Blind Side., » Megan M. Haven

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24 yrs – Cursebreaker – Diagon Alley
Osservo distrattamente fuori dalla finestra della cucina, dove la Monstera di mia madre ha preso il sopravvento sul povero vetro.
« Quanto ancora hai intenzione di farlo crescere quell’affare lì? »
Lei sta sfaccendando con Brit l’Elfa alle calcagna che le fa lievitare tutt’intorno pacchi di farina e pesche tonde e profumate.
« Beh che ti importa, tanto non ci sei. » Borbotta scuotendo la lunga coda rossa fermata graziosamente da un fiocco color crema.
Io alzo gli occhi al cielo ma mi mordo le labbra per non sbuffare. Vengo a trovarla ogni volta che posso e le mando più Gufo possibili, ma ancora non mi ha perdonato di essermene andato di casa. Ci ho più volte discusso perché, diamine, chi mai resta a casa della madre quando ha finito la scuola e ha un lavoro?
« Ma’… » Mi alzo, faccio il giro del tavolo e l’abbraccio da dietro. Lei tira su col naso, posando il coltello con cui sta affettando la frutta per la crostata. Poso il mento nell’incavo della sua spalla, come quando ero piccolo e lei, alla fine, mi stringe le braccia con le mani.
« Oh, lo so, Horus, lo so. È che non è facile, sai? Sono abituata a non averti qui ma un conto è la scuola! Un conto è sapere che è definitivo… » Decido di non rispondere, chiudendo gli occhi e cercando di assaporare quel momento. Per un po’, quando ho scoperto del sigillo che mi aveva imposto per tenermi “al sicuro”, ce l’ho avuta con lei: tutte le mie paranoie sulla mia fragilità sono state dovute al soffocante attaccamento che ha sempre avuto per me da quando papà se n’è andato. No, non dico più scomparso. Non è più così. Lui se n’è andato, punto. È per questo che non ho potuto più biasimare mia madre e l’ho perdonata.
« Va bene su, è tutto apposto. Finisci il tuo tè, si raffredda. » Mi picchietta la mano con un dito, percepisco il suo tentativo di sorridere.
Me ne torno al tavolo, scoccando un’occhiata alla piccola Brit che si stringe nelle spalle nel suo grazioso vestitino a margherite. Decido di cambiare discorso.
« Sai pensavo di andare a trovare anche Lysander… So che è incavolato, ma pensi sia una buona idea? » Ultimamente, rimugino, si deve essere creato un club di gente che ce l’ha con me per qualche motivo. Anche se, oddio, penso mentre mi riporto la tazza alle labbra, non è che abbiano proprio tutti i torti…Beh, solo alcuni. … Alcune.
« Oh no! Pessima idea Horus! Era proprio arrabbiato, ha persino fatto quella cosa con i baffi! » Mamma si gira, in una mano il mestolo, e l’altra sopra la bocca agitando le dita davanti a sé. Scoppio a ridere.
« Va bene, ho capito. Meglio di no! »
Niente però mi vieta di scrivere a Megan, mi dico: glielo dovevo, in fondo. Oltre a farmi piacere vederla con più calma e sentire se ci sono novità su di lei e sul negozio, ho ancora qualche reperto dei miei viaggi che potrebbe permettermi di riappacificarmi con il vecchio. Ingollo l’ultimo goccio di té mentre mi alzo.
« Rimani a cena, vero?! »
Questa volta sospiro davvero.
« Sì, mamma! Te l’ho detto. Vado solo a spedire un Gufo ad una mia amica.»
Lei mi fissa con un braccio sul fianco.
« No, non è come pensi. » Inarco le sopracciglia sapendo bene dove vuole andare a parare. Lei non dice nulla, mi guarda come per dire “hai fatto tutto tu” e mi si avvicina zampettando come Nofret. Prende tra le dita sottili una ciocca dei miei capelli che è sfuggita dal nodo in cui li ho legati. Se la rigira per un po’, come se volesse chiedermi qualcosa, poi sembra cambiare idea.
« Tesoro ma… ma non sono un po’ troppo lunghi questi capelli? E la barba! » Tendo le labbra in un’espressione di eloquente insofferenza. Anche questo me l’aspettavo.

–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
« Scusami, sto aspettando una persona, ti chiamo appena arriva. »
Rivolgo un sorriso gentile alla garzona che si è avvicinata a me. Mi sono seduto ad un tavolo all’aperto del Paiolo Magico, visto che, finalmente, Londra ci ha concesso una timida mattinata primaverile. La ragazza se ne va titubante, col suo bloc notes stretto al petto. Io, invece, guardo la gente brulicare per le vie di Diagon Alley con il frastuono delle voci umane che si intrecciano ad un tumulto incessante di venditori, gufi, calderoni sbattuti l’uno contro l’altro. Il tiepido sole illumina la strada tingendo tutto con una tavolozza di colori caldi e aranciati che non fa altro che stimolare la mia sonnolenza e mi porta a sbadigliare. Ho decisamente bisogno di un caffè, penso.

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Edited by Horus Sekhmeth - 10/2/2024, 15:36
 
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Il silenzio aleggia all’interno della torre ovest del castello, i pochi presenti in Sala Comune sfogliano libri, giocano a scacchi e bisbigliano appartati qualcosa che non arriva alle mie orecchie. Sfoglio l’ennesima pagina del pesante tomo di storia che stringo tra le mani. È la quarta volta che leggo le stesse righe del capitolo dodici del libro e a quanto pare la stanchezza non mi lascia in pace. Ho dormito meno del solito, il giro di ronda è durato quel che basta per farmi crogiolare ore nel silenzio più assoluto e i pensieri, come di consueto, mi hanno assillata lasciandomi percorrere spazi che a fatica riesco a lasciarmi alle spalle.
Afferro un dolcetto nella speranza che il giusto quantitativo di zuccheri risvegli quel poco di energia che mi è rimasta. Scarto l’involucro, lasciando la carta sul tavolo davanti a me, e torno a poggiare le spalle sulla poltrona. Le gambe semi distese sul bracciolo e la schiena nell’angolo opposto. La testa pesa sull’imbottitura, il respiro è lento e i bisbigli vengono coperti dallo sfrigolio tra i denti.
Seguo le righe del capitolo, appuntando con una matita alcune riflessioni sull’argomento trattato.
“Il Ministero è corrotto.” Sottolineo.
“Davvero?” Rispondo ad un’affermazione riguardo la volontà di salvaguardare la popolazione magica, prevaricando, con assoluta sfrontatezza, sui babbani.
“Non avete alcun controllo.”
Rileggo quelle ultime parole. Un sorrisino beffardo si fa spazio tra le mie labbra pur sapendo di essere una pedina come tanti altri in mano al potere del Ministero. Le lecco portando via le briciole lungo i bordi e strofino le dita tra loro; la matita torna al centro del libro e la mano all’angolo esterno della pagina numero duecentoquaranta.
Tengo la carta e continuo a leggere.

