Roadgame., » Nieve Rigos

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▼ 46A Queensway
Guardo il mio riflesso distorto sulla visiera del casco nero opaco che tengo fra le mani.
Ripasso mentalmente la strada che ho studiato ieri sera, anche se non è la prima volta che mi allontano da Londra in moto come un Babbano. Talvolta il mio lavoro mi richiede di fingermi uno di essi —a volte anche controvoglia— e necessariamente il mezzo di trasporto è obbligatorio per confondermi tra loro.
Quando ho incontrato il vecchio McKennel, vicino Inverness, ho capito che la moto è forse il mezzo Babbano più vicino al volo. Almeno su strada. Degli aerei non mi fido minimamente, mi rifiuto categoricamente di salire sopra quell’ammasso di ferraglia.
Comunque, sposto lo sguardo guardando davanti a me la strada. Qualche ragazzo mi passa di fianco osservando con palese ammirazione la mia V7 e io gli sorrido di rimando. Sono proprio fiero di questa bellezza e di ciò che è in grado di fare, tutti i soldi (e la fatica di cambiarli in valuta Babbana) sono valsi la spesa. Penso subito a Nieve e a cosa l’ aspetterà. Il mio sorriso si fa ghigno. In questi pochi giorni dal nostro ultimo incontro, ho pensato molto a cosa potesse intendere con “recuperare” il controllo sulla sua Magia. Ancora mi sfugge perché abbia chiesto proprio a me di aiutarla. Appena tornato a casa da Kensington Park, ho passato un’ora sotto la doccia arrovellandomi su cosa le possa esser passato per la mente per chiedermi una cosa così delicata. Non riesco a definire il nostro nuovo rapporto, anzi, non so nemmeno se così possa definirsi lo scambio di frecciatine e di insulti che ci rimbalziamo l’uno all’altra. È stato ieri sera, mentre studiavo la mappa, che sono stato colpito da un pensiero che potrebbe spiegare l’astio di Nieve nei miei confronti: e se fosse… arrabbiata? Ci rimugino ancora adesso, mentre l’aspetto. Non le ho mai inviato un Gufo, non l’ho nemmeno salutata il mio ultimo giorno ad Hogwarts. Bell’amico, penso, togliendo con le dita un impercettibile granello di polvere sul serbatoio.
Ho tagliato i ponti con tutto da quando ho finito la scuola e il ripensare a quegli anni mi fa stringere lo stomaco. Guardo il braccialetto che indosso sul polso sinistro con le iniziali di Athena, Amber (… Amber…), Niahndra, Eloise, Thalia. Incurvo le labbra con dolcezza, indugiando sul ricordo di quando mi hanno teso la trappola nell’ufficio della McLinder. In quel momento mi sono sentito davvero grato di avere al fianco persone così. Eppure non ho scritto mai nulla nemmeno a loro. Beh, Eloise la vedo spesso per via di Ned ed Amber… socchiudo gli occhi, ricordando la notte a Giza. Ogni volta che la incrocio fra i corridoi mi costringo ad accennarle un saluto, ma non ho ancora trovato la forza di parlare di ciò che è successo pochi mesi fa e se posso cerco di non trattenermi più di qualche secondo. Che stronzo.
Butto fuori l’aria dalle labbra, senza rendermi conto di aver trattenuto il respiro. Scaccio via questa dannata malinconia alzando il capo verso l’alto; nel cielo plumbeo già dalle prime ore del mattino, le nuvole corrono una dietro l’altra, ma sono chiare, non minacciano pioggia. Bene, mi dico, tornando ad osservare la strada: l’asfalto bagnato non è l’ideale per quel che ho in mente di fare.
Di certo non è così che riconquisterò l’amicizia di Nieve, ma mi sta bene. Mi diverte questa linea sottile di sopportazione su cui viaggiamo, costantemente in bilico.

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Se qualche esperto di moto leggesse, lo so che è una Triumph in foto e la V7 III una Guzzi. Questo passava il convento.
 
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view post Posted on 22/5/2023, 18:25
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«Ciao, fushhhtacchione» è l’espressione con cui decide di introdursi un personaggio di dubbio gusto. Ha la vista annebbiata dall’alcol, una parrucca bionda spampanata sulla testa, pochi denti in una bocca sorridente e lo sguardo languido. Davanti a lui, un carrello della spesa ricolmo di roba non meglio identificata riposta in sacconi neri. È così fuori contesto in una zona come quella che viene da domandarsi come sia possibile che un vigile non l’abbia ancora preso di forza e sbattuto in una cella. Guarda Horus e fischia —in realtà sputacchia più che altro, riproducendo un suono simile a un sibilo moscio. «Chisshà cosa potreshti fare con quel fishichetto a una shhhignorina perbene come me. Uhuhuh
Inspiro una striscia di polvere di fata. Una sensazione di bruciore precede lo sfarfallio che avvolge il mio cervello, scorre come lava lungo le braccia e avviluppa infine tutto il mio corpo. Mi sembra di poter volare e forse lo sto facendo davvero. Di sicuro, sto ridendo. Sembro una bambina il primo giorno di scuola con la divisa che profuma di fresco e l’eccitazione frenetica di chi ha il mondo ai suoi piedi.
Raggiungo la pista da ballo, lascio battere i tacchi degli stivali contro il pavimento in legno —i pollici agganciati al bordo dei jeans.
Sbuco oltre l’angolo poco prima che Gautier, dimentico del nostro patto, possa saltare su Horus nel tentativo di rubargli il portafoglio e farsi stendere da un pugno. Mi avvicino applaudendo e, incapace di trattenermi, rido di gusto. Non so se la mente di Gautier sia stata in grado di ricordare le frasi che gli ho suggerito, tentata dalla promessa dei soldi e dell’alcol che avrebbe potuto comprare, ma mi dico che il solo fatto di un approccio basti a soddisfarmi.
«Tieni! Come promesso» dico, allungando al clochard una mazzetta di soldi babbani. Quello che ho dovuto fare per procurarmeli ha dell’assurdo. Non fosse stato per le mie losche conoscenze, non avrei saputo da dove partire. Di certo, so dove sono finita —con la mia vita, intendo.
«Shhignorina» risponde quello, sollevando la parrucca a mo’ di cappello e simulando un inchino che lo fa quasi cappottare in terra. Prontamente, mi faccio avanti per aiutarlo. Ho un sorriso infrangibile sulla bocca e una fossetta sulla guancia. China sulle ginocchia, sostengo a stento il suo peso sulle spalle. Il suo alito di birra mi ringrazia, una volta che ha recuperato l’equilibrio: «È shtato un piashere fare affari con lei!»
A labbra strette continuo a ridacchiare contro la mia volontà. Assesto un morso a quello inferiore per trattenermi, poi copro la bocca per non offenderlo. È un estraneo che ho incontrato per caso e del quale ho apprezzato la simpatica irriverenza e la disponibilità. Non mi perdonerei mai di essere scortese nei suoi confronti. È solo tremendamente buffo.

Riesco a dedicarmi interamente a Horus solo quando l’ombra di Gautier si è allontanata e siamo rimasti soli. Non è stato facile convincermi a venire all’appuntamento, nonostante sia stata io a crearne i presupposti.
“Gli hai chiesto tu di aiutarti e ora fai così perché non vuoi andare?”
Annuisco e mando giù lo shot di whiskey incendiario.
“Ragazzina, non ha senso!”
“Se la crede troppo!” Una ruga si disegna tra le mie sopracciglia. “Pare che con quei muscoli chissà chi deve fare spaventare” grugnisco e giù di shot.
“Lo descrivi come uno scimmione” sogghigna il mio interlocutore.
“Non è uno scimmione” mi costringo a dire. “È solo un idiota. Ma io sono più idiota di lui!”
Noto il mezzo sul quale ha raggiunto il luogo dell’appuntamento e inclino il capo. Mi sarei aspettata una smaterializzazione, non un mezzo di trasporto babbano. Vivendo a Londra è praticamente impossibile non conoscere qualcosa delle abitudini babbane. Ma Horus Sekhmeth che usa uno di quei cosi? Se intendeva mostrarmi che non so un cazzo di lui, ha centrato il punto.
«Sei un uomo pieno di sorprese, Sekhmeth» dico con l’intenzione di bypassare la questione Gautier e soprassedere momentaneamente il motivo del nostro incontro. La consapevolezza di essermi rivolta a un estraneo con il quale ho un ambiguo trascorso scolastico, ormai seppellito sotto uno spesso silenzio, mi ricorda la fallacia dei miei ragionamenti. Sono una testa di Erumpent! «È una di quelle cose del Ministero che volano e hanno un tasto per diventare invisibili?» domando, curiosa, colta da un attimo di lucidità.
È ovvio che Horus non usi mezzi di trasporto babbani. Lavora per il Ministero e può permettersi di accedere a lussi che ai comuni mortali sono inibiti. A noi toccano le scope, la polvere volante, la smaterializzazione. A chi ha gli agganci soluzioni come quella che è davanti ai miei occhi adesso. Ne ho sentito parlare a Grimilde e Julian, prima che…
Non avrei dovuto. Il pensiero mi ossessiona, non dandomi posa. Non importa quali e quanti disagi stia affrontando a causa del discontrollo sulla magia. Avrei dovuto affidarmi a qualcun altro. Di certo non a Horus non-ti-vedo-da-anni Sekhmeth.
Tiro un’altra striscia di polvere di fata e mi torna in mente la breve esperienza con Emily Rose e le fate. Mentre la sostanza comincia a fare effetto e mi sollevo di pochi centimetri dal pavimento, mi beo dell’ironia della sorte. Gira che ti rigira, pur non volendo e del tutto inconsapevolmente, finisco sempre in mezzo a quei due per un motivo o per un altro. Chissà cosa direbbero i malpensanti se fossimo ancora tutti e tre a scuola…
Mi importa poco ora che lo stupefacente è in circolo e, al centro della pista da ballo, accolgo il gesto di un ragazzo che piazza il suo cappello da cowboy sulla mia testa. Arriccio le labbra in un sorriso, ma distolgo presto l’attenzione, troppo presa da me stessa e dalla musica. Muovo i fianchi. Esisto soltanto io.
Il mio sguardo assume una connotazione imperscrutabile. Cerco il suo per sondarne le profondità. Ci sono cose che sono rimaste in sospeso dopo la sua frettolosa chiusura al parco, l’ultima volta che ci siamo visti. Ho lasciato che accadesse, perché c’è chi gioca a scatti rapidi e chi lascia che il veleno agisca lentamente. Io oscillo tra l’una e l’altra strategia. Stavolta, ho preferito attendere.
«Cos’è che hai in programma di violento per me, oggi?»
Gli angoli della bocca tendono appena verso l’alto —una provocazione.
L’inizio dell’ennesimo round.

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Indietreggio col busto per evitare la pioggia di saliva che minaccia di investirmi a seguito del biascicare (o fischiare? Difficile stabilirlo) umido dell’uomo che mi si è parato di fronte. La sua apparizione improvvisa mi ha fatto sussultare e mi ha lasciato decisamente perplesso: batto le palpebre confuso senza capire il senso delle sue parole, non tanto per la mancanza di una dentatura che permettesse al pover’uomo di esprimersi dignitosamente, quanto perché non ne avevo afferrato il senso.
Un brivido mi corre lungo la schiena, mentre mi trattengo dal mostrare un’espressione di disgusto. Poi, però, mi colpisce l’epifania. Alzo gli occhi al cielo quando la conferma del mio sospetto si palesa con una sonora risata.
« Avrei dovuto immaginarlo… » Dovrei essere stizzito perché solo ora mi rendo conto del rimando che Nieve ha voluto fare spedendo questo disgraziato in avanscoperta; in realtà, invece, mi viene da ridere e si evince dal mio volto. Cerco di trattenermi premendomi una mano sulle labbra, mentre osservo divertito il teatrino tra Nieve e il barbone, trovando irresistibile quella zazzera di capelli posticci e plasticosi che l’uomo agita come un cilindro. Un poliziotto Babbano, con quel suo ridicolo caschetto a forma di pinolo, ci guarda dall’altro lato della strada cogliendo il magico momento in cui Nieve e il tipo sembrano essersi abbandonati ad un momento di valzer, poi se ne va con una scrollata di spalle. Io, invece, sono estasiato da tanto estro. Mi picchietto un indice sul labbro inferiore, cospiratorio. Non capisco cosa le passi per la testa e perché si ostini a trattarmi come un coglione vanesio. Cosa c’è che non va in te, Nieve?
« Io mi vergognerei fossi in te, Rigos: approfittarsi così di un povero anziano con la promessa di vile denaro e tutto questo solo per adularmi. »
Beh, oddio, non penso sia da considerarsi un’adulazione ciò a cui ho appena assistito, tuttavia mi rifiuto di farle capire quanto quel teatrino mi ha confuso. Ad essere sincero penso, ed i miei occhi si fanno vacui per un istante, cosa voleva dimostrare? Mi ha sempre colto il dubbio che lei, in fondo, mi abbia sempre considerato uno che se la tira e le sue ultime allusioni sul mio fisico o le mie presunte conquiste in fatto di donne sono del resto una conferma che, se non l’ha fatto in passato, ora ne è decisamente convinta.
E capirai! Ho passato quasi sette anni di scuola a farmi rimbalzare addosso tutte le dicerie su quanto me la tirassi e stronzate varie. E ho passato metà della mia vita a credere di essere ciò che non sono: un debole, un malato. No, cazzo: non sarai tu, Rigos, a farmi sentire in difetto.
Capita la citazione, arriccio il naso al ricordo del nostro scambio di battute al parco e questa volta un lampo di amarazza si dipinge sul mio viso. Tuttavia mi rifiuto di abbassare lo sguardo e, anzi, la osservo intensamente in silenzio. Non perché io mi vergogni della mia allusione: in realtà ho narcisisticamente apprezzato ciò che ha detto —e non detto. Ma ripensando a come mi è uscita la risposta, capisco di averle fornito un assist per lei irresistibile. Ad essere sinceri, mentre ripenso alla sua presuntuosa affermazione sul prendere me (me, ti devi drogare, Rigos) quando e dove le pare, dubito fortemente che sia una signorina per bene. La sua lascività mi ha sorpreso e non è solo per l’allusione di quel ragazzino al ballo.
Oltre ciò la tentazione di provocarla, però, è sempre lì insita nella mia (e nostra) natura e mi sono scoperto curioso di sapere fin dove posso spingermi e fin dove posso vedere oltre quell’aspetto e quelle arie da strega facoltosa.
« Niente di tutto questo. » Infine, le rispondo e incurvo un angolo della bocca in un sorriso soddisfatto. In questo sono sicuro di averla sorpresa.
Mi chino di lato e raccolgo da terra un altro casco come quello che tengo sotto il braccio e che ho replicato esattamente per lei. È molto più piccolo del mio, anche se identico. Glielo lancio senza troppe cerimonie, come fosse una Pluffa e forse con troppa forza. Non mi stupirei si andasse giù come un birillo, magra com’è.
« È una banalissima moto Babbana. O volevi una carrozza? » Ghigno, scoprendo appena i denti in un’espressione maliziosa.

