assenza, punti cardine

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view post Posted on 30/6/2023, 16:33
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TjnQyKs
solitude
a condition of being apart
Penny
dormitorio maschile
Siedo sulla punta estrema del letto, al margine, come a voler scattare via da un momento all'altro. Tutto, in me, è in tensione: il cuore mi batte in modo frenetico, il sangue infiamma le gote, la pelle è un reticolo di sensazioni inesplorate. Perfino le palpebre, di scatto, tremano come in sottile convulsione, e gli occhi s'annebbiano d'offesa. Ho d'un tratto caldo, un tepore sinistro che risale lungo le braccia, che sfida il brivido che s'annida in petto. Sulla bocca zampilla una goccia di sangue, il fremito di denti che hanno scorticato le labbra; le parole mutano vestigia d'incanto, dimentiche d'ogni gentilezza a favore di una caccia terribile. Vorrei che diventassero imprecazioni vere e proprie, forme d'accusa. Ho perduto ogni rispetto, perfino nei miei riguardi. Chi è, allora, l'ombra che attende in dormitorio? La stanza mi prosciuga, scongiura l'inevitabile. Resti, frammenti, vessilli di guerra – una valigia capovolta, i vestiti sparpagliati alla rinfusa; un comodino distrutto, le ante spezzate e i cardini divelti; scatti di fotografie che il passato ha immortalato e che il presente, ora, ha saputo stracciare. I segni del litigio sono ovunque, l'atmosfera è tuttora in fibrillazione: i sortilegi sospirano, incerti se cullarsi in vendetta o dissolversi in dubbio. Torno indietro, in una cornice che si ripete. Diventa un punto fisso, uno tra tanti. Eppure, è forse il più importante da molto. Il tuo volto, Penny, brilla dei raggi del sole; la finestra è un orizzonte indefinito, una tela di tinte al tramonto. La luce ti s'accosta, delicatamente. Scivola lungo la pelle e sale, sale alla gola – sei sole. Come un'eco, la Visione che ho di te è in estasi: un braciere, una statua equina, una danza di fuoco e di cenere. Sul tuo polso, come allora, l'inchiostro sibila – è un tatuaggio di serpente. I mesi in cui siamo stati separati s'eclissano, ora. Sembra che tutto torni come una volta, tu, io, un bicchiere di whisky incendiario. Distesi sul letto, il tuo, il mio, non m'importa. E gli occhi verso il soffitto, riconoscere e nominare le ombre; e la tua pelle contro la mia, la gola che brucia per l'alcool, e promesse, e infiniti sogni nel cassetto. E carte di api frizzole, e il miele, e l'ultimo disco di .shey già in sottofondo; e cartine, cartoline, cartomanti. E noi, che ricordiamo il momento. E tu, che mi guidi avanti, in futuro, e mi chiedi i programmi per l'estate, e mi inviti alle sere sotto il glicine. E il tuo odio, il tuo timore d'aver perduto anche me.
E la mia rabbia, il mio distacco, la mia assenza.
La tua voce, Penny, è un grido. Il sorriso ti si spegne, il gusto della vita s'affievolisce. Quand'è stata l'ultima volta che abbiamo parlato, io e te? E perché, perché, abbiamo smesso di farlo? Ci ritroviamo, Penny. In dormitorio, ogni giorno, ogni sera. Fingiamo che vada tutto bene, tu mi auguri la buonanotte, io ti faccio l'occhiolino. E l'indomani, per noi, è soltanto un déjà vu. E io, che ho paura d'essere in ritardo, che non ci sia modo. Che non ci sia tempo. Indugio in apatia, una volta, e un'altra. Finché di te, e di noi, è una routine. Compagni di stanza, nulla di più. Ma la notte, Penny, io non dormo, e l'insonnia ha il tuo volto. Tu, che mi volgi le spalle. Ad un passo, eppure distante.
«Sei un randagio.» E guardati, con la valigia stretta tra le mani. E il biglietto dell'Espresso di Hogwarts, una data, senza destinazione. E il modo in cui mi chiedi dell'estate, e dei viaggi, e un bicchiere di whisky incendiario. Non farò nulla, non ho idea. L'impazienza, per te, è l'epilogo tra noi: non è possibile, sottintendi; e gridi, e batti le mani come in applauso, e ti prendi gioco di me, del dolore, della solitudine. Guardati, mi sibili. E diventi serpente, come il marchio che hai sulla pelle. Guardati, mi chiami. E mi dici d'essere ridicolo, di voler essere compatito. E mi dici di poter comprare una casa, una villa sul mare, ogni mio desiderio. E mi accusi, e mi ferisci, e hai ragione.
«Guardati, Oliver.» E il mio nome, ora, è bugia. «Ti ospito a casa, ci riempi di regali. O così, o passi le vacanze in albergo. Ti allontani, lo fai da solo. Ti disprezzi, perché la tua famiglia ti ha rinnegato.» Il tramonto, Penny, ti s'avvolge in buio. Avanzi di un passo, e mi colpisci: la valigia cade dalle mie mani, il ticket del treno cattura i tuoi occhi. Vola via, come tutto, tutto tra noi. Alla fine, beffardo, torni da me. Ti trema il corpo, il cuore, il volto. Ma la voce, Penny... la voce è nitida.
«Le tue visioni, le tue profezie, sono puttanate. Sei tu ad attirare il peggio, è parte di te. Ti abbandoni alla memoria come una droga, ma sei tu ad essere fermo. Sai, Ol. Hanno fatto bene a mandarti via, tu condanni chiunque ti si avvicini.»
Sei un randagio, mi ripeti. E il tuo corpo, ora, estingue il respiro. Chiudi, apri, spalanchi la bocca – l'aria ti è priva, ti è sottratta. Combatti il disequilibrio del mondo, le gambe ti tremano e le braccia ti si stringono al petto; mi guardi, le pupille dilatate, l'espressione indefinita. Cos'è che vuoi dirmi, ora? Hai paura, forse. Oppure... sei sconcertato. La stretta si fa energica, la pelle si rende sottile come velo di carta – ti coglie l'infida contorsione di una bambola di pezza, diventi un giocattolo tra le mie mani. Mi scagli contro sortilegi, malefici, fatture – lampi di luce, dardi che cozzano contro armadi, letti, vestiti. Ci siamo noi, io e te. Invoco la Stretta del Diavolo, l'oscura magia che zampilla dalla mia banchetta. Oliver, mi dici. E avanzo, e ti sovrasto. Il dominio, ora, è mio: consumo il sangue, il tempo, il futuro. Cadi a terra, il colpo di un corpo sulle piastrelle. Mi arresto, la bacchetta scivola. Indietreggio, ritorno in me: tremo così forte da non respirare. Ti porti una mano al petto, seguo l'esempio. Cos'è che siamo diventati.