«Hai dormito qui?»
La voce di Grace mi fa sussultare. Apro gli occhi e mi volto di lato. La vedo, è davanti a me, le palpebre ancora assonnate accarezzano il suo corpo sino ad incontrare le iridi acquamarina.
«Che ore sono?» le domandò tirandomi su. Sistemo i capelli e porto lo sguardo sulla tazza di tè che ho dimenticato di bere.
«Sono le nove e trenta» squittisce Grace ed io libero un sospiro di sollievo. Ho dormito solo venti minuti e fortunatamente sono ancora in tempo.
«Oggi niente colazione in Sala?»
«No, ho tentato di mangiare qualcosa qui ma ho fallito miseramente. Ho una riunione tra poco e sono in orario grazie a te a quanto pare… Grazie per avermi svegliata, dunque.»
Le rispondo allungando il braccio ad afferrare il manico della ceramica. Bevo un sorso di tè e il sapore tiepido delle erbe e del gelsomino mi sembra perfetto.
Nello stesso istante in cui le labbra sfiorano il liquido color ambra, il bubolio di un civetta mi costringe a volgere lo sguardo in direzione di una delle finestre aperte. La vedo planare verso la torre ed entrare con eleganza, spingendo il suo corpo nella giusta posizione per consentire il passaggio delle ampie ali piumate.
Non con la stessa grazia si posa davanti a me, affianco alla ciotola di biscotti incartati. La testa fa un giro di duecentosettanta gradi per osservare l’ambiente, gli artigli prendono più attrito sulla superficie che li ospita affilando le unghie. Poi, finalmente, mi guarda. Stretta in becco porta una missiva dove non fatico a leggere il mio nome.
Prima di allungare il corpo verso il rapace lo guardo accertandomi che abbia il permesso di avvicinarmi senza che mi ferisca.
«Posso?» sussurro con dolcezza.
La civetta stringe gli occhi e mi fissa. Lentamente le dita si protendono verso di lei arrivando con la punta a toccare l’involucro della lettera. Tiro lentamente e l’animale si costa, con un’ala tenta di colpire il mio viso e la ciotola d’argento cade a terra disperdendo i dolcetti tra il tavolo e il tappeto. Strappo via la missiva nello stesso istante in cui mi divincolo da quella trappola con velocità. Le piume si incastrano in una ciocca di capelli che è sfuggita via dall’orecchio mentre provavo a non farmi cavare un occhio. Mi viene da ridere e lo faccio, senza badare a chi mi circonda. Alcuni si sono goduti la scena, altri non hanno neppure alzato la testa.
«Almeno prendi un biscotto!»
La vedo volare via. Il cobalto segue i suoi movimenti sino a che non la vedono sparire confondendosi nell’ambiente. Solo in quel momento abbasso gli occhi sulla lettera e apro la busta.
Horus mi scrive poche righe. Bevo un altro sorso di tè mentre gli occhi scorrono sulle parole. Sorrido quando leggo di Lysander e mi incuriosisco nel leggere del suo viaggio in Etiopia. Chissà cosa ha fatto per tutto il tempo in cui è stato lontano da qui.


Ciao Horus,
Il rientro non è stato male. Pensavo di non riuscire a trascorrere bei momenti fuori da qui, a Londra.



Nel dare vita a quelle parole sento la leggerezza avvolgermi come una coperta calda sulla pelle diaccia. Ne sento il tepore e sorrido di riflesso. È come se per l’ennesima volta l’ondata di emozioni mi colpisse in faccia, sfrontata. Mi piace sentirmi così, è l’effetto che Draven ha su di me.

Spero che il viaggio in Etiopia sia andato molto bene, mi piacerebbe conoscerne i dettagli. Sai, sto ripassando per via dei GUFO, magari qualche nozione in più per gli esami potrebbe alzare la media. Poi, hai parecchie cose da raccontarmi dopo tutto questo tempo! Mi spiace molto per Lys ma lo conosci, gli passerà. Non appena ti ho nominato ha fatto una faccia che posso solo farti vedere.



Difatti Lysander aveva quasi finito per strozzarsi con una caramella alla menta quando gli avevo nominato Horus. Gli occhi strabuzzati e le fiamme dell’inferno riflesse nelle iridi accese. Aveva tossito forte e poi imprecato a voce alta.
«Non lo voglio più vedere dopo che ci ha lasciato nei casini. Perché sì, CI ha lasciato nei casini per mesi e mesi. Non capisco perché tu sia così tanto indifferente…»
«Ma Lys, è dispiaciuto!»
Avevo replicato prontamente.
«Senti ragazzina, non mi importa... Non voglio sentirlo più nominare.»
Non avevo avuto l’impressione che fosse realmente sincero, il cipiglio di delusione mescolato alla tristezza aveva cambiato per qualche istante il cupo sguardo del vecchio. Ero certa che avrebbe prima o poi capito la faccenda.
«Come vuoi.»
Avevo detto a mezza bocca. Lui aveva sbattuto prepotente la porta sul retro.

Sono certa che stia facendo solo il duro. Si scioglierebbe come un pezzo di burro se solo ti vedesse. È semplicemente troppo orgoglioso per ammetterlo. L’ho visto che tentenna sotto il baffo ogni volta che sente il tuo nome. Tra l’altro ora capisco perché quella sfuriata di un mesetto fa circa. Jean mi ha riferito che ha iniziato a imprecare dopo che una donna è entrata in negozio. Pensavamo fosse qualcuno con cui aveva avuto una relazione ma… Ok ora è tutto chiaro.



Rido e non vedo l’ora di dirlo a Jean. Non abbiamo più nulla su cui indagare e questo mi dispiace e fa divertire allo stesso tempo. È decisamente comico pensare che quella donna - la mamma di Horus - sia una vecchia fiamma di Lysander, adesso.
Tento di calmarmi e finisco di scrivere i saluti:

Mi farebbe sicuramente piacere una chiacchierata. Domani ho due lezioni extra più la ronda la sera; dunque, ti direi dopodomani mattina che sono libera. Ci vediamo al Paiolo Magico per le 9:00.

Con affetto

Meg

Ps: Anche il mio gufo non scherza. Non ama il contatto con gli umani a parte me e pochi fortunati, fai attenzione!



L’aria primaverile accarezza il mio viso con delicatezza. Sono sveglia da qualche ora e dopo colazione ho abbandonato il castello verso Londra. Godermi qualche attimo di tranquillità, soprattutto quest’anno, riesce a rigenerare le poche energie che mi sono rimaste in corpo. D’altronde, non faccio altro che studiare in vista degli esami scritti e i turni per le ronde in questo periodo sono più frequenti per via della stagione che attira chiunque a sgattaiolare fuori dalle mura dopo l’orario consentito. Gli allenamenti e i provini per il Quidditch sono poi la ciliegina sulla torta.
A passo lento schiaccio il terreno come se lo toccassi per la prima volta, ne tasto la consistenza mentre le suole affondano sull’acciottolato. La punta del naso è rivolta all’insù, guardo alcune nuvole bianchissime sparse qua e là a coprire il cielo.
Sarò da Horus a breve. Non sono agitata, l’unica cosa che mi terrorizza è dovermi ritrovare a colmare silenzi imbarazzanti. D’altronde non parliamo davvero da molto tempo, non so cosa aspettarmi da un discorso che non sia scatenato da un fortuito incontro ad un ballo.
Svolto a destra e proseguo dritto per un paio di metri, una donna anziana cerca di vendermi dei fiori ed io cedo all’irresistibile profumo speziato e aromatico. Sono dei tulipani splendidi, ne prendo tre di colori diversi: giallo, viola e arancione. Avvolgo l’involucro di carta che li tiene ben protetti e lo tengo poggiato tra il seno e il braccio sinistro. Proseguo sino a raggiungere finalmente Charing Cross Road e quando vedo in lontananza il complesso che ospita il Paiolo Magico aumento il passo rendendomi conto di essere in ritardo di cinque minuti.
Entro. Attraverso il locale, lo sguardo segue i presenti e mentre il muro si apre dando libero accesso a Diagon Alley a due donne e un bambino, mi accorgo che Horus è seduto proprio lì sul retro.
Avanzo. Una cameriera con in mano un block notes mi sorride non appena le passo a fianco.
«Hey… Ciao!» dico appena riesco a raggiungerlo. Ha un’aria paziente ma l’espressione stanca mi fa sorridere timidamente.
«Mi spiace per il ritardo ma non ho resistito a prendere questi graziosi fiori. Li porterò in negozio più tardi.»
Siedo. Poso i fiori sul tavolo e mi libero dalla borsa ancorata alla spalla.
«Beh, credo che entrambi abbiamo bisogno di un bel caffè» lo guardo di sottecchi con un sorrisino di chi la sa lunga.
«Come stai? Com'è stato il viaggio in Etiopia?» chiedo.
Mi sembra piuttosto facile, non c’è agitazione nelle mie parole né timore di ottenere chissà quale risposta poco piacevole.
Tutto scorre. Fisso i suoi occhi e ammetto che mi fa davvero strano tutta quella barba sul suo volto, gli dà un aspetto decisamente più maturo. La cicatrice non è più così visibile come lo era un tempo sulla pelle pulita, persino gli occhi mi appaiono di un colore meno acceso.
Mi chiedo quanto anche io sia cambiata da allora e se Horus abbia la stessa impressione quando incrocia i miei occhi.