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«Oh, non lo sapevi?» Porto la mano al petto e batto le palpebre a un ritmo serrato, simulando sorpresa. Sul mio viso, veleggia una sfumatura di divertimento difficile da mascherare. «Io vivo per adularti. Io lavoro e penso a te. Torno a casa e penso a te. Sono al buio e penso a te. Chiudo gli occhi e penso a te. Io non dormo e penso a te».
Riporto quel che ricordo di una canzone italiana ascoltata durante la vacanza in Toscana con i nonni e Thalia —Thalia…—, traducendola in inglese e storpiandola. Nel cantarla, non mi rendo conto di concedere a Horus il privilegio di conoscere uno dei pochi segreti che serbo su di me. La sola persona che mi abbia sentita cantare in Inghilterra, al di fuori della mia famiglia adottiva, è Casey.
Mi lascio andare in una risata bassa, stavolta senza l’intenzione di schernirlo. Semplicemente mi diverte il siparietto che si è venuto a creare, a partire dall’intervento del clochard con il suo prezioso carrello e l’impareggiabile estro. Un po’ della tensione legata alla decisione che mi ha condotta qui oggi si allenta. Smetto di pensarci come se io e Horus fossimo soltanto un ragazzo e una ragazza che scambiano due parole in Queensway. Niente di più.
La verità, però, è un’altra e torna a piombarmi addosso quando Horus recupera l’oggetto depositato ai piedi del mezzo su cui sta accomodato e me lo lancia. I riflessi da cacciatrice mi salvano da un brutto impatto con quello che non so chiamarsi casco, mentre ripenso al nostro incontro al ministero. Allora, ha fatto lo stesso con il mantello dell’invisibilità, infondendo nel gesto la medesima foga. Il pensiero che covi dentro di sé i sentimenti di astio espressi a suo tempo cancella definitivamente la leggerezza e incupisce l’espressione sul mio volto, lasciando che le sopracciglia calino sugli occhi.
Per questo motivo, rispondo tetramente alla provocazione di Horus con: «Preferisco i Thestral».
Ispeziono l’oggetto. Ricorda una versione più ingombrate degli elmetti per il quidditch, quindi suppongo che vada indossato sulla testa. Lancio un’occhiata anche al mezzo su cui Sekhmeth ha previsto di farmi salire. È così diverso e voluminoso rispetto a una scopa, realizzo. Lo spazio residuo dietro Horus è minimo; le staffe inesistenti, eppure la moto —così l’ha chiamata lui— è troppo bassa per lasciare che le gambe pendano ai due lati. Soprattutto, non vedo appigli a cui assicurare le mani.
Trattengo un sospiro, decisa a non chiedere spiegazioni. Non gli darò la soddisfazione di trovarmi impreparata. Così, improvviso. Prendo l’oggetto che mi ha dato e, sistemate le ciocche di capelli dietro le orecchie, me lo ficco a forza sopra la testa finché occhi e zigomi non sporgono dallo spazio lasciato libero per vedere e respirare. Poi, senza troppe cerimonie, salgo dietro di lui e mi posiziono all’estremità più distante —sull’orlo del sedile.
Non mi piace questa cazzo di moto. È ingombrante e instabile. E prevede una vicinanza che rifiuto. Sopra ogni cosa, detesto il fatto che sia lui ad avere il controllo della situazione e che palesemente ne goda. Lo scettro è stato nelle mie mani soltanto finché ho potuto giocare a sorprenderlo con il senzatetto. Adesso, sono seduta in malo modo su un aggeggio babbano con i piedi ancora sul pavimento e le spalle aperte per consentire alle mani di stringersi attorno all’estremità posteriore del sedile in una presa tutto fuorché sicura.
Provo a consolarmi con un ragionamento spiccio, frutto della poca conoscenza che ho del mondo non magico. Quanto mai potrà correre nel traffico cittadino?, mi dico. Per mantenere la copertura e non farsi notare, dovrà di certo muoversi con cautela.

Avrà un’andatura moderata, m’illudo.
È quello in cui ho bisogno di credere.

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« E continuerai a preferirli. »
Le rispondo con un ghigno; da come ha squadrato la moto comprendo che la mia supposizione è stata deliziosamente corretta. Non ne ha mai vista una o, quantomeno, non ci è mai salita. Guardo rapidamente la strada, gremita di macchine e taxi lucidi come scarafaggi. Perfetto.
Quando indosso il casco, ruoto col busto verso di lei e mi assicuro che, quantomeno, stia in sella. Rido di gusto mentre la vedo cercare maldestramente di rimanere in equilibrio toccando il meno possibile me e la moto. Non mi premuro nemmeno di nasconderle la mia ilarità, ma non posso fare a meno di controllare che sia tutto apposto. Non ti voglio sulla coscienza, Rigos.
« Auguri, se pensi possa bastarti reggerti lì. » Attraverso la fessura che mi protegge il viso, i miei occhi brillano come l’argento.
Nieve ha sempre fatto la spaccona e anche se ora questo suo modo di fare sembra essersi calcificato su di lei come la maschera di un’ottima attrice teatrale, so che la vera lei è lì sotto. E la vera lei non ammetterebbe mai che ha paura, ma huh, sono proprio sicuro ne abbia. Per questo mi concedo di godere di questa scena per qualche istante, imprimendola nella mia memoria. Non avrò più molte occasioni per averla così sotto al mio controllo.
Forse, penso, dovrei andarci piano: mi ha chiesto di aiutarla, so che le è costato. Poi ricordo la sua arroganza mentre cerca di sovrastarmi dopo che mi ha ferito, a come mi sputa addosso il suo veleno, a come crede che io desideri davvero parlare di lei solo per garantirmi chissà quale scopata.
No, cazzo: me la devo togliere la soddisfazione di ricordarle che è umana e non una Dea scesa sulla terra per calpestarci tutti.
« Abbassa la visiera. » Le ordino secco, senza più traccia di ilarità nel tono di voce, mentre abbasso anche la mia, nera come il casco.
Dalla tasca della giacca di pelle prendo i guanti e li indosso come un Medimago prossimo all’operazione. Poi sfioro con affetto il manubrio e do un’ultima occhiata dallo specchietto laterale a Nieve. Pagherei ogni mio Galeone per vedere la scena da fuori.
Quando giro la chiave sul blocco d’accensione e avvio la frizione e l’acceleratore, il rombo della V7 squarcia il silenzio sonnacchioso, spaventa gli uccelli sulle grondaie che volano via schiamazzando e fa sussultare i passanti sul marciapiede, alcuni dei quali si voltano, infastiditi o ammirati, non mi interessa.
Il potente ruggito di questo motore inizialmente mi infastidiva: le scope sono molto più silenziose, ti permettono di goderti il vento, il fischio dell’aria, attirano meno l’attenzione. Ma a poco a poco, la sua forza, la sua violenza, mi hanno fatto innamorare. Ora, quando lo sento, mi riempie di una soddisfazione impensabile.
Do ancora gas, ruotando l’acceleratore e premendo la frizione: la moto sembra quasi ringhiare, prender fiato prima della corsa. L’intero telaio vibra sotto di noi, scosso dall’energia del motore: è una bestia tenuta in gabbia che freme.
Sorrido, al sicuro nel mio casco. Non pensavo di poter raggiungere il piacere del volo anche qui, su una banale strada Babbana.
Scivolo leggermente indietro sulla sella (dove ti reggerai, Rigos?), mi piego in avanti e, finalmente, parto, immettendomi in strada.
Queensway è piuttosto trafficata, ma me la cavo bene, sembro quasi un patentato novello. Voglio che Nieve si rilassi, che creda che sia tutto qui. D’un tratto, alla prima occasione dopo una marcia noiosa regolata dal ritmo di semafori, stop e precedenze, azzardo un sorpasso, scivolando a destra di un autobus a due piani che ondeggia come una grossa balena. Intravedo un passaggio fra di lui e una macchina ferma al semaforo. Mi ci infilo e la moto vi si insinua docile, come una serpe; quando accelero, sfioro volontariamente la carrozzeria dell’autobus per il puro gusto di spaventare la mia passeggera. Proseguiamo in direzione della Westway e ne approfitto per scaldare la V7 quando finalmente ci liberiamo del traffico e procediamo ad un ritmo più decente per i miei gusti. Ogni volta che ci fermiamo e poggio il piede a terra per stabilizzarci, scocco un’occhiata allo specchietto per controllare che Nieve sia ancora lì e non sia scivolata via.
Uno zellino per le tue bestemmie, Rigos.
Il centro di Londra scorre fluido intorno a noi, ma a poco a poco le case, i parchi, il Tamigi, vengono lasciati alle nostre spalle. Poi, finalmente, in alto leggo il cartello con un pizzico di eccitazione: “M4”, l’autostrada.
Ghigno e superato l’ingresso all’enorme strada a tre corsie, il mio cuore fa un balzo di gioia.
Mi schiaccio ancora di più sul serbatoio: lo scatto meccanico del cambio fa tremare l’intera struttura che risponde con un boato che si mescola al suono del vento, filtrato dai caschi. Ruoto la manopola dell’acceleratore sempre di più, afferrando ancora più saldamente il manubrio. La linea del pannello di controllo, come la mia adrenalina, continua a salire: centodieci, centoventi, centotrenta, centocinquanta. Guardo davanti a me la strada libera: laV7 scatta, vola, è il prolungamento del mio corpo, le mie ali in terra.

La mia risata viscerale si fonde al ruggito della moto.

