltre, era un modo come un altro per temporeggiare e rimandare, se possibile, tutto quello che avrei dovuto fare dopo che la folla si fosse dispersa.
«E tu? Hai raggiunto Megan, quella sera?» mormorai a mezza voce, senza cenno di sorriso. All'epoca non avevo colto interamente il suo nome uscire a squarciagola dalle labbra di Draven, ma i fatti e qualche sporadica visione della Caposcuola Corvonero in sua compagnia mi avevano fornito i tasselli mancanti di un puzzle interessante. Incredibile che, tra tutte le persone, fosse proprio Draven a farmi a compagnia quel pomeriggio. Megan ed io non eravamo sulla stessa lunghezza d'onda e questa era la prova che, alla fine, il mondo fosse uno spazio decisamente troppo stretto.


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Girai la cannuccia nel bicchiere una, due, tre volte. Il milkshake stava iniziando a sciogliersi, segno che il tempo trascorso lì dentro era decisamente maggiore rispetto a quello ipotizzato. Presi un altro sorso; più limitato dei precedenti, perché se avessi svuotato il bicchiere mi sarei ritrovato senza nulla da fare. Un diversivo, una distrazione, qualsiasi cosa poteva essere utile per scaricare il nervosismo, anche un milkshake alla menta. L’esigenza di un introverso in una condizione di disagio.
Lo appoggiai sul tavolino che mi separava dalla Caposcuola, così da non avere la tentazione di finirlo. C’era troppa gente per poter chiedere un’altra ordinazione e uscirne illeso. C’era ancora troppa gente per poter andare via.
Mi tirai indietro sulla seduta, le spalle poggiate allo schienale e le braccia incrociate sul petto. Mi dissi che non era poi così male come situazione d’emergenza: perlomeno, la rossa non mi dava il classico fastidio che solitamente le persone erano in grado di suscitarmi dalla loro sola presenza ravvicinata. Forse perché l’associavo a Mike, forse perché avevo troppo rispetto delle regole della scuola per non provare reverenza nei confronti di un Caposcuola, forse perché non era logorroica o per via tutto questo tutto insieme; in ogni caso, qualsiasi fosse il motivo, pensai che occupare i silenzi avrebbe reso quell’attesa meno ingombrante.
Non ero il tipo da sentirne l’esigenza, tutt’altro! Il silenzio era mio fido compare, non provavo imbarazzo nel condividerlo con le persone e, anzi, se dall’interlocutore di turno ne percepivo l’accenno facevo di tutto pur di peggiorare la situazione e non parlare. Stavolta era diverso, in qualche modo. Lei mi aveva aiutato. Stavo condividendo con lei il tavolo in un bar affollato. Avrebbe potuto alzarsi e affrontare la calca umana senza tutti i problemi che, invece, mi ponevo io. Mi sembrò come in attesa di un qualcosa da parte mia. Per cui, schiusi le labbra e diedi voce al primo pensiero che mi balenò per la testa.
Da quando le avevo dato quella sigaretta davanti alla pira non avevo fatto altro che associare la sua figura a quell’evento. Non avevo una buona memoria, eppure mi era rimasta impressa la richiesta, l’esigenza che mi era sembrato di leggere nei suoi occhi di ricevere un diversivo, simile a quelli di cui mi servivo io stesso per rifuggire dall’ansia.
Le sue parole, per quanto vaghe, avvalorarono quel mio pensiero e colmarono la mia curiosità a riguardo. Aveva senso e mi ritrovai ad annuirle senza nemmeno rendermene conto. D’altronde, avevo preso il vizio iniziando in un modo simile, in un periodo strano e difficile. Ero stato un bravo bambino per molto tempo, nonostante le pressioni sociali dei ragazzi di quartiere più grandi di me. Poi ero arrivato a Hogwarts. Ogni volta che prendo tra le labbra una sigaretta, e lo faccio spesso nel corso di una sola giornata, ripenso sempre alla conversazione avuta con Casey il mio primo giorno di lavoro da Magie Sinister. Avevo paura della sola idea di dipendere da un qualcosa su cui non avrei avuto il minimo controllo. Chissà quando, e come, a un certo punto la necessità di sfogare i miei malesseri mentali ha superato quel timore così razionale, lucido e maturo, facendomi regredire a una condizione di iper-dipendenza che va ben oltre ciò di cui ho effettivamente bisogno.