Mi lasci, mi lasci solo.
E stasera non torni, il letto accanto al mio è vuoto.

E io mi perdo, e mi perdo.
E mi perdo.
 
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view post Posted on 3/7/2023, 11:37
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vitreous
transparent surface,
made of glass
lago nero
specchi comunicanti
Il mio volto è in frammenti, in voli iridescenti che ricordano eterne costellazioni; si riflette in punti luminosi, gocce di stelle e di notte, profanando le coppie di specchi comunicanti. Ovunque, gusci di vetro e di luna – sottili, infranti, macchiati. Colgono il presente, chi sia ora. Circondano il passo, e invocano nomi, ombre, angeli. A lungo, a mia volta, ho cercato il tuo riflesso. Occhi d'avorio, pelle diafana, la carezza del tuo corpo. La mia mente si fa confusa, è di nuovo grembo d'orrori; è infida, la nostalgia – di te, che mi manchi.
Ho lo sguardo volto al firmamento, sono in piedi. Il lago nero, tutto intorno, avanza in sospiri che mi fanno tremare, si nutrono del velo notturno e fanno paura. Ho come l'impressione d'essere ad un passo dalla fine, il tempo è caotico perfino per me. Le onde invadono la battigia, s'allungano – in mani, spirali e dolcezze – lungo i ciottoli che vestono le rive. Portano in superficie corone d'alghe, forse di spettri regali che gli abissi conservano, e trattengono. Mi accorgo d'essere con loro, verso di loro. Mi chiamano, conoscono il mio stesso nome. Oppure, mi dico, è la tua voce a cercarmi. Mi sporgo un'ultima volta, e un'altra, e un'altra, e un'altra. E la mente è spenta, e il cuore è violento. Le onde, ora, risalgono in spire lungo le caviglie, fino alle ginocchia. Sento l'acqua superare ogni difesa, di tessuto, di scarpe, di pelle. Dove sei, grido alla notte. Ma la bocca è secca, benché bagnata com'è dal vento del lago. Ha il gusto del muschio, della pietra, della pioggia. Sulla lingua s'arena il passato, e io non sono che una conchiglia intrappolata in sabbia. In me s'acquieta il canto dei mondi, sillabe esotiche si spengono un attimo dopo. Non c'è nessuno, con me. Né oggi, né domani.
Sei un randagio, come uno spettro. Il grido di Penny è intimo, mi offende fin nel profondo. Ma ha ragione, non è così? Volgo l'attenzione, ora, verso il basso. Le mani stringono legno, vetro e sangue, e la luna – come le onde – s'infrange in stille crepuscolari. Colorano le venature, gocce di ferite e di tagli, colpa del vetro che ho stretto convulsamente – vetro che ho racchiuso nei palmi. A terra, lungo le pietre del lago, s'adagiano coppie di specchi. Come ogni vetro, dovrebbero custodire il cielo, le chiome degli alberi e le guglie del castello. Svelare i cardini dei luoghi vicini, liberare perfino il mio viso in superficie. Questi, però, sono specchi stregati, e la magia stanotte è beffarda. Perlomeno lo è verso di me. Il vetro, allora, è vagabondo a sua volta: ante di armadio, un maglione, un quadretto d'artista, ogni scorcio è all'apparenza diverso. Il buio, presto, stride in riflesso – il mio sortilegio s'abbatte come un colpo di frusta, eppure recide sottilmente ogni specchio. La patina si consuma sotto i miei incubi. Non è sufficiente, lo comprendo presto. Il paradosso del vetro stregato è proprio questo, l'imperitura resistenza del loro richiamo. Gli specchi, per me, sono portali. Ho cercato i volti che avrebbero dovuto contenere, ho chiesto aiuto. Sono scomparsi tutti, uno dopo l'altro senza che me ne accorgessi. Di loro, amici e affetti, non ho più notizie concrete. Sfido il vento, sollevo in magia gli spicchi di vetro. Non ho il coraggio di spezzarli, non completamente. Ho bisogno... ho bisogno di privarmene, però. Tutti, l'uno dopo l'altro. Si sospendono intorno a me, linee e geometrie così brillanti: il lago, il cielo, il sangue. Il dubbio mi assale soltanto un istante, finché sospingo i vetri lontano, all'orizzonte delle onde oscure. E gli abissi, veraci, finalmente inghiottono l'ultimo incantesimo. Dura un attimo, gli specchi infine ridiscendono i fondali.
 