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“Abbassa la visiera.”
Non mi piace il modo in cui Horus mi parla, la convinzione che impiega nell’impartire ordini che tanto non seguirò —non fosse altro perché non colgo il significato delle sue parole. Dev’essere abituato a muoversi così al Ministero, mi convinco, con uno stuolo di collaboratori al suo servizio cui dire cosa fare, quando e come. È così diverso dalla persona che ho conosciuto a scuola che non riesco a sovrapporre le due immagini, come se a parte il nome non condividessero nulla.
Lo fulmino con un’occhiata torva. Che cazzo ci faccio qui, me lo so spiegare meno di prima.
La moto si muove e i miei pensieri vengono risucchiati dall’impellenza della sopravvivenza. Sobbalzo, ora in allerta —una tipologia tutta sensi e corpo, con uno spazio ridotto dedicato alle elucubrazioni. Percepisco il corpo di Horus più vicino al mio e vorrei spingermi ancora indietro, ma so per l’esperienza che devo al Quidditch che non sarebbe saggio. Se lo facessi, finirei col culo per terra prima ancora di girare l’angolo e gli darei una soddisfazione di quelle che potrebbe rinfacciarmi per tutta la vita.
Ammesso che tu intenda vederlo tutta la vita, mi fa notare una voce allusiva.
Tu non hai idea di quanto sia bastardo il karma, le rispondo.
Non sarebbe necessario frequentarlo diuturnamente. Basterebbe un incontro sparuto una volta ogni vent’anni per dargli l’occasione di sfruttare la cosa a mio svantaggio. E io non lo sopporterei.
Per questo, durante le prime manovre, mi assicuro stabilità con i piedi. Non ho ancora capito dove posizionarli e non ho —ovviamente— ricevuto istruzioni in merito.
Basta il primo scatto della moto in avanti, infatti, a dimostrarmi che nessuno degli accorgimenti presi è servito a evitare l’inevitabile. Il mio corpo scivola in avanti e impatta contro quello di Horus. D’istinto, le mani abbandonano il sedile e balzano in avanti. Si depositano sui fianchi della mia nemesi alla ricerca di un appiglio, ora che il cuore batte nell’incertezza sopra il profilo ruggente della babbanità fatta mezzo di trasporto.
Il pentimento è pressoché immediato, ma il tempo per pensare scarseggia. Sono così impegnata a contrarre le cosce per evitare che i piedi tocchino l’asfalto e a trovare una soluzione per evitare che i nostri corpi stiano compressi come le scope negli sgabuzzini di Hogwarts da sospirare di sollievo ogni volta che Horus è costretto a rallentare e fermarsi, quale che sia la ragione.
«Vaffanculo, Sekhmeth» sibilo a denti stretti sotto al casco, quando quello scarta in modo del tutto inatteso in direzione di un gigante rosso fiammante.
Contraggo più forte i quadricipiti, sollevando le gambe finché le cosce non sfiorano quelle di Horus. Non fossi così atterrita, grugnirei di dolore per il tempo trascorso in una posizione così scomoda e per l’ennesimo sforzo richiesto al mio corpo. Rimpiango le staffe della mia Firebolt, la sua stabilità, la sua leggerezza, il mio controllo in sella.
Odio tutto questo.
Mi accorgo solo più tardi delle conseguenze venute con il sorpasso. Se fino a questo momento mi ero limitata a reggermi ai fianchi di Horus, adesso mi ritrovo premuta con tutto il busto contro schiena di lui, le braccia avvolte attorno al suo bacino, il capo nascosto dietro la sua spalla. Ho chiuso gli occhi e girato la testa dal lato opposto a quello in cui si trovava il bus a due piani —per non guardare probabilmente, spaventata da qualcosa che non conosco, da una situazione tanto nuova per me. Non mi sono neppure avveduta di aver intensificato l’abbraccio quando ci siamo avvicinati a tal punto da sfiorarne la carrozzeria.
Vaffanculo, Horus! Fanculo tu e la tua moto del cazzo!
Ho il respiro corto sotto questa gabbia a forma di cranio che sono costretta a indossare e che mi rende la testa pesante. Vorrei solo togliermela, fracassarla a terra —o contro la faccia di Sekhmeth— e mettere fine a questa buffonata. Dovevo sapere che chiedere il suo aiuto fosse una pessima idea; che non avrebbe portato a nulla se non a uno sbeffeggio. Era o non era quello che voleva vendermi e forse…
Il pensiero mi accompagna mentre, a un’andatura meno sostenuta, attraversiamo Londra. Il bruciore che sento alle cosce sale al petto e diventa furore, infiammando la mente, intanto che sciolgo l’abbraccio e allaccio le mani alla giacca per precauzione, decisa a non toccarlo. Sollevo anche il busto. Mi dico che preferisco cadere dalla moto piuttosto che mostrare complicità con il mio possibile carnefice, ma scoprirò presto che non è vero.
“Abbassa la visiera.”
Ripenso all’ordine proferito prima che partissimo, soffermandomi stavolta sul tono scarno, scevro da qualsivoglia emozione. Quello di un affarista che debba semplicemente liberarsi del carico e intascare il dovuto, realizzo. Alla rabbia si mescola l’indignazione di essere stata così rincoglionita da offrirgli l’occasione su un piatto d’argento. Ma perché stupirsi? Io gioco sempre sul filo dell’autodistruzione…
Quasi non mi accorgo del cambio di scenario, presa come sono a nutrirmi di risentimento e a immaginare i possibili, futuri scenari in cui dovrò tornare a difendermi da lui. Sono l’aumento esponenziale della velocità e il modo in cui il mio corpo rischia di scivolare via dalla moto a riportarmi al presente. Mi ridesto appena in tempo per serrare le ginocchia attorno al corpo della moto ed evitare di planare sull’asfalto ruvido.
Rapida, valuto la situazione. Con buona parte del derrière fuori dal sedile e la moto che attraversa l’aria come una scheggia, devo contare sulla mia forza muscolare e sull’instabile agguanto dell’ultimo secondo alla pelle nera del seggiolino per non cadere all’indietro e schiantarmi su un veicolo come quello che abbiamo superato a Londra. Deglutisco al pensiero del bus fiammante e un vuoto all’altezza del petto mina il mio coraggio. Ma quanto ancora a lungo posso resistere? Quanto potrò ignorare il bruciore ai quadricipiti?
Scansiono il profilo della moto, un ammasso di ferraglia con la quale non so dialogare. Non ne conosco la meccanica. Non so cosa possa essere toccato e cosa vada invece lasciato alle mani sapienti dei tecnici. Solo quando penso di aver perduto la speranza, i miei occhi individuano una sporgenza che potrebbe aiutarmi a riottenere la padronanza della situazione o, almeno, è quello che mi auspico. È la stessa che mi sono ritrovata a sfiorare in tutto questo tempo nello sforzo di tirare indietro i piedi per compensare la bassezza della moto e la lunghezza delle mie gambe. Finora non mi ha bruciata, non si è rotta, né si è staccata causando lo spegnimento del veicolo e l’isteria del proprietario.
Alle strette, con le ginocchia serrate sul corpo della moto, do un colpo di reni nel tentativo di compiere un piccolo balzo in avanti sul sedile. O la va o la spacca, mi dico. E, per una che ha sempre vissuto senza conoscere mezze misure, va bene così. Allungo le dita in direzione del maglione o della giacca di pelle di Horus per aggrapparmi a qualcosa nel mezzo della manovra e garantirmi maggiori probabilità di successo. Lui, del resto, sta tutto piegato in avanti per assecondare la corsa del mezzo e al suo fianco non riesco ad arrivare se non con la punta delle dita; circondarlo richiede quei pochi centimetri in più che proprio non ho. Non posso —non ho mai potuto, mai potrò né vorrò— fare affidamento su di lui. È con questi pochi elementi dalla mia che azzardo la mossa successiva: porto il piede destro su una delle marmitte, allento la presa delle cosce e faccio leva sul tubo di scappamento quanto basta per recuperare la posizione sul sedile.
Ricado sulla schiena di Sekhmeth con l’adrenalina che scorre forte nelle vene, senza fiato. D’istinto, l’altro piede trova riposo sulla marmitta opposta. E, sfinita, fisso entrambe le mani sulla giacca di pelle, mentre cerco di muovere il capo per evitare che vento, moscerini e polvere mi arrivino dritti negli occhi.

Mica l’ho capito cos’è ‘sta cazzo di visiera, alla fine.

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Isabella strabuzza gli occhi mentre un pezzo di tramezzino le penzola dalle labbra.
Le tiro un tovagliolo in faccia e lei lascia cadere il panino sul piatto.
« Non ho mica capito, puoi ripetere? » Biascica, pulendosi la bocca sporca di maionese, poi comincia a smanacciare, agitando mani, braccia, dita, tutto, facendo emergere prepotentemente il suo lato italiano.
« Cioè tu, tu! Hai osato NON dirmi che hai una moto? TU????! »
« Isa, quant’è vero Dio, se mi sporchi di maionese il soffitto… »
« MA SEI INFAME SEI. Tu che fino a ieri facevi tutto lo gni gni… » Agita le braccia come un pollo e io scoppio a ridere, coprendomi la faccia con la mano.
« E NON MI DICI NULLA? Tu che “no no, io le cose Babbane no eh…”. A buciardo, a’ nfame! » Incrocia le braccia e si allontana dal tavolo del mio terrazzo con una pedata che mi fa rabbrividire.
« Dài! Come sei suscettibile. Te lo ripeto allora: mi insegni come si va in una autostrada Babbana? » Lei mi scruta, misura la mia espressione colma di paraculaggine. So che non sarei credibile con lo sguardo da cucciolo, anzi, probabilmente sarei orribile da guardare. Allora uso la carta dell’adulazione che di solito con Isa funziona piuttosto bene.
« Chi meglio di te? Sarai una maestra fantastica… » Poi aggiungo, allungandomi verso di lei. « Te la potrei anche prestare… ogni tanto… » Vedo i suoi occhi illuminarsi, ma lei ostenta indifferenza mentre ripesca il tramezzino e se lo ficca in bocca con gran classe.
« Fappè… veo quel che poffo fà… »
Le sorrido, raggiante. Lei inghiottisce il boccone rumorosamente.
« Sì però tesò… fatti anche insegnare a cucinare perché non te poi magnà solo tramezzini. »

Quella stessa sera, con Isabella dietro di me a darmi indicazioni, ho preso la M4 per la prima volta. Mi ha spiegato tutto: piazzole di sosta, corsie di sorpasso, uscite, direzioni, limiti di velocità. Se solo Nieve sapesse che è lei l’artefice indiretta… ma non deve saperlo. E comunque, era una cosa che dovevo imparare, perché qui, anche se non è una pista, posso correre. Ed è proprio quello che faccio, finita la spiegazione: accelero mentre sento Isabella ficcarmi le unghie nella pancia e urlare: « MORTACCI TUAAAAaaaaa VAI PIANOOOoooo!!! »


Mi sembra quasi di sentirla nelle orecchie, ora, mentre faccio salire i giri della moto per accelerare ancora di più. Il “vaffanculo” di Nieve è stato, però, il sonetto più bello, la musica che ancora mi allieta la corsa. Mi ammazzerà una volta scesi, ma diamine se ne vale la pena. Ma quando sfioriamo i centosessanta, mi dimentico di lei e di chiunque. L’asfalto scorre sotto le ruote come un dorso di un Ungaro Spinato: quelle pesanti ed orride macchine schizzano di lato, lasciando libero il passaggio come accade quando, da falco, volo in uno stormo di piccioni terrorizzati. Se potessi, chiuderei gli occhi e mi lascerei cullare da tutto questo. C’è qualcosa di meraviglioso anche in questo artificio: qualsiasi cosa mi dia libertà, è, per me, una droga irresistibile.
Quando però mi sento tirare la giacca i cui lembi tremano per via del vento e dell’attrito, ritorno in me e mi ricordo di Nieve. Rallento e controllo rapidamente lo specchietto destro.
Non riesco a capire cosa diamine stia combinando, ma la sento muoversi troppo e reggersi troppo poco.
Un essere umano normale si sarebbe stretto a qualunque cosa avesse avuto davanti come, del resto, ha fatto anche lei al momento del sorpasso. Ed in effetti il mio fine ultimo era anche questo. So quanto detesti la mia presenza e costringerla, invece, a cercarla per salvarsi letteralmente il culo era la lezione numero uno cui volevo sottoporla.
Ma quella grandissima cretina, cocciuta, no: Sua Maestà non si abbassa con noi plebei, fa esattamente quel che diamine le pare dall’alto del suo piedistallo.
Questa qua s’ammazza e mi porta a schiattare con lei: ho sottovalutato la sua cocciutaggine e la sua boria.
Impreco, mentre comincio a decelerare; il mio sguardo saetta verso i cartelli che ci sfrecciano di fianco e, appena ho un passaggio libero, abbandono quella di sorpasso e mi sposto sulla corsia di marcia. Individuo la piazzola di sosta indicata dal segnale e, decisamente controvoglia, mi ci fermo.
Rimango qualche secondo immobile sulla moto ferma e rombante, la schiena inarcata e la testa china: sto cercando di ritrovare il controllo prima che lasci la Rigos qui a salutare le pecore che pascolano a qualche km da qui, sulle colline inglesi. Il mio petto si alza e si abbassa, poi prendo un respiro, spengo il motore e metto il cavalletto.
Mi tolgo il casco e lo poso sul serbatoio; i capelli sciolti sono scompigliati e me li lego velocemente. Ognuno di questi gesti banali è volto a calmare l’irritazione ma…
« La vuoi finire di cercare di suicidarti, pezzo di scema che non sei altro?! » Devo gridare per sovrastare il rumore dei veicoli in marcia.
Mi passo la mano guantata sulla faccia, spostando dal viso le ciocche rosse sfuggite all’elastico. Non aggiungo altro ed in silenzio mi avvicino, augurandomi che sia solo troppo intirizzita per ribellarsi come suo solito. La visiera, tanto per cambiare, è alzata: vorrei urlarle in un orecchio: “Che ti avevo detto?” Ma mi trattengo. Sono sicuro che si è fatta venire l’orticaria perché ho osato dirle cosa fare. Il nervoso mi assale nuovamente, è come la risacca del mare che va e viene sulla battigia.
Impreco ancora mentalmente ma mi calmo e sospiro, poi mi inginocchio di lato alla V7, all’altezza della marmitta. Prendo senza troppe cerimonie il polpaccio di Nieve, cercando di evitare un calcio in faccia, e le piego la gamba, di modo che il piede si posizioni esattamente sulla staffa apposita. Alzo gli occhi verso di lei, guardandola dal basso verso l’alto. Mi sento un papà alle prese con una bimba che fa i capricci.
« Qui. I piedi vanno qui. » Nel dubbio le indico col dito la staffa di metallo, poi faccio il giro e controllo che anche l’altro sia assicurato. Ma possibile che non sia mai salita in due su una scopa? Ma diamine, anche da sola, la Firebolt ha delle maledettissime staffe, non ti viene naturale? Sono sconvolto, ma sotto sotto sono compiaciuto. La vendetta è qualcosa di meraviglioso.
La esamino per qualche secondo come un pittore che sistema il proprio modello prima del ritratto; poi mi avvicino di più e le sistemo la postura della schiena posandole il palmo tra le scapole.
« Non sei una gallina che cova l’uovo. Devi essere più stabile e meno rigida. » Preso dalla spiegazione, le poso una mano poco sopra il ginocchio fasciato dei jeans e le allargo leggermente la gamba verso l’esterno, in modo che rilassi i muscoli e la smetta di sembrare un Avvincino ad uno scoglio. Poi mi fermo così una frazione di secondo: la mia mano sembra gigantesca sulla sua coscia che fisso accigliato. Il turbamento per la sua eccessiva magrezza mi coglie di nuovo, ma lo scaccio via con ostinazione.
Ritraggo la mano, senza rendermi conto del gesto e della confidenza che mi sono preso, e afferro il casco per non lasciarmi prendere dai pensieri. Cazzi suoi, qualsiasi cosa le sia successa.
« O ti fidi di me, o ti fidi di me, Rigos. » Le punto l’indice sul casco, all’altezza del naso. Poi, però, in contrasto con la ruvidità della mia voce, con eccessiva premura le abbasso la visiera per proteggerle il viso.
« Smettila di fare la biscia e reggiti a me. Non alla giacca. A me. »
Il labbro si arriccia in un sorriso sghembo.