Meglio così. È solo un dispendio di denaro e salute. Ci sono modi migliori per rompere gli schemi. – commentai, sollevando le spalle. Quasi sul punto di aggiungere, per tigna, che con quel suo gesto, però, mi aveva privato di una magnifica sigaretta speciale. Quella fatidica sera il mio tabacco era stato pervaso da piccoli petali e foglie di erbe dall’effetto benefico che non avrei mai più avuto.
Ripresi in mano il bicchiere e sorseggiai ciò che rimaneva del mio milkshake, quasi rischiando di strozzarmi al suono delle sue parole seguenti.
Riportando alla memoria la sequenza di eventi di quella sera, realizzai immediatamente di non aver fatto nulla per nascondere il mio gesto da principino che insegue la sua Cenerentola. Avevo gridato il nome di Megan per impedirle di andare via. Ero riuscito a fermarla, carico di speranza. Ero stato rifiutato e allontanato, per un appuntamento con Casey… Così mi aveva poi spiegato Megan, molti mesi dopo.
Non era un bel ricordo. Tutto quel cazzo di periodo non lo era.

No. Aveva altro da fare. Tornai in dormitorio. – mi limitai a rispondere, di nuovo sollevando le spalle con indifferenza.
Dovevo aver iniziato a farci l’abitudine al modo in cui, più o meno velatamente, le persone mi chiedevano di Megan o del nostro rapporto. Doveva sembrare terribilmente strano a tutti che una come lei stesse con uno come me. Per mesi era stato il mio chiodo fisso, la mia ansia più grande… Non essere alla sua altezza. Mi ci era voluto un po’ per ritrovare la ragione in quel mare di improvvisa insicurezza, ma alla fine avevo ricordato che non me ne fregava un cazzo dell’esistenza di altre persone in questo mondo: tantomeno del loro giudizio su di me. O su di noi. E le cose avevano preso una piega migliore.
 
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Ilsuo tono di voce non mi aiutava a decifrare i suoi sentimenti, mentre rievocava la sera in cui - apparentemente - Megan gli era sfuggita tra le dita.
La Corvonero sapeva farsi desiderare, questo glielo dovevo concedere: l’avevo trattata male, avevo cercato di espiare la mia colpa e lei, con estrema autorevolezza e rispetto verso se stessa, mi aveva negato quella possibilità di redenzione. Se Draven aveva fatto breccia, come credevo, nel suo cuore e l’aveva lasciato avvicinarsi tanto da poterla sfiorare con i gesti e le parole, allora doveva aver capito qualcosa che io, invece, avevo tralasciato.
Mi dispiaceva molto, però, che quella sera lui non avesse ricevuto da lei una risposta positiva.
Quante volte avevo usato la stessa scusa perché non mi interessava sprecare tempo prezioso? Quanto spesso avevo ignorato le persone davvero importanti per inseguire fuochi fatui?
Strinsi le labbra, dopo aver assaporato con la lingua il gusto lievemente acidulo della crema, sapendo che era per quella ragione che avevo lasciato andare Mike per la sua strada, salvo poi ritrovarlo.

«Meno male che poi ha capito…» mormorai, schiarendomi la voce e pulendo la bocca con il tovagliolino di carta. Megan non era una stupida, questo lo sapevo bene, e nonostante la differenza d’età tra me e Shaw, riuscivo a capire senza troppa difficoltà che cosa lei vedesse in lui. Sarei stata un’ipocrita se non avessi ammesso che, almeno esteticamente, Draven avesse un suo fascino e sapevo anche che dietro quello sguardo annoiato e a quell’indole introversa doveva spalancarsi un mondo ben diverso. Forse, quando lei era con lui, Shaw si dimostrava comprensivo e affettuoso, tenero perfino, all’eterna ricerca di un modo per scalfire la corazza della Corvonero. Se c’era riuscito davvero - e lo credevo - mi inchinavo alla sua bravura e tenacia. Domare il carattere di Megan non era semplice e, dopotutto, non si trattava nemmeno di questo: forse Draven l’accettava e la voleva proprio così com’era; non voleva cambiarla e quella era la vera conquista. Qualcosa che io non avevo capito alla sua età e mi pentivo di aver cercato di fare. Cambiare la carte in tavola e manipolare persone ed eventi non doveva essere così facile come invece era stato; mi pentivo di averci provato e di esserci riuscita nel peggiore dei modi, ma una parte di me era contenta di aver trovato la strada per poter rimediare.

