| «Sconti a volontà, per i miei preziosissimi amici, ma non basteranno tutti gli auror del mondo a farmi pagare le tasse.». Il tono di voce scherzoso ed al contempo serio non lasciava ben sperare per il futuro dei libri contabili. Falsi in bilancio, sottostima dei ricavi, inflazione delle spese, castelletti cinesi, società di comodo, prestanome, paradisi fiscali; escamotage finanziari a volontà. Se mai una tassa fosse stata riscossa all'olandese, avrebbero dovuto strapparla dal rigor mortis delle sue fredde mani. Camillo aveva sorriso all'idea di una Donovan-Auror che gli dava la caccia selvaggia per riscuotere eventuali oneri, neanche fosse stato quello l'obiettivo ultimo degli ispettori al servizio della legge magica. Di quei tempi, già si era visto, avevano un gran bel da fare con la lotta al signore oscuro e ai suoi seguaci. Non che la setta di cui lui stesso faceva parte fosse meglio, ma si consolava all'idea che almeno loro non erano nazisti. Ed era proprio dalle sconfinate file degli aracnomanti e cialtroni di cui il castello era ricolmo che, probabilmente, sarebbero sbocciati i migliori sbirri sulla piazza. Del resto che venissero addestrati bambini soldato era nel pieno interesse del Ministero; Hogwarts, che sempre tendeva una mano a chi voleva proteggere lo status quo delle élite, in quel frangente gli dava tutto il braccio con una spontaneità disgustosa. Ma di Camille, nello schema piramidale in cui era stato risucchiato, per il momento non vi era nemmeno l'ombra – per quanto ne sapeva, vivendo la sua permanenza nella fazione da eremita. Il pensiero lo rincuorò. Certo non desiderava che fossero le persone a cui voleva bene a rischiare la vita per litigarsi le briciole di una stabilità fallace in principio. Era anche per quello che lui aveva accettato di mettersi in gioco, di restare, ad esser sinceri. Non per altruismo, ma deciso a cercare la verità. Divulgare una visione, togliere il paraocchi a chi si faceva abbindolare dalla promessa di diventare un guerriero al servizio di uno scopo superiore, ignorando il grande schema delle cose. In quel progetto, bene e male erano trascurabili: auror e mangiamorte nemmeno sedevano al tavolo degli adulti. Ma una piacevole grigliata non era il momento adatto per perdersi in pensieri atroci e fare filosofia. Già che la sua mente si era catapultata in quel vortice di tormento, ed il suo sorriso si era smorzato, davanti ai suoi occhi la magia aveva iniziato a cristallizzarsi. Non esisteva incantesimo piú potente di un piatto preparato con passione – e su questo, vi prometto che ci ripasseremo. Tornò raggiante, si sforzò. «Sai che storia non è cosí male nemmeno per me? Cioè, ti confesso che non sono una cima, ma mi son state promesse follie inconcepibili al quinto anno, quindi insomma… le aspettative tengono alto il sentimento». Spiegò, non troppo convinto. Non sapeva davvero cosa aspettarsi, ma era stato il grande uomo in persona a giurargli che le rivolte dei Goblin gli avrebbero acceso il desiderio di inventare la macchina del tempo per risolvere la questione personalmente, un calcio in petto alla volta. Teatro delle assurdità, un po' come tutte le tematiche trattate, ma con una marcia in piú. Caos, contraddizioni, paradossi: gli ingredienti per una ricetta prelibata, che lo avrebbe stuzzicato per l'intero anno scolastico. Cosí voleva il programma. Quella era la via. Daddy intanto ci stava lasciando i polmoni. Glielo diceva sempre – generalizzo, non capitava poi cosí spesso – che fumare era una cosa da sfigati, se mai avesse dato la colpa agli spiedini era pronto a dargli battaglia lì, sul momento, senza pensarci una volta in piú. Si trattenne dal ridere, ma la sua espressione beffarda, coronata da un cipiglio vivace, lo tradí. «Mi piace Astronomia. Nei weekend torno a casa o vado in qualche posto con una connessione ad internet, mi tiro giú un paio di pubblicazioni degne di nota da qualche astronomo, astrofisico e astro-quel-che-gli-pare e le scopiazzo senza il minimo rimorso. Minimo sforzo, massimo guadagno». Spiegò, mentre si affacciava oltre le spalle dell'amica per sbirciare il manicaretto nella sua fase di creazione, con l'acquolina alla bocca. In realtà, pensò dando un