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Per dover di cronaca, per poter trasporre l'accento scozzese in un testo italiano, è stato usato il dialetto romano come equivalente.
 
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Horus sta ridendo. Sotto il mio corpo —così vicino da potersi fondere al suo—, percepisco i sussulti che ne sanciscono il divertimento. Quello dato dal fatto che sono quasi caduta dalla sua moto di merda, suppongo. Il pensiero trivella il mio cervello con una forza che sovrasta ogni altro rumore, ogni altro fastidio e per un istante dimentico le precauzioni della cui importanza ho quasi pagato il prezzo al profumo di asfalto e carne lacerata. Horus sta ridendo, e di gusto.
Sta ridendo di me.
Stringo così forte la presa attorno ai lembi della giacca di pelle che sento le unghie dolere. Potrebbero spezzarsi e io continuerei a premere senza curarmi delle ferite esposte al rischio di infezione.
Un crescendo di furore gioca a confondere le mie sinapsi. La gelatina molle che riempie la mia calotta cranica è avvolta in una spirale incandescente che parla una lingua infida, capace di spingermi a mosse che non sono soltanto azzardate. Sono suicidarie.
Mi butto, decreto.
Sono al limite della tolleranza e, se non bastassero il respiro corto e il fremito impaziente delle mani, a ricordarmelo è il dolore al cuoio capelluto. Serro la mascella. La moto, la mancata spiegazione su come cazzo starci sopra, le manovre azzardate, la velocità, la vicinanza forzata e infine la risata —la risata: un castello di libertà che Horus ha costruito per il proprio divertimento, ma che ha appena decretato la fine dei giochi.
Non ho più intenzione di sopportare.
Mi butto, decido e posiziono come meglio posso i piedi per prendere slancio.
Non immagino con precisione le conseguenze. Non potrei. Non so quanto faccia male rotolare sull’asfalto. Non capisco pienamente cosa potrebbe succedere se finissi contro uno dei veicoli che stanno dietro di noi. O forse sì, e sono pronta comunque ad accettare il rischio.
Come se mi avesse letto la mente, Sekhmeth rallenta e si sposta sull’altro lato della strada. Istintivamente alzo il viso e, con quel po’ di capacità visiva che mi è rimasta, tento di capire cosa stia succedendo. Quando entriamo in uno spiazzo a ridosso della carreggiata, vicininissimi al traffico, e sento la moto spegnersi, mi domando se non sia questa la meta finale. Se non sia qui che intende scambiarmi per il gruzzolo di galeoni che gli sono stati promessi dall’acquirente.
Mi faccio investire da uno di quei cosi babbani piuttosto, penso.
Eppure, mentre stropiccio gli occhi con la destra nel tentativo di trovare sollievo da tutti i corpi estranei che hanno trovato asilo tra palpebre e occhi e scorgo di tanto un tanto una vettura passare lungo il limitare della piazzola, mi attraversa le spalle un lieve sobbalzo di spavento. Nel cielo, è raro vedere nugoli di scope volare così vicine a meno che non sia in corso una partita e, anche in quei casi, l’assetto snello dei mezzi rende più semplice la gestione dei flussi. Qui, è tutto pesante e condensato in uno spazio tanto piccolo da rendermi difficile il respiro; da eliminare il senso di libertà che viene con l’infinità del cielo e l’assenza di limiti.
L’urlo di Horus mi costa un sussulto. Colgo con un secondo di ritardo quello che sta tentando di dirmi, ma non ho problemi ad afferrare l’insulto. Sopra gli occhi gonfi, le mie sopracciglia si aggrottano in un’espressione ostile. Sono pronta a togliermi il casco e a spaccaglierlo in faccia, quando mi precede e si china in prossimità delle mie gambe. Un secondo dopo ha il mio polpaccio in mano e sta impartendo le lezioni che avrebbe dovuto darmi a suo tempo sul veicolo.
Lo lascio fare, prendendo appunti in silenzio, più che altro perché ho capito che non siamo ancora giunti a destinazione e io sono dispersa in un punto non meglio precisato fuori Londra. E col cazzo che passo chissà quanto altro tempo con i quadricipiti in contrazione! Ad ogni mossa, però, raggiungo un nuovo e più elevato livello di insopportazione —rinvigorito dai commenti simpatici nei quali si lancia l’altro.
A scuola era davvero divertente. Negli anni, deve aver perso tutto il suo smalto.
C’è un momento in cui, tra l’ultima considerazione che ho fatto e la mossa successiva di Sekhmeth, qualcosa cambia. È una vibrazione nell’energia cui guardo con immutato sospetto —perché qualsiasi cosa lo riguardi merita lo stesso trattamento—, una torsione delle cellule che compongono lo spazio così innaturale che provo una sensazione di disagio all’altezza dello stomaco e batto le palpebre in preda alla confusione.
La mano di Horus è ferma sulla mia coscia. Non ha accompagnato una spiegazione verbale al gesto, ma il messaggio è passato comunque: non è necessario che affidi la mia stabilità al mezzo basandomi solo sulle cosce ora che ho trovato le staffe, un po’ come avviene a bordo di una scopa. Sono i secondi di troppo in cui le sue dita rimangono sui miei jeans a non rientrare nel quadro; a indurre il mio sguardo a spostarsi dal punto d’appoggio al suo viso —per la prima volta in assoluto paralizzata dal ronzio che viene dal contatto e dal quale scaturiscono più interrogativi che reciproca repulsione.
Non è che l’abbaglio di un momento —il sapore del fiele scambiato per tregua— prima che le cose tornino alla normalità. Lo strombazzare di un camion mi causa un trasalimento e in un istante sono in posizione eretta, ancora a cavalcioni sul corpo della moto. Poi, le parole di Sekhmeth fanno il resto.
Furiosa, tolgo il casco per scoprire che, sì, ho guadagnato qualche centimetro di capelli. Scosto alla bell’e meglio le ciocche che minacciano di coprirmi il viso. Scavalco il veicolo. Carico un colpo con il casco per sbatterlo contro il petto di Horus. Sotto le trame di onde d’argento, uno sguardo di sfida brucia come il sole in piena estate. Il gonfiore delle palpebre e il reticolo di capillari esplosi sulla sclera ne attenuano solo in minima parte l’effetto urticante, ricordando che sotto quel pallore —purtroppo— sono umana anch’io.
«E non potevi dirlo prima, coglione?» lo rimbecco con astio malcelato. Sbatto il casco a terra. L’incarnazione umana delle Furie. «E che cazzo hai da ridere?» ringhio.
Dopo il tempo speso a incassare le sue provocazioni, con un livello di pazienza basso come il mio, è il momento della detonazione. Il gesto che segue non lo sento nascere e crescere nella mia mente. Viene semplicemente alla luce. Ha le sembianze di un pugno chiuso che mira alla faccia di Horus fucking Sekhmeth. Non ho calcolato nulla: che potrei rompermi le nocche se andassi a segno contro la sua mascella, che potrebbe fermarmi e spezzarmi un polso, che potrebbe anche scegliere di lasciarmi qui e allora sarei costretta ad affrontare il vasto nulla per tornare a Londra.
La verità è che non sto pensando, che non ci riesco. Voglio solo cancellare il sorrisetto dalle sue labbra e il ricordo della sua risata a contatto con il mio sterno; la sensazione di impotenza che mi fa sentire persa in questo stramaledettissimo fazzoletto di terra babbana e i suoi continui insulti —il promemoria costante di quanto abbia sbagliato a chiedergli aiuto.
È a questo che rivolgo ogni mia attenzione, mentre infondo nel gesto la stessa disperazione di quel giorno al Ministero. Ho mostrato una mia debolezza ed è diventata motivo per una barzelletta a lungo termine. Perché a Horus Sekhmeth non bastava un giretto con cui mettermi in difficoltà a bordo di un mezzo babbano, no. Doveva infierire di più, molto di più.
Lo avrebbe fatto? La persona che ho conosciuto a scuola, l’avrebbe fatto? Il confronto non mi intenerisce. Mi disgusta. A disgustarmi di più è la consapevolezza che, se fossi a casa, da sola, quel dolore è a me che vorrei rivolgerlo.
«Sei un pagliaccio! Vattene a fanculo!»

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Cerco di evitare il colpo che Nieve carica col casco facendo un rapido passo indietro pericolosamente vicino alla strada. Mi liscia, ma sento comunque l’aria sfiorarmi all’altezza degli addominali che, per riflesso, tendo per incassare.
Ho ancora il mio, di casco, e mi viene un’insana voglia di tirarglielo in testa.
Non mi aspettavo una reazione così violenta, soprattutto a fronte del fatto che, cazzo, sei una Strega, Rigos. Sei abituata alla velocità, sei abituata a cavalcare una scopa e va bene, mi dico, un mezzo Babbano è diverso, ma questa scenata mi lascia senza parole.
È quando tira il casco per terra, che rotola per qualche metro e fa un rumore secco e sordo sull’asfalto, che rimango veramente sconvolto. Spalanco gli occhi, assistendo a questo patetico scempio di emozioni totalmente alla deriva. Mi parte un tic all’occhio e d’istinto guardo l’anello sul mio dito indice: la runa è silente. Mi ricordo quando mi ha detto che l’ho minacciata con i proiettili di Hagalaz; lei non ricorda il dolore che mi ha inflitto –doppio, visto dove sono dovuto andare dopo– e non ricorda nemmeno che è stata lei la prima a minacciare.
Nonostante la distrazione, vedo arrivare il pugno: come al rallentatore guardo Nieve caricare il braccio ma anziché spostarmi o fermarla, inclino volontariamente il volto verso la minuscola mano che mi arriva contro. L’impatto non è doloroso in sé per sé, ma gli anelli che indossa mi feriscono il labbro e stringo gli occhi per il dolore pungente. Rimango immobile, mentre la sento continuare ad inveirmi contro.
Hai superato il limite.
Con una calma di cui non mi ritenevo capace, mi tolgo i guanti e me li ficco in tasca. Schiudo le labbra per pulirmi le stille di sangue con l’angolo del pollice e per qualche secondo ne osservo la macchia che ha lasciato sulla pelle.
Non la guardo mentre mi allontano per raccogliere il casco da terra; la visiera è rotta, ma non ci bado. Lo poso, insieme al mio, sulla sella della moto.
Torno da lei senza alcuna espressione sul viso: so perfettamente che se solo mi lasciassi andare le stringerei quel collo finché la sua voce da oca starnazzante non si affievolirebbe.
« Sei ridicola. »
È una constatazione che mi esce dalle labbra in un soffio, non lo uso come un’offesa. Lo dimostra questa stupida scenata. Perché posso arrivare a comprendere molte cose, posso capire che i miei metodi siano piuttosto drastici, ma cazzo.
Mi guarda con quella faccia arrossata, i capelli scompigliati dal vento che si disperdono intorno alla sua testa come serpi.
Medusa. Ecco chi mi ricorda. Solo che Medusa era capace di pietrificare col solo sguardo. Nieve, invece, non mi pietrifica; forse vorrebbe farlo, ma mi fa solo incazzare come una belva.

