My idea of 'help from above',
is a sniper from the roof.
Ha cominciato a piovere.
Le gocce d'acqua si susseguono lente, come lacrime impigliate fra ciglia. Bagnano la pelle delle mie braccia e la fattura di una maglietta sottile. Maggio ci inganna con le sue giornate soleggiate, e alla fine raccoglie l'uggia dal mondo per trasformare il cielo all'improvviso.
È grigio, e se il sole mi ha permesso un sorriso ora la pioggia mi induce a chiudere ogni finestra.
I tetti spioventi del borgo magico lentamente cominciano a riempirsi di lacrimoni, le strade di pozzanghere. Mi riparo sotto un portico, il tempo che la gita termini e i ragazzi si raccolgano in un sol punto in attesa di prefetti e caposcuola.
Sono sparito dai radar un'ora per andarmi a rintanare fra gli alberi di nocciolo oltre i vicoli stretti. La boscaglia di piena primavera è fitta, e ti racchiude come un mantello della disillusione.
In questo periodo ricerco la natura. Il suo silenzio mi distoglie dal brusio nella testa. Solo quando mi metto davvero ad ascoltare il respiro delle foglie mi rendo conto di quanto chiasso essa produca, e al contempo di quanto io sia in grado di ammutolirmi.
Il mio intento era quello di studiare. No, non per le lezioni. Quest'anno che volge al termine mi sta privando di ogni tipo di energia, e sono saturo. Seguo troppi corsi, non riesco più a rendere come prima. I miei voti sono scesi. Non di tanto alla fin fine. C'è un meno qui, uno là, ma sono più lento ad alzarmi dal letto quando si tratta di scrivere un rotolo di pergamena. Procrastino, e mi riduco all'ultimo minuto.
Preferisco impiegare le poche energie che mi accompagnano durante la giornata ad andare oltre. Ci sono sempre quelle note a margine dei libri di scuola che ti attraggono più dello stesso contenuto dei capitoli, ma che i programmi scolastici non approfondiscono. È ingiusto, eppure è proprio questo senso di mistero —è troppo dire proibito?— che mi attrae.
È il Corpus Ermeticum che mi accompagna. Pagine strane, quasi da storcere il naso, trovate in un tascabile con qualche altro scritto arcaico in una bancarella a metà prezzo. Alchimia è fonte di ispirazione per bibliografie dubbiose, che ti fanno chiedere se sei tu l'idiota che non capisce niente o se lo fosse lo scrittore. Ma gli scrittori sono sempre nomi noti e venerati, proprio come Ermete Trismegisto, Thot, Mercurio, o come diavolo si chiamava. Poteva non aver ragione?
Tutt'ora, sotto questo portico, non fanno altro che risuonarmi in testa le sue lodi a Dio —quale Dio?
La conoscenza consiste nel solo desiderio di conoscere più profondamente la divinità mediante una contemplazione incessante e una santa devozione.
Rabbrividisco. Un po' per le goccioline gelide assorbite dalla mia maglia, un po' per il quantitativo esorbitante di volte che ho dovuto leggere questo nome: Dio. Più delle volte che ho evitato di pronunziarlo nella chiesa del convento.
La domanda che mi affligge è: quanta religione deve esserci nella pratica alchemica? Sento una profonda delusione farsi largo fra le mie idealizzazioni infrante. Mi stavo appassionando alla materia, ma ora che ho aperto gli occhi sui suoi scritti non si fa altro che discutere su quanto Dio sia grande e in grado di salvarci.
Dio non ha mai fatto niente per me. Non lo ha mai fatto e non lo avrebbe mai fatto se fosse esistito, dato che sono un reietto raccolto da un manipolo di suore. Non credo potesse andarmi peggio.
Il grigiore del tempo rispecchia il mio umore. Il maltempo mi deprime, ma ancor più le mie speranze disattese. La pioggia ora cade più fitta e invade l'aria. Non c'è traccia ancora dei miei compagni. Forse sono arrivato troppo presto.
Il vento, prima solo un lieve spostarsi delle correnti, inclina gli spilli d'acqua rendendo vana la mia copertura. Divento fradicio in breve, allora decido di avventurarmi in cerca di qualcuno.
C'è un gruppo di ragazzini da Mielandia. Mi affaccio alla finestra ed uno mi nota. Gli indico il polso per ricordargli l'ora, ma lui mi guarda con una supplica e sento la sua voce, attutita dai vetri, dire che è presto. Sbuffo. Faccio per entrare, ma uno dei commessi mi guarda con orrore. Stizzito, torno in strada. Manco intendessi scotolarmi l'acqua di dosso come farebbe un San Bernardo.
La pioggia ormai cade a fiotti. È troppo tardi per farmi un Impervius. Il boato di una crepa abnorme risuona nel cielo, lontana. Questa situazione mi innervosisce. Mi fa tremare. È gelo, è nervosismo. La carica elettrica di un corpo sollecitato.
Devo trovare un luogo all'asciutto dove non posso insozzare la merce. Forse i Tre Manici o il Testa di Porco. Mi dirigo verso quest'ultimo, il più vicino, con il capo incassato fra le spalle. I miei libri in borsa saranno fradici. Persino Dio, con tutte le volte che viene menzionato da Ermete, si sentirà l'acqua fin dentro le mutande.
Giunto alla periferia del villaggio, affiora la campagna. L'erba prende il posto del selciato ed è smossa da turbini d'aria che per poco non fan cadere pure me. L'insegna appesa del Testa di Porco sbatte furiosa contro le pareti del pub, si fa notare subito non appena svolto l'angolo.
Il sollievo mi pervade. Corro in direzione dell'ingresso. Il fragore del tuono, però, non riesce ad avvertirmi in tempo, ed il fulmine cade a qualche centinaio di metri da me, nel bosco di querce sul pendio.
Non sento più niente. Non vedo più niente. E' bianco, gelido, infuocato. Una valanga di dolore mi attraversa le cellule. Stringo gli occhi accecati, li copro con le mani, il respiro mi si mozza in gola mentre l'acqua tenta di infiltrarsi nel mio naso.
Riapro gli occhi, faticando fra gli spasmi. Devo sbatterli per vedere la linea di fumo che si erge dalla boscaglia in fondo. Le fiamme sono soffocate dalla pioggia.
Non riesco a muovermi. La pioggia continua a scorrermi addosso mentre rimango immobile ad osservare con occhi spalancati il fuoco che si spegne e il dolore che scema dal mio corpo.
«Forse è meglio entrare. Che ne dici?»
Il tempo è ingannevole, scorre a modo suo nella nostra testa. Quanto tempo sono rimasto qui?
I miei occhi spalancati ora guardano un omino canuto e barbuto che sbuca dalla porta del pub.
«Avanti, muoviti!»
Aziono un piede, poi un altro. Non sento di star camminando sulla terra, non sento di essere nel presente. Tutto sfugge, mi spinge via. Barcollo sullo scalino e oltrepasso la porta. La penombra del locale rinfranca le mie iridi vuote.
«Hai la faccia scioccata, ragazzo. Avevi già fatto la doccia?»
Il vecchio tira una sedia da sotto un tavolo e mi fa cenno di sedermi. Io non sento alcuna ragione per oppormi. Lascio cadere la tracolla e mi accascio sulla sedia, sgocciolando ovunque e tremando come una foglia.