morso all'ultimo boccone amaro dal suo spiedino, neanche lì brillava come studente. Se non altro, quando faceva supplenza Atena, da bravo diciassettenne qual era, gli tornava la voglia di studiare. Cosí, in modo quasi inspiegabile. I misteri dell'universo, tirando ad indovinare, esercitavano un certo ascendente su di lui. Astrologia esente ed esclusa dall'affermazione. A quel punto sia Camille che Daddy avevano finito di cuocere le loro prelibatezze e Camillo si preparò a sperimentare il sapore della loro arte. Attese che la signorina Donovan finisse di impiattare e la mandò in avanscoperta, mentre lui accettò di buon grado l'invito della concasata. Una piccola forchettata rubata di sfuggita e finalmente fece assaggio di ciò che aveva visto nascere con i propri occhi. Era verdura. Era dolce. Mai avrebbe pensato che un tale accostamento potesse risultare cosí piacevole alle sue papille gustative. Quasi si commosse. Ora, io non so dirvi se fu per lo shock dato dal contrasto con l'avvincino flambé che fino a quel momento la sua lingua aveva cavalcato senza sella e senza salsa, ma apprezzò infinitamente la sua opera, tanto che ne uscí un commento genuino quasi istantaneo. Giusto il tempo di farne esperienza e deglutire. «È delizioso, mia cara, dico davvero.». Come avrebbe detto lo chef di quel film che il suo amico Daniel gli aveva consigliato, non se l'era mangiato, ma l'aveva assaporato, l'aveva gustato. E sí che la presenza della starnutaria, nella sua strana visione del mondo, doveva essere un indicatore di pericolo, di delusione. Mai fu piú lieto di aver avuto torto. Intanto la signorina Donovan aveva concluso la prima degustazione della pietanza preparata dal professor Toobl e non era morta. Addirittura, senza pudore, gli aveva rivelato che la bruschetta servita da Daddy poteva rivaleggiare con la comunione degli sforzi di Camillo, signor nessuno per carità, e Isabella, piccolo titano dell'alta cucina. La prese sul personale. Lo sguardo curioso balzò dal piatto del docente, per tuffarsi sul viso dell'uomo, scavalcando la montatura sottile degli occhiali da sole. Sondava la sua espressione con voracia, in cerca di qualche dettaglio – nemmeno lui sapeva quale, in realtà – come si studia l'avversario prima di un duello. Ma quello non era un duello, non una sparatoria, né tantomeno una battaglia vera e propria, perché in fin dei conti, quando si mangiava bene, non vi erano vinti ma solo vincitori. Con quel pensiero a spronarlo, decise di tentare la sorte e assaggiò il crostino alla mandragora ed erumpent proposto dall'insegnante. Lo azzannò, con gli occhi ancora intenti a tracciare l'espressione di Toobl, in un dipinto che ancora doveva prendere forma. Il gusto non era tanto male, si disse tra sé e sé, immaginandosi fosse velenoso e a dire il vero lo era, almeno per lui. E vi dirò, mai veleno fu piú prelibato. La botta al palato data dalla carne di Erumpent fu devastante, in un certo senso, e risvegliò il principio attivo della farina di Mandragora. Non lo contrastò, come gli era stato promesso. Velocizzò, se così si può dire, l'assorbimento dell'antagonista, che in due masticate contate iniziò ad entrare in circolo al Tassofrasso, ignorando i comuni tempi di assorbimento metabolici. «Scherzi Camille? Daddy mi ha veramente stracciato, è una bomba!». Lo era, per davvero: ad orologeria per la precisione. Al secondo morso già le pupille dell'olandese si erano dilatate, segno di meraviglia e messa in scena di un disastro, a seconda delle opportunità. Si diceva che, quando si guardava qualcuno o qualcosa che ci rendeva felici, erano proprio le pupille a rivelare agli altri il nostro stato d'animo, ma qui i sentimenti poco c'entravano. In quel momento, gli occhi di Camillo ricordavano quelli di una rana. All'ultimo boccone venne investito da una botta di surrealismo semi-onirico di matrice post farmaceutica. – Brutto salame, non ti puoi inventare una corrente poetica e letteraria solo perché ti sei mangiato una bruschetta! – Il grillo parlante, invano, aveva provato a richiamarlo all'ordine. *Guarda e impara*. «Grazie, ragazzi, siete stati strepitosi». Disse infine con entusiasmo, prima di abbandonarsi al canto della propria sirena.