Mi avvicino e, senza troppe cerimonie, mi chino placcandola e avvolgendole il braccio attorno alla vita minuscola, poi me la carico sulla spalla come un sacco di bubotuberi. Me ne frego dei calci e delle imprecazioni e mi dirigo verso il guardrail che scavalco agilmente. Scocco un’occhiata veloce alla moto e rimango a portata mentre cammino col mio carico a qualche metro di distanza dall’autostrada. Credo non sia nemmeno legale fare una cosa del genere, ma figuriamoci se mi importa qualcosa. Quando il rumore del traffico si attenua –sì, brutta stronza, ho notato che ne eri spaventata–, la scarico di malagrazia a terra, sull’erba, abbassandomi quel tanto per non ammazzarla—vista la mia altezza— ma abbastanza per farle sentire la botta.
Poi mi chino, piegandomi sulle ginocchia, così da mettermi alla sua altezza.
I miei occhi sono lame d’acciaio, mentre taccio e la fisso.
« Hai rotto il cazzo. »
Vorrei urlarglielo, perché la rabbia che sento dentro è tale che le mani mi prudono e le scaglierei addosso tutte le fatture che conosco. Ma è la delusione a pungermi la lingua, la stessa lingua che mi sfiora l’angolo della bocca per saggiare il taglio che mi ha procurato col suo ridicolo pugno. Il sapore ferroso del sangue mi dà forse più fastidio del resto in sé.
« Mi hai sentito? Hai. rotto. il. cazzo. »
Ripeto e scandisco bene le parole. Non penso di averlo detto abbastanza.
Per la rabbia arriccio il naso, come un cane che trattiene un ringhio, ma no, Rigos, non te la do la soddisfazione di vedermi veramente incazzato.
« Credevo di aver visto, in questa specie di kneazle randagio ed isterico che sei diventata, quella che un tempo era una mia amica. Ma mi sono sbagliato. » Questo credo di dirlo più a me stesso che a lei. La delusione mi fa scoprire i denti, un proseguo del ringhio che sto trattenendo.
« Non capisco che cazzo di problema hai con me, Rigos. Credi che stia facendo questo perché sono un sadico? »
La scruto e inclino il capo. Non ho davvero idea di come io stia facendo a mantenere un tono così pacato. Credo di essere al limite e forse la furia traspare solo dai miei occhi.
« Mi hai chiesto di aiutarti: se non ti fidi di me nemmeno al punto da tenerti in sella e ti schifi al punto da non stringerti a me, preferendo ammazzarti, che cazzo me lo hai chiesto a fare? Cosa ti aspettavi, che ti dessi un album da colorare? »
Respiro piano, ma comincia ad essere difficile. È un fiume inarrestabile, in procinto di esondare. Il mio braccio si stende in direzione della moto, indicandola.
« Ti è forse passato per la testa che avessi un piano e che non necessariamente fosse per deriderti? Ti è venuto in mente che forse era ora che tu la smettessi di sbraitare e per una volta… » Alzo l’indice. « UNA cazzo di volta, ti sfogassi in un altro modo? Che forse è anche questo tuo incanalare le emozioni in maniera sbagliata a frenare la Magia? » Butto fuori l’aria, come se annaspassi sott’acqua. Non riesco più a trattenere tutto ciò che voglio dire e le vomito tutto addosso. Le darò un motivo, almeno, per odiarmi e volermi prendere a pugni.
« Il mondo non gira intorno a te, egocentrica del cazzo! » È ora che ringhio. « Non so cosa ti sia successo, ma, spoiler, la merda accade a tutti. Tutti soffrono. Ma non hai il diritto…» Ed è ora che la mia voce comincia a tremare di frustrazione. Ripenso a tutto quello che ho dovuto passare, alle litigate con mia madre e alle sue lacrime quando le ho rinfacciato tutto, a quello che ho scoperto su quel grandissimo figlio di Morgana che è mio padre; a ciò che ho abbandonato, a Emily, a tutti coloro che ho lasciato indietro solo per portare avanti una missione suicida dove, poco ma sicuro, mi farò ammazzare dal Signore Oscuro. Al patimento, al dolore, alle lacrime, all’insofferenza dei vicoli ciechi, a coloro che ho ucciso.
Vai tu a fanculo, stronza.
« Tu non hai il diritto di trattare di merda chi ti sta intorno. Tu. Non. Ne. Hai. Il. Diritto. » Soffio queste parole, mentre un rivolo di sangue mi sporca il mento. Me lo pulisco rabbiosamente con il dorso della mano. Udjat, sotto al mio occhio sinistro, brucia come se stesse andando a fuoco; non mi stupirei se spiccasse ancora più vivida del sangue che mi sto ripulendo.
« I miei metodi sono rudi, è vero. Ma ti ho aiutato, anche se questo non ti piace. Anzi… » Mi correggo « Una volta di più: ti ho anche coperto quando quei coglioni avvomaghi sono venuti a chiedermi testimonianze. » Il respiro accelera, come il cuore, e le gambe cominciano a dolermi per la posizione innaturale; sposto un ginocchio a terra con il palmo della sinistra a sostenere il mio peso. Non ne posso più.
« E perché? Perché secondo te lo avrei fatto? »
Ecco, lo vedo l’argine.
« Non perché mi serve una storia patetica per scoparmi qualcuna, ma perché non sono uno stronzo egoista come te. Perché ti ho voluto bene, perché credevo che potessimo ritrovarci, perché avevo intravisto la mia cazzo di amica e volevo vederla uscir fuori. » Mi pento immediatamente di ciò che ho appena ammesso e di come mi sia uscito colmo di delusione e rabbia, al limite del grido. Mi alzo di scatto, sfinito. Mi odio per essermelo lasciato scappare.
« Mi hai stancato Rigos. Scendi dal tuo cazzo di piedistallo. »
Col cuore che mi martella nel petto, Osiride mi sia testimone, le do le spalle e mi incammino verso il bordo del guardrail dove mi appoggio premendo i palmi delle mani e sposto il peso sulla gamba destra, guarda caso proprio quella che porta la cicatrice del regalo della Rigos; chino il capo esausto, deluso, incazzato, schifato. Mi tremano ancora le mani e guardo le nocche sbiancare come sassi. Abbasso gli occhi: a terra dei ciuffi di tarassaco crescono ostinati fra le crepe dell’asfalto.
Davvero, Amon? Veramente stai facendo questo parallelismo di merda?
Digrigno i denti per la frustrazione, ma il metallo del guardrail è caldo per il sole che da stamani ci batte sopra. Paradossalmente, è questo calore, come se fosse una benedizione di Ra, a calmarmi. Le mie spalle si alzano e si abbassano sempre meno velocemente, il respiro rientra al suo ritmo normale. A fatica, piego la testa all’indietro, verso l’alto, e nel farlo scorgo in lontananza il cartello con la direzione che intendevo prendere se tutto questo teatrino non fosse accaduto.
Ha proprio ragione, quell’altra: sono un coglione.
« Rimettiti il casco. » Ordino asciutto e, per l’orrida bocca di Seth, me ne sbatto il cazzo del tono. Continuo a darle le spalle. « Ti riporto a Londra. »

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C’è sempre una prima volta per tutto. Io, che nella mia vita ho conosciuto i due estremi della violenza e della cura, non ho mai ricevuto una strigliata. Non come quella cui mi sta sottoponendo Horus, fatta di parole forti e capaci di ferire ma lontana dall’uso delle mani. Ci metto un po’ a capire che non arriveranno i colpi; che non dovrò proteggermi e reagire per evitare la sopraffazione. Ciononostante, per il frammento di un secondo, sento la cicatrice sul dorso della mano destra pulsare.
Per questo motivo, quando Sekhmeth mi scarica di malagrazia sul manto erboso, il mio primo istinto è di mettermi a sedere. Con la sinistra reggo tutto il peso del corpo. La destra, invece, la tengo sospesa tra noi due per precauzione. Sembro un animale abituato alle botte che tema di vederle arrivare e provi a pararsi prima che il bastone arrivi a illividirgli il corpo. L’improvviso capovolgimento dei ruoli fa ridere, o pena a seconda dei punti di vista.
In un certo senso i colpi arrivano, mascherati da parole. L’esondazione cui sto assistendo è inaspettata, almeno quanto lo sono alcuni suoi passaggi. Mentirei se dicessi che non vorrei ribattere a tono e il mio volto deve sicuramente tradirmi. Il discorso sull’amica ritrovata è una cazzata che stento a sopportare, perché basta, Horus, basta. È un giochetto che abbiamo già fatto a scuola —allontanarci e ritrovarci dopo mesi di vuoto—, ma adesso siamo cresciuti e di acqua sotto i ponti ne è passata troppa per ignorare il reciproco disinteresse. Io sono rimasta a Hogwarts con le mie pene. Tu sei andato via con i tuoi affanni e nessuno dei due ha trovato posto per l’altro nella propria vita. La storiella del ritornare improvvisamente a frequentarsi dovresti risparmiarla a me e a te stesso.
Altri passaggi, invece, toccano corde rimaste sopite a lungo. Negli ultimi due anni, nessuno che abbia saputo di Astaroth ha osato contraddirmi. Soltanto Thalia —con una gelosia che ancora non le perdono— ha mostrato un atteggiamento ostile rispetto al discorso. Malgrado ciò, non mi ha mai parlato come sta facendo Sekhmeth adesso.
Non me ne avvedo, ma schiudo la bocca per la sorpresa e traggo un respiro sul finire dello sfogo di lui. Così, quando si allontana, mi lascio andare contro l’erba e finalmente espiro. Fisso gli occhi sul cielo, stretta nel maglione color panna che ho deciso di indossare oggi. Nella fretta di uscire per tempo e mettere in atto lo spettacolino d’entrata, ho dimenticato di prendere una giacca, ma non è dall’esterno che si origina il freddo che ricopre le mie ossa come l’umidità appanna i vetri.
L’adrenalina sta scemando e comincio a sentire tutti i dolori e i fastidi che aveva attenuato finora. La mano pulsa a un ritmo che non mi piace. Realizzo presto di avere ragione: un mugugno di dolore mi scappa dalla bocca quando provo a distendere le dita. Bel colpo, Nieve! Ne sarà anche valsa la pena, ma guarda come stai messa ora.
Quello non ha solo la testa dura. Pure la faccia tosta!
L’ordine secco di Horus arriva mentre tento di capire… Cosa? Non lo so nemmeno io. In ogni caso, non ha più importanza. Si ritorna a Londra.
Mi alzo, tenendo il polso destro in protezione con la sinistra. Non è una manovra semplice da realizzare, ma ho affrontato di peggio.
Raggiungo Horus in prossimità del guardrail. Sembra esausto, genuinamente. Stavolta non ho motivo di dubitare della sua sincerità. Il ricordo del colore assunto dalla sua voglia durante la strigliata torna a stagliarsi nella mia mente. Un istinto a tratti sconosciuto di allungare la mano e sfiorarla con delicatezza ha richiesto tutta la mia forza di volontà per essere soppresso. Il ricordo di una vita lontana, di una me che non rammento.
Scavalco la sbarra di metallo e mi piazzo davanti a lui, emulandone la posa. La differenza è che utilizzo un solo braccio per sostenere parte del mio peso e tengo l’altro seminascosto vicino allo stomaco.
«Hai ragione» esordisco, gli occhi fissi nei suoi. «Non sono una persona da frequentare. Per nessuno e in nessun contesto». Non è un caso che mi sia data alla solitudine negli ultimi due anni, ma è un dettaglio che tengo per me. Il rischio sarebbe, altrimenti, dover dare spiegazioni che rivelerebbero troppo. «E rompo parecchio il cazzo» gli concedo con serenità. È un aspetto di me con il quale ho fatto pace e del quale so sorridere. Non con lui magari, ma in altri luoghi —il Black Skull, ad esempio— la mia capacità di far saltare i nervi a chiunque è motivo di scherno e a tratti considerata una qualità. «Ma ho ragione anch’io».
So di averne e su molti aspetti. Non mi riferisco soltanto alla sua ammissione circa i modi del cazzo che mi ha usato. Mi riferisco alle cose che non sa e che non vede e alle ripercussioni che hanno su chi lo circonda —su di me. Alla leggerezza con cui pensa di recuperare un rapporto, basandosi sul nulla e dando per scontato che il passato non abbia lasciato delle ferite, per dirne una. Alla presunzione con cui suppone che la persona che ha lasciato a scuola esista ancora senza conoscere nulla della mia storia.
Più di due anni di silenzio non si cuciono con ago e filo, Horus. La paura di un nuovo abbandono rimane sempre lì sull’uscio del cuore. Come faccio a sapere che non lo farai ancora? Che non ti scorderai di me e andrai avanti con la tua vita, legato ad altri affetti che so esserti davvero cari? È come sentirsi un giocattolo sull’orlo di un carroccio: sai che, al primo scossone, cadrai sul sentiero battuto —dimentico e lasciato alle intemperie— e dovrai cavartela da solo, farti nuovi amici giocattoli, trovare un bambino che ti stringa a sé la notte. Ma queste cose, Horus… queste cose non ce le diremo mai.
«Non avevo mai riflettuto sul fatto che il mio caos interiore si potesse ripercuotere sulla magia» argomento, pensosa, a tratti ancora stupita dall’intuizione di Horus e dal potere rivelatore delle sue parole. Torno a guardarlo. «Tu sì. Quindi, significa che ho ragione nel pensare che tu possa aiutarmi».
I miei occhi scansionano il suo viso. Visto da così vicino, mi rendo conto di quanto sia cambiato e il tempo assume un sapore tutto diverso. È come se d’un tratto prendessi contezza di ogni singolo giorno trascorso dal mio diciottesimo compleanno a oggi.
Accosto la mano destra al suo viso, mantenendo immutata la posizione rannicchiata delle dita. Impalpabile, sfioro con il pollice la scia di sangue sul suo mento. «Mi dispiace per questo» dico. I miei occhi sono lastre di neve solida nell’acciaio dei suoi. Sono i cristalli soffici nel mio tono di voce, pronti a sciogliersi a contatto con il calore delle dita, a portare il dispiacere per l’accaduto. «Ma non cercarla più, quella persona che dici di aver intravisto in me. Non esiste». La serietà con cui gli parlo è la stessa che uso sempre quando annuncio la morte della Nieve d’un tempo. La mano, intanto, si è ritratta. «È come tentare di disseppellire un cadavere e sperare di trovare carne sulle ossa, anche se sai che l’hanno mangiata i vermi».
Il messaggio sta tutto in ciò che non ho detto: non sprecare tempo.
Con uno slancio, mi allontano dal guardrail. Mi volto verso il traffico e lo spavento si accompagna di nuovo al tremore. Lo sento insinuarsi sotto la lana spessa del maglione e avvolgermi le spalle sottili. A passi incerti mi avvicino al casco che ho lasciato cadere con la violenza dell’esasperazione. Ricordo il modo in cui Horus mi ha caricato sulla spalla e scuoterei il capo in segno di disapprovazione, incapace però di trattenere un sorriso, se il passaggio delle vetture a velocità tanto elevata non risucchiasse tutta la mia attenzione.
Recupero l’oggetto. Tiro un sospiro di sollievo. Poi, per allentare la tensione emotiva, apro di scatto la mano destra. È un misto tra un urlo trattenuto e un ringhio quello che fuoriesce dalla mia bocca, coperto dal rumore del traffico. Forse, mi dico mentre sto con il busto leggermente chino in avanti, avrei dovuto srotolare le dita lentamente. Ripeto il gesto un paio di volte, stavolta senza anelli. Se la mano dovesse gonfiarsi, non vorrei affrontare il problema di averli bloccati alla base delle dita.
Rimango in attesa vicino alla moto, pronta a tornare a Londra. Mi rigiro il casco tra le mani. Noto la crepa sulla visiera. Sorrido.

Proprio ora che avevo capito cosa fosse.