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Edited by Megan M. Haven - 22/6/2023, 17:32
 
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Megan è luminosa come un raggio di sole all’alba.
L’involucro di carta paglia che tiene chiuso un piccolo mazzo di tulipani è la prima cosa che noto tra le sue braccia. Trovo sia un’immagine poetica, l’incipit di un romanzo ottocentesco, dove la protagonista vive in un piccolo cottage di campagna in qualche contea inglese.
« Megan! » La saluto con calore, un sorriso dolce mi colora le labbra. Allungo una mano verso il tavolo e sfioro con la nocca del dito indice il bordo delicato di un petalo di un tulipano, di un giallo intenso ed allegro.
Questa stanchezza sta avendo effetti su di me che non mi aspettavo. O forse, sono solo la moltitudine di eventi che mi sono caracollati addosso in questi mesi.
« Non preoccuparti, sono qui da pochi minuti. … Mi fa strano immaginare un vaso con questi fiori colorati in mezzo a tutto quel caos che è l’Ars Arcana. » Ridacchio, ma la nostalgia mi vela un po’ lo sguardo e ritraggo la mano, chiamando con un cenno la giovane cameriera che giusto qualche minuto fa era passata da me. Mi manca quel negozio confusionario, polveroso, claustrofobico.
Adagio i gomiti sul piano di legno e mi sporgo un po’ in avanti, a mio agio. Vorrei evitare accuratamente la domanda sul come sto, ma è Megan e non posso farlo. Tentenno un attimo, giusto il tempo di pensare a cosa dire: è giusto dire la verità? Propendo per un no.
« Sto bene. » Mento. Non lo faccio perché non mi fidi di lei, ma per uno strano, fastidioso senso del pudore generato da una paranoia che mi spinge a pensare: “Non la vedo da secoli, perché rovinare un bell’incontro già dal suo incipit?”
« Ma tu, piuttosto? Come stai? »Verto il discorso su di lei e la scruto con attenzione, cercando di individuare nel suo viso un cambiamento, anche minimo. Non vedo, in realtà, nulla di diverso: i suoi grandi occhi sono azzurri come il cielo sopra le nostre teste, le sue lentiggini graziosamente sparse sul naso. 
« Non sembri cambiata affatto. » Lo dico con affetto, socchiudendo gli occhi. Forse, mi dico tornando a guardarle gli occhi, c’è qualcosa di diverso giusto nel suo sguardo.
« Oh! » Mi riscuoto improvvisamente sentendo nominare il viaggio di cui le accennato.
« È… andata. » Mi sfioro il mento ruvido di barba con la mano sinistra, un po’ deluso.
« La campagna in sé per sé è andata bene. L’Etiopia è una terra meravigliosa, sai? Fa un caldo atroce, ma come direbbero i vecchi: è secco, si sopporta bene. » Faccio una pausa, rido. « Avevamo trovato una camera sotto un tempio a Yeha che doveva esser appartenuta ad uno sciamano. Un posto pieno zeppo di vecchi sortilegi. Ci hanno dato parecchi grattacapi. » Io stesso, nonostante stia acquisendo un po’ di esperienza, ho dovuto chiedere aiuto ad un mio collega più anziano che era più confuso di me.
« La Magia Africana, quella davvero antica, è molto complessa. C’erano un paio di poltergeist piuttosto molesti. »
Mi scosto il bordo della maglia, mostrando un paio di graffi violacei –ora sbiaditi– che spiccano all’altezza della trachea.
« Alla fine, però, siamo entrati. Solo che… beh… » Sospiro mentre abbasso nuovamente il braccio. « Abbiamo perso… ehm… un pezzo. » Mi rendo conto che, visto ciò che le ho mostrato poco fa, l’affermazione può essere inquietante perciò mi affretto a chiarire, alzando le mani. « No, cioè, non in senso… di pezzo… umano… »
Ecco, ho fatto peggio.
« Una testa! »
Corrugo le sopracciglia, poi mi schiarisco la voce.
Forza, Horus, ce la puoi fare a mettere in fila due parole.
« Una testa vodoo intendo. L’avevamo prelevata dalla camera per studiarla e quando siamo tornati a Londra… beh… è sparita. » A questo punto abbasso la voce, mi guardo velocemente intorno mentre confesso a Megan cos’è accaduto. È già una settimana che sto cercando di recuperare indizi perché sono certo sia stata rubata.*

« Ragazzi, allora, siete pronti per ordinare? »
Sussulto sulla sedia come se fossi stato colto con le mani nella marmellata. Imbarazzato guardo Megan.
« Io prendo un caffè… forte… molto forte. Doppio. » Nel caso non si fosse capito, ho bisogno davvero, ma davvero tanto di quel caffè.
La cameriera scribacchia sul blocco, abituata a trattare con i drogati evidentemente.
« E tu? » È sottinteso che pagherò io e lo chiarisco con un’occhiata eloquente.

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*= faccio riferimento a ciò che accade in Echolocate.
 
