Strike First, Strike Hard, No Mercy, TW: linguaggio esplicito

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Lascio dondolare la mano oltre il bordo del divano, decisamente troppo corto per le mie gambe che sporgono oltre il bracciolo.
Guardo pigramente il soffitto con una stanchezza che mi piomba addosso come un macigno sullo stomaco. Accantonato vicino il tavolo c’è, ad aspettarmi, il baule ancora chiuso da stamani, quando sono tornato dal Sudan per l’ultima missione. Sono stravolto per la settimana appena trascorsa perché, tanto per cambiare, quei rincoglioniti del Ministero hanno sottovalutato la Magia di civiltà così antiche. Vai in Sudan, dicevano, troverai giusto qualche sigillo dicevano.
Qualche sigillo un cazzo: un intero intreccio di false porte delle piramidi di Meroe risalenti al Regno di Kush che ci hanno fatto sudare come cammelli perché ognuna segnata da geroglifici incomprensibili anche per me perché a metà fra ieratico, demotico e lingua locale dell’epoca.
Sbadiglio e comincio ad appisolarmi cullato dalla morbidezza dei cuscini, dopo giorni di dure brandine, quando un “pop” secco mi fa saltare a sedere, la bacchetta pronta in mano, convinto di avere di nuovo di fronte il poltergeist di un falso Infero. Invece sospiro appoggiandomi allo schienale quando vedo l’elfo domestico di famiglia.
« Per amor degli Dei, Benin, vuoi avvertirmi quando passi? » Borbotto, passandomi una mano fra i capelli umidi di doccia per il sollievo.
« Oh vi prego signorino, scusate Benin! » L’elfo si prostra facendo traballare le lunghe orecchie penzoloni. Mi acciglio.
« Signore, non signorino» Chiarisco con severità, incrociando le braccia. « Sono io il capofamiglia, ora. »
Gli occhi di Benin si riempiono di lacrime: amava mio padre e non riesce ad accettare che non ci sia più. Lui e Brit, la sua compagna, sono convinti sia morto; forse lo hanno sentito da mamma. Incredibile, penso con una smorfia, come quello stronzo continui a fare danni alle persone –e alle creature– dopo tutti questi anni.
« Dài Benin, è tutto ok. » Mi alzo per tranquillizzarlo, posandogli una mano sulla spalla ossuta. Lui si riprende con un gran sorriso sdentato: mi ha sempre fatto una gran tenerezza.
« Benin è passato dal signori—signore!– per portare da mangiare per la settimana! » Zampetta verso la cucina e fa schioccare le dita facendo comparire sul piano dell’isola alcuni sacchetti di carta. Sorrido pensando a Brit che mi sgrida perché non so cucinare nemmeno un uovo; in compagnia di mia madre, mi rimproverano sempre affinché io impari. In effetti, corrugo le sopracciglia, anche Isabella mi ha strigliato… Su questo posso dire di essere viziato, ma ho anche dei difetti. Faccio spallucce mentre mi prendo una mela dal sacchetto e la porgo all’Elfo: ne è ghiotto ma non osa mai chiederle. « Grazie Benin, puoi andare. » Lo congedo dandogli le spalle, rivolgendo la mia attenzione al baule. Ma non sento il consueto schiocco della Materializzazione, né mi giunge il saluto della creaturina.
« Benin…? C’è altro? » Chiedo preoccupato mentre lo vedo rigirarsi la mela fra le mani nodose. Ha gli occhi nuovamente colmi di lacrime e un tonfo al cuore mi immobilizza sul posto.
« Cos’è successo? Stanno bene a casa? Mamma? » Il mio primo pensiero, chiaramente, va a lei. Dopo la nostra litigata, i suoi nervi sono così fragili che temo un crollo da un momento all’altro. Deglutisco in preda al rimorso ricordando quella notte terribile.
« Signora sta bene, signore. Solo… » Il naso lunghissimo comincia a gocciolare e faccio una smorfia. « Benin forse fatto grande errore signore! » Singhiozza. Sono sempre più confuso e mi accuccio davanti a lui. « Parla, va tutto bene. » Gli sorrido incoraggiante. Noto che la mano destra è piena di graffi. Riconosco quando un elfo si punisce: noi non abbiamo mai toccato i nostri Elfi Domestici, li abbiamo sempre trattati con gentilezza e loro ci hanno sempre ricambiati con assoluta dedizione. Ma a volte hanno quest’orrida pratica di punirsi con violenza variabile (e nei modi più fantasiosi) a seconda dell’errore commesso.
« Benin ha dovuto grattugiarsi la mano come carote, signore, perché ha sbagliato e ha rivelato l’ubicazione del signor Horus. »
Piego il capo, ancora più perplesso.
A chi l’ha rivelato? L’agitazione mi coglie impreparato.
« Signore sta per ricevere una visita, signore. Elfa Tilly detto ad amica di cugina di sorella di Brit che sua padrona sta cercando bacchetta e che signor Horus l’aveva trovata. »
Mi irrigidisco spalancando gli occhi e serrando i pugni: non ho bisogno di sapere chi diamine è Tilly per sapere chi è la sua padrona. Mi ritorna alla mente lo stupido scambio epistolare che mi ha mandato su tutte le furie, di nuovo. Arriccio il naso e il tic all’occhio fa tremolare la palpebra. Ci ho ripensato nei giorni seguenti, sebbene la missione in Sudan sia capitata a puffagiolo per evitarmi spiegazioni a Isa e Ned. La conclusione cui sono arrivato, con molta frustrazione, è che avrei dovuto mantenere il controllo. Ma quello stupido scherzo, la lettera sporca… Rabbrividisco. Benin sembra prenderla bene, convinto che la mia reazione sia assolutamente accettabile e positiva. Si ricompone, asciugandosi lacrime e moccio con il braccio, la mela ancora stretta in mano. Sono tentato di strappargliela dalle dita e tirargliela in testa.
« Tilly molto disperata per la sua padrona, così Benin ha rassicurato Tilly dicendo che il signor Horus abita qui. Benin crede che signorina Nieve Rigos verrà a trovarla, signore. Per la sua bacchetta, signore… »
Improvvisamente consapevole di ciò che sta per accadere salto su come una molla e osservo Benin con una collera furente negli occhi.
« Che cosa cazzo hai fatto? » La mia voce è controllata, ma il mio sguardo deve essere tagliente come lame perché Benin si prostra per terra tremante.
« Vi prego signore, vi prego scusate Benin. » Pigola; di tutta risposta mi tiro su le maniche della maglietta con fare minaccioso, pronto a pestarlo come una zampogna.
« Io ti ammazzo. Ti ammazzo Benin, ti spezzo come un ramo, ti cavo gli occhi con un cucchiaino, ti sbriciolo. » Scatto in avanti e lo prendo per la collottola, scuotendolo come un sacco di patate e lui squittisce più di paura che per dolore. « Come diavolo ti è venuto in mente? Ma che diamine di problemi hai? Non hai mai sentito parlare di privacy, brutto disgraziato d’un Elfo? »
Benin piange così forte che quasi mi vergogno di essermela presa con lui, ma trovo inaccettabile sia che Nieve conosca il mio indirizzo –e possa venir qui– sia che questo cretino possa rivelare la mia posizione a chiunque. E se fosse stato qualche Elfo di Cavendish a sapere dove abito? Se qualche Mangiamorte fosse venuto a casa mia? Chi mi dice che non l’abbia rivelato ad altri?
Lo lascio cadere di botto e lui atterra seduto, così in preda alle lacrime tanto da ululare.
Mi tappo le orecchie.
« Stai zitto, cretino, mi denunciano. » Poi gli punto il dito contro e lui lo fissa, incrociando gli occhi. Sarebbe una scena divertente se non ci fosse in ballo la mia sicurezza, Nieve passa decisamente in secondo piano.
« A chi altro l’hai detto? Bada, se non mi dici la verità, Benin, ti ammazzo sul serio. » Lo minaccio con talmente tanta serietà che lui si tira un pugno in testa e comincia a strapparsi quei pochi peli del cranio.
« Ma porc… stai fermo. Fermo! Ti ordino di fermarti e di smetterla. Dimmi se l’hai detto a qualcun altro e ti perdono. » Gli blocco la mano per farlo smettere di menarsi, la mela rotola sul pavimento.
« Solo all’Elfa Tilly signore, Benin lo giura! »
Oh, Amon, grazie. Grazie.
« Va bene Benin. Va bene. Non farlo mai più. » Mi costa uno sforzo enorme non prenderlo a sberle. « Prenditi la mela e torna a casa. » Mi massaggio gli occhi con il pollice e l’indice; ora che il pericolo vero e proprio è lontano, torno con la testa alla Rigos. Spero vivamente che Nieve abbia il buon gusto di risparmiarmi la sua comparsata. Ha un orgoglio anche lei, no?
Solo per quello che le pare. Ed è vero, constato: è dispettosa come una scimmia.
Quando Benin scompare con un altro “pop”, ancora piagnucolando pateticamente, tre colpi sicuri giungono dalla porta di casa.
Serro la mascella fissando la porta chiusa. Trattengo l’orrida bestemmia che mi sale alle labbra e guardo per aria, respirando dal naso come una belva.
Fingo di non esserci. No, invece le apro e la mando al diavolo. No, le ridò sta benedetta bacchetta tirandogliela sui denti. La colpa è sua, è lei che l’ha abbandonata mentre fuggiva vigliaccamente; gliel’avrei anche ridata, una volta che mi fossi calmato, ma dopo i gufo, col cazzo.
Toc toc
Con tutto il casino che ha fatto Benin, Nieve saprà sicuramente che sono in casa.
Ringhio e mi dirigo a passo pesante verso la porta: quando afferro il pomello, mi ricompongo. Non le voglio di nuovo dare la soddisfazione di vedermi incazzato.
Apro, la fisso con gelo.
« Non faccio l’elemosina agli accattoni. » Proferisco asciutto.
Poi le sbatto la porta in faccia.
E vaffanculo.