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Non mi aspetto una reazione tanto pacata. Quando la sento scavalcare silenziosa il guardrail ho il volto in direzione della strada, opposto al suo sguardo. Sussulto quando allunga la mano sulla bocca ferita e mio malgrado devo girarmi. Non sono intenerito dalla concessione che mi ha fatto. Si rende conto di essere una rompi cazzo? Buon pro le faccia. Se continui a preservare, non sei nemmeno degna di un perdono. Ma è il dispiacere nel suo gesto fin troppo gentile a sorprendermi. Eppure… non ci riesco, non riesco ad ammorbidirmi. Ribadire di non essere una buona frequentazione lo trovo un commento patetico ed ebbro di vittimismo.
Lo so che sono troppo duro con lei: io stesso ho detto che tutti soffriamo e io ignoro cosa abbia passato.
« Non mi sembra che tu mi abbia inviato un Gufo… » Borbotto, sfuggo il suo sguardo. Questa bambinata mi sfugge dalle labbra come una parolaccia scappata ad un ragazzino davanti al suo genitore. Stringo la presa sul metallo del guardrail. « Le amicizie possono continuare e sopravvivere anche se silenti. » Ribadisco.
« Io non sono così, Nieve, io non ragiono come te. Lo so che quella Nieve e quell’Horus non ci sono più, che siamo cambiati…» Taccio un instante e il tempo trascorso e tutto ciò che ho affrontato e che mi ha cambiato mi caracolla addosso e le lascio il tempo di continuare. « Profondamente, ma… »

Arriva all’improvviso, silenzioso come i passi di un lupo in un bosco. Si insinua, come un brivido che corre lungo la spina dorsale, si cristallizza nelle vertebre.
È una mano fredda che risale la pelle, l’accarezza quasi, come quella di un amante, come la punta di una lama che è pronta a sfregiare, a tagliare ogni lembo di carne. Cola lungo la schiena, una goccia d’acqua che stilla da una fonte sconosciuta, ma brucia, arde, corrode. Non è acqua, è acido.
È l’odore che mi stringe al collo come un cappio, si sostituisce a quello dell’asfalto e dei gas di scarico, a quello del sangue.
L’odore della putrefazione.
Mi si appanna la vista e alzo gli occhi verso Nieve, ma non la vedo, non ci riesco più. Non vedo più lei, non vedo la moto, non vedo l’autostrada. All’interno di una tempesta, vedo lampi che mi attraversano come scosse elettriche. Flash di immagini, di odori, di voci. Non si rende conto, Nieve, di ciò che ha evocato, dell'immagine che, ingenua, ha presentato alla mia mente, all'argomento che mai, mai, mai avrei voluto affrontare, ad un ricordo che avevo dimenticato.

Schiudo le labbra, d’improvviso la gola è secca, strozzata da un grido che non ho emesso. Il sapore della nausea mi cinge lo stomaco che mi stringo convulsamente.
Nieve non ha idea di cosa ha scatenato involontariamente. Non ha idea di cosa ha risvegliato nella mia mente, un ricordo che per anni ho tenuto in fondo al cassetto delle memorie, così in fondo da averlo totalmente dimenticato. Era stata Emily a rinchiuderlo lì, ad aiutarmi a non toccare più la chiave, a seppellirla come un cane con l’osso. Erano stati i suoi baci, le sue carezze, il suo corpo caldo, il profumo dei frangipani, a guarirmi dalla paura. Torna, ti prego, torna, ne ho bisogno ancora.

Indietreggio, col volto deformato dalla paura, dal ribrezzo. Mi tocco la bocca, trascino il poco sangue rimasto con le dita che mi osservo con le mani tremanti. Alzo di nuovo la testa, le pupille sono dilatate da ciò che vedo di fronte a me.
Lui è lì. A cavalcioni tra la terra ed il fango, tra gli effluvi della Morte, in una bara scomposta dalla violazione.
Lui è lì, con quelle labbra che io ho baciato solamente la sera prima, con la lingua che io ho saggiato con la mia. Con le sue mani che hanno stretto le mie spalle ed il mio viso.
Lui è lì che si agita, che infila le sue braccia all’interno del corpo, tra le larve ed i vermi che risalgono sulle sue gambe, sul suo corpo. La vedo l’eccitazione che lo anima, vedo il pomo d’Adamo che va su e giù, mi sembra quasi di udire il suo respiro affannato, i suoi ansimi.

Indietreggio ancora e ancora e ancora. Incespico e cado, ma non sento più nulla.
Mi piego in avanti, premendo entrambe le mani sulla bocca, gridando.
I miei occhi si fanno liquidi, umidi e quando vedo un’ombra, davanti a me, grido ancora.
« NON MI TOCCARE. NON MI TOCCARE! »
Il viso di Eugene mi si para davanti, così delicato. I suoi riccioli rossi, il suo naso sottile, la sua bocca rosa e sfrontata.
Mi strappo la giacca di dosso, la lancio lontana e indietreggio sui gomiti. È sporca, l’ha toccata.
Eugene si avvicina carponi: ha le mani sporche di sangue e grumi d’intestino gli risalgono sul collo. No, mi correggo con orrore, sono vermi.
Mi sale un conato che cerco di trattenere.
Gli manca un orecchio, quello che ho tranciato quando il terrore è scattato, quando Hagalaz è intervenuta. E sta intervenendo. Non me ne avvedo, ma i suoi proiettili si condensano, mi bersagliano.
Sono io il pericolo, è la mia mente il nemico. Uno dopo l’altro si abbattono su di me, ma schizzano in ogni direzione fuori controllo.
« Ti prego vattene… vattene Eugene, vattene. Ti prego… » Supplico, la voce spezzata da una paura ancestrale. Non mi accorgo di aver cominciato a grattarmi convulsamente il collo, gli occhi pieni del panico che non so gestire. È la prima volta che combatto contro qualcosa del genere.
Lo vedo, lo vedo mentre si mette a cavalcioni su di me, si lecca le labbra, si porta la mano al ventre, fino all’orlo dei pantaloni. Si china sul mio viso, scosta i capelli scomposti che mi coprono la faccia. L’altra mano, con dita da ragno, mi ghermiscono la gamba, risalgono l’inguine. Con la schiena a terra cerco di scacciarlo, ma ride, ansima, si struscia su di me. Grido.
Oh Amon, Dio, Dio ti prego, ti prego fallo smettere!
Hagalaz mi ha abbandonato, mi lascia un vuoto che comincia a sfinirmi. Non ho più le forze e mi rannicchio di lato, come un bambino. Non sento nemmeno il profumo dell’erba fresca, non percepisco la sua morbidezza. Singhiozzo e basta, mentre i tagli della Runa mi sfregiano il viso, le braccia, le mani, il collo del maglioncino che indosso è sporco del sangue e della pelle che mi sono scorticato fino alla carne viva.
Sono sporco, penso, sono sporco. Mi ha contagiato, li sento, i vermi, risalirmi e strisciarmi sotto i vestiti. Lui è di fianco a me, ora, sussurra col suo alito fetido di morte.
« Eppure ti è piaciuto… » Ride, folle, mentre mi accarezza la guancia ed io mi rannicchio di più.
« Non è vero… non è vero… sei un bugiardo Eugene… ti prego… vattene… »
Non l’avrei mai detto, nemmeno in quel contesto, nel cimitero, se fossi stato lucido. Mi copro la testa con le braccia e non riesco a respirare. L’odore che sento, nell’aria, nel vento che amo, sa di decomposizione e annaspo. Se solo riuscissi ad alzarmi, a scappare… ci provo, ci provo a pensare ad Emily, ma non riesco. Non riesco perché il cuore sembra volermi spaccare la gabbia toracica, perché lei è lontana, distante, dimenticata.
Eugene si china ancora su di me, mi accarezza come una madre col proprio figlio. Sento i miei capelli inumidirsi del liquor che cola dalle sue dita.

« Va tutto bene, amore mio, va tutto bene. »
Ha la voce di mia madre, ora

– Racin' to the moonlight and I'm speedin' –


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Il plot twist che nessuno si aspettava, manco io ed Horus. :fix:
 
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entropia.

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tell me again, why do we stay
Il terrore conosce molte manifestazioni. Nel tempo speso a farne esperienza, ho imparato che la paura non va mai via davvero. Come una pianta infestante, ghermisce il terreno e ritorna. Non importa quante volte tu possa sradicarla e convincerti di averla sconfitta. Un giorno, presto o tardi, la vedrai germogliare ancora.

L’urlo di Horus squarcia il velo sottile rimasto tra noi al termine dell’ultima conversazione, colpendomi come il vento scoperchia le case. Mi volto di scatto, cogliendo il pericolo nella sua invocazione. Un attimo dopo, il casco sta rotolando sul pavimento e io ho scavalcato il guardrail, di nuovo.
La scena cui assisto mi atterrisce. Non ho mai visto qualcuno in preda a tanto spavento. Soprattutto, non mi sarei aspettata di vedere Horus Sekhmeth così fuori di sé. Ma da dove proviene la minaccia? Istintivamente, tiro fuori la bacchetta. Ignoro testardamente il dolore che il gesto provoca alla mano, aiutata dall’ennesimo rush di adrenalina. Non riesco a usare la magia, ma uno sconosciuto che dovesse incontrarmi per la prima volta non potrebbe saperlo.
Mi avvicino a passi svelti a Horus, cercando nella vegetazione la persona che vuole tenere lontana, ma l’ambiente circostante mi restituisce uno scenario di monotonia che in tutto cozza con le sue suppliche.
Gli sono accanto. Gli occhi saettano qui e lì nel timore che un Illudo Camaleontide eseguito da un mago più potente di me sia la causa della mia cecità. «Horus» lo chiamo. «Horus» ripeto solo per scoprire che lo sconosciuto ha anche un nome —Eugene.
Poso la mano sinistra sulla sua spalla, ora china sulle ginocchia. La presa è solida, i miei sensi all’erta. Seguo la direzione del suo sguardo. Punto la bacchetta dritto davanti a lui. Poi, una scarica di proiettili si abbatte su di noi. Tutto quello che riesco a fare è rannicchiarmi per ridurre la superficie da colpire e avvicinarmi a Horus per fare da intralcio tra le pallottole e il suo sterno. Quantomeno non potrà incolparmi per essersene beccato uno agli organi vitali! In compenso, uno mi ha preso di striscio la coscia e altri si sono divertiti a tranciarmi ciocche di capelli.
Ma perché con lui ci sono sempre di mezzo i proiettili?, non posso fare a meno di chiedermi.
È qui che mi sopraggiunge il dubbio, che in parte è realizzazione. E se fossero gli stessi con cui mi ha attaccata al Ministero? E se non ci fosse un nemico fisico ma interiore? La verità è che non posso averne la certezza. Perciò, se Eugene sta rompendo i coglioni, Eugene se la vedrà con me. Ho ancora una mano che funziona, due caschi da lanciargli addosso e due gambe per prenderlo a pedate. Sono cresciuta come una selvaggia: sapevo che prima o poi mi sarebbe tornato utile.
«Senti, Eugene, hai rotto il cazzo» esclamo a voce alta, in ginocchio accanto a Horus, che si raccoglie. Tengo la mano sinistra sulla sua schiena e la accarezzo con gentilezza. «Intanto non ci devi toccare e, in secondo luogo, sei un bugiardo di merda. E a noi i bugiardi non piacciono» continuo, seria. Non so in che direzione guardare. Potrebbe essere ovunque. Io e Horus siamo in uno spazio sconfinato, le spalle scoperte. Il problema è che a essere stato messo k.o. sia l’unico dei due in grado di usare la magia. «Quale che sia il tuo problema, risolviamolo a quattr’occhi. Questi giochetti di invisibilità hanno rotto. Vieni fuori e facciamola finita!»
L’idea non mi entusiasma. Se finissi sconfitta, poi Horus rimarrebbe in balìa delle sue grinfie e, quant’è vero che esiste Dio, non gli darò questa soddisfazione. Un conto è farlo diventare un bufalo con le narici grandi quanto una pluffa—e so di essere campionessa nella disciplina—, un altro è fargli del male. Se Eugene spera di riuscirci mentre io sono nei dintorni, lo ha beccato con la pazza sbagliata.
Attendo a lungo dopo le sue parole alla ricerca di rumori sospetti, di movimenti sinistri nello spazio intorno a noi, di segnali che possano tradire una minaccia. Non ne individuo. La possibilità che Horus stesse combattendo con uno dei suoi demoni, allora, torna a bussare alla porta della mia consapevolezza. Di lotte con i fantasmi del passato ne ho avuto la mia buona dose. Non ho la presunzione di ritenermi capace di aiutarlo, perché siamo due sconosciuti e perché questo demone ha le fattezze di un’ombra oscura, annidata nei recessi più reconditi dello spirito —uno spirito che non conosco. Posso scegliere, però, di rimanere e di non lasciarlo al suo destino.
Deposito la bacchetta sull’erba che separa le mie ginocchia dal suo corpo.
«Horus». La mia voce è pacata, mentre raccolgo il coraggio per mantenere i miei propositi di distanza emotiva. Vederlo così fragile mi provoca un dolore sordo cui non so dare una spiegazione. Echeggia nel petto e giù fino allo stomaco —mi dice di abbattere i muri, solo per un po’. Non posso, mi convinco. «Horus» ripeto e allungo piano le mani in direzione delle braccia. Le ha raccolte attorno al capo per proteggersi e io non ho intenzione di forzarlo. Comprendo la sua sofferenza e i suoi gesti. So come vorrei essere trattata se fossi al suo posto —se quando accadesse a me non fossi sempre, desolatamente sola. «Horus, sei al sicuro adesso».
Lascio una carezza gentile sull’avambraccio; la faccio svoltare sul gomito e risalire lungo il tricipite. Se lo afferrassi di forza e gli imponessi di abbandonare il giaciglio in cui ha trovato riparo, l’incubo proseguirebbe e la sensazione di sicurezza che intendo trasmettergli perderebbe ogni consistenza. Osservo le ferite che si è procurato —o che gli sono state procurate, è tutto ancora da accertare— e sospiro una volta di più.
“Il mondo non gira intorno a te, egocentrica del cazzo! Non so cosa ti sia successo, ma, spoiler, la merda accade a tutti. Tutti soffrono.”
Le sue parole sfilano come lame nella mia mente. Non ho mai pensato che il mio atteggiamento potesse causare sofferenza agli altri, impegnata com’ero nel tentativo di salvarli tutti. Da cosa? Dal pericolo che costituisco, dalla possibilità di essere per loro un accesso anticipato alle porte della Morte. Vedere i frammenti di Horus è un bagno di verità al quale non ero pronta.
Mi stendo sull’erba accanto a lui, piegando un braccio a mo’ di cuscino. Con l’altra mano, provo delicatamente a sciogliere i suoi pugni. Quello che sto per fare è un azzardo. Se Eugene è reale, passerò per una cretina.
«Prova a seguire la mia voce, va bene?» Accarezzo le sue nocche con la punta delle dita, poi il dorso della mano. «Non sei dove e con chi pensi di essere, sai? Lascia che ti rinfreschi un po’ la memoria su cosa hai fatto oggi. Sei poco fuori Londra. Hai guidato la tua moto per venire qui, quella babbana con cui corri fortissimo» La mia voce è soffice, come se stessi raccontando una favola a un bambino. «Ti sei divertito parecchio, anche più del dovuto se posso dire la mia. Poi, hai litigato con me… come al solito». Mi scappa un sorriso, mentre faccio scivolare i polpastrelli tra i capelli a ridosso del piccolo chignon. «Adesso, sei su un prato dove l’erba è molto verde. E fresca. Se mi dai fiducia e mi permetti di portare la tua mano qui, te lo faccio sentire»» Sono cauta nell’avvicinarmi alle sue dita. Azzardo un tocco leggero per comprendere se se la senta: di liberare finalmente il viso, di farsi guidare per sfiorare con il palmo gli steli di erba fresca, di ricordarsi che non corre nessun pericolo. «Se ascolti bene, sentirai anche il rumore di cose babbane che mi mettono i brividi» dico, riferendomi al traffico. Per un attimo, presa da quello che stava accadendo, ho dimenticato le follie dell’autostrada. Adesso, un piccolo brivido torna a giocare sulla mia pelle di neve. «Non sei più lì. Sei qui. E qui sei al sicuro» ribadisco.

