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| 24 yrs – cursebreaker – Home |
Ti vedo. Qualcosa muta in te e non puoi negare che la delusione, in un qualche modo, si è affacciata nei tuoi occhi. Eppure non mi appresto a smentirla. Ti studio, come spesso mi ritrovo a fare, anche quando non te ne accorgi; lo faccio quando sei distratta, quando ti rivesti o, invece, quando ti svesti. Quando non mi rivolgi parola o quando invece te ne scappa una di troppo; o quando ti rimetti a letto dopo essere sgattaiolata nella mia cabina armadio e sobbalzi, perché non ti aspetti i miei occhi ad osservarti nel buio. È la mia natura, Gattaccio, non puoi farci nulla. Io osservo, analizzo, registro e poi elaboro: è questo che fa un androide.
A volte, quando ti sento chiamarmi “umanoide”, mi domando cosa avrebbe pensato quel ragazzino sull’Espresso per Hogwarts di tredici anni fa, se avesse saputo che qualcuno lo avrebbe chiamato così. Sarebbe stato entusiasta, ne sono certo; Asimov era uno dei suoi più grandi amici, all’epoca. In realtà, lo è anche ora. Solo che, adesso, non sono sicuro di andare così fiero di questa natura metallica.
Automaticamente i miei occhi si piantano sulla mensola piena di libri al di sopra il divano. Ritrovo la costola di “Sogni di Robot”. L’ho letto così tante volte che, per quanto io sia attento e abbia cura di tutte le mie cose, le pagine sono consumate e la copertina ha i bordi un po’ stropicciati. Potrei ripararlo con la Magia, ma non voglio. Ci sono cose che è bene che rimangano così. Vissute.
Il mio sguardo freddo torna su di te, ti segue mentre silenziosa ti rimetti le scarpe. Non era questo che ti aspettavi, me ne rendo conto. Io, invece, mi aspettavo questa reazione. L’avevo condita, forse, con un po’ troppo pepe: attendevo giusto una battutina acida su quanto io sia stronzo e arrivederci e grazie, alla prossima. Forse.
Ma ti ho vista.
Ti ho vista irrigidirti quando mi è scappato l’urlo in direzione di Isabella; ero convinto fosse la mia fine, il proseguo di una disfatta inesorabile che mi ha visto protagonista di quest’incontro inaspettato e fuori dalle righe, ma non è giunta la tua risata. È giunto lo spegnersi del tuo viso, finora appena arrossato dal riso e –credo– dalla battuta di Isabella.
Ecco, su questo avrei potuto dire qualcosa perché allora sì, che avrei avuto in mano una moneta con cui ripagarti. Tu però sei scattata in piedi, timorosa, come se ti aspettassi che da un momento all’altro io potessi sbranarti. Rimaniamo in silenzio, osservo distrattamente fuori dalla finestra i riflessi aranciati del tramonto, screziato dalle nubi, colorare la ringhiera del mio balcone. Non mi accorgo di star corrugando le sopracciglia; lo faccio solo quando capto il mio riflesso sul vetro. Non mi sono mosso dalla mia posizione eppure il mio viso è cambiato come se mi fossi spostato nel tempo. Sono turbato da questa tua reazione. Da questo tuo modo di dire “tolgo il disturbo”, da questo vuoto pesante che è calato fra di noi.
Vorrei dire che è tutto normale, che è quel che succede sempre. Non ci salutiamo mai con baci e abbracci, figuriamoci; o vai via prima tu, o vado via prima io. Non ci svegliamo mai insieme, è un’altra di quelle regole che ci siamo imposti.
Come il non farci coinvolgere.
E tutto questo cos’è, allora?
Stringo la presa sul bordo del tavolo, quando mi ritrovo a risponderti meccanico:
« Ok. » Sì, certo, te la saluto Isabella.
Isabella che non avrebbe mai dovuto conoscerti, che tu non avresti mai dovuto conoscere.
Perché io lo sapevo, maledizione, che le saresti piaciuta. Lo sapevo che ti avrebbe vista in un qualche strano modo in cui riesce solo lei a scorgere le persone.
Prima di tutti, lei ha visto me e di questo gliene sarò sempre grato.
Sospiro pesantemente, mandando indietro la testa e stringo gli occhi.
Me ne pentirò.
Faccio appena in tempo a pensarlo, quando il mio corpo si muove.
Mi distacco dal mio appiglio con una piccola spinta e raggiungo in pochi passi l’ingresso dove tu hai appena aperto la porta.
Poggio il palmo sul legno, spingo piano, ma deciso. Non voglio impedirti di scappare, se è quel che vuoi perciò non imprimo violenza in questo gesto. Mi limito ad accompagnare l’uscio fino a ridurre quella striscia di luce che viene da fuori.
« Non fare la stupida. »
La durezza del mio sguardo, mio malgrado, cede ad un cenno di morbidezza. Non posso cancellare ciò che sono, Gattaccio, così come tu non puoi cancellare la tua indole randagia.
Ti ho teso la mano tante volte e altrettante tu me l’hai graffiata. A volte sono stato rude e tu hai soffiato; altre volte sono stato gentile –biasimandomi– ma tu hai soffiato e hai graffiato ugualmente.
Non so perché io stia ancora qui, ora, davanti a te. O forse sì, ma non voglio ammetterlo.
« Isabella è la mia migliore amica. » Credo sia chiaro, ma i miei occhi scattano velocemente verso l’alto, in direzione della scala. Abbasso la voce.
« Lei è in grado di vedere… » Tentenno, corrugo la fronte per un secondo impercettibile. « …le persone. È un segugio e sa scovare il meglio di qualcuno. Con me l’ha fatto. » Accenno un sorriso che, però, muore subito quando le mie iridi scorrono il tuo volto pallido, i capelli di neve come il tuo cuore. Ma, soprattutto, svanisce dalle mie labbra quando mi rendo conto di ciò che ti ho appena confessato. Così mi affretto a correggere il tiro, a deviare l’argomento pur non cambiando il punto dove voglio andare a parare.
« È una cogliona. Ma è la persona più bella che io conosca. » Ed è vero. L’affetto che permea queste parole è del resto un rafforzativo piuttosto eloquente.
Piano piano la mia mano scivola via dalla porta. Faccio un passo indietro, ti lascio libera di scegliere. Non ti lascio libera dal mio sguardo, però.
« Tu le piaci, Gattaccio. » Purtroppo. E io mentirei se dicessi che proprio non me l’aspettavo. Mentirei anche nel dire che questa situazione mi sta bene. Odio che questi due mondi si siano scontrati tra loro e siano collimati in un impatto che non avevo previsto nel mio laborioso cervello positronico.
Ma è così, è accaduto.
« Rimani. » Il peso di questa parola mi cade nello stomaco come un sasso che sprofonda in un lago così profondo da non vederne la fine. Mando giù queste poche sillabe e, consapevole che i miei occhi possano tradirmi, mi affretto a distoglierli finalmente da te. Guardo di nuovo la finestra.
È proprio questo che le ho detto la mattina dopo la prima volta in cui è tornata da me. Le ho detto che poteva rimanere se ne aveva bisogno.
« Se vuoi. » Aggiungo, cercando di nascondere quel velo di imbarazzo che per un istante ha minacciato di uscirmi di bocca.
Non voglio che questi mondi continuino a scontrarsi, ma… ma io questa cazzo di mano piena di graffi continuo a tendertela.
Il fatto che tu piaccia ad Isabella, poi, è un maledettissimo problema.
– You only see what your eyes want to see, you're frozen when your heart's not open –
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Edited by Horus Sekhmeth - 10/2/2024, 19:05