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view post Posted on 15/7/2023, 19:25
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dgsWwgm
vagant
wandering, roaming alone
amuleto
periferia hogsmeade
Il passo è confuso, mi rende vagabondo. Ho la mente annebbiata, i sensi in trappola. Sotto la pelle s'insinua il riflesso lunare, presto spento dall'identità raminga che mi devasta. La stessa notte, un tempo gentile, imperversa contro il mio corpo, e io... io divento ombra. Ho il cuore che s'acquieta al grido dei corvi, il petto che trattiene l'ultimo respiro. Il buio, ovunque, mi respinge in modo delicato, eppure è intenso, è un colpo dritto al petto. Scortica il cielo, vi cala un velo impercettibile, soltanto la Luna è in visione. Guidami, le sussurro. Guidami tu, in alto, perché io – chiunque io sia – ora sono randagio. Non ho idea di come sia giunto qui, ovunque possa essere. A stento riconosco il sentiero che conduce al villaggio, l'indimenticabile cartolina di un luogo che ho saputo amare, e che ora odio profondamente. Sulle mie iridi s'imprime il profilo dei demoni, volti che gridano, bambini che piangono, e preghiere, preghiere continue. Le loro bocche, di sfuggita, profanano il mondo, e il fuoco innalza colonne somiglianti a pire nefaste. La pietra sfrigola, scotta sotto la pelle di piedi scalzi. Il fumo m'invade le narici, la gola, la voce. Sollevo le mani, invoco la memoria.
Via, via, via. Cammino, mi fermo, vorrei nascondermi. Ho il peso dell'orrore, sulle mie spalle. Io, che ho trafitto il passato di spine. Mi accorgo d'essere ad un muretto di mattoni, uno di passaggio. Forse, mi dico, è la periferia, forse sono a pochi metri da case che conosco. Case che hanno smesso di accogliermi. Prolungo la tortura dei ricordi, assuefatto alla notte. Sulla lingua s'impasta il gusto del liquore, a stento trattengo la bottiglia di Chaporouge che ho trascinato con me; l'intreccio dell'uva passa, dei mirtilli e dei frutti di bosco è sottile – l'Amortentia, in goccia, primeggia d'estasi. Mi risulta caotica, e soprattutto infida: il glicine, il whisky, le foglie d'agrumi, dov'è la differenza? E cos'è, mi dico, che mi manda in rovina? Sento il bisogno di sedermi, di riposare. In tensione, il tempo comincia a sgretolarsi. Di fronte, ora, si dipana un crocevia – le strade, per me, non hanno valore. Non ho luogo dove tornare.
Mi pervade la solitudine, di nuovo. Di notte, mi dico, sono impaurito. Respingo un anelito di freddo, mi avvolgo in un cappotto che contrasta le sere d'estate. Eppure, è tuo. E mi fa stare bene, mi convince di stare al sicuro. Sollevo il volto, pelle diafana che rimanda agli spettri. Il cappuccio scivola, mi libera la fronte finché le palpebre tremano in tensione. C'è qualcosa, in attesa. E mi spaventa, nel refolo di vento che si tinge di fiamme, negli sbuffi di cenere e di polvere sottopelle. I sensi, stanotte, mi conducono lontano, e mi respingono in disastro. Mi rimandano indietro, benché è il futuro cui s'avvinghiano. Chiudo gli occhi, l'appello è in sangue e in spirito.
Cera di candela, che brucia la pelle.
Petali violetti, forse il glicine. E tu, che mi pugnali al cuore.
La bottiglia sguscia via dalle dita, si spacca contro la roccia in basso: il vetro, il liquido rosso, il sangue. Ho davvero creduto che non fossero vestali, presentimenti dell'ora? Il tuo passo è sicuro, più del mio. Ma sei in riflesso opaco, come me. Sento la mia voce pronunciare parole che un tempo sono state di dedica.
«Celebro Ecate trivia, amabile protettrice delle strade.» Sono immobile, al crocevia: la schiena incurvata, gli occhi volti invero alle stelle future. Il colpo della bottiglia non attira nessuno, è un sentiero isolato e dimenticato dal mondo: soltanto il guaito del Cane, ora o dopo, mi scuote profondamente. Giunge da un'abitazione vicina, mi dico.
«Notturna protettrice dei Cani» è un sussurro che viola la bocca. Il respiro si ferma d'istante, le mani tremano, la fronte si imperla appena; è un ricordo, mi rassicuro: l'ingresso ad Ars Arcana, la scelta dell'amuleto di Ecate, la consegna dello stesso regalo. Eppure, il cuore perde un battito. Le torce accese sfavillano come stelle.
«Tu che stringi nelle mani fiaccole ardenti.» Fermarsi. Annullarsi. Mi faccio forza, respingo ogni parte di me; e scompari, un'immagine volatilizzata come un dormiveglia. Torno in me, respiro boccate d'aria notturna e pungente. Ricordo il regalo del tuo compleanno, anni fa. La visione è stata soltanto in attesa, oggi torna. Si avvicina, è in eclissi. Ti ho inviato l'amuleto di Ecate, ti ho scritto poche righe accanto.
Non toglierlo mai, non questo mese.

