solitude —
a condition of being apart
Penny —
dormitorio maschile
Siedo sulla punta estrema del letto, al margine, come a voler scattare via da un momento all'altro. Tutto, in me, è in tensione: il cuore mi batte in modo frenetico, il sangue infiamma le gote, la pelle è un reticolo di sensazioni inesplorate. Perfino le palpebre, di scatto, tremano come in sottile convulsione, e gli occhi s'annebbiano d'offesa. Ho d'un tratto caldo, un tepore sinistro che risale lungo le braccia, che sfida il brivido che s'annida in petto. Sulla bocca zampilla una goccia di sangue, il fremito di denti che hanno scorticato le labbra; le parole mutano vestigia d'incanto, dimentiche d'ogni gentilezza a favore di una caccia terribile. Vorrei che diventassero imprecazioni vere e proprie, forme d'accusa. Ho perduto ogni rispetto, perfino nei miei riguardi. Chi è, allora, l'ombra che attende in dormitorio? La stanza mi prosciuga, scongiura l'inevitabile. Resti, frammenti, vessilli di guerra – una valigia capovolta, i vestiti sparpagliati alla rinfusa; un comodino distrutto, le ante spezzate e i cardini divelti; scatti di fotografie che il passato ha immortalato e che il presente, ora, ha saputo stracciare. I segni del litigio sono ovunque, l'atmosfera è tuttora in fibrillazione: i sortilegi sospirano, incerti se cullarsi in vendetta o dissolversi in dubbio. Torno indietro, in una cornice che si ripete. Diventa un punto fisso, uno tra tanti. Eppure, è forse il più importante da molto. Il tuo volto, Penny, brilla dei raggi del sole; la finestra è un orizzonte indefinito, una tela di tinte al tramonto. La luce ti s'accosta, delicatamente. Scivola lungo la pelle e sale, sale alla gola –
sei sole. Come un'eco, la Visione che ho di te è in estasi: un braciere, una statua equina, una danza di fuoco e di cenere. Sul tuo polso, come allora, l'inchiostro sibila – è un tatuaggio di serpente. I mesi in cui siamo stati separati s'eclissano, ora. Sembra che tutto torni come una volta, tu, io, un bicchiere di whisky incendiario. Distesi sul letto, il tuo, il mio, non m'importa. E gli occhi verso il soffitto, riconoscere e nominare le ombre; e la tua pelle contro la mia, la gola che brucia per l'alcool, e promesse, e infiniti sogni nel cassetto. E carte di api frizzole, e il miele, e l'ultimo disco di .shey già in sottofondo; e cartine, cartoline, cartomanti. E noi, che ricordiamo il momento. E tu, che mi guidi avanti, in futuro, e mi chiedi i programmi per l'estate, e mi inviti alle sere sotto il glicine. E il tuo odio, il tuo timore d'aver perduto anche me.
E la mia rabbia, il mio distacco, la mia assenza.
La tua voce, Penny, è un grido. Il sorriso ti si spegne, il gusto della vita s'affievolisce. Quand'è stata l'ultima volta che abbiamo parlato, io e te? E perché,
perché, abbiamo smesso di farlo? Ci ritroviamo, Penny. In dormitorio, ogni giorno, ogni sera. Fingiamo che vada tutto bene, tu mi auguri la buonanotte, io ti faccio l'occhiolino. E l'indomani, per noi, è soltanto un déjà vu. E io, che ho paura d'essere in ritardo, che non ci sia modo. Che non ci sia tempo. Indugio in apatia, una volta, e un'altra. Finché di te, e di noi, è una routine. Compagni di stanza, nulla di più. Ma la notte, Penny, io non dormo, e l'insonnia ha il tuo volto. Tu, che mi volgi le spalle. Ad un passo, eppure distante.
«Sei un randagio.» E guardati, con la valigia stretta tra le mani. E il biglietto dell'Espresso di Hogwarts, una data, senza destinazione. E il modo in cui mi chiedi dell'estate, e dei viaggi, e un bicchiere di whisky incendiario. Non farò nulla, non ho idea. L'impazienza, per te, è l'epilogo tra noi: non è possibile, sottintendi; e gridi, e batti le mani come in applauso, e ti prendi gioco di me, del dolore, della solitudine. Guardati, mi sibili. E diventi serpente, come il marchio che hai sulla pelle. Guardati, mi chiami. E mi dici d'essere ridicolo, di voler essere compatito. E mi dici di poter comprare una casa, una villa sul mare, ogni mio desiderio. E mi accusi, e mi ferisci, e hai ragione.
«Guardati, Oliver.» E il mio nome, ora, è bugia.
«Ti ospito a casa, ci riempi di regali. O così, o passi le vacanze in albergo. Ti allontani, lo fai da solo. Ti disprezzi, perché la tua famiglia ti ha rinnegato.» Il tramonto, Penny, ti s'avvolge in buio. Avanzi di un passo, e mi colpisci: la valigia cade dalle mie mani, il ticket del treno cattura i tuoi occhi. Vola via, come tutto, tutto tra noi. Alla fine, beffardo, torni da me. Ti trema il corpo, il cuore, il volto. Ma la voce, Penny... la voce è nitida.
«Le tue visioni, le tue profezie, sono puttanate. Sei tu ad attirare il peggio, è parte di te. Ti abbandoni alla memoria come una droga, ma sei tu ad essere fermo. Sai, Ol. Hanno fatto bene a mandarti via, tu condanni chiunque ti si avvicini.»Sei un randagio, mi ripeti. E il tuo corpo, ora, estingue il respiro. Chiudi, apri, spalanchi la bocca – l'aria ti è priva, ti è sottratta. Combatti il disequilibrio del mondo, le gambe ti tremano e le braccia ti si stringono al petto; mi guardi, le pupille dilatate, l'espressione indefinita. Cos'è che vuoi dirmi, ora? Hai paura, forse. Oppure... sei sconcertato. La stretta si fa energica, la pelle si rende sottile come velo di carta – ti coglie l'infida contorsione di una bambola di pezza, diventi un giocattolo tra le mie mani. Mi scagli contro sortilegi, malefici, fatture – lampi di luce, dardi che cozzano contro armadi, letti, vestiti. Ci siamo noi, io e te. Invoco la Stretta del Diavolo, l'oscura magia che zampilla dalla mia banchetta. Oliver, mi dici. E avanzo, e ti sovrasto. Il dominio, ora, è mio: consumo il sangue, il tempo, il futuro. Cadi a terra, il colpo di un corpo sulle piastrelle. Mi arresto, la bacchetta scivola. Indietreggio, ritorno in me: tremo così forte da non respirare. Ti porti una mano al petto, seguo l'esempio. Cos'è che siamo diventati.
Mi lasci, mi lasci solo.
E stasera non torni, il letto accanto al mio è vuoto.
E io mi perdo, e mi perdo.
E mi perdo.