Sospirai, sorridendo con leggerezza. Non volevo che pensasse di essere stato preso in giro con quel commento, ma non sapevo come fare per renderglielo palese.
«Comunque, non sono affari miei.» mi risolsi alla fine. Ed era vero, in fondo.
Avevo la sensazione che Shaw non mi avrebbe mai chiesto nulla di Mike, vuoi per il ruolo che il mio ragazzo ricopriva, vuoi per l’imbarazzo che sicuramente ci avrebbe colti entrambi nell’indagare troppo a fondo un rapporto con lui. Perdere la mia lingua tagliente in quell’ultimo periodo era stato un bene e non ero più davvero abituata a fare battutine con lo scopo di infastidire chi mi stava di fronte. In un certo senso, anche se avessi mantenuto quel brutto vizio, non avrei riservato a Shaw quel trattamento maleducato: era stato cortese, silenziosamente cortese, con me nell’unica occasione in cui ci eravamo parlati e, per quanto ne sapevo, poteva aver rotto con Megan proprio quella mattina. Non mi sembrava carino infierire in nessun caso: apprezzavo la mia privacy e contavo sul fatto che anche lui la pensasse allo stesso modo.
Mi allungai per controllare la situazione nel locale e fui disattesa nella speranza di poter uscire tanto presto dalla pasticceria-gelateria. Il cameriere sembrava indaffarato, le signore e i ragazzini si accalcavano al bancone con le mani tese verso l’alto per richiamare l’attenzione di chi avrebbe dovuto servirli e immaginavo che la baraonda sarebbe durata per tutto il tempo necessario a finire la mia consumazione. Guardai Draven con l’espressione scioccata e dispiaciuta insieme di chi si renda conto di essere rimasto bloccato in una situazione non pessima, ma nemmeno piacevolissima. Sperai che intedesse bene il messaggio subliminale: non sei tu a darmi noia, ma loro.
«Speravo di riuscire a sgraffignare qualche muffin e portarlo a Mike, ma non credo ne resterà qualcuno.» mormorai, appoggiandomi allo schienale con la mia aria più contrita. Era il mio modo per espiare la colpa - prima ancora di commetterla - di quello che avrei dovuto fare dopo essere uscita da Florian.
Un modo molto, molto vigliacco se dovevo proprio essere sincera con me stessa.