Illudermi che fosse un pericolo passato.
E che tu, Casey, fossi al sicuro.
 
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view post Posted on 11/9/2023, 16:38
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Di te mi resta una calendula essiccata / e una giacca di pelle.
E il rimpianto d'averti relegato al silenzio.

Ti lascio andare, L.
Io che ho amato / di te / anche me.


OP6ei2r
kypCAVK
reverie
state of dreamy meditation
Loras
cimitero di cork
«È il ragazzo dei fiori.» Daisy è una vecchietta di novantacinque anni, molto grassottella, con capelli arruffati e bianchi come filari di perla; ha occhi di mandorla, d'infinita dolcezza, che nel tempo ho imparato ad apprezzare e fuggire. Veste tinte pastello, molto semplici, benché ogni mattina — alle prime ore dell'alba — scelga un grembiule bianco, di stoffa grezza. Nel corso del giorno, poi, lo copre di macchie di terra, l'impronta degli steli e dei fiori che raccoglie continuamente. Daisy, infatti, lavora al Cimitero di Cork. Il suo è più un osservare, tuttavia. Finge d'attirare annaffiatoi, vasetti di ceramica e lumini a colpi di bacchetta, ma ha il volto curioso di una bimba; mi riconosce subito, anche se io e lei — per davvero — non ci siamo mai presentati. Non credo d'aver mai visto Daisy al di fuori del cimitero, potrebbe passare come uno spettro, un'eterna figurante in attesa. Non credo neanche che lei conosca il mio nome. Per Daisy, d'altronde, sono soltanto uno dei visitatori, tra l'altro affatto abituale. Odio ogni singolo dettaglio di questo luogo, da sempre: il suono delle scarpe sull'asfalto, l'ondeggiare e il profumo dei cipressi, i lampi di dolore e di rassegnazione sui volti di chi, come me, porge omaggio ai defunti perduti. Per Daisy sono il ragazzo dei fiori, tutto qui. Perché nel taschino, come sempre, porto con me un mazzolino di calendule. Avrei potuto essere molte cose, per Daisy. Il ragazzo delle maniche, per esempio: non sopporto l'essenza dolciastra intorno, di fiori, di incenso e di cera. Ho il vizio di sollevare le maniche dei vestiti fino alla bocca e al naso; Daisy, solo una volta, mi chiamò "Il ragazzo Testabolla" — una storia vera, con l'Incantesimo che mi proteggeva la testa. Mi ha visto crescere e disperdermi, Daisy. Fin dalla tua morte, Loras, mi ha visto peregrinare oltre le effigie del tempo. Talvolta mi ha teso la mano, soprattutto quand'ero piccino. Mi regalava corone, sassolini stregati, piantine vivaci, e mi invitava a portarle a te, sulla tua tomba. Non ho mai respinto le sue gentilezze, né le ho comprese in alcun modo. Con gli anni, poi, Daisy si è limitata a salutarmi con un sorrisetto, e con un'espressione che il tempo — a dispetto della ragnatela di rughe — non ha intaccato. Non ho mai chiesto nulla, di Daisy. Se anche lei abiti Cork, se sia conosciuta in famiglia. Chi sia, oggi, risulta un mistero.
Si rivolge ad un ometto che trasporta crisantemi, sento che parlino di me. Da molto è finito il banco dei souvenir, Daisy non ha più bisogno di offrirmi nulla.
C'è solo un giorno che mi vede, al Cimitero. Un giorno d'Agosto: non è folle pensare che passi a trovarti alla ricorrenza della tua morte, e non del tuo compleanno? Diventa un déjà vu perfino per lei, per entrambi: io che avanzo a passo spedito, in tensione, con la manica della camicia sulle narici; infine un momento fugace là dove riposi. Così fugace, come un compito che mi è imposto e che, altrimenti, non vorrei considerare.
Mi inginocchio alla tua morte, Loras. Non piango, non più. Ho il volto irriconoscibile, seccato e bruciato dal sole e dal sale; ho viaggiato molto, nell'arco estivo: dove sono andato, però, è un arcano pure per me. Ho come l'impressione di non essermi spostato, di essermi fermato: c'è un Cavallo Alato che mi aspetta fuori il Cimitero, e salirò in sella di nuovo. Volare, perdersi, nascondersi. Sei l'unica connessione che mi riporta a Cork, a casa. Non c'è altro, per me. E tu, Loras. Forse neanche tu.
Avresti il potere dell'oro, oggi. Tu, che avevi capelli biondi che tutti invidiavano; tu, che avevi occhi del mare, e ciglia più belle delle spighe di grano. Avresti la mia età, oggi. E sapresti godere il tempo, afferrarlo e renderlo tuo fino alla fine. E io, che un po' lo spreco, mi sento di farne colpa. Di non omaggiare la tua vita, tu che sei stato l'incanto dei giorni. Mi perdonerai, Loras? Per vestire solitudine, ed essere... randagio. Mi accorgo che le mie guance riportino il sapore del sale, e sento d'essere debole, più d'ogni altra volta. Questo, Loras, è un addio. E lo è per te, per me. Per Daisy.
Volgo il mio sguardo a lei, che accende una candela. Non ha idea che io, oggi, diventi per lei un messaggero di morte, e di saluto. Libero il taschino dalle calendule, ora accanto la fotografia che ti anima — sorridi, e batti le manine. Tu, che sei piccolo, e che la magia più infida ti ha impresso in movimento sul marmo. E mi sollevo, ora e sempre. La bacchetta gira, e tende il respiro del vento: è l'ultimo omaggio, che ti è consueto. Antica magia si cristallizza in argento vivo, una lepre ti zampetta intorno e salta, salta, salta oltre il pozzo, oltre il tempo. Finché il Patronus, al singulto del mio petto, si spezza. Ora è via, la Lepre mi scruta. Si ritira, si disperde, entra nell'effigie della tua lapide. Ora la Lepre è incompleta, e il mio Guardiano mi abbandona. Ho come l'idea che s'attorcigli, come serpente, finché è una nube indefinita che mi sfuma lontano. Daisy incrocia il mio sguardo, lontano. Ha una candela con lei, è spenta. Mi avvicino, forse per la prima volta da anni. E le sorrido, come un bambino che ha perduto il migliore amico. Daisy allunga la mano destra, mi carezza la guancia con tanto amore. Daisy, Daisy, Daisy. Tu, che sei stata vita oltre recinto di morte. Non dico nulla, ma lei sa tutto. L'ha sempre saputo: chi sono, chi ho perduto.
«Buon viaggio, ragazzo dei fiori.» La sua voce è un'eco, quando l'Alato mi porge il volo. Non mi giro, neanche una volta. In alto, oltre le nuvole, il cielo è in pianto.
«Buon viaggio, Daisy.»