Carbonio, Nitrogeno e Idrogeno si scatenavano in una ballata fatta di piccoli passi leggiadri, trascinando nella frenesia della danza un cluster di zoccoli e grida mute, disperate. Nove, poi otto, poi due. Uno e uno. E io le sentivo, dal cuore che palpitava come una grancassa a tenere una misura di tempo tanto folle quanto intricata. Perfetta. Il mio sorriso si ammorbidí. Lo sguardo, che prima aveva cercato il conflitto e ora cercava libertà, aprì con galanteria la porta ad una serenità profusa. Aveva liberato il mio volto dalla prigionia, dalle contrazioni cigolanti dei muscoli, facendo da esempio facendosi seguire, distendendoli per far sì che mostrassi al mondo una maschera rilassata. E mi domandavo se in realtà, quella stessa maschera, non fosse diventata in un batter di ciglia il mio vero volto. Pregavo che lo fosse, perché quello era il viso che desideravo mostrare a chi amavo. Sempre, in ogni dove. In ogni circostanza. «Ho sete, torno in un attimo». Due parole, gettate al vento come foglie d'autunno in piena primavera. Sei per i pignoli. Otto per gli inglesi. Due, sei, otto. La lingua, al contempo intrisa di salsa e secca come un muretto lasciato in pasto ai raggi del mezzodí, sveglia e addormentata, bramava un nettare dolce che la detergesse. Io l'accontentai. Scomparvi. Tre, come le D e la bacchetta a far leva sulla mia pigrizia. Uno, quando mi trovai a tu per tu con chi serviva da bere. Comandai con gentilezza e con gentilezza venni servito. Con gentilezza mi congedai e con gentilezza fui salutato. Poi tornai sulle mie orme, un passo dopo l'altro, in successione, per raggiungere i miei amici con tre boccali zuccherini. Due in realtà. Uno scoppiettava piccante, tra spezie e note di lime. «Tu mi ricordi il cioccolato, la leggerezza e le belle giornate di sole». Ti spiegai, Camille, con la stessa naturalezza con cui si parlava del tempo. Non del concetto, il divenire, ciò che fu e ciò che è; il meteo, dico. «E mi ricordi le pasticche sbriciolate quando le respiri, che ti si posano sulla lingua come zucchero a velo ti lasciano un sapore dolce tra le labbra. Aria di casa, un sorriso». Se quella era una dichiarazione d'amore io davvero non lo sapevo, ma per me non aveva importanza saperlo. Ti porsi la bevanda e mi voltai verso Daddy. «Tu sei il me di una volta, di quando iniziai a prendermi troppo sul serio e scoppiai. Mi ricordi di quando son stato dato alle fiamme, la ramanzina dell'infermiera e le sue dita delicate che mi sfioravano le ustioni. Ma tu mi ricordi anche chi mette il proprio cuore in quello in cui crede. E ama». Bisognava amare davvero, nell'accezione piú pura e sconfinata del termine, per fare come facevi tu, professor Toobl. Insegnare. E credere. Anche a te porsi una bevanda, rum scuro, abisso, succo di maracuja. Sciroppo esotico dalle mille spezie, come le tue mille sfaccettature, che ancora non comprendevo appieno, come non si comprende un dipinto se non lo si osserva a lungo, scandagliandolo con passione bruciante in cerca di tratti rivelatori. Tratti che, se anche trovati, non avevo mai la certezza fossero davvero tutti e non sapevo mai dire se mi fosse sfuggito qualcosa. O meglio, io sapevo che qualcosa sempre mi sfuggiva: il dramma per me era non sapere cosa. Poi brindai, alzando il mio calice, traboccante di un elisir fresco e fruttato. «Ai miei due cuochi preferiti, che griglie e fornelli vi siano compagni, e che la gioia che portate in tavola vi segua anche nella vita». E vi dirò, non mi sarebbe dispiaciuto sentir tintinnare i vetri, il canto stridente, le frequenze alte che facevano vibrare repentinamente l'aria, ma nemmeno lo pretendevo. Ciò che pretendevo fu un sorso, che assaporai lentamente, lasciandomi rapire.