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Scosto lo sguardo da un lato per pochi istanti. Ho appena detto che sto bene e forse è la prima volta che sento davvero essere così. Parte di me ancora vive nel passato, è vero. La rabbia, che tutt’ora sento addosso, prende a pugni il mio stomaco e lo riduce uno straccio. Sono abituata a fingere... Tuttavia, adesso, non lo sto facendo. È strano sentirsi così dopo tanto tempo.
Osservo alcuni clienti sedere a tavoli poco distanti da me, poi un soffio di vento mi fa rabbrividire. Il tempo è piacevole ma l'aria a tratti è pungente. Le mani fanno da scudo lungo entrambe le braccia, le accarezzano lentamente, mentre ascolto ogni singola parola.
Mi sembra di vederlo in quella che è la terra meravigliosa di cui parla: l’Etiopia. Il caldo atroce che fa sudare la pelle; i colori caldi e distese di alberi e prati. L’avventura che racconta la immagino chiaramente, e cattura la mia totale attenzione.
Immagino Horus venire a capo di situazioni difficili: le sopracciglia aggrottate, il viso contratto per la fatica e la fronte imperlata di sudore. Quando scosta la maglia e mi mostra i segni dei poltergeist lungo la trachea rabbrividisco. Mi domando: quanto può valere davvero la pena rischiare la vita per spezzare maledizioni e sortilegi? Dal modo in cui ne parla, però, ho l'impressione che ne sia entusiasta.
La mano sinistra circonda il polso e lo stringe appena. Poggio la guancia sulle dita appena chiuse, il gomito destro è piegato e il braccio sorregge la posizione.
Rido sul finale, prima che la cameriera mi interrompa. Abbasso le palpebre, mani e avambracci tornano lungo il piano d’appoggio.
«Per me lo stesso, grazie.» Le sorrido e torno a guardare Horus alzando le spalle.
«Allora: è senza dubbio una storia avvincente!» Un sorrisino sbieco si fa spazio tra le mie labbra mettendo in risalto la fossetta al lato sinistro.
«Sono curiosa di sapere come mai hai scelto questo lavoro, lo SpezzaIncantesimi, e...» Mi avvicino appena sistemando una ciocca corvina dietro l’orecchio. «Chi l’ha rubata questa… Testa?» L’ipotesi che sia svanita nel nulla per me è del tutto improbabile.
Poggio le spalle sulla sedia e le mani scivolano sulle cosce stringendosi saldamente l’una all’altra.
Guardo Horus ancora divertita.

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view post Posted on 5/9/2023, 11:36
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C’è sincera curiosità negli occhi profondi di Megan e sorrido con dolcezza perché, per un momento quando la cameriera ci ha interrotti per prendere l’ordine, mi sono chiesto se non avessi monopolizzato la conversazione.
Seguo distrattamente la ragazza che se ne va, sperando abbia ben compreso quanto forte deve essere il mio caffè. Tra l’altro so che qui fa davvero schifo –qui in Inghilterra intendo– perché, dopo aver assaggiato quello italiano ho avuto un’illuminazione gustativa.
La morbida voce della mia amica, tuttavia, mi riporta alla nostra conversazione. Mentre lei si sporge in avanti, io mi appoggio allo schienale della sedia con arrendevolezza e un sospiro.
« E chi lo sa? » Alzo le mani « Secondo un mio… uhm… contatto… » Taccio un secondo, riconsiderando la mia scelta di chiedere ad Alvarez di indagare. Di solito è affidabile, losco quanto basta per intrufolarsi nei tuguri che io, personalmente, non frequenterei mai. « … potrebbe essere da qualche parte a Nocturn Alley. Secondo me, è al mercato nero. Non mi stupirei se Sinister sapesse qualcosa. »
Rimugino guardando il mazzo di fiori e carezzandomi la barba sul mento Poi un ghigno si apre attraverso le dita che mi coprono la bocca e i miei occhi si posano sul viso punteggiato da graziose lentiggini di Megan.
« Sei ancora Caposcuola, no? Conosci qualcuno che lavora lì? »
Certo Magie Sinister non è proprio il classico posto dove si potrebbe trovare uno studente, ma persino io, ai tempi in cui ero Prefetto e poi, per l’appunto, Caposcuola ho frequentato il malfamato negozio di chincaglieria oscura. Ormai è piuttosto sdoganato tra gli studenti più grandi, motivo per cui non è difficile trovarne qualcuno dietro il bancone.
« Comunque » Riprendo. Sto per rispondere alla sua domanda con: “Mio padre era Magiarcheologo”, ma l’idea anche solo di nominarlo mi strappa una smorfia involontaria. « Me ne ha parlato totalmente per caso una giornalista della Gazzetta. La Abyss. Se non sbaglio è stata anche docente ad Hogwarts. » Corrugo la fronte, cercando di ricordare, ma poi mi stringo nelle spalle. « Mi aveva persino proposto di fare il giocatore professionista di Quidditch, ma non faceva per me. Essere Spezzaincantesimi è più nelle mie corde. Viaggio, sono a contatto con magie sconosciute e affianco e proteggo i magiarcheologi. Anche se questo mi costa qualche ferita di guerra. » Rido, ma poi sono io a poggiare le braccia sul tavolo e a protendermi verso di lei.
« Tu piuttosto. Scendiamo nelle banali chiacchiere e dimmi se sai già cosa fare dopo i M.A.G.O. E… » Tentenno un attimo e il mio sorriso si affievolisce. « Com’è Hogwarts ora? »
Mentirei se dicessi che non mi importa granché e che non ho bisogno di sentirne parlare.
La verità è, invece, che ne ho davvero la necessità visto come ho concluso i miei studi in fretta e furia, penso con gli occhi velati da malinconia.
Mi manca, ammetto a me stesso.