Guardami per un attimo e riprendi a odiarmi se serve a farti tornare, prego.

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Edited by ~ Nieve Rigos - 2/7/2023, 16:54
 
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Hanno sempre descritto gli attacchi di panico come spirali che ti trascinano in fondo, come mulinelli che vorticano sotto la superficie dell’acqua. Le correnti ti lambiscono le gambe, poi il busto, le braccia e poi la testa e con violenza tu vieni trascinato giù.
È una cazzata, almeno per quel che sto vivendo io.
È un pozzo che odora di muffa e marciume e l’acqua sale dal fondo con terrifica lentezza. Quando ti arriva alla vita quasi non te ne accorgi, troppo occupato a cercare di aggrapparti alle pareti di mattoni viscidi. Gratti con tutte le tue forze, finché le unghie non saltano via, finché non rimangono impronte di sangue e sai –perché lo sai– che quell’acqua salirà ancora e che non c’è via di fuga, nel pozzo.
Ed io gratto, gratto, gratto con tutte le mie forze, come se la maglia mi stesse strozzando, le mie dita si insinuano nel collo alto della stoffa, lo allargano colte da spasmi frenetici. Ho gli occhi chiusi, stretti, perché non voglio più vedere, non voglio sentire la voce di Eugene che si tramuta in quella di mia madre. Quando l’ho sentita, ho gridato ancora, ma non ho percezione di ciò che accade. Voglio solo che finisca e prego gli Dei, dimenticandomi dell’inglese e farneticando in un sussurro implorazioni nell’Antica lingua.
Oh, Sekhmet, mia signora, ti prego liberami da questa malattia, guariscimi, ti prego, tu che puoi. Scaccialo, scaccialo, io non ce la faccio, mi ha preso, mi ha contagiato.
Lo ripeto ancora e ancora, come una nenia a voce alta, ma non riesco a sentirmi.
Queste carezze che sento così vivide mi fanno irrigidire: digrigno i denti come una bestia ferita, terrorizzata. L’odore marcescente del pozzo in cui sono stato gettato è pieno dei canopi che mi osservano col loro sguardo vacuo.
« Qebey en ut… » Li riconosco, li indico con orrore.
Hamset mi fissa con vuote pupille umani, Duamutef mi dilania con il suo muso da sciacallo, Hapi, il babbuino, urla intimidatorio e… Kebehsenef, il falco, che ha i miei occhi.

Non ho più ventiquattro anni, ne ho sei. E so, so benissimo cosa c’è in quei canopi, singhiozzo e indietreggio.
« No… no!* » Urlo, le dita abbandonano il collo sfregiato e mi copro nuovamente il capo per proteggermi. Eugene è lì, nell’oscurità che mi guarda, ora, con quei suoi occhi lacrimosi, con il viso mangiato dalle larve. Scoperchia i vasi e me li rovescia addosso ed io grido, grido così forte che la voce mi si spezza, mentre le viscere in essi contenuti mi entrano nei vestiti e mi inzuppano.
Non ce la faccio, preferisco morire, mi dico. Preferisco morire, annaspo, accucciandomi nel pozzo dove i resti di mio padre galleggiano come pesci avvelenati. Non ho più le forze per grattare contro le pareti viscide.

Ma poi quel tocco che finora ho rifuggito con disgusto, quelle moine e quel corpo che fino a poco fa si è dimenato su di me, cominciano a scivolare via, in fondo.
C’è una voce che giunge oltre l’orlo dell’apertura del pozzo. Alzo la testa, ma sono troppo debole.
Lasciami stare. È tutto quello che voglio dire, singhiozzo. Poi una cascata d’acqua fresca sciacqua via la lordura, mi ricade addosso, purificatrice.
Tu sei pura come l’Acqua.
E i contorni dell’Aula di Storia si fanno vividi, come se in quel lago cristallino mi ci fossi ritrovato semplicemente affogando.
Delle dita morbide, dolci, si insinuano fra i miei capelli; non è più il tocco perverso di Eugene.
Dove sei? Mormoro silenzioso, poi mi rendo conto che quella voce è come il tintinnio di gocce su di un pavimento ghiacciato. La mia schiena è attraversata da quelle mani che graffiano la pelle, dei baci mondano via la lordura dal mio collo, dalle labbra massacrate dai miei stessi denti, dalla mia fronte, dai miei capelli. I sospiri si sostituiscono alle urla, a Eugene, a ciò che di più orribile ho udito.
”Ti amo, Ra.”
Emily mi stringe amorevole, la mia testa è appoggiata al suo petto, ed io mi lascio cullare dal suo respiro, mi lascio avvolgere dalle sue braccia; il suo corpo è premuto sul mio, mi avvolge come rugiada sull’erba fresca.
La stessa erba che ora sento fra le mie dita.
« Horus. Sei al sicuro adesso. »
Mi sento chiamare da lontano, il tono ovattato, soffice come il cotone, fresco come la neve.
Ti seguo, penso confusamente.
« Neve.* » Sussurro senza alcuna logica.
Sento delle dita insinuarsi tra le mie, trattengo il respiro, senza riuscire del tutto a liberarmi dalla paura. Tremo, ma di questo tremore ho percezione. Sento ancora l’erba che mi solletica i polpastrelli, è così fresca, piacevole.
Sto ascoltando, Eugene è in fondo al pozzo, lontano, mentre io lo osservo dall’alto, sorpreso, quando dei rumori mi raggiungono alle orecchie.
« Non sei più lì. »
È vero, penso. Ma lì, dove?
Apro gli occhi lentamente, la mia guancia è premuta su di un prato e i graffi trovano sollievo in questa freschezza. C’è qualcuno sdraiato vicino a me, mi guarda.
Ly?
Batto le palpebre, ma non c’è la fiamma dei suoi capelli ad accogliermi. C’è la neve.
Ha nevicato?
Aggrotto le sopracciglia e poi metto a fuoco.
C’è Nieve che mi guarda, accoccolata sul fianco come me. È così vicina che vedo ogni ciglia, le iridi chiarissime, il neo sotto l’occhio.
« Rigos? » Mormoro con voce roca. Mi manca l’aria, ma a poco a poco la lucidità mi assale e come dopo una corsa lunga infiniti chilometri annaspo. Rotolo sulla schiena, mettendomi supino col braccio destro premuto sugli occhi. Nel movimento gemo, la pelle mi tira: ho tagli su tutto il viso, sulle braccia, ne sento uno sul sopracciglio che cola copiosamente; alcune ciocche rosse e bianche sono sparse sul prato. Il collo è slabbrato, brucia da morire. Non capisco cosa cazzo sia successo per essermi ridotto così, ma ripenso alla scena che ho visto nell’aula di storia e il mio respiro accelera e si fa irregolare per la sofferenza che avvolge il mio intero corpo. No, è dentro di me, rattrappisce e si accartoccia.
Annaspo ancora, cerco l’aria che non è mai abbastanza, l’ossigeno mi riempie i polmoni ma non vi permane, esce fuori dalle mie labbra schiuse: è veloce, troppo veloce.
Sono qui, ma tutto ciò che ho vissuto ora scorre davanti a me e la consapevolezza di ciò che è accaduto, di ciò che ho mostrato alla Rigos, mi sconvolge. Ma lei, proprio lei, è qui, sdraiata accanto a me. Capisco che era sua la voce, sue le dita che mi accarezzavano i capelli e si insinuava nelle mie e la guidavano sull’erba umida. Non mi sembra vero che fino a poco tempo fa (in realtà… quanto tempo fa?) stessimo litigando: sembra lontano anni luce. Forse l’ho sognato? Forse lei è sempre stata qui? Forse noi siamo sempre stati qui. Vero? È così, Nieve?
Ansimo: ora soffoco, penso
Ho ancora la mano sinistra stretta a quella di lei, intreccio le dita alle sue, per non scivolare.
La stringo forte, mi ci aggrappo.
« Rimani.. » La mia voce è flebile e la parte di me, quella che sta tornando, quella che tutti conoscono, forte, decisa, spesso e volentieri presuntuosa, si detesta. Ma ora volto il capo verso di lei, mortalmente pallido, gli occhi rossi, come il sangue che cola dal sopracciglio su Uadjet.
« Qui… » Socchiudo gli occhi e stringo le palpebre, cercando di respirare.
Non sei più lì.

– Racin' to the moonlight and I'm speedin' –


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*= Lingua antica
 
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view post Posted on 3/7/2023, 17:54
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entropia.