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Ho un ricordo distinto dell’ultima settimana e della costante che ha reso il trascorrere dei giorni piacevole e l’attesa dilettevole: le risate. Mentre passeggio per le vie di Londra con l’umore allegro dei giorni di festa —un umore che ho recuperato da un vecchissimo baule, riposto in uno scantinato della mia anima—, ripenso con brio alla colazione in Sala Grande più bizzarra della mia vita scolastica. Non capita tutti i giorni di ricevere una Strillettera dal Ministero e, per allegato, una corona alta due metri.
Ridacchio. Per quanto spocchioso sia Sekhmeth e nonostante la posizione di superiorità in cui suole mettersi, so di averlo punto nel vivo. Non si sarebbe esibito in uno spettacolo simile se il mio messaggio odoroso non gli avesse fatto saltare così prepotentemente i nervi. E dei risultati prospettabili, oltre a quello di ottenere la mia bacchetta, mandarlo su tutte le furie è sempre rientrato nella classifica dei prediletti.
Percorro le strade di Bayswater, osservando la fauna cittadina. Sul quartiere regna una placidità rigorosa che ben accosto alla figura di Sekhmeth. Non mi stupisco che abbia scelto di vivere proprio qui, sufficientemente lontano dal caos delle zone più turistiche. Ecco perché Tilly ha dovuto smuovere mari e monti per trovarlo e dare fondo a tutte le sue conoscenze per sorprendermi con quelle due magiche parole: 46A Queensway.
Il portone dell’edificio è modesto, non dà nell’occhio. Eppure l’aspetto suggerisce una grande cura da parte del proprietario. Anche questo non mi sorprende. Eccezion fatta per l’episodio su Eugene, non ho mai visto il principino con un capello fuori posto. Certo, se non contiamo le volte che i nostri scontri hanno tirato fuori il peggio di lui —e forse anche di me.
«Vuole che glielo lasci aperto?» Mi riscuoto quando la voce di un uomo di mezza età sopraggiunge a distogliermi dal rimuginio. Non mi sono accorta di essere rimasta imbambolata a fissare l’architettura del palazzo senza muovere un passo verso l’ingresso. Che colpo di fortuna! «Deve entrare?»
«Oh sì! Sono venuta a trovare il mio fidanzato. Voglio fargli una sorpresa» mento con espressione gioviale, facendomi avanti e ringraziandolo quando mi tiene la porta per favorirmi il passaggio.
«Ah! Beata gioventù» lo sento commentare ed entrambi ci avviamo verso le scale. «State insieme da tanto, se posso chiedere?»
«Ci conosciamo da anni, ma prima eravamo solo amici. L’amore è sbocciato da poco» dico, dando una visione così distorta del nostro rapporto che sono costretta a concentrare l’attenzione sui gradini, in modo che i capelli nascondano il mio viso, per evitare che legga nel riso sulla mia bocca la menzogna.
«Questo è il destino. Non lasciatevi scappare questa grande fortuna, mi raccomando» mi consiglia con calore, fermandosi sul ciglio di una porta al primo piano. Noto solo ora, dal calore con cui parla e dal modo in cui si interessa alla mia vita, che il suo accento inglese è sporcato da una nota straniera, che però non so riconoscere. «Buona giornata, signorina, e in bocca al lupo per la sorpresa!»
Lo saluto, mi permetto di aggiungere un dettaglio —e, cioè, che il mio ragazzo è il bellimbusto con i capelli rossi e la voglia sotto l'occhio che abita nel suo stesso palazzo, se mai lo dovesse incontrare— e aspetto che si chiuda la porta alle spalle, prima di concentrarmi sulla mia missione. Non è complicato individuare l’appartamento di Sekhmeth dal vociare concitato che sento provenire dal piano di sopra. Mi affretto su per le scale e mi accosto all’uscio. Non riesco a distinguere cosa stia accadendo e neppure m’importa, ad essere onesta. È sufficiente riconoscerne la voce e sapere che lui sia in casa in modo tale da potermi restituire la bacchetta.
Batto tre colpi sulla superficie della porta, un sorriso malevolo a fior di labbra, ma Sekhmeth non risponde. Che bambino!
Allora, ovviamente, insisto con immutata serenità perché, se crede di potermi scoraggiare, ha sbagliato persona. Passano pochi istanti prima che una successione di fotogrammi si verifichi davanti ai miei occhi grandi e io rimanga ad assistere da mera spettatrice: lo vedo apparire per un istante, congedarmi con una frase secca, chiudermi la porta in faccia e sparire. Mentirei se dicessi che le sue parole non hanno avuto alcun effetto su di me perché io, l’elemosina, l’ho fatta davvero. E rivedere l’immagine di me che raccatto monetine insieme alla mia balia sul ciglio della strada o sui gradini della chiesa rimescola sentimenti che avrei voluto rimanessero sopiti. Come sempre, il coglione sa cosa dire —persona sbagliata, momento sbagliato, frasi sbagliate.
Ingoio l’amaro, chiudo gli occhi e sospiro. Non l’avrà vinta. Così estraggo un paio di piccoli arnesi appuntiti dalle tasche dei jeans e mi inginocchio davanti alla toppa. È tutto uno schioccare di ingranaggi finché la serratura non scatta e la porta non si scosta dall'uscio. Gli angoli della bocca mi si piegano in una smorfia soddisfatta. Mi alzo, veloce, ed entro in casa prima che sia troppo tardi.
«Stai tentando di fottere l’orfana sbagliata.»

Senza fretta, ripongo i miei strumenti da scassinatrice nelle tasche.
Il mio sguardo su di lui è di marmo.

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Edited by ~ Nieve Rigos - 22/7/2023, 21:57
 
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Lo so dal momento in cui sbatto la porta con un tonfo che quella scimmia ne avrebbe fatta una delle sue. Sento aggeggiare con la serratura e quasi mi viene da ridere per il déjà-vu cui mi sembra di assistere, mentre ricordo come mi sono intrufolato nell’ufficio di Pineswine per rubare una Strillettera ufficiale. Forse, in fondo, non siamo poi così diversi. Solo che io ho ventiquattro anni e lei diciotto… diciotto vero? Diciannove? Non ne ho idea, ma grande abbastanza per capire il significato delle parole: “hai rotto il cazzo”. Invece incredibile, proprio non c’è arrivata e pondero di farle un disegnino.
Mi piazzo davanti la porta, piantandomi con le gambe e le braccia incrociate al fine di ostacolare l’entrata della scassinatrice oltre il corridoio che conduce al salotto. L’idea che invada il mio spazio personale mi fa uscire di testa e mi appello mentalmente a tutto il pantheon di Dei che potrei eventualmente tirare giù.
Come volevasi dimostrare, eccola comparire oltre l’uscio e, prima che questi si chiuda, scivola dentro losca e quatta come il ratto che è. Oddio, non posso proprio dire che è un ratto esteticamente parlando, ma i modi di fare e il suo savour fair sono proprio degni di un topo di fogna. Mi chiedo come si possa vestire in tale maniera e poi essere selvaggi fino a questo punto. Non mi smentisce, del resto, e prorompe con il solito atteggiamento sbruffone. Che pagliaccia, chi vuole prendere in giro con quella magliettina tutta pizzi e velature da brava signorina? Che spreco, penso, mentre la guardo impassibile. Un così bel faccino e un corpo del genere che rinchiudono una personalità isterica e narcisista: gli Dei sanno proprio essere crudeli. Non ho mai visto un ossimoro grande tanto quanto lei, al pari indubbiamente del suo ego spropositato di bimba prodigio, ma discriminata da tutti. Sì, convengo, è un peccato mortale.
Alzo il sopracciglio come solo io so fare e come solo lei sa odiare. Dopo i miei sorrisi, sono certo che è questa l’espressione di me che detesta di più del mio modesto repertorio di sdegno: io che la giudico. Del resto, tra Ministero e l’ultima volta, le è partita la brocca ogniqualvolta avessi osato sbagliare parola, modo, sguardo. Ho solo l’imbarazzo della scelta e decido di ricambiarla con la stessa moneta. Ormai lo so che non c’è più traccia di maturità in questo scontro.
« Non ti fotterei nemmeno se mi pagassero. »
So perfettamente che il suo non è un significato letterale. Anche se, visto quant’è interessata alla mia vita sessuale, potrebbe venirmi il dubbio che lei non aspetti altro. Taccio, tamburellandomi le dita sull’incavo dell’avambraccio.
« Tu non sai proprio cosa sia il rispetto per le cose altrui e vieni a chiedere agli altri di rispettare le tue di cose. »
Ma sì, al diavolo i convenevoli. Ricambio il suo sguardo con altrettanto malcelata ostilità. Sembriamo un cane e un gatto che si ringhiano e soffiano a vicenda.
« Vattene da casa mia, Rigos. » È inutile anche solo pensare di chiamare l’Antimago, una minaccia a cui non credo nemmeno io e figuriamoci lei, che è sempre pronta a raccontare in giro e a vantarsi che voglio venderla. Diamine, sì che voglio venderti, ma a qualche macellaio: come diavolo hai osato venire fin qui per qualcosa che nemmeno vuoi utilizzare? Ecco, pagherei giusto per sapere questo.
« Non ce l’ho più la tua bacchetta. » Chiarisco e la guardo dall’alto in basso. Mi impegno a fare tutto ciò che non sopporta e non so se lo sto facendo per puro godimento o perché voglio che si incazzi al punto da avere una scusa per prenderla per la collottola e lanciarla direttamente dalla rampa delle scale. Lei e la sua Magia del cazzo troverebbero il modo di non rompersi l’osso del collo, ne sono certo.
Inamovibile, ma attento, sono ancora davanti a lei e piego un angolo del labbro all’insù con sufficienza.
« Dopo il tuo elegante messaggio, l’ho spezzata e l’ho lanciata nel Tamigi. Ricompratela. » Riduco gli occhi a fessura.
« Forse qualche Galeone posso dartelo, ci aggiungo due Falci per la dignità che hai perso sporcandoti le mani di merda di gufo. »
Lo so che la sua lingua affilata è pronta a sputare il suo veleno di aspide. 
Non sono sicuro di riuscire ad incassare il colpo continuando a mantenere questa calma, ma se cerca di tirarmi un pugno ancora una volta, giuro che è la volta buona che ammazzo anche lei, oltre a Benin.

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Edited by Horus Sekhmeth - 23/7/2023, 00:06
 
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«Ti brucia, non è così?»
La mia frase d’esordio racchiude una riflessione che ha dovuto placare le mille e un’ingiuria nate dal soliloquio di Sekhmeth. Vedo ancora la proiezione di me saltargli addosso, avvinghiarglisi come una cozza e staccargli dalla testa uno a uno i lunghi capelli di fiamma. Sarei gentile però, perché anestetizzerei il processo con qualche pugno ben assestato.
Invece, serro la mascella e mando di nuovo giù il boccone amaro. Se una cosa mi ha insegnato lo scambio di gufi, è che la pazienza —mescolata a un po’ di strategia— può dare i suoi frutti. Il problema è che il mio starter pack non è rifornito proprio dell’ingrediente cui sto tentando di attingere.
«Ti brucia che io ti dia contro, testa a testa, e non mi arrenda. Ti fa infuriare il fatto che non ceda perché non ci sei abituato.»
Lo studio e gli angoli della mia bocca si arricciano, impenitenti. Così scuoto il capo. Guardalo con i suoi modi da padre padrone, tutto impettito, il comandante della scialuppa. Ne ho visti di uomini come te, cosa credi? Le cicatrici che porto sulle mani e sulla schiena provengono da mani simili a quelle che adesso tieni incrociate al petto. E non trovo sia una casualità che un segno delle sfumature del rosso e del viola spicchi adesso sulla pelle della mia coscia come simbolo del tuo passaggio e della mia incapacità di lasciare indietro il passato.
«Ti brucia persino il fatto che sia più brava di te a rompere le palle. Ti brucia talmente tanto che mi hai fatto recapitare in Sala Grande una corona alta due metri». Non riesco a trattenermi e scoppio a ridere. Non l’ho previsto e mi detesterò per essermi concessa questo atto di libertà, ma è trascorso troppo poco tempo e il ricordo è ancora risolutamente vivido nella mia mente. Ho l’immagine dei primini sconvolti davanti agli occhi: le divise piene di succo di zucca, le prime pagine dei giornali rovinate da schizzi di caffè e latte con cereali, gli occhi sbarrati di fronte alla voce irosa della strillettera. A torreggiare su tutti noi, una mastodontica riproduzione in legno di ciò che legittima metaforicamente un sovrano al suo titolo. «Grazie per avermi incoronata regina della merda di gufo così platealmente, a proposito. Mi hai risparmiato le spese di organizzazione» dico, ricomponendomi a fatica. «Hai perfino usato i mezzi del Ministero e tutto questo perché sono riuscita a entrarti sotto pelle. E, tranquillo, penso che tu voglia portarmi a letto quanto io voglio portare a letto te. Non c'è pericolo! Non è quello che intendo».
Lo guardo con rinnovata fermezza. Non sto ostentando nessun potere su di lui, né una convinzione su una qualche forma di malia. So di farlo scattare, ma non ne capisco le ragioni. La vedo perfino adesso, nei modi con cui mi respinge e continua a negarmi ciò che mi spetta —sempre che non sia finito davvero nel Tamigi—, l’ostinazione che viene dalla rabbia. Una rabbia che non dipende dall’ultimo scambio di battute. Una rabbia antecedente, come la mia, di cui voglio conoscere le motivazioni.
Imitandolo, mi piazzo nell’ingresso di casa sua, non con lo stesso agio. Gioco fuori casa e la sensazione di essere in terra straniera mi crea un disagio che sento alle estremità del corpo. Sto lievemente sollevata sulle punte dei piedi come se fossi pronta a scappare. Le mani sono posizionate ai lati del corpo per scattare in direzione del pomello e spalancare la porta se fosse necessario.
«Dimmi perché hai preso la mia bacchetta. Perché non l’hai lasciata lì. Perché cazzo non te ne sei andato e basta». Qualcosa si agita nel magma incandescente che solo la sua presenza è in grado di attivare. Smania, collera, malumore. Il pensiero che l'abbia spezzata come se potesse decidere cosa fare della vita degli altri, la divinità scesa in terra a miracol mostrare. Serro i pugni. «E dimmi perché non ti sei semplicemente limitato a darmela quando l’hai presa. Perché tutto questo teatrino. Se non vuoi vedermi e io lo do per pacifico, perché mi hai messa nelle condizioni di essere qui oggi? E risparmiami le tue solite cazzate».
Scruto i suoi occhi tempestosi con il mare tumultuoso dei miei. Quando siamo diventati questo? L’avremmo mai previsto? Ricordiamo, adesso, qualcosa del passato? Mi dico di no, che io non posso né voglio e che sono riuscita nell’intento di cancellare quei pochi residui rimasti nella mente di lui. Non si può dire che non sia una professionista nel soffocare le speranze altrui. Almeno, si risparmierà il rischio di morire anzitempo —lui e il suo ego del cazzo, beninteso.
«Vuoi un pezzo della vecchia Nieve? Eccolo!» Estraggo dalla tasca posteriore dei jeans bianchi una vecchia polaroid. Raffigura due versioni di noi in uno dei pochi ricordi che conservo del periodo in cui ci siamo voluti bene. Abbiamo le guance sporche di polvere e gli occhi lucidi di chi ha bevuto troppo, ma i sorrisi grandi chi se la sta spassando alla grande. Ci conoscevamo meno allora, eppure eravamo meno estranei di adesso. Gliela porgo. «È tutto quello che rimane di lei. Fattelo bastare!»