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Le dita affusolate accarezzano la superficie del tavolo sino a incontrare le foglie dei tulipani. Giocherello con la punta avvolgendone parte attorno all’anulare destro. Gli occhi rivolti sui fiori trovano spazio tra le iridi argentee di Horus e una smorfia di delusione macchia il mio viso. È una storia avvincente ma non saperne il continuo lascia in me un moto di frustrazione tale da alimentare una curiosità che non avrebbe trovato in alcun modo, almeno adesso, pace. Tuttavia il cuore salta qualche battito quando, nel bel mezzo di quel discorso alla luce dei miei ricordi si fa spazio una circostanza di cui non vado molto fiera. Un segreto silente, pattuito tra me e Nieve Rigos qualche anno fa. Il mercato nero era stato oggetto di un aggressione più o meno volontaria e un di furto altrettanto libero. Ne ero stata partecipe, protagonista in realtà, e ricordo ancora i giorni seguenti a non darmi pace non tanto per l’atto in sé ma per la sensazione di non aver alcun controllo per rimediare. Fuggire sarebbe stata la cosa giusta; più che giusta, se ci penso, l’unica soluzione per non macchiare ulteriormente le mie mani di peccati ben più gravi.
Stringo i pugni allora, lasciando andare il tulipano; l’espressione che ha rabbuiato il mio viso si schiarisce d’improvviso scaricando la tensione su quella presa che sbianca le mie nocche e blocca il sangue.
Così annuisco in risposta alle prime domande che Horus mi pone e sorrido. Le labbra si distendono tese, cerco di scrollarmi di dosso quei pensieri prima che possano in qualche modo perseguitarmi per le prossime ore a venire, almeno quanto basta per macchiarne il mio umore. È passato, mi dico. Convinco me stessa che se pensassi questo, se pensassi solamente che non sia mai accaduto - dato che le circostanze non hanno previsto per me alcuna condanna, né pericolo - probabilmente potrei porre fine a questo tormento. La cosa peggiore è che, forse, non mi sento nemmeno troppo in colpa.
Abbasso lo sguardo, la gola è improvvisamente secca e desidero che il caffè arrivi presto.
«Sì certo» annuisco «ancora porto avanti Corvonero, nella speranza di cedere la spilla molto presto» alzo le spalle appena e abbozzo un sorriso sbieco. «Lo sai anche tu quante responsabilità porti la carica e sotto esami la cosa è ancora più difficile».
Inspiro ed espiro profondamente. Scaricare le mie frustrazioni è certo una liberazione, Horus può capirmi ne sono sicura e quasi gliene sono grata di avermi fatto quella domanda; mi sono concessa un po’ di libertà nell’esprimermi sull’argomento ed è stato come scaricare parte del peso che grava sulle mie spalle costantemente da un po’ di anni ormai.
«Spero che Jean Grey, la mia attuale collega all’Ars Arcana e Prefetto Corvonero, possa fare presto le mie veci» sciolgo le lunghe ciocche corvine che cadono lungo le spalle riparandomi dall’aria primaverile. I brividi che ricoprono ancora la mia pelle si attenuano lasciandomi un po’ di conforto.
«Ad ogni modo potresti andare da Sinister; conosco qualcuno» dico allacciandomi a quella che era la vera domanda di Horus, «Draven Shaw. È di turno questo pomeriggio se vuoi fare un salto, puoi dirgli che ti ho mandato io. È… stiamo insieme » mi sento avvampare all’istante.
«Prego ragazzi, ecco i caffè molto forti» la voce della cameriera m’interrompe e gliene sono estremamente riconoscente.
«Posso chiederle qualche Zuccotto di Zucca per accompagnare? Mi è venuta fame adesso» le sorrido.
«Certo cara, per te qualcosa?» chiede la cameriera l’attimo seguente rivolgendosi ad Horus.
Al netto dell’ordinazione, che Horus ne prendesse parte o meno, prendo la tazza di caffè e soffio appena per non scottarmi le labbra. Serve a poco, l’attimo seguente strizzo gli occhi tentando di avere un minimo di conforto e attutire il bollore che sento esplodere sul labbro superiore.
«Giocatore di Quidditch hai detto, eh?» riprendo a parlare e lentamente poggio la tazza sul piattino e il dorso della mano va a tamponare la lieve scottatura, «Beh, non che un giocatore non possa riportare ferite di guerra» sorrido divertita.
«In ogni caso sono sempre più orientata verso l’Ufficio Misteri, sai i miei genitori lavoravano lì un tempo» prendo un attimo di pausa; potrei dirgli quanto poco mi interessi fare parte delle fila del governo magico ma mi limito a mantenere l’espressione risoluta che non lascia trapelare alcun dubbio sulle mie parole. Finora l’unico che realmente sa come stanno più o meno le cose è Daddy; l’unico che sa per quale motivo io voglia entrare lì dentro.
«Credo sia un lavoro piuttosto interessante. Sai, la mia vita è sempre stata avvolta dal mistero, prima e dopo la morte dei miei. Un mistero quasi folle e non credo che io abbia altri interessi per il mio futuro. Sono, come dire: destinata a questo» alzo le spalle e finalmente le appoggio sullo schienale. Incrocio le gambe e lascio che la mani si poggino accarezzando la pelle all’altezza delle ginocchia, la destra è sulla sinistra.
«Hogwarts non è cambiata affatto, o meglio: è sempre accogliente e sicuramente la considero il mio posto; molti sarebbero d’accordo con me su questo punto, presumo. Forse, però, ci sono un po’ di cose da aggiustare. Ho saputo di numerosi casini in Sala Grande durante i pasti principali nei quali nessuno dei professori si è preso la briga di dare ordine; beh, abbastanza insolito. Peverell è ancora al comando, Atena è la nuova vice-preside» concludo. La mia totale indifferenza è disarmante persino per me stessa, credo che Horus possa percepire senza alcuna difficoltà i pensieri che ho a riguardo. Scuoto la testa e finalmente allungo il braccio decisa a prendere una sorsata di caffè senza il pericolo di scottarmi. Non c’è controllo ad Hogwarts, non più come un tempo e sentirsi al sicuro è solo una favoletta che raccontiamo a noi stessi per non ammettere che lavarsene le mani è ben più facile che prendersi le proprie responsabilità.
«Ti manca?»

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Noto la cupezza che si dipinge sul bel viso di Megan.
È il passare veloce di nubi su un cielo limpido di primavera, come quello che abbraccia le nostre teste. Ma se la volta su di noi è sgombra e cristallina, quella su di lei è rannuvolata e, mi chiedo, se minacci tempesta.
Non dico niente: non so cosa si celi, non so quali pensieri si siano generati come turbini dietro gli occhi di zaffiro, ma la guardo mostrandole tutta la mia comprensione. So bene cosa significa portare il peso della spilla e annuisco con vigore alzando gli occhi verso l’alto per palesare ciò che ne penso al riguardo. Mi poggio sullo schienale della sedia con le braccia incrociate. Scaccio via il ricordo di quando io e Amber ne abbiamo parlato e –soprattutto– il maledetto momento in cui mia madre ha incontrato John Hydra. Il mio fastidio aumenta e una piccola ruga si delinea fra le mie sopracciglia.
Sono felice quando vengo a sapere di un possibile contatto con Sinister.
« Oh! » Il sorriso riaffiora sulle mie labbra in una smorfia divertita. Megan non ha mai parlato molto della sua vita privata anche quando eravamo fianco a fianco nelle domeniche polverose all’Ars Arcana; ed in effetti, nemmeno io. Sa di mio padre, chiaramente –la famiglia sono la prima cosa che salta fuori in questi discorsi– e delle mie origini, ma tutto ciò che ci riguarda direttamente è ben chiuso nei cassetti della nostra riservatezza. Mi rendo conto che non sappiamo granché l’uno dell’altra e una parte di me è contento di questo piccolo scorcio che mi ha permesso di vedere.
E del contatto, chiaramente, soprattutto del contatto.
« Credo proprio che andrò a trovarlo, allora. » Sospiro di sollievo, evitando di aggiungere altro per non metterla in imbarazzo. Ammetto che sono curioso, ma mi appunto mentalmente di trovare un buco, oggi pomeriggio, per andare a Nocturn Alley.
Finalmente la cameriera posa sul tavolo il nostro caffè fumante ed il suo aroma mi riempie le narici. Mi scaldo le mani attorno alla tazza di porcellana e scuoto il capo.
« Niente, grazie. » Ho mangiato fin troppo a colazione, ma se risalto il pranzo, Isabella m’ammazza. La ragazza se ne va con la gonna che ondeggia nella brezza e la guardo andar via con sguardo vacuo.
Quando prendo un sorso, il sapore amaro e lievemente acido del caffè mi invade il palato e socchiudo gli occhi per il solo piacere di avere qualcosa di caldo e in grado di svegliarmi, soprattutto.
Quel calore, però, svanisce e le mie labbra si serrano. Poggio con lentezza estrema la tazza sul tavolo e fisso Megan dritto negli occhi.
Un mistero quasi folle e non credo che io abbia altri interessi per il mio futuro. Sono, come dire: destinata a questo.
Non dico niente, nella pausa che segue; la mia mandibola è irrigidita e il mio volto è una maschera di cera.
Non sapevo, ovviamente, della morte dei suoi genitori; so poco di loro, ma ricordo con quanto entusiasmo Megan mi avvisava che per le vacanze di Natale non ci sarebbe stata. Mi ha raccontato delle cene e di cosa avrebbe fatto con i suoi e a me divertiva sapere delle tradizioni altrui. E adesso non mi viene nemmeno una parola di conforto. Zero.
Vedo solo qualcuno caduto nello stesso abisso in cui sono finito io. Per prendere tempo, bevo ancora il caffè. A dirla tutta, lo finisco in un lungo sorso e mi aggrappo alla tazza.
Nascondo così l’espressione dura e rabbiosa che fa impallidire il mio viso abbronzato. Quando la poso, il discorso su Hogwarts mi permette di deviare la mente, ma quella serenità che prima mi aveva animato ora è sfiorita.
« Cos’è successo in Sala Grande? Se ci fossi stato ancora io, qualche testa sarebbe volata, poco ma sicuro. Le clessidre ricordano ancora tutti i punti che ho tolto. Spesso, sempre ai soliti imbecilli. » Cerco di assumere un tono rilassato, ma forse il sarcasmo che imporpora la mia voce è fin troppo percepibile.