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Dal momento in cui avevo preso posto al tavolo con lei, era stato abbastanza istintivo costringermi a ignorare la folla intorno a noi. In qualche modo, la situazione non si era di certo volta a mio favore, ma perlomeno aveva svolto bene il ruolo da diversivo. Funzionò finché una parte di quel gruppo ammassato nel locale non si ritrovò spinto fino ai margini del nostro tavolo. A nulla servì, fingendo assoluta nonchalance, il mio tentativo di spostare la sedia più verso il vetro. La gente continuava a entrare senza che nessuno di quelli già dentro uscisse o erano sempre gli stessi che semplicemente prendevano più spazio? Mi sembrò di stare a un rave e, per ovvi motivi, a un rave non c’ero mai nemmeno stato. Alzai lo sguardo verso la schiena di un uomo che, per mia fortuna, non era così alto da stare contro la mia faccia all’altezza delle sue chiappe e azzardai l’ennesima occhiata oltre di lui, tutt’intorno. Evidentemente c’era una vagonata di turisti stipata là dentro o qualcosa del genere, ma nonostante la condizione del momento non sembrò delle migliori dalla mia postazione, in realtà nel resto del locale sembrava che stesse iniziando a sfollare.
Riportai lo sguardo davanti a me al suono delle parole seguenti della Caposcuola. Mi ritrovai d’impulso a inclinare la testa, con le sopracciglia aggrottate in un’espressione confusa. Mi ero distratto e avevo perso il filo del discorso; oppure lei sapeva più di quanto sapessi io riguardo l’atteggiamento di Megan di quella sera. Ad ogni modo, non dissi nulla e mi limitai semplicemente a ricambiare il suo sguardo. Il fatto che avessi acquisito sicurezza sul mio rapporto con Megan non significava che avessi piacere a condividerne le condizioni, passate o presenti che fossero, con una persona di base sconosciuta. Con chiunque, a dire il vero. Ciò che ci riguardava era solo nostro. Al massimo di Mike, quando gli capitava di sentirci dare la buonanotte attraverso gli specchi comunicanti. Non ne avevamo mai discusso apertamente; io facevo finta di niente, ero quasi convinto che nemmeno se ne accorgesse davvero e semplicemente avesse imparato a ignorarci. Ma forse, il che avrebbe dato un senso alla curiosità della ragazza lì davanti a me, le mie conversazioni notturne con Megan erano state motivo di conversazione tra i due Caposcuola.
Tanto, una volta uscito da lì, la prima cosa da fare sarebbe stata riferire a Mike di aver incontrato la sua rossa e dirgli dell’accaduto. Magari avrei potuto cogliere la palla al balzo per parlargli di quanto origliasse… Anche se, esposta così, non era una gran cosa. Al massimo, ero io che gli davo noia ad amoreggiare in sua presenza con Megan.
Distolsi lo sguardo dalla Tassorosso per voltarmi verso il bancone. Drizzando il busto, nonostante la calca di fronte a noi, potevo vedere almeno parte della vetrina grazie al fatto che le persone stessero iniziando a togliersi di mezzo. Dalla frenesia che notai tra i commessi, ebbi l’impressione che, vista la richiesta, stessero sudando sette camicie pur di accontentare tutti e nel minor tempo possibile. Tanto di cappello a loro e alla pazienza di cui disponevano.
Non ci capivo niente di dolci, non mi piacevano, ignoravo quali fossero i più buoni, i più comuni o i più richiesti. A Megan piacevano e una volta le avevo regalato dei biscotti, ma oltre al fatto che le piacessero i dolci a base di zucca non avevo capito altro. Mi sa che la zucca non era nemmeno più di stagione in quel periodo. Pensando se a Megan, come a Mike per la Caposcuola, avrebbe fatto piacere ritrovarsi con un muffin non chiesto, mi tornarono in mente le parole della compagna di mia madre. Durante il nostro viaggio a Barcellona durante le vacanze di Natale, un giorno aveva regalato dei fiori a mia madre, senza motivo. “Alle donne piacciono i pensieri spontanei”, mi aveva detto prima che mia madre si trovasse costretta a portarli via per evitare che io strozzassi nei miei starnuti per l’allergia a quei cosi.
Forse avrei fatto bene a portare un paio di dolci a Megan…

Continuano a riempire la vetrina. Che cosa gli prenderesti, nel caso? Non mi piacciono i dolci. Non saprei dire quali siano i più buoni. – commentai, in un’implicita richiesta d’aiuto celata da una semplice osservazione per via del suo cambio di discorso.
 
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Pensavo di essere migliore a dissimulare l’ansia che provavo. In genere tutto sembrava scivolarmi addosso, come se dopoutto niente mi importasse, ma la verità era ben diversa; mi importava sempre di tutto, finanche all’estremo, sfiorando l’assurdità. Prendevo a cuore le persone, le idee e perfino un estraneo come lo era Draven per me in quel momento. Non sapevo come mettere insieme i pezzi di una conversazione raffazzonata alla bell’e meglio, data dalla costrizione delle circostanze. Come si comunicava con qualcuno che in altre situazioni ti aveva ignorato o passivamente considerato alla pari di un suppellettile? Come si ammazzava il tempo? Non ero più abituata alle interazioni normali tra esseri umani e la disinvoltura l’avevo persa già da qualche tempo.
Dovevo apparirgli imbarazzata nella mia posizione a braccia conserte, totalmente abbandonata sullo schienale della sedia e lo sguardo basso, perso nei miei sciocchi pensieri. Draven non poteva saperlo, ma in quel momento al posto della vetrina razziata via via sempre più dagli avventori di Florian, vedevo l’immagine di chi avrei desiderato fosse seduto con me a quel tavolo: non ci eravamo mai concessi troppe frivolezze - io e Mike - concentrata com’ero a fare della mia vita un vero inferno in terra. Quando succedeva, quando cioè mi ero comportata da adolescente senza il peso del mondo sulle spalle, finivamo quasi sempre per restare in silenzio, dandomi l’impressione di non aver nulla in comune con lui, quando in realtà i punti d’incontro c’erano eccome.
Più guardavo la vetrina e più il senso di colpa mi attanagliava lo stomaco, facendomi stringere le braccia attorno al busto; avevo afferrato perfino la giacca e la stritolavo tra le dita, quasi fosse la cura di tutte le mie tribolazioni. Speravo che Draven non se ne rendesse conto, che lasciasse correre e che quel momento di impasse fisica ed emotiva non lo incuriosisse più di tanto. Ero tanto consapevole di offrire il fianco scoperto tanto quanto mi illudevo di essere in grado di nasconderlo. Pensare a lui, a chi dovevo incontrare dopo, e ricordarmi di chi, invece, mi faceva sentire bene senza troppa fatica… no, non potevo essere brava a mascherare anche questo.