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Sì, mi brucia, ma non per i motivi che pensa lei.
È ancora convinta che io sia così superficiale da voler prevalere solo per il gusto di farlo, per affermare il mio dominio.
Forse sì, forse sono abituato a prendermi ciò che ritengo mio o dovuto: che sia un oggetto o la missione che mi sta rovinando la vita; persino delle vite che hanno attentato alla mia. Ma non è questo il caso nonostante ciò che possa credere lei.
Del resto ormai ha la sua visione di me e mi dico che non vale la pena rovinargliela.
Giro il capo di lato, guardando il muro bianco, accusando la sua risata per quella frazione di secondo che impiego per rimproverare me stesso per aver ceduto alla sua infantilità. Il riso che ricordavo –è la prima volta che lo risento– è diverso. Era squillante, allegro, ricolmo di vitalità che ora non sento più in lei. È come questo muro: una protezione.
« Hai ragione. » Torno a guardarla. « Non avrei dovuto abbassarmi alle tue cretinate. »
La mia voce ostenta controllo, ma in realtà dentro di me lo stomaco fa un male cane per lo sforzo che sto mettendo nel non urlarle contro. Lei non sa, non può capire come quel gesto stupido, ma pieno di significato mi abbia colpito nel punto più debole, in un fianco scoperto di un’armatura.
Non è solo il modo in cui è fuggita a farmi infuriare, ma anche lo sporco che ha macchiato le mie dita dopo la mia –maledetta– crisi di panico.
Lei non può sapere. Me lo sono ripetuto così tante volte che a furia di pronunciarlo nella mia testa non è diventato altro che una nenia. Peccato non sia riuscita a farmi addormentare serenamente.
Ripenso costantemente a cosa è accaduto sul prato, alla fragilità che le ho mostrato e che alimenta la mia rabbia, il mio rancore.
Non ci riesco ad essere maturo, davvero, non posso e me ne pento ogni secondo che passa.
È per questo che ho preso la sua bacchetta.
Rimango in silenzio, stringendo le labbra in un’espressione infastidita. E poi, quando ormai aspetto l’ennesimo pugno –che sono pronto a bloccare–, mi stupisce ancora.
Vederci è un colpo al cuore, inaspettato e peggiore di un cazzotto in piena pancia.
Guardo la polaroid con lo sguardo indurito di chi sta tentando con tutte le proprie forze di trattenersi, proprio come lei che tenta di intrattenere una conversazione che vada oltre gli insulti. Bestie in gabbia.
Ma supera ogni limite di crudeltà mostrandomi questa foto che forse avrebbe dovuto stracciare se non tempo fa, almeno ora.
Mi fa malissimo vedere quei volti che ridono e ondeggiano con stentato equilibrio; mi fa male vedere come le nostre braccia si circondino con un’affinità che solo due amici sanno di avere. Non ricordo proprio tutto di ciò che è accaduto, ma ricordo che eravamo ubriachi come due barboni; ricordo che quando si ubriaca, Nieve ha una “s” strana—ce l’ha ancora?
E ricordo, con l’ennesima stretta alle viscere, come io, io le abbia chiesto di diventare mia amica. E come poi, tra le spine di un labirinto, nell’ennesima delusione che Emily mi aveva riservato, ho chiesto scusa a Nieve per non esserci stato. Forse è anche questo ad alimentare il fuoco di rancore che provo per lei: il rimorso.

Prendo lentamente la polaroid e guardo in silenzio i nostri volti che continuano a ridere, immortalati per sempre su una semplice foto. Ecco tutto quello che ci rimane.
Tu non sei più la vecchia Nieve e nemmeno io sono più il ragazzo che qui non riesce ad essere serio, con il viso arrossato dall’ubriachezza; quel ragazzo che ti ha chiesto se volessi diventare sua amica.
Cosa dovrei dirti, Nieve?
Sposto lo sguardo su di lei: quella pelle pallida come carta, trasparente come i suoi occhi. È così in contrasto con me che ancora mi stupisco, rimango sconvolto da come siamo diventati il giorno e la notte in maniera così palese. Tanto candida come il marmo tanto quanto io sono dorato come il bronzo. Sole e Luna costantemente coperti da nubi. Sembra quasi che, con gli anni, col nostro allontanamento, il nostro aspetto abbia voluto sottolineare la nostra incompatibilità latente.
E quindi, cosa dovrei dirti?
Che mi sono spinto fino a questo punto perché volevo vendicarmi del fatto che sei scappata lasciandomi come un coglione? Che vigliacca.
Perché mi hai mostrato che c’è ancora la Nieve che conoscevo? Che buffona.
O dovrei dirti che ce l’ho con te perché non mi hai dato nemmeno un pizzico di fiducia? Lo so, l’ho ammesso, i miei modi sono più rudi ed istintivi di prima. Ma perché, perché non mi hai permesso di vederti? Perché hai visto me e non hai permesso a me di fare lo stesso con te? Ci ero riuscito, cazzo, ci ero riuscito a tirarti fuori quelle stille di Magia che nascondevi, come la te stessa di un tempo.
Rinsaldo la presa sulla foto e abbasso le braccia lungo i fianchi, sciogliendo la posizione di difesa. La scruto e la studio nella sua immota tensione, a portata dell’uscio.
La rabbia che sentivo è sempre lì, colma di risentimento e risuona con la sua. L’unica cosa che ci accomuna, ora, è la freddezza che ci rivolgiamo.
« Non mi hai risposto. » La mia voce è arrochita, bassa, ma ancora preda ad un controllo spropositato. Nemmeno io ti ho spiegato, ma non si risponde ad una domanda con un’altra domanda, vorrei dirti, ma quest’equilibrio è talmente fragile che non voglio —per ora— correre il rischio che t’infuri. Voglio sapere. Le mie iridi non vacillano sul tuo viso, ma studiano i lineamenti delicati che rappresentano il tuo contrasto più grande.
« Perché mi hai chiesto di aiutarti con la Magia? Rispondimi. »
Questo me lo devi, penso stringendo i pugni e nel far questo le dita stropicciano un angolo della polaroid.

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È un suono netto, forte quello che segue il contatto tra la mia mano e la superficie della porta. La serratura schiocca una seconda volta e, contro ogni mio proposito di libertà, l’ultimo soffio di aria che mi collega all’esterno svanisce nella stretta dello stipite.
Ti do il profilo, il capo leggermente chino in avanti, i polpastrelli premuti sulle assi con un’insistenza che rasenta l’incapacità di giudizio. Ho il cervello in fiamme, gli zigomi imporporati di un rosa tenue —il massimo del colore che il mio corpo sia in grado di produrre— e le membra scosse dalla consapevolezza che potrei esplodere da un momento all’altro se solo un’infinitesimale sollecitazione sopravvenisse ad accarezzarmi. Ne ho viste di magie portentose e ne ho temuti effetti di pozioni pericolose, ma non trovo un nome per ciò che sta accadendo dentro di me e che mi rende quasi impossibile il controllo delle pulsioni; il controllo del raziocinio.
Serro i denti forte tra loro e la mascella si contrae. Chiudo gli occhi, conficcando le unghie nel legno della porta. Non mi accorgo del tremore leggero che ha preso a scuotere le pareti dell’appartamento, scostando appena alcune suppellettili dalla loro sede originaria. Nella mia mente impera, indomito, il desiderio bestiale di divorare, distruggere, annientare. È tale l’autodisciplina che devo esercitare sulla mia forza di volontà che non mi accorgo di aver leggermente inarcato la schiena e di essermi sollevata appena sulle punte dei piedi —un felino nella sua posizione più minacciosa.
Ancora una volta pretendi. Ancora una volta vuoi. In quale nome e sotto quale vessillo? Quale titolo dovrebbe assicurare la vittoria delle tue pretese sulle mie? Ignoro il dolore alle unghie. La tensione è la sola cosa che tenga insieme tutta me stessa in questo momento; la sola cosa che mi impedisca di voltarmi e fare del mio peggio —il peggio, forse, che abbia fatto in tutta la mia vita. Nemmeno il Midnight c’è mai riuscito, Sekhmeth. Quale cazzo è il tuo problema?
Ruoto il capo e i miei occhi dardeggiano nella direzione dei tuoi. Di poteri speciali non ne ho avuti mai, ma l’espressività ci accomuna e il rancore furibondo —a stento trattenuto— che vedo trasparire dai tuoi lineamenti duri è fratello della bile nera che sobbolle nel cratere che mi porto dentro. Così come vedo le scuse dietro cui ti trinceri e l’atteggiamento beffardo del cazzo che usi per parlarmi. Vuoi la bestia? Eccotela servita!
«È questo che vuoi, dunque» sibilo, avvelenata da un intruglio che sei stato tu a servirmi. Scelgo di berlo perché mi hai rotto il cazzo e perché, a differenza tua, io non ho paura di affrontare la realtà. Non quanto te. «Vuoi divertirti a mortificarmi. È questo il giochetto» continuo e il muscolo sulla mia guancia vibra, mentre mi volto per fronteggiarti.
Un barlume di furore accende i miei occhi nivei quasi che volessi raggelarti e insieme ustionarti. Eppure ad ora, in questo contrasto e nel suo trattenimento, a consumarmi sono soltanto io. Le braccia stese ai lati del corpo pendono con rigidità. Ogni porzione di me richiama la corda di un arco pronta a scoccare la sua freccia.
È un momento focale della mia vita, questo, sebbene non ne sia cosciente. La prima volta in assoluto in cui assumo consapevolezza del mio passato, mi incazzo e mi ribello senza prendere per buona la violenza che ho patito. Senza scrollare le spalle e attribuirmi sottilmente una parte di colpa.
«Se pensi di essere il primo che lo fa, mi dispiace dirti che arrivi tardi. Altri uomini lo hanno fatto prima di te da che ero bambina, quindi accontentati del trentesimo posto o giù di lì».
Gli mostro la cicatrice che occupa per intero il dorso della mano destra, grande quando la zampa di un cucciolo di drago, frastagliata e spessa. Non mi frega un cazzo di rivelargli una parte del mio passato. Non mi frega un cazzo di aprire un minuscolo cassetto e lasciare che guardi. Non mi frega un cazzo di niente in questo momento che non sia esternare il biasimo gorgogliante che risale il petto e minaccia di uccidermi dal di dentro, a meno di essere rilasciato.
«Vuoi proprio che ti dica perché ho chiesto a te di aiutarmi con la magia? Perché sono sola come un cane» sputo. Poi scatto in avanti e lo spintono a piene mani. «Perché sono un’orfana di merda». Spingo ancora indietro. «Perché non ho nessuno». Ancora. «E soprattutto perché ho fatto una cazzata a chiedertelo». Ancora ancora ancora.
Assesto gli ultimi colpi con una virulenza che soddisfa solo parzialmente la mia esigenza di trovare sfogo. La sento provenire da un andito recondito del mio animo, là dove ho seppellito i ricordi di Borgarbyggð e la loro apparente neutralità —quella che io ho attribuito loro per impedire che mi distruggessero.
Ti guardo con i capelli scompigliati ai lati del viso e le mani racchiuse in due pugni, a un soffio di cielo dal tuo petto. Ho il respiro affannoso, lo sguardo corrucciato.
«Sarò anche la regina della merda di gufo, ma tu sei il re dei pezzi di merda.»
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Edited by ~ Nieve Rigos - 24/7/2023, 13:06
 