Edited by Oliver Brior - 11/9/2023, 18:10
 
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view post Posted on 14/10/2023, 10:31
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apprivoise
the act of forming a bond
anywhere
quarterback
Sei un randagio. È la tua voce che imperversa in incubo, notte dopo notte. Diventa feroce, l'accanimento straziante di una trappola che ho già costruito da solo. Dilaga di continuo, si trasforma in un'angoscia profonda — cuore che s'arresta, occhi spenti. Perfino il tempo mi si rinnega, io che ti cerco tra le ferite future.
Sei via, via da me. Sei l'ennesimo fuggitivo. Ti sopravvive una memoria che vorrei aver dimenticato, discostandomi dall'orrore che mi ha ritrovato partecipe: l'antico sortilegio che strappa il respiro, il tuo corpo che si contorce, il gemito di una bocca che invano chiama il mio nome. Ho voluto farti del male, forse perché in modo incomprensibile ho creduto che fosse una punizione anche per me. Da allora, Penny, la mia mente è confusa, e tutto è in movimento. Ho perduto la cognizione d'ogni cosa, viaggio senza fermarmi. Il vento, in solitudine, è tuttavia misericordioso; mi carezza la pelle scottata dal sole, s'ingentilisce così in sensazioni familiari: l'abbraccio estivo, il vorticare gentile del mare, il tepore delle ali di Ira. Al galoppo, il mondo è un vasto labirinto: né partenza né arrivo. Mi attende qualcosa, ovunque stia andando? È l'unica domanda che mi pongo. Nient'altro.
Apro gli occhi, in confusione. Mi risveglio lungo la battigia sabbiosa di una spiaggia anonima, una tra tante; il mare si fa cortese, solletica le caviglie. Cerca di risalire, in onda, finché incrocio il suo sguardo e si ritrae di scatto, come una creatura sorpresa e impaurita. La pelle pizzica, respiro salsedine. Eppure, è il profumo del glicine che mi giunge nitidamente. Soffia una promessa, in battibaleno. Mi porta avanti, oltre il momento; ho come l'impressione d'avvicinarti, di ritrovarti accanto. Sento il corpo muoversi da sé, spingersi in direzioni già intangibili. Scapparti. Rincorrerti.
«Non è in casa, tesoro.» Apro gli occhi. Di nuovo. È accaduto? O accadrà presto? La voce di tua madre è una finta promessa, mi spoglia d'ogni illusione. Non sei qui, non più. Mi accorgo di avvinghiarmi alla staccionata che delimita il tuo giardino, unghie, mani e pelle contro schegge di legno e vernice. Dietro di me, in fiamme, una cascata purpurea — il glicine è ovunque, in questa terra. Benché non sappia come ci sia arrivato, Villa Glicine ha il profumo di casa, una che ho imparato a vivere intimamente. Casa, mi dico, che non m'appartiene più. Tua madre, addolcita dalla mia stessa visita, si fa strada lungo il viale, mi apre la porta e m'invita ad entrare. Non credo di aver mai aperto bocca, non credo di essere mai stato in questo luogo. Mi racconta del tuo viaggio, della visita alla riserva dei draghi di tuo fratello Elliott; mi racconta della tua decisione di trascorrere via le vacanze estive. E mi dice d'essere stata sorpresa, anche un po' triste: Oliver non torna? Dice d'averti posto questa domanda, e di aver ricevuto una risposta un po' affrettata. No, non questa volta. Oliver non torna.