«C-cosa?» ritornai alla realtà con un certo disorientamento, come se mi avessero strappata da un posto per posizionarmi altrove con la forza. La voce del Serpeverde mi aveva raggiunta a stento, ma era bastata a far crollare il muro di puro panico che ero andata a costruirmi nel più completo silenzio. Mi dolevano le mani - mi resi conto con stupore - e rilasciai la giacca flettendo le dita davanti a me. Guardai istupidita lo sguardo di Draven che - fortunatamente - era appena tornato ad incrociare il mio dopo aver ispezionato il bancone. Cercai di ricostruire la situazione da quanto potevo dedurre dei suoi movimenti, ma era come cercare di fare chiarezza dopo una sbronza colossale: inutile anche solo fingere di provarci.
«Scusa, mi sono distratta…» sorrisi impacciata, sapendo che a lui probabilmente non sarebbe importato e forse il discorso sarebbe naufragato, di nuovo «...pensavo a che cosa portargli stasera, ma vedo che la razzia è… compiuta.» gesticolai con la mano libera, tornata sensibile nuovamente, e l’espressione che mi dipinse il volto in quel momento fu di puro e semplice disappunto. Un paio di muffin, presumibilmente al lampone, se ne restavano con la loro glassa colorata in solitaria nell’angolo più lontano della vetrina e delle torte confezionate erano rimaste isolate sull’espositore poco più in là.
«C’è qualche ricorrenza che mi è sfuggita, per caso?» guardai alle persone tutt’intorno, alcune accomodate ai tavolini, altre in piedi alla cassa pronte a pagare ed altre ancora ammassate nel bel mezzo del locale ad esaminare i propri acquisti. Ero basita, a dir poco, per quella ressa immotivata.
«Detesto la gente.» mormorai senza rendermene conto e mai un pensiero sarebbe stato tanto lontano dalla mia indole solitamente accondiscente. Perfino l’esuberanza altrui aveva smesso di sorprendermi e infastidirmi, ma non era questo il caso: quell’assalto a Florian era immotivato, stupido e contrario ai miei programmi. Provavo l’impulso irrefrenabile di alzarmi e accaparrarmi quantomeno delle Cioccofarfalle, pensando che Mike le avrebbe apprezzate tanto quanto adorava le Cioccorane, ma non mi sembrava carino scaricare Draven così, su due piedi. In fondo, aveva sopportato i miei tentativi di conversazione pacifica in modo del tutto encomiabile. Il minimo che potevo fare era starlo a sentire.


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view post Posted on 9/6/2023, 18:30
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Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts