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Non riesco a spiegarmi come Nieve interpreti ció che dico e faccio sempre all’opposto di come sono le mie reali intenzioni. Sembra che provi un piacere perverso e masochistico a raccontarsi la storia della disgraziata maltrattata da tutti.
Questa volta però, anche se non con le parole, le ho riservato un atteggiamento che è forse la crasi di tutto ciò che lei odia di piú di me. L’ho fatto perché credo di desiderare uno scontro che cancelli definitamente dalla mia memoria lo sguardo di quella Nieve sdraiata dal mio fianco; perché vorrei che i suoi schiaffi e i suoi pugni si sovrappongano alle carezze delicate, alla punta delle dita che con cura mi hanno riportato indietro dall’abisso in cui non sapevo nemmeno di essere sprofondato.
Sí non ho più dubbi di desiderare altro che questo, mentre infilo la polaroid nella tasca dei pantaloni in un gesto che sa di definitivo, preparandomi al momento in cui lei esploderá senza riguardo per niente e nessuno.
La subisco, quella furia. La subisco ancora. Quando sento le pareti tremare, i libri sugli scaffali vacillare e le ostrakon sulla vetrina acciottolarsi fra di loro, mi rendo conto che Nieve sta di nuovo perdendo il controllo sulla sua magia di merda. So chiaramente cosa questo vuol dire perché l’ho visto con i miei occhi e a mie spese, ma la devastazione di quell’ufficio al Ministero non sarà anche quella che si abbatterà in casa mia. Perché cazzo, non hai giurisdizione qui, Nieve, non puoi distruggere e andartene come se niente fosse. Perciò quando i suoi palmi si abbattono su di me, assorbo le spinte una dopo l’altra. Mi basterebbe portare una gamba indietro e stabilizzare il mio corpo per rendere assolutamente vani i suoi tentativi di spostarmi. Eppure la assecondo. Indietreggio e lei avanza e preme le mani sul mio petto scandendo ogni colpo con una rivelazione cui non reagisco, almeno esternamente. Che fosse sola lo avevo intuito già da tempo e, subdola, l’immagine di lei che si commuove quando le chiesi al tempo di diventare mia amica torna a confermarmi quanta intimità avevamo condiviso in quei brevi momenti. Anziché ammorbidirmi, però, serro la mandibola e irrigidisco il collo. Guardo con immutata durezza il viso di Nieve ma cercando senza saperlo il fantasma delle lacrime che le hanno rigato il viso quella sera.
Ha chiesto a me perché non aveva nessun altro. Ha chiesto a me nonostante mi disprezzi, nonostante sia convinta che voglia denunciarla al Ministero.
E quindi, mi chiedo, perché proprio adesso?
L’ultima spinta è, se possibile, ancora più feroce e il mio arretrare viene bruscamente arrestato dal muro alle mie spalle su cui sbatto la schiena.
Rimango immobile, incassando e assorbendo il suo sfogo, ricambiando il suo sguardo senza tuttavia mostrarle ciò che mi brucia dentro.

Allora le cingo i polsi con le dita e allontano i suoi pugni dal mio petto con una delicatezza che non posso impedirmi di riservarle.
« Credi di essere l’unica? » Muovo un passo in avanti e lei è giocoforza costretta a muoverlo indietro.
« Credi di essere l’unica ad avere un passato di merda? Ad avere delle cicatrici? »
Non sto alludendo solo a quelle del collo o a quella sul busto che può aver visto il giorno al parco. Ma anche a quelle che mi porto dentro, a quella che ha sicuramente non potuto notare quel giorno.
Le mie dita hanno un fremito e il pollice preme sulla linea bluastra delle vene.
« Avevi me, Nieve. » Mi detesto per averlo detto ma è troppo tardi per ritirare la lama affondata non nel suo, ma nel mio petto.
Un altro passo, un altro piede indietro. Stiamo rifacendo lo stesso percorso di prima, ma all’inverso. Con l’unica differenza che io non sto usando violenza. Sembra quasi il secondo round di un ballo a tratti feroce, a tratti così cauto da rasentare il fastidio.
« È vero, io non ti ho più cercata, ma tu? Chi decide chi è più colpevole di un altro ?» il mio sguardo continua ad essere duro come la pietra, altrettanto immobile, altrettanto privo di scintille.
« Che tu ci creda o no, ero pronto ad aiutarti appena ti ho vista nell’ufficio di quel tizio. Anche quando mi hai minacciato con la tua magia e ho dovuto proteggermi.»
Tocca a me incalzare ma procedo lento, in netto contrasto con le mie intenzione e con i modi di fare di Nieve. Non scosto gli occhi da lei, le riservo la stessa algiditá.
« Ti ho difesa perché non volevo che ti picchiassero. Ti ho messa al di sopra di… »
Mi mordo le labbra per impedirmi di proseguire. Le ho dato la priorità a discapito di ciò che sarebbe potuto accadere se invece avessi fermato Emily, penso. Lascio morire la frase: è un sentiero impervio che non voglio attraversare, non ora, non di fronte a lei.
« A differenza tua, non ho mai voluto odiarti. Tu vedi solo quello che vuoi vedere.»
Riprendo fiato anche se, in realtà, non ne avrei bisogno. Sono però consapevole che questa spirale mi sta portando a dire troppo e non è ciò che voglio. Eppure è così burrascoso, questo fiume di parole, che non sono altro che un ciottolo trascinato dalla corrente. E rompe gli argini.
« Sai dove volevo portarti? Su una collina, vicino casa mia. Volevo insegnarti che dopo la paura c’è del bello in questo cazzo di mondo in cui ti ritrovi. Che puoi ancora creare qualcosa. »
Questo incrina la mia maschera di autocontrollo e mi esce con un’amarezza che mi rende improvvisamente consapevole di quanto io sia stato idiota. La rabbia fa tentennare la mia voce. Sono stanco di voler insegnare a vivere a chi vuole solamente morire o lasciarsi divorare dagli abissi.
« Su una cosa non sbagli: sono un coglione. »
Il nostro inquieto ballo —ora— termina quando, stavolta, è la porta dietro la sua schiena a fermarci.
Tutto il mio controllo, a poco a poco, evapora in effluvi pericolosi. Spingo indietro i polsi di Nieve, costringendoli alla superficie della porta.
« Nessuno di noi due è esente da colpe. Ma sai qual è la differenza?»
Ringhio.
Sono il re dei pezzi di merda? Bene. Meritiamocela questa corona, allora.
« La differenza è che io non mi sono arreso con te e questo ti brucia. Mascheri tutto con le tue solite stronzate che giustifichino la tua visione soltanto ed io ho preso la tua bacchetta perché volevo tornassi qui, che non ti arrendessi. »
Mi avvicino al suo viso tinto dal rubino slavato dalla furia, scoprendo i denti come una fiera. Stavolta no, penso, stavolta non scapperai.
« La differenza è che io non ho preso i sentimenti degli altri e li ho bollati come cazzate, perché non voglio avere la responsabilità di gestirli. »
Mi piazzo davanti a lei, le ostacolo la fuga col mio corpo, consapevole che, se prima la sua magia aveva fatto tremare i vetri delle finestre, questa volta potrebbe fare molto peggio. Ormai, però, ho superato il punto di non ritorno.
La mia frustrazione è tale che non mi rendo conto di starla costringendo al muro come una preda. Me ne pentirei, se fossi appena più lucido. Arriccio il naso con mal represso furore.
« La differenza è che io non scappo, Rigos. »
Sibilo sul suo volto.

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Fermati. Fermati, ti prego. Non voglio ascoltare. Non voglio sapere. Qualunque siano le tue verità, tienile per te. Io posso vivere —voglio vivere— senza conoscerle.
Indietreggio, rigida, sovrastata dalle tue accuse. Lo faccio perché a stupirmi è il contrasto tra i marosi del tuo eloquio e il controllo nei tuoi modi. Perché, nel caos imperante del nostro reciproco opporci, un equilibrio l’abbiamo sempre trovato. Prima io, poi tu. Prima tu, poi io. Ma dov’è che vuoi portarmi adesso? Dov’è che vuoi arrivare?
Tento di nascondere —di nascondermi—, di schivare i tuoi colpi, di pararli per evitarne gli effetti, ma sei impietoso e non mi risparmi neppure un’oncia di emozione. Finalmente rispondi alle mie domande e io mi rendo conto di non essere pronta ad accettarne il contenuto.
Così, le mie ciglia tremano e il mio cuore salta qualche battito, intanto che la Nieve del passato e la Nieve del presente s’incalzano a vicenda in un’alternanza che sconquassa il mio sistema. So cosa sei stato per me, ma so anche cosa non posso permetterti di essere; quanto mi è caro l’odio cui mi sono aggrappata finora e, con esso, le credenze che ho usato per alimentarlo.
Perciò, non dirmi della collina vicino casa tua. Non dirmi che mi hai messa al di sopra di qualcuno. Non dirmi che non ti sei arreso. Non dirmi che hai fatto tutto questo perché volevi che tornassi. Non dirmelo perché non capisco e vorrei urlarti quanto mi stai confondendo, ma non ti darei altro che un’opportunità per schernirmi.
La schiena trova la solidità della porta e, così, anche i polsi. Li tieni stretti tra le dita. Riesci a sentire il battito accelerato del mio cuore, intento a trattenere la rabbia, la paura, la frustrazione da cui sono assalita? Nel reticolo di vene, puoi distinguere le emozioni che fanno tremare i mobili di casa tua?
Serro le labbra e abbatto la vecchia Nieve. Non c’è posto per lei. Non può vivere adesso. Ripenso al fazzoletto con incise le iniziali H.R.S. e a quella volta che mi hai pulito il viso dalla fuliggine. Quanto a lungo l’ho portato con me, usandolo come portafortuna? Ma tu cosa ne sai e cosa ne vuoi sapere, Sekhmeth, che sei andato avanti con la tua vita e mi hai lasciata indietro?
È a questa collera che mi aggrappo e alle sue implicazioni. Oscuro l’immagine dell’abbraccio che ci siamo scambiati nel labirinto, delle risate a bordo pista, della promessa di essere amici, dell’avventura nello sgabuzzino delle scope —“Ehi, megafusto!”—, degli sguardi complici nei corridoi della scuola, delle volte che ti ho fatto saltare in aria sbucando da dietro una statua o una colonna, del giorno che siamo semplicemente rimasti in silenzio sulle rive del Lago Nero ad ascoltarci respirare. La persona cui ho voluto bene non esiste più, come non esisto anch’io, e fingere un attaccamento morboso a una memoria che vive solo nel passato significherebbe tenere gli occhi disperatamente chiusi. Implicherebbe per me aprire uno spiraglio nella muraglia che ho innalzato per proteggere gli altri. Sì, anche te, irriconoscente del cazzo.
Ci siamo detti e fatti cose impensabili. La Nieve e l’Horus di allora ci guarderebbero con orrore e biasimo. Riesco quasi a vederli, stretti stretti l’una all’altro nel timore che il futuro possa essere davvero così crudele con loro —con noi. Provo pietà e vorrei consolarli. Tuttavia, non ne ho il tempo perché, nel presente, il suono della tua voce è crudele e mi taccia di codardia.
Ti rivolgo un sorriso beffardo. I miei polsi si tendono tra le tue dita. Non vuoi che scappi e io non ho intenzione di farlo. Rimango stavolta. Vedremo quale sarà l’esito di uno scontro senza vie di fughe.
Un ruggito attraversa le pareti, promettendo crepe e distruzione, ma non è così che voglio finisca. Non con te. La sopraffazione a cui abbiamo aspirato entrambi —quest’ossessione per il dominio che ci ha erosi dal di dentro— è fatta di carne e ossa. Non ha a che vedere con la magia. Ed è la tua carne che voglio sottomettere, fare mia, per dimostrarti che non importa quanto tu sia prestante, quanto tu possa alzare la voce, quanti incantesimi conosca più di me. Io non mi arrendo. Non ti darò mai la soddisfazione di vedermi cedere.
Perciò mi faccio avanti, estinguendo la distanza che separa i nostri volti. Le mie labbra trovano le tue. Posso sentire il tocco della barba sulla pelle, il respiro irregolare sull’arco di Cupido, la tensione con cui a stento trattieni la rabbia che vorresti riversarmi contro. Non siamo mai stati così vicini, nell’ira come nella frustrazione. Percepisco l’energia tribale che emana da me scontrarsi con l’aura di fuoco che circonda il profilo del tuo corpo. Due universi dai poli opposti che tentano testardamente di allontanarsi —o forse di avvicinarsi.
Non puoi tenermi in catene. Non puoi ammaestrarmi. Non puoi forzarmi contro la porta di casa tua, tenermi per i polsi, farmi il discorsetto e credere che non ci siano conseguenze. Lo sai anche tu, no? Che darmi della pusillanime può solo gettare legna nel falò che mi corrode e che non attende altro che sprigionarsi.
Un quadro cade con un tonfo alle tue spalle, mentre schiudo la bocca e respiro sulla tua. Un’intimità come questa sembra un controsenso dopo l’odio che ci siamo buttati addosso; o forse è l’unica cosa sensata per le ammissioni che siamo riusciti—o forse dovrei dire, con l’onestà intellettuale che non so concederti, sei riuscito— a portare sul banco degli imputati.
Intrappolo il tuo labbro inferiore tra i denti e stringo. Stringo per trattenerti come tu stai trattenendo me adesso e ripagarti con la stessa moneta. Stringo per cancellare il ricordo delle tue dita che si intrecciano alle mie e della tua voce che mi chiede di restarti accanto. Stringo per dirti che non hai capito un cazzo; che nessuno ti ha eletto cavaliere e salvatore di una damigella in pericolo —ammesso che mi si possa definire tale. Stringo per il modo in cui mi parli, mi giudichi, mi sorridi. Stringo per punirti dei tuoi modi e per punire me di averti chiesto aiuto.
Tiro verso di me. Sento la carne aprirsi, il sangue colare dalle tue labbra alle mie e insinuarsi nella mia bocca. Ne riconosco il sapore. Un flutto di calore s’irradia dal punto in cui la mia lingua ti assaggia, godendo della soddisfazione che viene con l’impero. Allora rilascio il prigioniero e torno a guardarti. Siamo così vicini che riesco a distinguere ogni singola sfumatura di colore nei tuoi occhi, ogni screziatura di nube. Intanto, una goccia di sangue cola sul mio mento, tracciando un sentiero che testimonia a vivo colore fino a che punto ci siamo spinti; quale livello di bestialità siamo stati in grado di evocare l’uno nell’altra.
Riporto la nuca contro il legno della porta e ti osservo, lo sguardo ferino di chi è pronto all’ennesimo round.