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tell me again, why do we stay
Sei tornato.
Sospiro e non puoi sentirlo. Mentre sobbalzi e urla diminuiscono e mi permetti di condurre la tua mano verso l’erba verde, tutto ciò cui riesco a pensare con sollievo è che la burrasca è passata e la nave è sopravvissuta. Tu sei sopravvissuto.
Rilasso le spalle, oramai pressoché certa che Eugene sia esistito “solo” in un momento infelice della tua vita. Se non fossi così concentrata a guidarti nel viaggio verso il presente, ringrazierei il Cielo —quello cui ho rinunciato, sì— nel sapere che non ricorderai nulla della mia spacconata con un avversario immaginario. Perché non hai sentito nulla, non è così?
Sospiro di nuovo quando apri gli occhi e, poco alla volta, metti a fuoco il mondo intorno a te. La mia bocca si piega in un sorriso, istintivamente. Ho temuto di perderti a causa di un mostro sconosciuto e di non essere in grado di farti da scudo (letteralmente!) nel tuo picco di vulnerabilità; e adesso so che non avrei sopportato di esserne responsabile. Sotto gli stati di gelo, deturpazione e distorsione di me stessa venuti con la morte di Astaroth, un piccolo bagliore esiste ancora. È lo stesso che mi ha devastata la prima volta che ho visto Thalia quando sono tornata a Hogwarts, nonostante mi fossi imposta di rimanere impassibile. Il medesimo che mi ha fatta restare nel letto di Casey, quella notte a Nocturn Alley. Il bagliore che dà senso al peso che ha sedimentato sul mio petto quando ho creduto di non riuscire ad aiutarti. Quello che continuerò a soffocare.
A sporcare la smorfia sulla mia bocca sopraggiunge presto l’imbarazzo o, forse, farei meglio a chiamarlo disagio. Ricordo ancora cosa mi hai detto, cose’è successo pochi minuti fa a ridosso del guardrail. Io ti ho preso a pugni, tu mi hai dato dell’egocentrica del cazzo. Mi hai detto che ti ho stancato. Non penso che mi vorrai qui, non appena avrai ripreso coscienza e realizzato a cosa ho assistito. Alla fragilità che ho intravisto. Un’egocentrica del cazzo non lo merita. E sai cosa? Avresti ragione.
È quello che farei anch’io. È quello che sto valutando di fare adesso. So che non c’è paragone. Tu hai ceduto sotto il peso incontenibile di una delle tue paure più grandi e non hai potuto impedire che vedessi ogni granello della tua anima soccombere all’incubo di un passato non ancora sepolto. Io, invece, ho abbassato una piccola parte delle mie difese per starti accanto, protetta dallo scudo della tua incoscienza. Eppure… eppure anche questo ha un costo per me. Così alto che vorrei salire su quella moto —io— e scappare prima che a te venga il sospetto per il solo fatto di avermi vista stesa sull’erba al tuo fianco.
È buffo che, ciononostante, mi basti scorgere le tue ferite per dimenticare tutto… almeno per il momento. Vedo la pelle del collo e sbarro appena gli occhi. Cosa ti ha fatto Eugene? Fin dove si è spinto per ridurti così?
Mi metto a sedere e allungo una mano, lasciando che tu possa trovare conforto sotto il braccio. La deposito con gentilezza sul petto. Ora che non stai più tutto rannicchiato, hai smesso di sobbalzare e mugugnare ma lo stato di agitazione permane. Vedo lo sterno alzarsi e abbassarsi rapidamente. Sembra che tu abbia corso a lungo, come devi aver fatto quel giorno che ti ho incontrato al parco e mi hai detto che sei troppo violento per una ragazza perbene come me. Riderei se saperti così scombussolato non mi impensierisse; e te lo rinfaccerei in modo meno sottile di stamattina ma forse con più gentilezza.
Non credo di poter fare qualcosa per te a questo punto, Horus. Non sono nella condizione di usare incantesimi curativi e ho l’impressione che tu voglia rimanere da solo, ora che stai pian piano recuperando le tue facoltà. Credo sia giunto il momento di darti spazio. Non significa che mi disinteresserò di te. Mi limiterò a indietreggiare quanto basta per farti avere un po’ di privacy ma abbastanza per me da poterti tenere d’occhio e da intervenire se avessi bisogno di qualcosa. Magari, rifletto, recupererò la giacca che ho intravisto poco distante da qui.
Sto per interrompere il contatto tra le nostre mani quando intrecci le tue dita alle mie. Mi paralizzo —il Petrificus Totalus che non ho mai subìto. A occhi sbarrati, fisso di fronte a me gli steli d’erba mossi dalle foglie. Non ho il coraggio di abbassare lo sguardo neppure quando intensifichi la presa, del tutto incurante del fatto che sia la stessa mano che mi sono quasi fratturata contro la tua faccia.
Che cazzo gli hai fatto Eugene?, vorrei urlare nel panico al demone del tuo passato con l’espressione più sgomenta del mio repertorio e una bottiglia di whiskey incendiario a portata di bocca.
Poi, parli e capisco che sei tornato —tornato davvero— e mi chiedi di restare. Mi sento una zattera tra gli scogli e le onde prepotenti del mare. Sto provando a raggiungere il fazzoletto di spiaggia che ho faticosamente conquistato vogando con coraggio, ma tu ce la stai mettendo tutta per spaccare l’imbarcazione sulla quale sono sopravvissuta per due cazzo di anni, Horus.
«Resto» ti tranquillizzo. «Resto».
Accosto la mano libera al tuo viso deturpato dal dolore. Dell’uomo che ho preso a pugni e che mi ha scaricata come un barilotto di birra, non è rimasto che il sudario. Scosto con le dita i capelli che sangue e sudore hanno contribuito a rendere parte del tuo corredo. Lascio carezze lievi —quasi incorporee— sulle porzioni di pelle illesa, valutando con gli occhi l’entità delle ferite. Incastro piano le ciocche rosse dietro la conchiglia delle orecchie.
La mia mano trova infine riposo sulla tua guancia, dove il pollice disegna carezze ritmiche. Mi aspettavo che sarebbe stato più strano non parlare, ma in realtà va bene così.
Ho l’espressione tutta concentrata nel valutare dove ti abbiano colpito i proiettili. Mi chiedo se tu non debba andare al San Mungo. Poi, torno al Ministero con la mente. Rammento la tua ostilità nei confronti del medimago. Non ti conosco abbastanza per azzardare ipotesi. Soprattutto, so che non è ancora il momento per questo.
Ti guardo riposare a occhi chiusi, un accenno di tormento in meno sul viso. Torno a sdraiarmi al tuo fianco, distendendo il braccio che congiunge entrambe le nostre mani. Stringo appena la dita nelle tue per farti sapere che ci sono, che non permetterò al baratro di risucchiarti di nuovo —non da solo e almeno per questo episodio. Laddove non dovessi volerlo, ognuno prenderà la sua strada. Non ti tratterrò.
«Non ti lascio solo» verbalizzo solo la prima parte dei miei pensieri. Gli occhi, intanto abbandonano il cielo inglese e tornano sul tuo viso segnato. Una fitta mi colpisce lo stomaco: vorrei vedere quei tagli sparire; vorrei che tornassi a urlarmi contro. Quello posso sopportarlo. Questo, invece, è sconosciuto e non… non so gestirlo. Eppure parlo e la mia voce è ferma: «Qualsiasi cosa sia, non ti lascio solo».

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Edited by ~ Nieve Rigos - 3/7/2023, 20:32
 
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view post Posted on 5/7/2023, 19:42
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Mi sento cadere.
Non come quando volo e scendo in picchiata o quando, da inesperto Animagus, perdevo il controllo e cadevo dalle fronte degli alberi.
Sento di ricadere in quel pozzo e respiro per cercare l’aria che mi sfugge come sabbia tra le dita.
Guardo il cielo sopra di me con gli occhi socchiusi, doloranti, mentre avverto la presenza di Nieve al mio fianco. Mi aggrappo alla sua sagoma come se stessi andando alla deriva. Ma questo respiro irrequieto, questo contrarsi dei miei polmoni… mi fanno sentire un naufrago.
Quel naufrago.
Stringo le palpebre e il ricordo che mi ha salvato prima di ogni cosa mi ritorna alla mente.
Con lucidità la mia memoria torna a quella notte e a quel giorno e a tutte quelle successive, scorrendo come pagine di un libro di cui non si ritrova più il segno lasciato dall’ultima lettura. Basta, mi infervoro, quante volte devo riviverle?
Dannata sera in cui ci siamo ritrovati nel nostro stesso rancore. Non smetterò mai di detestarmila.
Respira.
Non riesco, mi dico, e corrugo le sopracciglia per il patimento che non riesco a frenare dall’investirmi.
E quelle pagine scorrono, scorrono: il faggio vicino il Lago Nero sotto cui tu studiavi e io sonnecchiavo sulle tue gambe; i corridoi dove ci sfioravamo le mani tra una lezione e l’altra; l’aula di storia che ci strappava un sorriso imbarazzato ogni volta che, durante una ronda, ci passavamo davanti; l’ufficio dei Caposcuola, dove ci lamentavamo di Gazza e delle pazzie di Peverell, la Foresta Proibita dove ci nascondevamo ridendo, sfiorandoci e stringendoci, le nostre labbra, la tua fronte, i tuoi fianchi, le tue mani.
I tuoi occhi. Il tuo sguardo, maledetto.
Non respiro.

« È tutto così sbagliato. Tutto. Ma non Noi. Vero? Non noi. »
La tua voce così sottile… per un momento mi aveva ricordato Cora. È così che ho chiamato l’Augurey che mi hai regalato… e a cui ho negato il mio affetto. Non ce la facevo, non ce la faccio. Non salgo mai a trovarla; la sua fragilità mi spaventa, perché vedo riflessa la mia. È mia madre ad occuparsene, la cura con affetto, la accarezza, prova a farla volare. Ma Cora non vola mai.
« Tu non vuoi me.»
La tua delusione e la tua sofferenza: le ho viste, le ho percepite perché erano le mie.
Ma se solo tu sapessi quanto ti sbagliavi; quanto ti sbagli.

Respira.

«Tu sei egoista. »
Se solo io, invece, avessi saputo quanto avevi ragione.

Digrigno i denti, portandomi una mano, quella libera, sugli occhi.
Perché, perché non ci riesco?
Ti avevo seppellito nei miei ricordi, nonostante il peso che porto, a monito, sull’orecchio sinistro. Perché non riesco a gettare quell’anello in fondo al cassetto e dimenticarlo?
Perché non riesco a dimenticarti, come faticosamente ho cercato di indurti a pensare?
Perché ti ho lasciata?

Respira. Ricordi?
Come quando corri.
Come quando voli.


Non ti farò il favore di odiarti.
È tutto ciò a cui mi sono aggrappato per andare avanti. Ora, però, non basta più.

Un estremo atto di cura, di gentilezza mi distrae: è nella delicatezza con cui Nieve mi porta indietro una ciocca di capelli che mi ritrovo.
Nella silenziosa melodia di quella lieve carezza sulla guancia cerco di concentrarmi, di ritrovare il ritmo del respiro. Solo pochi minuti fa mi prendeva a pugni ed ora è qui, che mi promette di restarmi accanto. Perché è una promessa vero? “Qualsiasi cosa sia”. Suona così, te ne sei resa conto?
Forse è la pietà, penso, mentre il diaframma si muove meno agitato, con indolente lentezza torna a comandare una respirazione che, finalmente, ha un ritmo controllato.
La lucidità torna a scorrere nelle mie vene come il sangue che irrora il viso e poco a poco prendo consapevolezza di ciò che è accaduto. Premo con più violenza il palmo sui miei occhi mentre l’entità del mio panico si palesa di fronte a me e sotto le mie dita.
Merda.
Non ho mai, mai perso il controllo davanti a nessuno, nemmeno davanti ad Emily. Non così almeno. Che spettacolo patetico dev’essere stato. Non biasimo Nieve per aver avuto compassione di me.
Lascio che un sospiro esca dalle mie labbra, come la carezza del vento tra le foglie di un albero.
Poi abbandono il braccio lungo il mio fianco. È finita.
Nieve è sempre qui, sdraiata vicino a me e le mie labbra si arricciano in un sorriso sghembo. Il sangue secco mi tira la pelle o, forse, è ancora il fantasma di quel terrore.
Mi giro dolosamente e lentamente su un fianco, sciogliendo maldestramente la presa dalla mano di lei. Rimango in silenzio mentre la osservo così da vicino, scrutando in quegli occhi sorprendentemente comunicativi cosa possa aver pensato di me. Ha il viso corrucciato dalla preoccupazione, così sincera e genuina che trovo impossibile che sia qui solo per pietà. Ha qualche graffio sulla pelle bianca e mi rendo improvvisamente conto di cosa è successo, del perché le mie mani ed il mio viso sono pieni di tagli. È stata la Runa, di nuovo. Eppure, nonostante Hagalaz si sia attivata ancora, nonostante sia ciò che Nieve continua a credere di me — e cioè che io sia così meschino da venderla, di tentare di ucciderla—, lei è qui.
La consapevolezza si rafforza nei miei occhi, dietro il duro acciaio.
« Lo sapevo… » Dico febbrilmente, e mi schiarisco la gola, mentre faccio leva sui gomiti per rialzarmi. Mi mordo il labbro per non cedere al gemito di dolore che mi sale alla gola mentre mi sfioro l’escoriazione che mi sono procurato su tutto il collo.

Su quelle vecchie cicatrici, c’era ancora lo spettro del tuo bacio.
Non ora, non questi ricordi venefici che mi avvelenano approfittando della mia debolezza: lo grido a me stesso.
Impreco ad alta voce: Nieve non capirà o forse lo imputerà al dolore. Ma è quella sua espressione confusa e sorpresa a rendermi grato per avermi tirato fuori da quel pozzo non una, ma due volte.
Sorrido ancora, seduto sull’erba e il mio piede sfiora distrattamente un pezzo di legno che rotola sull’erba.
« Lo sapevo che eri ancora lì sotto quella corazza da dura. » Il mio tono è più dolce di quanto avessi previsto, mi sfugge prima che io possa fermarlo e correggerne il tiro.
Se n’è resa conto? Nieve si è davvero resa conto di ciò che ha fatto per me? Dopo tutto quello che ci siamo gridati contro, dopo i pugni, i graffi, gli insulti. Io me ne rendo conto, mio malgrado.
Quanto tempo passerà prima che lei capisca? Me lo chiedo mentre lentamente il mio sorriso si spegne e i miei occhi, imbarazzati, si abbassano sul prato.
Anche se ho rivisto qualcosa della mia amica –forse più di qualcosa– quanto durerà prima che il suo passato la fagociti di nuovo? In quella creatura diffidente che non conosco, che non voglio accostare a Nieve.
Corrugo la fronte mentre allungo la mano verso quello che credevo essere solo un ramo.
È una bacchetta, ma non è la mia, valuto; alzo la testa verso Nieve, la guardo interrogativo.
Poi comprendo: ha provato ad usare la Magia per aiutarmi? La sua preoccupazione è arrivata a tal punto?
Per un secondo, però, guardo la punta della bacchetta, sfioro con lo sguardo la fronte di Nieve. L’impulso di Obliviarla è così forte che le dita ferite hanno un fremito e si rinsaldano sul manico.
Le sono riconoscente, è vero, ma tutto ciò che ha visto, tutta la fragilità che per anni ho tenuto sotto chiave, il mio timore più grande scatenato da una sciocca ed involontaria frase.
A questa Nieve potrei mostrarla, ma all’altra…
Scuoto il capo impercettibilmente, mentre mi rigiro la bacchetta fra le dita e gliela porgo.
Con la sinistra abbasso il colletto della maglia, scoprendo la porzione di carne scorticata. Arriccio il naso per il bruciore, ma piego la testa di lato, così da esporle il collo. O rinviene e mi strozza, oppure…
« Curami. » Le dico, studiandola.
« … Per favore. » Aggiungo, accorato.

– Racin' to the moonlight and I'm speedin' –


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Edited by Horus Sekhmeth - 5/7/2023, 22:20
 
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