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Il via vai perpetuo di gente continuava a razziare il locale come fossimo sull’orlo di un Apocalisse, ma comunque mi sembrava ci fosse sempre meno folla, almeno rispetto all’attimo di panico vissuto a ridosso del bancone. Per un lungo momento, passato a osservare gli atteggiamenti di quelle persone, ipotizzai che il numero potesse essere sempre lo stesso e che mi ero solo abituato a esserne circondato nel tempo trascorso, più o meno pacatamente, seduto al tavolo; un po’ come quando ci si assuefà a un odore molto forte. In maniera analoga è plausibile che avessi finito con l’abituarmi a quella triste condizione, nonostante la mia incapacità di adattamento.
In ogni caso, da lì potevo vedere commessi e garzoni sgobbare e sudare sette camicie pur di soddisfare le varie richieste. Mi bastò sollevarmi un po’ con il busto, a far spazio alla vista tra quella fauna impaziente, per poter vedere muffin e dolcetti di varia natura volare da un capo all’altro del bancone: il cliente di turno prendeva la propria ordinazione e poi restava lì. Mi chiesi perché non si muovessero o perché con una tale fila sentissero l’esigenza di fare incetta di tutto ciò che Florian vendeva e, a quel punto, anche di più, ma mi interessai maggiormente all’idea di riuscire, se non quel giorno un altro, a prendere qualcosa da portare a Megan. Colmare la mia ignoranza dolciaria con il discorso che la Tassorosso aveva appena accennato e a cui io mi ero aggrappato come un funambolo in caduta libera pur di tenermi impegnato in qualcosa. Mi era sembrato un ottimo escamotage. Del milkshake era rimasto il ghiaccio e avevo subito trovato qualcos’altro su cui concentrarmi.
Ma mi chiese “cosa?” e il mio sguardo tornò a sondare le iridi grigio-azzurre della Tassorosso. Per un attimo pensai di essermi distratto a tal punto da essermi perso parte del discorso, considerazione che fu come un deja-vu, sicuro di essermi ritrovato più volte nel corso di quei minuti a pensarlo: la condizione era stata strana sin dal principio, non proprio delle più spontanee o di comfort, le conversazioni più o meno astratte e basate sul principio sociale della cordiale comunicazione a cui non sono mai stato particolarmente avvezzo. Ma mi chiese “cosa?” con un espressione di pura confusione, come fosse caduta dalle nuvole. Si era distratta, mi confermò pochi istanti dopo. E dalle nubi ci caddi io.
Avevo parlato a vuoto, pur avendo speso più parole per lei in quella circostanza che con tutti i Tassorosso messi insieme in quegli anni passati sullo stesso piano nella scuola.
Un sopracciglio mi si sollevò in un’espressione sorpresa. Di solito ero io quello che ignorava gli interlocutori. Essere dall’altra parte non mi piacque per niente; ammettere di aver permesso che accadesse donando la mia confidenza fu avvilente.
Mi sfuggì lo sbuffo di una risata e sentii le cicatrici sulle mie labbra tirarsi in un sorriso. Ero abbastanza sicuro che, come sempre accadeva, la manifestazione delle fossette sulle guance mi avessero addolcito l’espressione al punto da celare il velo di delusione dietro quel sorriso.

Probabilmente la gente detesta te. È il libero arbitrio che genera basse pretese. – mi ritrovai a risponderle, d’istinto, ignorando volutamente il suo tentativo di arrampicarsi sugli specchi del discorso precedente.
Scossi il bicchiere del milkshake per assicurarmi che fosse rimasto solo il fondo di ghiaccio e mi misi in piedi. Con uno sguardo decretai che all’incirca quattro metri mi distanziavano dall’ingresso del locale. Dovevo “solo” fingere che fosse una sfida, tipo essere in mezzo a una mischia per venirne fuori, anche se l’ultima volta che avevo giocato a rugby avevo avuto cinque o sei anni e non ero proprio specializzato nell’arte della spallata, anzi, trovavo la cosa repellente.
Rivolsi un ultimo sguardo alla ragazza di fronte a me, d’improvviso con un’espressione che definirei angelica per l’eco di quel vago sorriso degli istanti antecedenti.

Grazie di tutto. Meglio che vada ora. – dissi, soffermandomi qualche istante a fissarla negli occhi. Forse, semplicemente per imprimermi nella testa quell’esperienza o, forse, in attesa di un suo saluto di rimando, ammesso che si fosse accorta che me ne stavo andando.
 
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view post Posted on 15/6/2023, 22:01
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You can take the darkness out of the man, but you can't force him to step into the light.