Volevi che rimanessi. Volevi il mio peggio. Volevi che ti mostrassi chi sono.
Eccomi.
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Edited by ~ Nieve Rigos - 25/7/2023, 01:43
 
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E così eccoti. Eccoti con tutta la tua repressione, con tutti i tuoi stupidi dogmi. Eccoti nel ringhio delle pareti, nel cristallo infranto di un quadro. Eccoti in quello sguardo smarrito, prontamente celato, affogato nel tuo tumulto.
Ti ho spezzata, Nieve. Ti ho spinta al muro e non solo letteralmente, perché hai dovuto fare i conti col fatto che la tua mente brillante sia giunta inequivocabilmente alle soluzioni più errate che tu potessi mai concepire.
Ne sono compiaciuto; le labbra si piegano in un sorriso asimmetrico, soddisfatto.

Ma avrei dovuto sapere che non saresti stata facile alla resa. Fa presto a svanire qualsiasi traccia di sarcasmo dal mio viso quando ti protendi verso di me e mi baci. Ho un involontario riflesso del capo, quasi volessi sottrarmi, ma rimango, rimango immobile perché percepisco che è questo ciò che vuoi fare: confondermi. Rimango saldo, non lo ricambio, ma la stilettata di dolore è impossibile da ignorare, laddove solo una settimana fa mi hai procurato lo stesso fastidio spaccandomi il labbro con gli anelli. Sento il sangue invadermi la bocca e la tua lingua vellutata assaggiarlo con licenziosa lentezza. I denti che mi afferrano stringono con intollerabile vigore ed io, pur di non farmi sfuggire nemmeno un gemito di dolore, mi sporgo verso di te, aumentando la pressione sui polsi, ingabbiando il tuo corpo.
Avanti mordi più forte ti sto dicendo e serro i denti per trattenermi dal ricambiarti con la stessa moneta perché la furia che cresce mi spinge ad abbandonare il raziocinio e far prevalere l’istinto di sopraffarti. Perché so qual è il tuo gioco e quando ti distacchi con un respiro intrappolato su di me, tirando indietro la testa solo per goderti la mia espressione sorpresa e meravigliata: spero di vedere la delusione nel tuo sguardo perché non vedrai niente di tutto questo. Non compare perché è scivolata come inchiostro in fondo alla gola e l’ho mandata giù come una medicina amara. Mi limito solo, per necessità, a liberare solo uno dei tuoi polsi, costringendoti ancora con l’altro.
Non hai vinto un cazzo.
Mi tasto con le dita il labbro ferito e col dorso mi pulisco il sangue che cola dalla mia bocca e sparisce nella barba curata. Ti concedo uno sguardo, uno solo, ed il brillio nelle mie iridi è come il riverbero sul metallo di una spada che vuole solo trafiggerti.
Arriccio il naso in un’espressione che si accomuna alla tua per bestialità. Scopro che mi piace vederti spingere fino a questo livello, in un disperato tentativo di porti sopra di me, di prendere un controllo che entrambi vogliamo.
La mano sporca scatta verso il tuo collo, le dita stringono.

Non c’è mai stato niente di sano nel modo in cui cerco disperatamente di convincermi che io sia una persona diversa, di cancellare ogni pensiero, ogni sensazione, ogni respiro, ogni sentimento, dietro le giustificazioni e le distrazioni fornite da altre donne. Quando capita l’occasione che non mi sento di ricercare, non solitamente almeno, mi anniento, svanisco, allontanandomi un passo alla volta dal ricordo di chi ero e di cosa ho rappresentato per Lei. È come cercare di sfondare un edificio sfilando miseramente un mattone alla volta sperando che prima o poi quella sfilza di elementi murari sia grande abbastanza per permettermi di rifugiarmici dentro.
Ho già visto le conseguenze di un mattone sfilato male con Amber, dove ciò che avevo costruito ha minacciato di crollare.
Non ci parliamo quasi più, quelle volte in cui ci incrociamo nei corridoi io voglio solo scomparire e lei probabilmente vuole lo stesso per sé. Ho —abbiamo— sacrificato la nostra amicizia in favore di? Una notte di bugie, mie e sue; di sensi di colpa, i miei; di illusioni, le sue.
Ed ora? Ora tu sei qui che mandi a fanculo tutto quanto con quella mancanza di rispetto che ti contraddistingue. Tu cammini e calpesti e accartocci e distruggi gli altri perché osano mostrarti dove sei in difetto, perché nessuno si prostra a te e al tuo fantomatico dolore. Lo so cosa vuoi Rigos: vorresti che mi inginocchiassi, che mi cospargessi il capo di cenere, che ti invitassi a devastarmi o a concedermi la tua benevolenza, come quel cretino imbellettato e adorante che ti sei portata al ballo e che ti ha difesa dal mio essere villano con così tanta solerzia da risultare tenero, ma non l’ha fatto dai pugni di un altro squilibrato.
Non decidi un cazzo qui dentro. Dovrei prenderti e scacciarti come si fa con una vespa molesta, perché il tuo veleno è urticante come la tua presenza.
Ma c’è una cosa che non hai messo in conto.
Hai lanciato i dadi sperando di vincere la partita ma torniamo sempre e comunque in pareggio perché io, ai tuoi giochetti di potere, alla tua stupida e meschina rabbia non voglio cedere.
L’insofferenza che sento è tale da infiammarmi, il crescendo di una musica pericolosa al punto da mettere in difficoltà la mia lucidità e mi scorre nelle vene che pulsano sul braccio mentre ti stringo il collo con un ringhio. Potrei spezzartelo. Potrei stringere le dita così forte che, ne sono sicuro, dovresti attingere alla tua magia più profonda una volta per tutte perché serrerei la presa al punto da toglierti il fiato. Ma non lo faccio. La mano ti avvolge il collo e risale fino alla linea della mascella che le mie dita spingono per alzarti il viso, piegarti il capo e lasciarmi scoperta la porzione di carne che voglio colpire. Mi avvento sulla tua gola con la furia ora libera di esprimersi, ora che hai buttato giù la diga della tensione che finora mi ha trattenuto. Cerco volontariamente il punto in cui il tendine del collo si interseca con quello della spalla. Sei così bianca che il sangue che ancora stilla dalle mie labbra e ti sporca ha un che di osceno. Affondo i denti con la stessa collera con cui tu hai morso me e nel farlo stringo convulsamente il tuo polso e appoggio un ginocchio al muro per sostenermi.
Sei tu ad essere sotto il mio dominio, non io.

E piuttosto mordo più forte.

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Edited by Horus Sekhmeth - 25/7/2023, 14:08
 
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Giochi duro. Non fai sconti e va bene così. Mi riterrei offesa se provassi compassione e mi trattassi con condiscendenza. Così sì che riusciresti a mortificarmi. So, tuttavia, di non aver mai corso questo pericolo con te. Non perché mi hai sempre avuta troppo a cuore per farmi una cosa del genere, ma perché il poco tempo trascorso da che ci siamo rincontrati è bastato a dimostrarmi che mi consideri tua pari.
È dicotomico il sentimento che provo a riguardo. Non ho bisogno di una tua conferma per sapere che non ti sono inferiore —me lo dicono le evidenze; lo so per la conoscenza che ho di me. Allo stesso tempo, non do per scontato il pensiero che alimenta le tue azioni e frustrazioni: non tutti mi guarderebbero senza vedere subordinazione in una ragazza dall’aspetto fragile come il mio. La contrapposizione, ovviamente, non toglie vigore all’odio che fluttua nell’abbraccio del mio costato, istigandomi a fare di peggio.
Come solo tu sai fare, sussurra una voce melliflua.
Ti guardo portare le dita alle labbra, saggiare l’entità del mio attacco, pulire le tracce di sangue fresco. Nessun ombra di pentimento capeggia sul mio viso. Non potrei neppure ritenermi delusa dalla cocciutaggine con cui tenti di reprimere ogni accenno di espressione facciale quando tutto il tuo autocontrollo è smentito dallo sguardo che mi rivolgi e dallo scatto della tua mano.
Sei una messinscena da quattro soldi, te ne rendi conto, Sekhmeth?, ti canzono.
È del mio collo che ti impadronisci stavolta come se questo potesse bastare ad accorciare il guinzaglio, a tenermi buona e a farmi capire che arriveranno le botte se non dovessi stare a sentire. Le bestie però, Sekhmeth, specie quelle picchiate e affamate e lasciate all’addiaccio sin quasi a morire, non tollerano la prigionia. Si dibattono anche a costo della mutilazione. Quindi preparati a sferrare i tuoi colpi peggiori perché la lotta è solo all’inizio.
Mi ascolti, invero. A sorpresa, mi strappi un sussulto e un singulto che provo a soffocare mordendomi le labbra, senza tuttavia riuscire a trattenerlo. Ne attenuo il suono, mentre i tuoi denti affondano nella mia carne là dove l’hai scoperta —dov’è più debole. Il mio braccio scatta in direzione della tua spalla con finalità protettive e le dita stringono il tessuto della maglietta che indossi, non avendo cura di risparmiare dalla presa la pelle che sta sotto. È irrimediabile, però, cedere alla mollezza che segue il tuo assalto una volta che muscoli, tendini e nervi ne accusano la violenza.
Il mio viso si piega lateralmente, in modo del tutto involontario, quasi poggiandosi al tuo nel tentativo di sottrarsi alla morsa. La spalla si alza, mentre un brivido si diparte dal nodo che hai colpito per raggiungere le gambe e incontra centinaia di altri suoi affluenti. Piego appena le ginocchia. Il tuo corpo fatalmente si avvicina al mio. A differenza tua, però, io non nascondo nulla di quel che sto sentendo e lo faccio per scelta. Mi hai tacciato di codardia. Invece, pensa un po’, sono che io che sto giocando a carte scoperte adesso e tu che ti celi dietro l’apparenza dell’algido figlio di puttana che non sei altro. Vai a morire su quella stupida collina con la coda tra le gambe, tu che non sei nemmeno in grado di mostrare al mondo cosa provi senza prima sincerarti di aver legato dietro la testa i fili che tengono insieme la maschera.