Così, penso. Così hai rinunciato. Anche tu, Penny, hai rinunciato. Mi scopro folle, un grido che muta in risata, e un divertimento che consuma il cuore. Scoppia, scoppia freneticamente. Finché il tempo implode, s'espande in confine, ed è sole che brucia, è cenere, è glicine strappato in petali. Mi morde una serpe, è veleno che scorre in carne; è sangue, sangue, sangue che macchia la pelle, che scortica, che punge di continuo.
Apro gli occhi. Ovunque sia andato, non è casa. Villa Glicine sfuma via come una tela disfatta. Eppure... non sei tu, Penny, che torni in memoria. Mi sembra di scottare, in modo malsano. Forse perché stanco, oramai, forse perché peregrinare ha centellinato ogni mia certezza. Torno indietro, mesi che sfidano l'ultima stilla di nostalgia: l'Isola di Skye, montagne, pozze di cristallo, e voli di fate in danza. Finché è il tuo volto, Nieve.
È il tuo volto che torna in mente. Il fuoco, la furia, il distacco — dove sei stata. E io, io dove sono stato fino ad ora? La voce di Casey è un dardo che punta dritto al cuore. Non sbaglia mira, si fa profondo. Si rende sacrilego, man mano che invade l'animo. Mi accorgo di aver perduto controllo, di tremare da cima a fondo; ho bisogno di sedermi, di vederti. Ho bisogno di sapere che tu stia bene, Nieve. Divento anch'io come Penny, l'identità spezzata di chi fugge l'orrore. Non è più facile allontanarmi? Addurre, in assoluzione, la giustifica peggiore: non sei tu, sono io. Curare me stesso, con una verve d'egoismo che mi fa ribrezzo. Mi scopro meschino, oltre che codardo. Io, che ti ho fatto promessa di sostenerti. Quand'è stata l'ultima volta che ci siamo fermati? E perché, perché sei tu che profani l'attimo? Mi interrogo, distrattamente. Il fischio dell'Espresso di Hogwarts è sottile, una scheggia che mi spinge a coprire le orecchie, e gli occhi, e l'intero volto. Mi accorgo d'essere preso d'assalto — incubo, dolore, presenze. Mi sento braccato, in gabbia. Finché il panico prende il sopravvento.
«Oliver.» Apro gli occhi. E sei tu, Penny. Sei tu che mi chiami, somigliante a spettro. Eppure, sei reale. Non sei mai stato più reale di ora. Scorgo l'orrore, sul tuo viso — d'avermi abbandonato, d'avermi visto crollare alla stazione? Non ho idea di cosa tu stia pensando, ma la sola tua presenza mi permette di riprendermi. Sono a pezzi, in modo disumano. Mi spoglio della felpa che indosso — è una giacca di jeans in parte sfilacciata. È vecchia, perché vissuta. Il colletto è più scuro, le tasche sono piene di foglietti e di carte di Cioccorana; è la giacca dei miei allenamenti, delle partite di Quidditch. È la giacca che ti ha abbracciato all'Isola di Skye, Nieve. La mia preferita, da sempre. Trattiene il mio profumo: di biancospino, di cenere, note dolci.
«Portala a Nieve.» La mia voce è un rantolo, è un comando. Mi sfilo la giacca come in furia, l'allungo poi verso Penny di scatto. Mi guarda confuso, le nostre dita si sfiorano appena, e tremo, tremo convulsamente. Non ti sento da mesi, vorrei gridare.
«Oliver, io...» Respira. Respira.
«Fottiti, Laurence.»

Giro, in caduta libera.
E sparisco. Via da Penny, via da Nieve.
Via da Hogwarts.
 