« Ti manca? »
Per un momento la mia espressione si ammorbidisce e le mie iridi si fanno più liquide, come mercurio. Distolgo un attimo lo sguardo da lei per puntarlo distrattamente sugli altri tavoli, ma vedendo solo ombre sedute.
Chi mi manca, vorrai dire. Giocherello con l’orecchino in un gesto meccanico, poi il braccio scatta irritato non appena me ne rendo conto.
Fanculo, Horus.
« Un po’. » Mento, con malinconia.

Il ritorno di gran carriera della cameriera con lo zuccotto di zucca ben caldo è la distrazione che mi permette di allontanare il suo viso dai cassetti della memoria per concentrarmi, piuttosto, sul braccialetto che indosso e che porta le iniziali di coloro che mi hanno fatto sentire a casa. Solo con Eloise ho mantenuto i contatti, tramite suo fratello Ned. Lo sfioro con l’indice, poi torno su Megan.
Sono di nuovo serio e la nube più grande, nera e buia, è giunta anche sul mio volto.
« Meg. » Il suo nome mi scivola sulle labbra prima che io possa fermarlo. Gli occhi si spostano rapidi sui suoi, sulle ciglia lunghe, sulle lentiggini, sui capelli scuri.
Sospiro e mi porto una ciocca ramata, sfuggita all’elastico, dietro l’orecchio; poi incrocio nuovamente le braccia, sul tavolo questa volta. Stringo la stoffa della manica.
« Cosa ti fa pensare di non essere destinata ad altro? »
Non sono nessuno per giudicarti, Megan. Non io che per primo ho mandato tutto a puttane.
Perciò non è con biasimo che ti pongo questa domanda; al di là di questa palese percezione, è difficile comprendere il tono e persino interpretare il mio sguardo.
Sono sempre stato molto bravo a nascondere i miei sentimenti e le mie emozioni.
Sono gli occhi che spesso mi fregano, eppure non riesco a distoglierli dai suoi.

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Bevo un altro sorso di caffè nel breve silenzio che accompagna la mia domanda; poi, torno ad appoggiare la schiena e le mani scivolano sui braccioli della sedia. Tamburello con le dita sulla superficie, osservo Horus distogliere lo sguardo ed io abbasso le palpebre sulla tazza fumante: temo di averlo turbato in qualche modo. Schiudo le labbra ma prima che possa dire qualcosa lui finalmente risponde.
«Un po’.»
Lo stomaco si contorce. Prendo aria. Nonostante la noncuranza con la quale pronuncia quelle parole non mi riesce difficile scorgere un piglio di tristezza. Non riesco ad aggiungere altro, una parte di me vorrebbe andare più affondo e scoprire cosa si cela al di là di quelle sillabe ma la cameriera rompe il breve silenzio tra noi ed io mi volto verso la sua direzione con un sorriso appena accennato. L’imbarazzo nato in quegli istanti cessa di esistere nel momento in cui rivolgo tutta l’attenzione alla ragazza e sistemo il piattino accanto ai fiori.
«Grazie» dico mentre lei mi rivolge le spalle e sorride.
«Meg» sento Horus chiamarmi e subito poso gli occhi su di lui alzando di poco il mento. Taccio. Il silenzio rimane sospeso il tempo che basta per vederlo sistemarsi una ciocca sfuggitagli dall’orecchio e accarezza le maniche del tessuto poggiando gli avambracci sul tavolo. Mi rivolge poi una domanda, precisa. Il cuore salta un battito e il vuoto riempie lo stomaco.
Rimango fissa su di lui.
«Ci ho provato, credimi» le parole scivolano via lente, resto immobile. «Quando sono morti i miei genitori ho cercato di andare avanti ma non è… Stato facile per me» mi fermo, il tempo di un profondo respiro. Mi abbandono sulle sedia le mani si stringono sul grembo e porto lo sguardo verso il cielo. La profonda tristezza che provo è sempre lì pronta a irrompere ogni qualvolta che il pensiero ripercorre la mia intera esistenza segnata dal vuoto che la morte mi ha lasciato dentro. Gli occhi cobalto incontrano il cielo e vi si immergono come a cercare il coraggio di poter proseguire ciò che ho appena iniziato.
Schiudo le labbra.
«Non ho mai abbandonato l’idea di voler scoprire cosa realmente sia successo e l’unica strada che conosco è quella che loro stessi hanno percorso» il tono della mia voce suona arrendevole, profonda e in netto contrasto con il cinguettio primaverile sopra di noi.
«Sai... Non credo che sia stato un incidente» alzo le spalle e con coraggio torno a guardare Horus.
«Non ho mai ricevuto alcuna risposta e non sono incline ad abbandonare la causa che mi guiderà ad ottenerla, prima o poi».
Torno verso il tavolo e le dita afferrano lo zuccotto.
«Ti sei mai sentito come se non avessi alcuna scelta?» gli occhi sul dolcetto alla zucca, lo divido a metà. «Spezzato» aggiungo, dando enfasi a quel gesto e un sorriso amaro si fa largo tra le mie labbra. «Sai che significa non riuscire a liberarsi di un tarlo che picchia in testa, costante? Non importa quanto si tenti di soffocarlo lui comunque continuerà a nascondersi per non farsi trovare, per non farsi schiacciare» sospiro e mi concentro sul profumo caldo di zucca, cannella e vaniglia.
«Non ho scelta e non credo di desiderare diversamente» torno a guardarlo prima di dare un morso e tornare con le spalle sullo schienale.