«Ipocrita» sospiro, le labbra sfiorano appena il lobo dell’orecchio.

Una risata bassa ti raggiunge. Sa di scherno. Vuole significare quanto ancora tu abbia da imparare prima di riuscire a tenermi testa, prima di comprendere a fondo cosa implichi avere a che fare con una fiera che non ha mai —in tutta la sua vita— conosciuto limitazioni.
La mano che tengo stretta alla stoffa della maglia saetta in direzione dei tuoi capelli. M’insinuo tra le ciocche, le stringo tra le dita e tiro. Tiro come ho già fatto con la tua bocca, con la corda della tua pazienza. Non importa se, nel farlo, porterai via un pezzo di me e sarò costretta a serrare la mascella per sopportare il dolore dei tuoi denti che provano a strapparmi la carne. Devi guardarmi. Devo disporre dei tuoi occhi prima di castigarti per i peccati che hanno macchiato le tue labbra —“Scendi dal tuo cazzo di piedistallo”, “Hai rotto il cazzo” e non da ultimo “Non faccio l’elemosina agli accattoni”. Per tutto ciò che hai pensato di me e per ciò che hai appena fatto.

«Hai finito di giocare con le bambole?»

Lancio la provocazione di malagrazia dai miei occhi ai tuoi. Entrambi sappiamo a cosa mi riferisco, a chi mi riferisco. Non avrei mai pensato di spingermi fino a tanto, ma, ehi, hai deciso di dare fondo al tuo peggio. Non ti aspetterai mica la misericordia da me solo perché sono stata una protestante metodista. Perché, se così fosse, pur essendo io quella a stare sul piedistallo tra i due, la caduta dev’essere comunque stata rovinosa.
Do uno strattone all’indietro per esporre la tua gola alla mia vista e costringerti a guardare il soffitto. È quello il posto per il tuo sguardo. Sei un sognatore che ama illudersi e inventare storie con giocattoli inanimati da muovere a tuo piacimento. Allora, torna da lei. Vai, corri! Cosa cazzo perdi tempo a fare con me? Perché non impieghi tutta questa fatica per poterti beare di nuovo dei suoi “sì, padrone”? Lasciami in pace!

«Non sei in grado» scandisco, facendo leva con il polso ancora costretto in una pretesa di libertà.

Di cosa non sei in grado, vorrai sapere. Di sostenere questo gioco che gioco non è mai stato in fondo —se non per quella breve parentesi al parco. Di andare avanti, è evidente, ma questo lo sai già. Di dismettere i panni che hai indossato finora, quelli a tratti disumani e freddi di un automa dall’autodisciplina meccanica, e di tornare nel mondo degli esseri umani.

Sei una caricatura, Sekhmeth.
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Disclaimer: i pensieri espressi da Nieve nel post non coincidono con i pensieri della player.
 
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Non lo vedi, ma sto sorridendo di compiacimento. La carne tra i denti, il tuo mugolio strozzato, le ginocchia che ti cedono: mi danno la stessa ebrezza della caccia.
Il suono del collo spezzato di un topo nel mio becco, il suo ultimo squittio, le zampe che arpionano il suo morbido corpo senza vita. È la stessa eccitazione che sento quando il sangue cola sulle piume del collo. Affondo con più veemenza, mordo fino in fondo, voglio sentirti rantolare; ti schiaccio contro il muro, come faccio quando costringo al terreno un’aspide, incastrandola fra gli artigli.
Hai scelto la persona sbagliata, Rigos, e ancora non lo sai, per quanto tu possa vantarti dietro la mole inutile di parolacce, pugni, dispetti infantili: non puoi comandare tutti.
Ci provi a farlo, quando ti sento scivolare con le dita fra i miei capelli, so che stai tentando di eleggerti ancora come indomabile. Quel che ti riconosco è la tua tenacia, questo tuo inguaribile ottimismo nel credere di spuntarla sempre impunita; ti concedo anche l’ammissione dell’incredibile dono che hai di minare tutti i miei buoni propositi di rimanere lucido, razionale, composto. Accompagno lo strattone alla testa facendo resistenza solo per quell’istante che mi basta per lacerarti un lembo di pelle. Il sorriso beffardo non abbandona la mia bocca mentre cerchi disperatamente di dimostrare la tua supremazia. Quanto sei stupida: sarei io l’ipocrita?
Ti guardo rispecchiando il tuo stesso scherno, leccandomi il labbro sporco del tuo sangue che stilla laddove ho lasciato una ferita segnata dal morso dei denti.
Eppure mi costringi a strizzare un occhio per il fastidio cui mi sottoponi tirandomi la testa indietro. Sento i capelli sciogliersi dal nodo confusionario in cui li avevo costretti e ricadermi sulle spalle, disordinati.
Sì lo guardo il soffitto perché, a dirla tutta, c’è del divertimento in tutto questo: è come vedere qualcuno correre in tondo senza riuscire mai ad uscire dal vortice.
Le mie spalle sussultano per il riso che dapprima si unisce al tuo, poi accompagna le tue parole con disprezzo dapprima latente, poi così palese da risultare insopportabile al me di quella foto che ancora si copre il viso con le mani e si dispera chiedendosi come siamo potuti arrivare a questo punto.
« Non hai mai capito un cazzo. » Mormoro con rancore, mentre forzo il tuo movimento, a costo di aumentare il dolore dei capelli tirati, per guardarti di nuovo.
Non colgo, però, l’allusione che mi rivolgi, ed è una fortuna per te perché probabilmente avrei finito per spezzarti l’osso del collo. Se solo non lo avessi confuso con la tua sprezzante arroganza nell’ intimarmi a fare di peggio, forse avrei finito davvero per ammazzarti. Paradossalmente ci sono poche cose su cui non puoi sconfinare e quello che hai sfiorato è stato un confine che hai mancato di varcare solo per un soffio.
Del resto, a facilitare il mio fraintendimento è il fatto che mi fai lo stesso effetto di una di quelle bambole cui credi di non appartenere. Sei alla mia mercé, che tu lo voglia o no.
Mi spingo indietro liberandoti per un istante dalla mia morsa, facendoti assaporare la libertà che per mio gusto e desiderio decido di concederti.
Ad essere sinceri, potrebbe finire così. Potrei lanciarti lontano fuori dalla porta, scagliare la bacchetta dalla finestra augurandoti una buona vita.
Ormai, però, hai messo in moto qualcosa che nemmeno io riesco a frenare. Un desiderio primordiale di dominio che solo un istinto ferale come quello che possiedo io sente crescere visceralmente. Con l’unica differenza che tu non sei davvero una preda, non sei un coniglietto, benché il tuo aspetto possa dire il contrario. Sei una cacciatrice, come me, e in un territorio come quello che ci circonda, dove siamo costretti vicini, uno dei due deve vincere. E io non ho intenzione di cedere a te quel posto.
Ti abbasso il braccio ancora costretto nella mia mano e faccio perno sulla spalla opposta liberandomi con uno scatto improvviso –e non senza una smorfia di dolore– dalle tue dita d’arpia. Potrebbe essere il ritorno di quel valzer che abbiamo fatto solo pochi minuti fa, una piroetta che ti farebbe cadere fra le mie braccia, ma non è niente di tutto questo. Tiro il tuo braccio come fosse fatto di pezza, te lo porto dietro la schiena. Ti volto come si fa con un prigioniero e ti spintono contro la porta. Questa volta sono le mie dita a scivolare sulla tua nuca per premerti la guancia sulla superficie bianca dell’uscio che hai violato e attraversato senza alcuna considerazione. Osservo le ciocche soffici che ricoprono la mia mano come rivoli di un fiume di seta.
Sei tutto ciò che odio. Sei tutto ciò che non sopporto. Sei tutto ciò che in questo momento voglio distruggere e buttare già da quel cazzo di trono che ti sei costruita sopra la tomba di tutto l’affetto che provavo nei tuoi confronti. L’hai costruito proprio bene: quante persone con i loro sentimenti hai già buttato nella fornace per poter forgiare la tua corona? Se solo sapessi che non è altro che una scatola di cartone, quella dietro cui ti ripari.
« Pensavo fossi come un gatto randagio che soffia e graffia la mano che ha cercato di aiutarlo. »
Sussurro, il mio respiro è come una perla che scivola sul tuo orecchio a cui ho avvicinato le labbra, ancora rosse del sangue che sono riuscito a stillarti, in uno scambio equivalente col mio. Intreccio la tua lunga chioma fra le dita e tiro per piegarti la testa di lato, per permettermi di insinuarmi di fianco il tuo volto.
« Ma è una fortuna che tu non sia quel gatto, perché la paura può essere curata, con pazienza. » La mia voce è di miele mentre accosto la guancia alla tua con scherno. Sposto il mio peso, premo il busto sulla tua schiena: voglio sentire il tuo respiro vacillare.
La mia gamba si muove agile tra le tue, cerco il tuo piede destro col mio, poi con un colpo secco lo faccio scivolare di lato. Stringo la presa sul tuo braccio. È la perfetta esecuzione di un arresto.
« Tu fingi di voler essere aiutata, ma sei solo una ragazzina egoista. Non un animale ferito. » Mi volto verso di te, sfioro con le labbra il lobo dell’orecchio, i miei capelli solleticano la tua pelle.
« Sei patetica. » Mormoro, alzandoti le ciocche bianche, sinuose come spire e intrecciandole maggiormente alla mia mano, un gesto che potrebbe sembrare quasi dolce, come quando si pettina una bambola ma che, poi, cambia repentino quando, come una corda, li traggo a me con uno strattone. Il profumo di fiori che sento quando le onde delle tue ciocche si muovono mi fa ghignare: è così fresco e puro e anche se non ne individuo l’origine, sono sconvolto dall’ossimoro che rappresenta, perché è chiaro il sentore pungente che si nasconde dietro la prima nota di dolcezza. Anche in questo, sei incoerente.
Poi li lascio andare quando faccio scorrere la mano sulla tua gola e ti afferro il mento alzandolo verso l’alto.
« Non hai controllo su niente e nessuno. Nemmeno su te stessa. » Chioccio.

– You better bite your tongue before you roll the dice' –


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Edited by Horus Sekhmeth - 26/7/2023, 07:36
 