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view post Posted on 19/1/2024, 17:04
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zn7hjgh
nadir
falling of celestial sphere
narciso
villa glicine
Torno da te. Il respiro del vento mi accompagna in solitudine, porta con sé l'olezzo della polvere e dell'incenso che ho acceso in preghiera. Consuma anche me, in via di fuga oltre il pulviscolo di scintille già estinte. Ho la pelle scottata, benché le temperature siano calate vertiginosamente. Io, che reco stigma di cenere e fuoco, mi scontro con il manto di ghiaccio tutto intorno.
Ti reco in dono il contrasto. Il Ramingo, l'Eremita, il Veggente — i miei nomi si ripercuotono in lungo e in largo. Gridano tutte, le mie identità. E si sparpagliano, si volatilizzano. Ovunque, i Notturni stridono — anche loro si fanno presaghi, anche loro prevedono l'apatia del rientro. Così arrivo, torno a te. Io, che ti ho ricordato ogni giorno, ogni notte. Io che ho sentito la tua mancanza in modi indescrivibili. Divento uno spettro, un'ombra che si fa passeggera. Dietro di me, in aurea, s'estende il cielo trapunto d'inchiostro. Non c'è una sola stella, stasera. Non c'è neanche in futuro, per me. Mi piace credere d'essere rientrato, di poter finalmente bussare alla tua porta. Alla mia porta. Ovunque, la nostalgia è una spina dritta al cuore. E preme, preme d'incanto. Mi devasta, e mi fa bene. Sarai tu ad aprire? Il glicine è una memoria vivente.
Ho il cuore che si fa silenzioso, mentre scivolo sotto rami innevati. Quasi è una cascata purpurea, i petali in resistenza tessono un abito ch'è un po' anche anima per me. Quest'albero è vestigia d'affetto, o forse oserei dire più un superstite di chi siamo stati. Eppure, mi fermo. Mi attira a sé, è un campanello d'allarme che punge dolorosamente. S'abbatte, in me, il tuo volto, la tua figura. Mi sei mancato, vorrei dirti. Mi sei mancato, è un singulto che s'arresta al petto. Mi fai male. Tu, al sicuro, mi fai male.
Forse è la tua illusione che rovina il tempo. Il contatto è sinistro: tu, alla finestra; io, alle radici del glicine. Il mondo, ora, si capovolge. Mi si infrange come l'alta marea, e permea l'Occhio di tenebra. Sei lontano, e io con te. Ti muovi dietro la finestra, dietro il vetro. Diventi un tassello, e un dipinto, e un acquerello. Sollevi le braccia, prendi una caraffa dai ripiani più alti della cucina. Cos'è, mi chiedo. Cos'è, questa, l'ora del whiskey incendiario? E rido, come un folle. Io, che ho bevuto con te il fuoco. E io, che ti ho bruciato. Inizio a tremare. Oliver, mi ripeto. Oliver, è la neve.
La tua terra, però, risorge. Il pupazzo con carota e sciarpa dei nostri colori, la panchina di legno su cui sedevamo, il gazebo color pesca sotto cui trascorrevamo i giorni estivi. Il glicine mi solletica le guance, una carezza leggiadra di petali, fiori e cristalli. Sento d'essere arrivato. Eppure, è tardi. Troppo, troppo tardi.
«Penny.» Arriva in maremoto. Brucia, congela, spezza. S'infrange al cuore come un dardo, e via, via verso confini. Si abbatte convulsamente, la Visione è più forte di me. Mi spinge al suolo, comanda il mio corpo. Mi piega, mi volge all'Oltre. Mi ordina, mi travolge. Non ho contrasto che possa valere, in me. Forse... forse così deve essere. Cado al suolo, tumefatto dal tempo. Gli occhi si tendono all'inverosimile, palpebre spalancatesi all'orizzonte. Il cielo è nero, è un cunicolo di pece. Mi accorgo di come il corpo si stia ribellando. Sciocco, incredulo bimbo, ci tento ancora. Le mani afferrano cumuli di neve, graffiano la superficie finché intaccano le radici del glicine. E lo strappano, lo tirano via. La schiena s'inarca, io grido. La voce è d'altri, la voce è violenta. Questo non sono io, non più. Il tempo pretende la mia vita, la tira a sé.
E ti vedo, Narciso.
Passeggi tra i Campi Elisi.
E cerchi l'Amato, oltre le rovine del pianto.
Fuoco. Pietra. Cera.
«Tornano. Tornano. Tornano.» Il mio è un singhiozzo, e un altro, e un altro. Il corpo è ferito, i denti battono sulla carne. Scivolano via gocce di sangue, brillano sulle labbra e poi giù, lungo l'incavo del collo. Il mio petto è in disarmo, mi spengo. Ovunque, è un gioco d'oblio. Sei tu, e sei il tempo. E sei il passato che torna, e sei una giostra che gira, e sei una porta verde smeraldo, e sei il numero dodici. E sei, e sei, e sei tu.
«Innerva» Il tuo sortilegio mi sovrasta interamente. Mi sembra d'essere sospeso a mezz'aria, d'essere leggero. E mi sembra che il vento porti il tuo profumo, di muschio, di braci calde, di whisky incendiario. E mi sembra di ritrovarti, mentre mi stringi a te. E gridi, e gridi, e gridi. Madre, dici. Madre, corri. Hai bisogno di lei. Hai bisogno d'aiuto.

Perché io muoio tra le tue braccia.
E tra le tue braccia torno in vita.

 
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view post Posted on 21/4/2024, 15:53
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Io, che per amare te, ho smesso di amare me stesso.
Ho smesso di amare.
Ho smesso di amare.