Fu solo allora che ti vidi, profeta di ogni fungo. Non sapevo che eri un profeta, non sapevo dei funghi. Ma ti vidi, finalmente, dopo tanto tempo. Rosa, lenti attraverso cui guardavo i tessuti, i colori di cui avevi vestito la tua figura. Rosa di ricordi felici, fugaci, con le spine della tua e della nostra assenza. Il tempismo ci aveva sempre tenuti lontani, mio caro compagno e quando io scappavo dalla vita, dal castello, sapevo tu fossi in aula; quando era toccato a me ficcare il naso tra i libri e posare l'anima stanca sul banco, a te era toccato mancare. Sentivo, come spinto da una brezza assente, come nave mossa da una vela soffocata, di volerti rivedere. Ma tanto avevo gambe, tanto avevo remi e che il soffio del cielo vi fosse o meno, mi passò per l'anticamera del salice, toccando la corda di cuore di drago. Un po' come altre cose passavano per le anticamere di quelle famose torri greche, del resto. Mi preparai. «Miei cari, ho visto Oliver e vorrei salutarlo. Porto con me il sapore amaro del disastro che ho combinato e le salse di Isabella. Qualcuno si unisce?». Vi guardai, prima te, Camille, poi Daddy, in cerca di una conferma. Posai il massacro sul vassoio, salse come sangue delle atrocità commesse raccolte in ciotole rituali. La mia bevanda a lato, che stonava sinestetica come un colpo di chitarra sui tasti di un pianoforte costoso. Una mazzata, il boato, il crash gracchiante del legno e appiccicoso dell'avorio, la dualità dell'anima. Splendore nella decadenza agrodolce. Raccolsi tutto e mi avvicinai. «Brolly, my boy, ti trovo caleidoscopico oggi, l'arcobaleno ti dona!». Perforai le lenti e catturai i dettagli della tua felpa, la barba sottile, la stanchezza forse. Poi notai anche te, Adeline, i tuoi capelli come fili d'oro e l'aura floreale che ti eri confezionata addosso, in spirito sartoriale. Avevo esordito con entusiasmo e altrettanto entusiasmo era stato incanalato nel mio modo di presentarmi. «Piacere, Camillo». Ti dissi, nulla di piú e nulla di meno. Il profumo che proveniva dalla griglia mi suggerì che eri impegnata, che avevo forse interrotto qualcosa e per ovvie ragioni non potei porgerti un saluto piú formale. Tenevo il vassoio e già che c'ero ne approfittai. Approfittai del fatto che nessuno avesse ancora nulla sotto i denti per offrirvi uno spiedino; per te Oliver che sostituiva una pacca amichevole sulla spalla e per te Adeline, incantevole ragazza sconosciuta, perché non potevo stringerti la mano. Ma era arbitrario e forse era meglio cosí, gli usi e i costumi piú sterili mi avevan sempre annoiato e non v'era modo migliore per superare l'imbarazzo che lasciare le convenzioni all'avvincino martoriato. «Qualcuno vuole favorire? La carne è amara, vi sconsiglio di prenderla cosí, al naturale, andrebbe inzuppata nella salsa dolce. Una delle due ciotole ne ha una un tantinello piú speziata dell'altra. Non vi dirò quale, se volete tentare la sorte fingete sia una roulette russa». Due colpi nel tamburo, due anime fresche, vergini del tormento culinario che stavo proponendogli. Sorrisi malizioso, lieto di essere lì, e magari con la speranza di essermi portato degli amici al seguito. Interazioni con Camille e Daddy, poi rompo le gobbiglie a Oliver e Adeline (terza parte, per chi non ha sbatti di leggere) Attività svolte:1--Condividi con qualcuno un trucco magico che usi per semplificare la vita quotidiana 2--Fai infuriare lo chef dandogli un consiglio stupido 3--Crea e Griglia il tuo piatto ideale, non limitarti agli ingredienti dei non-maghi 4--Chiacchiera con qualcuno con cui non hai confidenza 5--Chiedi a qualcuno qual è/qual era la sua materia preferita a Hogwarts e perché 6--Assaggia 3 Pietanze diverse (e descrivi brevemente l'esperienza)<del> [3 / 3] 7--Condividi con gli altri un viaggio o un'avventura che vorresti intraprendere nel mondo magico 8--Balla una canzone sparata dal DJ (cercatevi una playlist da qualche parte, tanto la musica è tutta uguale) 9--<del>Chiedi a un compagno di grigliata quale sarebbe il suo mestiere ideale nel mondo magico se non avesse vincoli di alcun tipo 10--Decreta la tua preferenza tra due bevande diverse Edited by Camomillo - 27/4/2023, 17:28
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