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«Sei stato tu a regalarmi la corona di spine. Io la sto solo indossando.»
Ti parlo con durezza, assoggettata contro la porta da una forza che non posso contrastare, non realisticamente, non con il corpo che madre natura mi ha donato. Li senti anche tu i rovi che ci circondano; le spine bucarci la pelle e infierire sui sentimenti? Erano così violenti anche quella sera, durante il ballo? Hai oltrepassato così tanti confini, Sekhmeth, senza aver chiesto il permesso; ed è probabile che io abbia fatto lo stesso. Residua la domanda centrale alla base del nostro agire: perché.
Rimango ferma. Il tuo corpo insiste contro il mio, tracotante. Pretende obbedienza, sottomissione, silenzio, resa. Mi domando se tu sappia già l’esito della richiesta e se, ciononostante, ti diverta a giocare con me; se non ci sia una sinistra forma di perversione oltre il ruolo che stai giocando. Ascolto il tuo respiro, lo accolgo quando si fonde con il mio. Predichi distanza e, poi, mi surclassi con la tua presenza.
Sei ovunque. Sei sempre qui. Con me. Perché.
Il braccio che hai arpionato è incastrato nella presa tra il tuo busto e la mia schiena. Sento la magia scalpitare dentro di me. Potrei radere al suolo il tuo appartamento, spingerti indietro e sbatterti contro il muro se solo concedessi al senso di costrizione lo spazio per emergere; al panico di travolgermi. Invece trattengo. Trattengo perché c’è qualcosa che devo dirti, parole che ho taciuto dietro il paravento delle mie omissioni. Non si cancella l’abitudine a fuggire in uno schiocco di dita, soltanto perché una persona arriva e ti chiede fiducia. È stato presuntuoso da parte tua.
Vieni nel Pensatoio, Sekhmeth. Guarda le mie giornate a Villa dei Gigli, le mie notti insonni, le mie urla riverberare nei corridoi e nelle stanze vuote della nuova dimora. Osservami spiare da lontano i nonni che ho lasciato indietro per non coinvolgerli nel dramma del mio litigio con Grimilde, gli occhi farsi lucidi, Tilly accarezzarmi il capo in preda ai singhiozzi. E prendi contezza del passare del tempo. Allora, forse capirai perché non ci riesco. Perché ti guardo e sento il bisogno di proteggermi. Perché la tua durezza genera durezza, repulsione, odio. Tu, da alleato, diventi minaccia.
«Ti deluderò di nuovo —il riso raggiunge la mia bocca, attraversando la gola che tieni tra le mie mani, la stessa che hai lacerato e sporcato— perché non mi sentirai contraddirti. Non dirò che non sono patetica, o un’accattona, o un’egoista. Fai del tuo peggio e ti darò ragione». La mia voce è pacata oltre il divertimento. La presa di coscienza è avvenuta molto tempo addietro. Decidere di isolarsi ha avuto un prezzo e io l’ho pagato con la consapevolezza di essere miserevole, di doverlo diventare più di quanto già non fossi per tenere al sicuro chi amo. Un sacrificio gradito a Te canterebbero in chiesa, in adorazione. «Io so chi sono. Non mi nascondo. Non ne vado neppure fiera, ma così è la vita».
Potrei darti tanto di quel materiale per prenderti gioco di me, Sekhmeth. Potrei raccontarti delle volte che ho rubato il cibo destinato ai randagi, mettendomi carponi sul ciglio delle strade, per non morire di fame. Oppure delle ruberie fatte con la mia balia. O ancora di quanto schifosamente puzzassi —sì, più della merda di gufo. Non lo faccio per dignità, per rispetto verso me stessa, perché non meriti nient’altro di me. Non c’è un briciolo di umanità in te per quanto le tue parole professino a gran voce le tue migliori intenzioni. I tuoi occhi sono vuoti e di buio colorano le emozioni che mi butti addosso. Sei davvero in grado di provarle? C’è qualcosa che stai tentando di dirmi? Perché non ci riesci?
«Tu puoi dire lo stesso dell’automa che sei diventato?»
Siamo così vicini che a stento riesco a distinguere dove finisce il tuo corpo e dove inizia il mio. E vorrei dire che la tua presenza mi è indifferente, ma mentirei. E della sincerità con me stessa ho fatto un voto. I miei pensieri si accavallano, ricordandomi che c’è stato altro al di là della rabbia; che per quanto io non voglia sentirlo sono esistiti un labirinto, uno sgabuzzino, una (o forse dovrei dire più d’una) ubriacatura, una collina vicino casa tua…
Sei ovunque. Sei sempre qui. Con me.
Sei l’unico che sia rimasto ostinatamente contro ogni mio tentativo di respingimento dopo più di due anni di isolamento. Perché non mi lasci in pace. Lasciami in pace.
«Quando guardi questa fredda versione di umanoide che sei diventato, incapace di esternare quello che ha dentro, ti riconosci?» Il quesito rimane sospeso. Il tuo viso accostato al mio gli attribuisce un’intimità nuova. Ma lo scherno nella mia voce, quello, non riesco a mascherarlo. «Come fai a chiedermi di avere fiducia in te, se quello che mi mostri è un estraneo?»
La mano libera raggiunge la superficie della porta. Faccio pressione. Voglio girarmi e guardarti in faccia prima di parlare ancora. Ho bisogno di incastrarli ai miei, quegli occhi d’acciaio che mi hanno rincorsa e respinta con inflessibilità. A costo di spezzarmi il braccio, a costo di sentirti opporre resistenza. Io farò lo stesso; mi ostinerò finché non l’avrò avuta vinta. Finché non avrò eseguito un’altra piroetta e sarò tornata con le spalle al muro, fronteggiandoti.
«Cosa vuoi da me ora?»

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Edited by ~ Nieve Rigos - 27/7/2023, 17:23
 
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“Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.”
Manuale di Robotica, 56ª Edizione - 2058 d.C – Isaac Asimov

Ho vinto.
Ho vinto?
L’ammissione, l’improvvisa, silenziosa resa mi lasciano perplesso. Sarebbe stato meglio se mi avessi tirato un calcio. Avrei preferito persino che mi avessi lacerato l’altra gamba.
Mi chiedo se io abbia davvero vinto questa battaglia —anche se, certo, non la guerra, questo lo so.
Le tue parole mi colpiscono dritto al cuore e non mi rendo conto di aver trattenuto il respiro. È possibile che te ne sia resa conto, perché così vicino mi è impossibile dissimulare.
“Tu puoi dire lo stesso dell’automa che sei diventato?”
L’hai appena pronunciato eppure me lo sento rimbombare nella testa come se fossero mesi, anni in cui ogni giorno, prima di addormentarmi, mi ripeta tutto questo.
Mi riconosco in ciò che vedo allo specchio?
Me lo chiedo davvero e mi chiedo anche se io sia consapevole di tutto questo. Senza volerlo mi lascio sfuggire un gesto in netto contrasto con la violenza che ti ho riservato finora: scivolo con la testa dalla tua guancia che finora ho toccato con crudeltà e appoggio la fronte sulla tua spalla sorridendo amaramente, nascosto dal tuo sguardo innaturale, dal tuo giudizio imperante. Dura solo pochi secondi, il tempo di ritrovare il ritmo del respiro.
Io non posso cedere. Io non devo lasciarmi trascinare dalla corrente dei miei sentimenti. Sono pericolosi, sono una pozione troppo disgustosa da mandare giù.
Cosa succederebbe? Non voglio saperlo.
Perderei tutto e che senso avrebbe avuto abbandonare le cose –le persone– a cui tenevo alle mie spalle?
Ti concedo, però, la liberazione dalla mia morsa. Mi sposto indietro, ti lascio andare il braccio: la mia rabbia è ancora in bilico, come quando ti tuffi in acqua e vai in profondità. Quando sei al punto di non ritorno ti fermi solo quell’attimo, quel millesimo di secondo in cui pensi “non ce la faccio, mi manca l’aria, devo risalire”. Ecco, Nieve, tu mi hai fermato proprio lì.
Sostengo il tuo sguardo, ma tu vedrai –no, coglierai– un lampo, un’increspatura che rende i miei occhi titubanti, prima che io indurisca di nuovo il metallo di cui mi credi d’esser fatto.
Ti guardo con le mani lungo i fianchi, quasi non fosse mai esistito davvero un contatto come quello avvenuto poco fa. Perché ora devi fare così?
Arrabbiati, Nieve, fatti odiare, cazzo, tirami un altro pugno. Alimentami in quella che, mi rendo conto, è stata solo una caccia generata dal mio istinto predatorio, come se fossi davvero il falco che sono, metà del mio cuore e della mia anima: ogni mio gesto è stato comandato solo ed unicamente da quell’eccitazione perversa che solo il desiderio di uccidere mi dà. Ed eccoti qui, calma, sicura di ciò che sei.
Prima la polaroid –non ti lascio solo–, poi l’accenno al ballo delle Rose –non ti lascio solo–, poi la rabbia, l’odio, il disgusto, l’insopportabile desiderio di prevaricare su di me –non ti lascio solo.
Devi farti odiare, Rigos, devi.
Sento nuovamente montarmi l’ira, l’ultima bolla d’aria prima di decidere di scendere più giù, per sfiorare il fondale che vedo davanti a me.
Non sei come l’Abisso a cui mi sono abituato –come il Suo–, non sei affatto acqua nera, impossibile da penetrare. Sei torbida, volubile a seconda delle correnti che ti attraversano.
Ma proprio come non vedo una conchiglia sotto la superficie della sabbia, allo stesso modo vado più a fondo per vedere se davvero ho visto quel bagliore perlaceo nascosto lì sotto.
Io, però, non voglio cedere perché ti ho già concesso troppo. Ti ho concesso di ricordare.
Poso il palmo sulla parete, sfiorandoti appena all’altezza del viso, mi sostengo perché non voglio cadere. Perché è una trappola quella in cui stai cercando di cacciarmi con questa improvvisa, spaventosa arresa, vero?

« Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno. »
Tu non sai a cosa mi riferisco: non sai cos’è una visiera (e già mi sorprende che tu sappia cos’è un automa o un umanoide), cosa ne puoi mai sapere di Isaac Asimov?
Eppure pronuncio atono la Prima Legge della Robotica come se tu potessi comprendere l’antitesi che tutto ciò rappresenta con me.
Sorrido con mestizia.
« Sono diventato un automa perché era… » Corrugo le sopracciglia e mi correggo « È l’unico modo che ho trovato per sopravvivere. »
Ammetto, mio malgrado, ma senza nascondere rancore nel tono della mia voce che ha un tremito che spero tu non colga. Mi sforzo di assumere il mio solito cipiglio, ma ammetterlo ha un suono stonato, uno stridio cui non ero pronto.
Tu che ne sai.
Ormai ho capito che il tuo è un passato orrido, che il mio in confronto, per quanto costrittivo, è stato cotone contro spine… come quella corona. Questo è un altro terribile colpo che mi assesti alla bocca dello stomaco.
Tu, però, che ne sai di me? Che ne sai delle lacrime di mia madre, dei suoi singhiozzi?
Che ne sai delle lacrime di Emily, del suo odio che ho implorato tanto come il suo amore?

Che ne sai della sofferenza che ho provato per mio padre?
Che ne sai del dolore che ho provato fin dalla scomparsa allo scoprire che lui è sempre stato qui, quel maledetto figlio di puttana.

Che ne sai della paura di sapere di essere un assassino, della necessità di aver dovuto processare questa natura, proprio come il cervello positronico di un androide, per poterlo accettare?
Che ne sai del terrore che ho provato quella notte?
Che ne sai della cicatrice che mi taglia in due, di questa Runa che io non ho mai voluto ma che continua a riempirmi il corpo del suo Vuoto?

Che ne sai della paura che provo al pensiero di non sapere cosa troverò quando andrò alla piramide di Djoser che ho visto nel mio sogno?
Lord Voldemort mi prenderà? O sarò ucciso prima?
Io devo sopravvivere. Devo.

“Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché la salvaguardia di essa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.”
Manuale di Robotica, 56ª Edizione - 2058 d.C – Isaac Asimov

Come il fatto che un robot non può nuocere ad un essere umano, così io ho fatto l’opposto. Cominciando da me stesso, aggiungo con fastidiosa e detestabile autocommiserazione. Ti osservo con un misto di emozioni che no, Nieve, non so esprimere perché io, paradossalmente, sono fatto di puro istinto che costantemente cozza con quella natura razionale in cui mi sono costretto per così tanti anni. Rimango in silenzio, facendo saettare lo sguardo dal tuo viso al tuo collo dove il morso spicca rosso tanto quanto la voglia sul mio occhio sinistro.
« Tu l’hai vista, la mia parte umana.» Arriccio il naso quasi con disgusto e il mio viso si accartoccia di furia, di dispiacere, di delusione.
Non ti lascio solo.
E l’hai fatto, non mi hai lasciato solo, ma poi sei fuggita.
Batto il pugno sulla parete della porta, colmo di frustrazione e ti do il mio profilo. Guardo il muro alla mia destra come se questo potesse darmi le risposte che cerchiamo entrambi.
« È in quello che sono ora in cui mi riconosco allo specchio. Ognuno ha il suo modo di andare avanti. Tu hai il tuo, da randagia furente, io ho il mio. » Bugiardo. « Sì, sono un androide. » Me ne convinco, me ne sono convinto per tutti questi anni senza nemmeno rendermi conto di che sacrificio abbia comportato. Appoggio anche l’altra mano al muro e abbasso la testa. I miei capelli scivolano morbidi attorno e sul mio viso, oscurandomi per un secondo come carta fra le fiamme. Le stesse che sento dentro.
« Ma per quanto voglio esserlo con te, Rigos, tu mi spingi continuamente al limite. Da un estremo all’altro. » Eccomi di nuovo a fronteggiarti. Ho ammesso troppo, mi hai istigato sul bordo della mia umanità. E allora torno sulla tua domanda, arrampicandomi su questo maledetto, odioso ciglio. Ma scivolo, merda, scivolo. 
Perché non hai continuato a farti odiare? Perché sei riuscita a svincolarti di nuovo dai miei artigli?
« Cosa voglio da te? » Te lo chiedo come se in realtà lo chiedessi a me stesso.
Voglio di nuovo la mia amica. Per quanto tempo vuoi nascondere la tua vera faccia?
Eppure non te lo ripeto e questa volta non per sembrare patetico, ma perché non riesco a sopportare l’immagine che mi hai descritto l’ultima volta, della fine che ha fatto quella Nieve. Stringo gli occhi mentre un lungo brivido mi stritola la spina dorsale pensando a ciò che quella semplice frase mi ha rimandato.
Voglio dissimulare, non voglio più che vedi.