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hallucinate
sensory perception of something that is not actually present
lucciola
Saint Fin Barre's
Oltre le guglie, l'Arcangelo è in attesa. Volge occhi d'artiglio lungo la minuta fila dei pellegrini, stride in silenzio. Pietra, segreto, litania, è una statua che è stata memoria e che conosce il senso della vita eterna. Osserva ognuno di noi, in solitaria. Incrocia la mia presenza, sfida il mio tempo. In alto, Vigilante, è profeta a sua volta. Stringe una tromba, il canto della dannazione e della salvezza è in suo potere. Ha il mondo, con sé. Ha il futuro, intrappolato in roccia. Lo sento battere lungo le travi, svettare in alto, sempre più alto. Sento pulsare l'indefinito, l'oltre, il confine prossimo — l'Arcano risorge, e io mi tiro indietro. Ho paura: della statua, della chiesa, di Padre Avery. Mi chiedo se sia nascosto dietro la schiera celeste, e se sia diventato anche lui parte dell'oltre. Mi insegue il ricordo del passato, dell'infanzia appena più ridente. Il modo in cui questo luogo — la Cattedrale di Saint Fin Barre's — sia stato punto di riferimento, per me. In verità, il senso che mi lega a tale chiesa è tutt'altro. Oltre il credo, oltre la religione, è un contatto di tradizioni. Mi basta poco per cogliere l'agguato dei giorni finiti: il tintinnio delle brocche di tè al limone, il gusto delle torte al caramello salato, il cicaleccio variopinto di amici, affetti e... famiglia. Ho come l'impressione di trovare anche te. Allora ascoltami, dico. Ascolta la voce di tuo figlio.
Madre, accoglimi.
Accogli me, il Viaggiatore.
Accogli l'Arcangelo, che ho imprigionato in tasca.
La navata principale è un patibolo. Mi trasforma d'impatto, in un battito di ciglia. Divento stregone, chiromante, e demonio: avanzo, avanzo in silenzio. Ho il mantello che ricalca l'identità dissolta, una veste di pece che s'imbeve d'ogni mia ombra. Potrebbe essere tutto, oltre il pulpito. Forse la Sacralità della vita, della morte, della rinascita. In tasca, con me, l'Arcano squilla voce diafana; è il cielo che protesta, in eterea armonia: mi impone una via di fuga, di liberarlo. Ma l'Arcangelo, in carta d'oro e d'avorio, è una minaccia. Lo è già stata una volta, ha portato con sé l'Ardemonio. E lo è ora, che brucia sotto il tessuto degli abiti fino ad intaccare la pelle. Mi scortica, mi rende vulnerabile. In mente, l'Arcangelo è vivo: la statua, il tarocco, il pericolo. Mi invade, profana il mio controllo più labile. Muta in musica, che è tormento. E sfuma in grida, in pianto continuo; ora è l'Occhio che si spezza, e vedo il tempo sgretolarsi di nuovo: bambini in corsa, tetti recisi di netto, gole di cenere, e cera, cera, cera che scotta, che consuma tutto. Sulle mie mani, in chiarore, brillano gocce di sole, e un petalo s'origina dalla carne e dal sangue. E diventa una corolla, e una corona. E diventa un firmamento, e una costellazione di stelle. Sui miei palmi, che il tempo divora in confusione, scorgo boccioli colorati: di narcisi, e di stille vermiglie.
«Lui è vivo, non è mai andato via.» Vendetta, grida il petto. E cadono, cadono tutti; rovina il tempo, e rovino a mia volta. Mi sento in balia della mia eredità, più di quanto non sia stato ultimamente. Tutto è caotico, perfino la panca cui m'accascio. Non c'è nessuno, in cattedrale. Le vetrate, intorno, riflettono sprazzi lucenti; è un turbinio dell'arcobaleno; e sembra vita, se solo fossi più presente.
«Non lasciarmi, non di nuovo.» Io, che parlo al vuoto. Intorno, una scintilla: è un bagliore dorato, una stella. O forse è una fiamma, forse è un riverbero delle trombe angeliche; o forse è un promemoria, di non so però cosa per davvero. Sento il cuore farsi pesante, e la mente liberarsi. Vedo te, Narciso. Che mi raggiungi, mi punti la bacchetta al petto. E invochi le più terribili maledizioni, e mi pieghi, e mi annienti. Vedo te, Elliott. Che bruci, mentre Killian non riesce a salvarti. E sento la vendetta, l'idea restante che sia colpa mia. Solo mia: come hai pensato tu, Narciso; come ha pensato la mia famiglia, fino ad oggi. Eppure, la luce è forte. Ora si stabilizza, prende forma, Ricorda un insetto, una creatura d'aria. Forse è una fata, forse è uno spasmo ultimo. Finché diventa una lucciola, fuori stagione. In una chiesa, alla penombra di candele e vetri di luce soffusa. Splende, magnificamente. E mi vola intorno, finché mi sembra di sentirla sulla guancia. E di viverne il calore del corpo, di esserne addolcito. Il tempo si spezza, e si riforma. Cos'è che può contro di te, lucciola? Non ha forza, non più. E torno in me, torno al momento. Io, Pellegrino, in questa tua chiesa del passato.
Madre, accoglimi. E tu, lucciola. Tu porta lontano il mio segreto.
La mia confessione, il mio grido. Quasi mi parli, con la tua luce.
«Bambino mio.»

 
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