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Ascolto Megan con il viso paralizzato.
Ogni sua parola riverbera dentro di me come se lei stesse descrivendo gli anni che mi sono lasciato alle spalle da quando ho fatto irruzione a Villa Cavendish.
Mi chiedo, guardando i suoi occhi sfumati dalla tristezza, se anche lei sospetti un coinvolgimento dell’omicidio dei suoi genitori –o i suoi genitori stessi– in qualcosa di… più grande. Liscio la stoffa delle maniche con le dita e finalmente riesco a distogliere lo sguardo abbassandolo sullo zuccotto di zucca che spezza a metà, enfatizzando una parola semplice, ma con un gigantesco impatto: spezzato.
Un sorriso obliquo piega le mie labbra in un’espressione a metà fra il sarcastico e l’arrendevolezza.
« Sì. Sfortunatamente so perfettamente di cosa stai parlando. » Le rispondo partecipe.
Perché è così difficile vivere una vita normale? Perché alcuni di noi vengono scelti da questo cazzo di destino per annaspare in un mare di difficoltà?
È un discorso piuttosto superficiale, il mio, e, di certo, banale. Eppure, ricordando i racconti delle vacanze di Megan con la propria famiglia –pochi, ma trasmessi con calore–, quando ho persino provato un pizzico d’invidia nel sapere di madri e padri uniti con i figli, mi è inevitabile domandarmi come sia possibile che una ragazza come lei, che all’apparenza sembrava avere tutto, sia condannata ad una caduta inesorabile?
Il punto è questo: è una ferita che marcisce, manda in cancrena tutto ciò che ha intorno. È quello, il tarlo: l’infezione.
Rimaniamo in silenzio per un po’, io torno a giocherellare con il manico della tazzina di ceramica. Ho parlato solamente ad Emily della mia missione e ne ha pagato le… mi incupisco. No, pagare le conseguenze non è un termine corretto. O forse sì?
”Non rinunciare a noi”.
No, lei non voleva, non voleva che la lasciassi andare perciò, sì: ne ha pagato le conseguenze. Eppure non tornerei indietro, per quanto dolorosa possa essere la scelta ogni cazzo di volta: mi dico che l’ho fatto per proteggerla, mi rispondo sinceramente che in parte è stato così. In parte: è stato, in realtà, più per proteggere me.
E tuttavia inizialmente lei non mi ha mai impedito di andare a Villa Cavendish, anche quando le ho chiesto di non venire con me. Ma se l’avessi raccontato ad altri? Pochi avrebbero capito.
« L’unico modo per uscirne è schiacciare il tarlo. » La mia è una risposta scontata.
« C’è una differenza, però, fra scacciare il tarlo e schiacciarlo. » Aggiungo. Ora la guardo, sondo il suo viso, empatizzo –strano, ma vero– la sua decisione di non voler mollare tutto quanto. Fallo, Megan: non vivere nel rimorso.
« Scacciarlo significa dimenticare; schiacciarlo vuol dire andare avanti finché non lo trovi e lo calpesti. » Allora mi sporgo in avanti, i capelli mi scivolano lungo il collo. « La gente ti dice di andare avanti, che il tempo farà il suo dovere, che devi accettarlo. Cazzate, Meg. Il tempo non guarisce proprio un cazzo. » E so che lo sa. So che sono parole dure, ma del resto la verità, come dice un vecchio e banale detto, fa sempre male.
« Chi è spezzato si ricompone solo incollando i pezzi, a volte ci si tiene su anche solo con un pezzo di Magiscotch. » Sussurro e la malinconia adombra nuovamente il mio viso. « Trova quel tarlo, distruggilo, e allora sarai libera. E se è richiesta vendetta, qualunque essa sia, sfruttala come una chiave per ricomporti, è il motore che ti fa andare avanti quando senti di non avere più scelta. »
Ripenso ai miei incubi, dove mio padre indossa la maschera di un Mangiamorte, ed allora il mio cuore lancia una stilettata che mi costringe per un attimo a chiudere gli occhi, a prendere un respiro. Mi allontano appoggiandomi allo schienale. Ho promesso a me stesso che se così fosse stato… avrei fatto ciò che devo. Avrei affondato il pugnale.
« Fai ciò che devi per non essere più spezzata. » Dichiaro. Poi rido brevemente.
« Non proprio un discorso che si dovrebbe fare secondo la buona morale, eh? » Taccio, ma il sorriso si apre di più, scopre i denti.
« Fanculo la morale. »

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La risposta di Horus mantiene viva la mia attenzione. Nel silenzio, che per esigui istanti si frappone tra noi, mordo l’ultimo pezzo di zuccotto. Le dita sfregano tra loro per far scivolare le briciole, poi mi avvicino pulendo la bocca con il tovagliolo. Lo sguardo su di lui. Lo osservo giocherellare con il manico della tazza e l’espressione distesa per un attimo si incupisce. Di nuovo, mi chiedo a cosa stia pensando.
«L’unico modo per uscirne è schiacciare il tarlo.»
«Mh, già» annuisco, afferro la tazza con entrambe le mani e bevo l’ennesimo sorso.
«C’è una differenza, però, fra scacciare il tarlo e schiacciarlo» lui continua. Alzo un sopracciglio e lo guardo divertita. Le labbra si sollevano, gli occhi si riducono a fessure. Piego la testa da un lato, la mano sorregge il mento e il gomito poggiato sul tavolo. Lo ascolto. Rimango in silenzio. Un altro sorso di caffè e lascio tintinnare la ceramica contro il piattino. Gli occhi seguono i suoi movimenti, le parole mi entrano dentro e il cuore trema: la verità è un pugnale dritto nel petto. No, non mi aspettavo nulla di simile giacché tutte le risposte che mi vengono date sull'argomento vertono su luoghi comuni, dove l’interesse si riduce ad una mano sulla coscienza e tanti cari saluti.
Lo vedo ridere, sorrido di rimando e per esigui istanti alzo gli occhi al cielo scuotendo la testa. «Nessuno mi ha mai parlato così, sai? Di solito l’ipocrisia prevale e nasconde il resto» prendo un profondo respiro e le labbra si arricciano.
«Forse non è un discorso che si dovrebbe fare secondo la buona morale ma è il più onesto che io abbia mai sentito» abbozzo un altro sorrisino. Che Horus sia consapevole di cosa si provi a navigare in un mare di merda senza alcun appiglio al quale aggrapparsi, è qualcosa che do per certo. Il suo discorso non mi è parso affatto scontato: la consapevolezza nelle sue parole, la palpabile emozione che aveva attraversato il suo volto era stata... Reale.
«Lo farò, mi ricomporrò in qualche modo anche se…» distolgo lo sguardo, le parole si bloccano tra le labbra. Inspiro ed espiro. Anche se vorrà dire perdere me stessa, continuo silente e lo stomaco si stringe al solo pensiero. La cosa che più mi spaventa è non avere cognizione delle mie capacità e del mio autocontrollo, fino a che punto arriverei per raggiungere il mio scopo e quanto dolore io sia disposta a sopportare. Le cicatrici che porto sulla pelle, il male che mi infliggo ogni qualvolta le emozioni sono troppo forti da sopportare, mi conducono ad una sola risposta: “non lo so e fa paura.”
«Tu… Tu ci sei riuscito? Hai distrutto il tarlo?» torno con la schiena dritta, un braccio piegato sotto di me l’altro vicino ai fiori. Accarezzo le foglie, il blu dei miei occhi torna a cercare il grigio dei suoi. Trattengo in viso l’espressione carica di speranza, in attesa di una sola e unica risposta: “sì”.