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out of the ordinary

Scoprii, con non poco disappunto, che Draven Shaw era capace di mettermi in imbarazzo. Avevo vissuto la vita nella presunzione di essere io a spiazzare con la mia gentilezza - prima che l’esistenza stessa mi facesse cambiare profondamente - e poi con una forma di cinismo lontana anni luce da quella applicata dal Serpeverde seduto di fronte a me. Non eravamo anime affini, lo avevo percepito la prima volta e adesso la questione era diventata definitivamente chiara. Non poteva capire - e come avrebbe potuto? - il turbamento che provavo mentre i pensieri mi turbinavano nella testa, rincorrendosi a perdifiato in spirali folli. Non avevo mai preteso che lo capisse, in verità, ma non mi aspettavo si sarebbe stancato tanto facilmente della mia presenza, sciorinando la sua saggezza popolare sul libero arbitrio e l’odio tra esseri umani.
«Probabile.» concessi alla fine, appoggiandomi al tavolo con tutto il peso del mio corpo e aspettandomi che ripetesse quella che ero certa fosse stata una domanda.
Ancora una volta, però, Shaw si dimostrava imprevedibile e si preparava a piantarmi in asso, dopo che l’avevo salvato dalla stessa gente di cui si era tanto lamentato. Cominciai a capire, per quanto poco, perché lui e Megan fossero legati: schivi per natura o per necessità, entrambi avevano lo sguardo vuoto di chi non avesse nulla da perdere; eppur tuttavia, entrambi erano capaci di fulminarti con lo sguardo se avessi mai avuto l’ardire di contraddirli. Non conoscevo Shaw e forse non mi interessava approfondire la cosa, ma ero tentata di punzecchiarlo e di scatenare il putiferio in terra, soltanto per vedere che effetto gli avrebbe fatto. Volevo smuoverlo, scuoterlo, deconcentrare tutta la volontà che l’aveva spinto a mettersi in piedi e sistemarsi la giacca. Ci pensai e, per qualche secondo, godetti di quell’idea malsana.
Poi - mi resi conto - capii che non sarebbe valsa la pena sprecare il tempo di entrambi in quel modo. Mi sarebbe piaciuto, certo, tormentare Megan attraverso Shaw e viceversa, ma era un passatempo da ragazzini. E io ormai non lo ero più.
«Sei stato gentile a restare con me.» mormorai allora, provando a imbastire un sorriso e un dispiacere fittizio che, però, desideravo col cuore sembrasse reale. Mi ero distratta per un secondo, lui non me l’aveva perdonato e ora rischiavo di infangare quel briciolo d’opinione che lui doveva essersi fatto di me. «Tra il cercar casa, l’ultimo anno e… la gente… perdo il senso del tempo e delle cose. Perdonami se ti ho annoiato.»
La mia non voleva essere una battuta al vetriolo, ma mi accorsi troppo tardi - con qualche millesimo di secondo di ritardo - che poteva sembrare una reprimenda per quel suo del tutto lecito comportamento. Mi affrettai, quindi, a rimediare. «Ti devo ancora una sigaretta, perciò… consideriamo il debito raddoppiato.» e finendo la frase nascosi parte del volto nella mia tazza di tè, bevendone più di un sorso, mentre il mio sguardo ricambiava il suo.
Non avevo idea di dove avrei trovato delle sigarette per Shaw, ma mi sarei ingegnata. Mi interessava che uscisse di lì con l’impressione di non aver perso il proprio tempo: se l’avesse fatto lui, probabilmente, significava che l’avevo fatto anch’io.
Mi alzai e aggirai il tavolo, diretta al bancone alle sue spalle. Volevo finire quel che avevo cominciato, se non altro portando a compimento il mio alibi nel trovarmi a Diagon. Quelle cavallette avevano spazzato via tutto, persino le scatole di cioccolatini, e sospirai rendendomi conto che si sarebbe resa necessaria un’incursione nelle cucine della Scuola quella sera stessa. In piedi di fronte a Shaw, ben dieci centimetri abbondanti più alto di me, mi risolsi a ultimare la mia consumazione lasciando l’ultimo pezzettino di torta a se stesso. Non volevo restare da sola e non mi importava che lui lo capisse, disapprovasse o sbuffasse. Non saremmo finiti a prendere la Metropolvere per Hogwarts insieme al Paiolo. Avevo altri piani, ma fare due passi insieme non l’avrebbe ucciso. O forse sì? Decisi che valeva la pena di scoprirlo e raccolta la borsa la misi a tracolla, imboccando l’uscita come uno spazzaneve a pieno ritmo. Non mi sarei curata di infastidire colui o colei avessi trovato sul mio cammino: il fastidio era dannatamente reciproco e, benché una parte di me dissentisse, non avevo tempo da perdere.


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20 replies since 2/4/2023, 19:04   480 views
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