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Lo so che se qualcuno avesse udito il mio discorso, si sarebbe potuto risentire.
Che cosa indecente dire la verità ad una ragazza che ha perso i genitori da poco; non è così che direbbero? Che la vendetta non porta a nulla?
Sì, ma qual’è la verità? Quella dell’etica comune o la propria? È così sbagliato voler cercare risposte senza fermarsi al: “è successo, vedrai col tempo passa”? Sì, come no.
Sono diciotto anni che penso a Lui, diciotto anni in cui il tempo non ha fatto altro che prendermi a pugni ogni anno di più. E sono tredici anni da quando l’incontro con Aryadne Cavendish mi ha cambiato la vita per sempre.
Il tempo non guarisce proprio niente.
Perciò no, non mi sento in colpa ad aver detto ciò che ho detto; anzi, sorrido maggiormente nel sapere che nessuno le ha mai rivelato certe cose, che nessuno le ha mai parlato così schiettamente. Mi stringo nelle spalle con semplicità.
« Credo che ognuno si meriti la realtà delle cose. Che sia capire di più dietro una… scomparsa– in entrambi i sensi –o anche solo il modo per riprendere in mano le file della propria vita. »
La guardo alzare gli occhi verso il cielo e mi domando: con quante persone ha già parlato? Quante volte si è sentita dire le solite, trite e ritrite cose?
Mi dispiace, Meg. Mi dispiace per ciò che ti è accaduto e vorrei dirtelo, sul serio. È che non sono bravo con le parole, non in questi termini, non nell’esprimere i miei sentimenti, grandi o piccoli che siano. Tutto ciò che posso fare è parlarti con sincerità.
Perciò accolgo la tua domanda intenzionato a risponderti, anche se non è facile perché fa un male cane. Rimango in silenzio per qualche secondo, giro la tazzina di porcellana sul suo piattino e guardo i fondi del caffè.
Quelle poche lezioni di Divinazione che ho fatto promettevano di vedere il futuro attraverso di essi: non ho mai schifato una materia come quella e non solo perché la insegnava la Morgenstern.
« Non ancora. » Confesso ad un certo punto, rialzando gli occhi su di lei. Forse non è la migliore delle risposte, più che altro non è molto motivante, ma è la verità.
« Però l’ho individuato. Diciamo che ci sto lavorando su. »
Sì, magari. Sono anni che sto cercando una soluzione a quelle lettere, a ciò che collegava mio padre a John Cavendish e, di conseguenza, al Signore Oscuro, a cosa significa il disegno di quell’Ankh spezzata. Sono anni che sto facendo nient’altro che buchi nell’acqua, viaggiando per l’intero pianeta solo per elemosinare qualche informazione di più, una pista da seguire. Solo che non voglio ammetterlo nemmeno con me stesso, nonostante lo sconforto.
C’arrivo, a schiacciarlo, quel cazzo di tarlo.
« È che… » Allungo la mano verso il tulipano e rimango a guardarlo per qualche istante, indeciso. Ho detto che avrei parlato con sincerità e così farò.
« Per poterlo schiacciare, spesso e volentieri bisogna essere decisi abbastanza da lasciare indietro qualcosa… » Deglutisco, a disagio, pensando ad Emily. « O qualcuno. » Accarezzo assorto una foglia, non mi accorgo poi di abbandonarla e di sfiorare l’orecchino sul lobo sinistro per mandare indietro l’ennesima ciocca ribelle.
Ho sempre allontanato l’immagine di lei dalla mia testa. Inizialmente con dolore, con una stretta allo stomaco così forte da procurarmi la nausea. Piano piano sempre con più ostinazione, sempre più freddamente. Solo non posso dimenticarla, per una serie infinita di ragioni e anche perché Lei è…
« Il motore che ti dà la forza di crederci: è chi sei costretto a lasciare che deve spingerti a non mollare. A volte non puoi fare altrimenti e devi farlo per poterti dire che tutto quel dolore, tutto quell’amore… » Faccio una pausa, trattenendomi dal mordermi la lingua. « È servito a qualcosa. » Proseguo riprendendomi in extremis. Non so cosa c’è là fuori per te e ti auguro di non dover mai fare scelte come quella cui sono stato costretto io.
… No, quella cui io mi sono costretto a fare.
« Se capiterà, ti consiglio di farlo se è rappresenta un ostacolo per fare quel che devi fari . Se vuoi essere libera.»
Dal tavolo raccolgo un petalo caduto del tulipano e glielo porgo.
« Teatrali gesti per teatrali discorsi. » Sorrido.

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Arrotolo la foglia tra le mie dita, così come farei una ciocca di capelli. Il tintinnio della tazzina di caffè, ormai vuota, accompagna il silenzio dopo la mia domanda. Una frazione secondo che genera in me angoscia. Forse sono andata oltre, forse non avrei dovuto chiedere di più. Abbasso così lo sguardo, quel che basta per poter sfuggire agli occhi cerulei che mi osservano, ora che le parole si fanno spazio dapprima incerte poi più decise. Seguo il suo gesto, poco dopo, quando la mano di Horus si avvicina alla mia. Accarezza le foglie dei tulipani e torna a scostare una ciocca rosso rame dal suo volto.
«…è chi sei costretto a lasciare che deve spingerti a non mollare.»
Ora torno a guardarlo.
«A volte non puoi fare altrimenti e devi farlo per poterti dire che tutto quel dolore, tutto quell’amore… È servito a qualcosa.»
C’è una consapevolezza in queste parole che fa tremare il cuore. Un nodo alla gola che stringe e mi obbliga a schiudere le labbra e a prendere aria. Lo vedo che c’è qualcosa e il fatto che ci sia della sofferenza dietro quell’espressione tesa e impostata, non fa altro che avvicinarmi ancora di più a lui. Poi, mi pone un petalo di un tulipano sfuggito via dal mazzo e l’espressione seria muta in una piccolo riso speculare al suo.
«Si è mai realmente liberi, Hor?» passo il petalo tra le dita mentre ne osservo le sfumature sottili, linee bianche tra il colore rosa pesca, che lo caratterizza. Pongo quella domanda non solo a lui ma anche a me stessa. Ripeto ad alta voce i pensieri nella mia testa. Continuo.
«Quando crediamo di esserlo, non raggiungiamo l’ennesimo girone infernale? Ci portiamo dietro tutte le scelte fatte, una valanga di decisioni, e sappiamo di doverne compiere altre forse riparatorie, oppure irrevocabilmente distruttive» sorrido sebbene non ci sia alcun velo d’ironia nelle mie parole.
«Sono egoista al punto tale da poter trascinare con me anche la persona che amo di più al mondo» ammetto subito dopo e lo faccio senza vergogna alcuna, le spalle si alzano e si abbassano repentine. Non ho filtri, non ne ho mai avuti e ho abbastanza esperienza nel saggiare la solitudine da conoscerne i pericoli e desiderare di non volermi perdere più in quel limbo, delimitato da muri alti e invalicabili persino per me che ne sono l’artefice.
«Oppure sono saggia tanto da volermi bene abbastanza ed evitare, così, un altro dolore» torno a guardarlo per un breve momento. Volersi bene è di certo un eufemismo per me che, ogni qualvolta ne sento l’esigenza, macchio la mia pelle irreparabilmente. È un altro discorso, tuttavia.
«Ho dovuto subire parecchi addii e la maggior parte non per mia volontà» prendo aria, trovo il coraggio di soffermarmi su di lui. «Io sono vittima di questo tipo di scelte.» Il mio sguardo si era tenuto lontano fino a quel momento, rivolto altrove per la maggior parte del discorso. Avevo posato gli occhi su una bambina e sua madre, proprio alle spalle di Horus. Ho guardato quella ragazzina con pietà, mentre immaginavo per lei il destino più orribile e speravo nella sua salvezza. Il viso paffuto, ciocche biondo cenere; aveva leccato via il baffo di latte sopra le piccole labbra carnose, gli occhi vuoti rivolti verso la tazza prima di accorgersi di me. Solo in quel momento ho deviato lo sguardo.
«So quanto fa male e questo basta per non ripetere ciò che a me è stato fatto.»
Immagino i rischi, sebbene non ne abbia l’esatto calcolo della portata che avrebbero su di me e su chi mi circonda. Mi avvicino appena mentre gli avambracci tesi, gomiti a fare da perno, si spostano di lato consentendomi un piccolo appoggio comodo sul dorso della mano destra. Il petalo solletica la mia pelle carezzando le miriadi di lentiggini che macchiano naso e zigomi.
«Quale è stata la conseguenza delle tue scelte per arrivare dove sei arrivato? Per individuare il tarlo, insomma. Ne è valsa la pena? Hai sentito questa libertà?» tiro poi i capelli, lascio che scorrano per intero lungo la schiena incastrando qualche ciocca dietro l’orecchio. Il vento che timido inizia a soffiare, rende vana la mia azione. Mi arrendo, rimango immobile ad osservarlo. Pongo ad Horus quelle domande, lo faccio con cauta gentilezza. Non è obbligato a dirmi come si sia sentito a riguardo, a meno che abbia davvero allontanato qualcosa o qualcuno dalla sua vita. Ma dubito che i suoi siano consigli di circostanza o bugie, sembra conoscere le cause che possono portare a tali decisioni e così gli effetti.
Le conosco anche io, però.

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Perdona il ritardo ma il mio cervello ha deciso di spegnersi per un po’. :flower:
 
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