Ricarica il meccanismo, Horus, gira la chiave, spegni i tuoi occhi d'umanità, accendili solo di rabbia.

Una mano ti afferra una ciocca di capelli bianchi e proprio come ho fatto quando li tiravo, me li faccio passare tra le dita, studiando il riflesso. Te l’ho mai detto che di te sono sempre stata la cosa che più mi piaceva? Sicuramente da ubriaco devo averti detto qualche cretinata in proposito. Ora, però, abbiamo fatto e detto troppo per poter tornare indietro.
« Non lo so. » Mormoro, meccanico. Solo fino a qualche secondo fa ti avrei gridato di andartene o di cedere alla mia supremazia.
Mi sporgo in avanti e mi avvicino al tuo viso nuovamente per impedirti di scappare.
« E tu cosa vuoi che faccia quest’automa? » Oltre al restituirti la bacchetta, penso.
Alzo gli occhi al colmo di questa terribile, orribile balia.
Sommergimi di nuovo, fammi mancare l’aria, fammi stringere la sabbia con rabbia per scoprire che, lì sotto, non c’è nessuna conchiglia.

– If you're gonna take me tonight, I will return as a soldier –


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Edited by Horus Sekhmeth - 27/7/2023, 17:50
 
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Sei ovunque. Sei sempre qui. Con me. Perché. Ancora.
Un rumore d’ingranaggi mi riempie occhi e orecchie. Non ti ho ancora visto, eppure lo avverto nello spostamento di particelle —il cambiamento. Nel modo in cui il tuo sterno smette di contrarsi e la tua fronte scivola sulla mia spalla, delicatamente.
Crick crack.
Sta succedendo, non è così? Il meccanismo si è inceppato perché ho trovato il punto in cui si celava la sua debolezza. Sembra assurdo che, dopo tutto quel battersi e urlarsi contro, è stata la calma ad aver fatto la differenza; ad avermi aiutato a bilanciare una situazione altrimenti irrecuperabile se non con un uso di violenza portentoso. Se non al costo di tutto —tutto— quello che siamo stati.
“Vieni, Nieve! Guarda cos’ho trovato a casa di un cliente di cui curo il giardino!”
“Un manichino per esercitarsi con gli incantesimi?”
“No. Questo è un automa, un oggetto babbano. Guarda che belli questi ingranaggi!”

La voce di nonno Gaspare mozza il mio di respiro, stavolta. Appoggio la fronte alla porta e sospiro, sfinita. È solo un attimo, prima che l’ostinazione mi induca a girare su me stessa. Tu mi lasci andare, io mi assicuro che le cose rimangano tali.
Dio, quanto è bella la libertà! È tutto quello cui riesco a pensare mentre fai un passo indietro. Così, porto le mani ai capelli, lascio le dita affondare nella chioma leonina, alzo lo sguardo al soffitto e traggo un sospiro. Sugli stucchi neutri dei tuo appartamento, vedo le foreste immense d’Islanda. Sto correndo a perdifiato tra quegli alberi. Fa freddo, freddissimo, ma io continuo a volare sulle gambe nella natura incontaminata. Sono mia.
Umetto le labbra, torno a guardarti e rilasso le spalle. Sei un capolavoro di umanità, Horus. Dietro tutta la ferraglia, riesco a riconoscerti finalmente e la sensazione di paura che ho provato finora si affievolisce. Si trasforma. Sei e sarai sempre una minaccia per questa Nieve con il carrozzone di sentimenti che ti ostini a portarti appresso. È un controsenso che tu ne possa provare tanti e, allo stesso tempo, diventare metallico e distaccato fin quasi all’insensibilità; e che a farti quest’effetto sia la stessa identica persona.
Ascolto la piccola pietra rotolare nei tuoi occhi dalla cima della montagna dove hai deciso di raccoglierti —per sopravvivere, dici. E io ti capisco, ti rispetto. Cazzo! Ti sono serviti due minuti e qualche scricchiolio per farmi passare dall’odio alla comprensione. Non posso concederti altro tempo, lo so. Perderei il vantaggio che mi sono assicurata.
Sono sul punto di parlare, ma tu mi precedi e… le mie labbra tornano a congiungersi. Non usi nessun velo per smorzare il tono della tua accusa e riportarmi ai confini dell’autostrada. Penserai che io abbia dimenticato l’episodio di Eugene, che per me sia stata una scusa per lasciarti indietro, che non abbia significato nulla. È un bene che sia così. Se sapessi le volte che il ricordo di te è tornato a bussare alle porte della mia fronte, chiedendomi udienza, non potresti fare a meno che ripeterti —“lo sapevo che eri ancora lì sotto quella corazza da dura”. Allora io vorrei prenderti a pugni, sicuramente lo farei e ricominceremmo daccapo. Non sei stanco? Cos’è che non mi perdoni di quel giorno? Dimmelo. Dimmi cos’ho sbagliato.
Tu non ci riesci, però. Come me vai avanti ad omissioni. Va bene, non proprio come me. Tu sei più bravo a parlare di quel che senti, dei vortici che si agitano dentro di te. Riesci a dargli una forma che fa sembrare semplice confidarsi. Io, invece… A me le parole si fermano sul ciglio delle labbra. Mi fanno paura. Hanno un’eco che sembra espandersi nel tempo, durare per sempre, ingigantire il significato dei gesti, immobilizzarlo nelle ere. Come quando ci siamo promessi di diventare amici, ci ho creduto e il desiderio non è diventato realtà.
Osservo le tue braccia piazzarsi ai lati dei mio viso. Con gli occhi li raccolgo uno a uno, gli ingranaggi che stanno venendo giù e che non voglio cadano a terra. Perché ti ho a cuore anche quando non dovrei; anche quando non vorrei? Ringrazio il momento di tregua che ci concedi, abbassando il capo e nascondendoci reciprocamente. Dietro le tue spalle, fatta eccezione per il quadro rovinato al suolo, l’appartamento è immacolato. Siamo noi ad essere sottosopra, reciprocamente colpevoli di vandalismo l’una ai danni dell’altro. Di violenza, di furto, di crimini d’odio e barbarie.
“Ma per quanto voglio esserlo con te, Rigos, tu mi spingi continuamente al limite. Da un estremo all’altro.”
Perché. Vorrei chiederti perché. Perché non ci riesci, perché non mi volti le spalle come altri hanno fatto prima di te. Perché non “io ci ho provato”. Perché sei così maledettamente testardo. Perché respingerti dev’essere un impegno da fanteria costantemente schierata sul campo di battaglia. Perché sei così insistente, persistente, infestante.
Sei ovunque. Sei sempre qui. Con me. Perché. Ancora.
La tua mano scatta in direzione del mio viso. Istintivamente il mio braccio si alza per bloccare il tuo. Sei stato violento con me e, prima di te, altri hanno fatto di peggio. Mi fermo quando capisco che il tuo gesto, stavolta, non nasconde un fine tirannico. È il mio di movimento a rimanere sospeso e, con esso, pensieri e deduzioni logiche.
Un’altra contrazione spaziotemporale, la stessa di quel giorno in autostrada prima che mi alzassi per darti un pugno in faccia. Lo scontro dell’ultimo quarto d’ora passa davanti ai miei occhi al rallentatore, gettando luce là dove l’avversione aveva sparso ombra.
Ti avvicini ancora al mio viso. Lo siamo meno di prima, Umanoide, ma il tuo calore adesso lo sento. Mi rigiri la domanda e mi scappa un sorriso. Il divertimento è gentile, nessuna nota di derisione a imbrattarne la morbidezza. È sempre la stessa storia con te. Proprio non ce la fai a rispondere e basta.
Il braccio che ha sospeso il movimento sale, accompagna la mano destra finché non si deposita sulla tua guancia, cingendoti il viso. Sul palmo, realizzo, il tocco della barba è piacevole.
Cosa voglio io da te? Che domanda del cazzo, Sekhmeth! Dall’automa, vorrei che la smettesse di fare il coglione con i suoi modi di merda perché è capace di farmi incazzare come nessun altro. Dalla persona che ho di fronte, io non…
Dio, Nieve, ammettilo! Almeno qui, nella tua testa, ammettilo! Smettila di fare la codarda e dillo!
Vorrei che restasse, va bene? Solo per un minuto. Solo per un attimo. Per poi sparire di nuovo.
Vorrei concedermi il lusso di farti rimanere e quello di non fuggire, ma non posso dirtelo. Torneresti a parlare della vecchia Nieve, dell’amica che hai perduto, della persona che sono stata. Io non posso darti questo. Non posso darti le emozioni. Non posso restituirti quello che ho smarrito lungo la via. Non sono Dio. Quello che posso darti è…
Il mio sguardo si intensifica nel tuo. Una liquidità incandescente scivola dalla pupilla all’iride. Se fossimo in una situazione di pericolo, io sarei quella che si lancia nella mischia e tu quello che pensa al modo per salvare il salvabile, me compresa. Io prendo l’iniziativa, tu ti assicuri di battere l’ultimo colpo, quello vincente se possibile. Tranne con me, s’intende.
Inclino leggermente il viso e ti raggiungo a metà strada. Stavolta ti bacio davvero, nessun secondo fine. E il mio corpo si protende verso il tuo morbidamente, chiedendo accoglienza. Il tocco sulla tua bocca è caldo. La pressione dei polpastrelli sulla nuca, tra le tue ciocche, gentile.
Questo posso farlo. È l’unico modo in cui posso dirti che voglio rimanere —e che voglio tu rimanga— senza usare le parole. È tutto quello che posso darti di me, il mio corpo, lasciando indietro le emozioni.
Vorrei essere buona di nuovo, la Nieve che manca a tutti, ma le sirene nella mia testa me lo impediscono. Impazzirei se ti concedessi di entrare, di capire, di conoscermi. Lo faccio per il tuo bene, ma anche per il mio. Tu non hai bisogno di me d’altra parte, te lo assicuro. E sono sicura che in fondo lo sai anche tu. Quello che sta succedendo è solo un errore nella trama del tempo, un imprevisto.
E tu mi respingerai, vero? Ti prego. Mandami via.

i will win, not immediately but definitively


Edited by ~ Nieve Rigos - 27/7/2023, 21:49
 
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view post Posted on 29/7/2023, 16:30
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Mi paralizzo per la sorpresa perché tutto ciò è, se possibile, ancora più inaspettato di qualsiasi azione noi abbiamo mai fatto, a partire dal giorno al Ministero.
Vuoi far crollare tutto non è così? È questo che vuoi che faccia l’automa? Il punto è, Nieve, che io sono contrario a qualsiasi Legge.
Non tutelo più nessuno, o meglio, non nel senso più buonista del termine. Preferisco ferire e lasciare indietro, perché sono incapace di spiegare i motivi dietro le mie scelte. Se lo faccio, potrei sentire e pormi obiezioni, le mie teorie potrebbero perdere consistenza e io vacillerei. Non mi posso permettere di farlo. Devo rimanere l’Umanoide che sono diventato.

Forse dovrei lasciarti scappare da qui, ridarti la bacchetta accompagnandola con una risposta piccata. Versarmi un bicchiere di vino elfico e fingere che tutto quanto non sia accaduto.
Ma tu taci, mi guardi con quegli occhi liquidi e il ghiaccio che finora li ha congelati sul tuo viso sembra essersi sciolto nel calore di un respiro. Quello che sto per sentire schiudersi sulla mia bocca.
Non me lo aspetto, non sono pronto, non dopo tutto quello che ci siamo detti—che ci siamo fatti. Quando mi baci, realmente, senza la violenza a farla da padrona, la mia testa non scatta indietro: si immobilizza. La tua mano non schernisce, si adagia sulla mia guancia, sembra quasi fatta apposta per posarvisi.
Hai sempre avuto questo vizio –che oggi ho fatto mio– di azzerare le distanze e prenderti confidenze. La prima volta fu quando ero riverso a terra, con la gamba zuppa di sangue e tu prendevi il mio mento augurandomi di sfruttare la tua storia per farmi più ragazze possibili. Ci sarebbe davvero da ridere anche a pensare, parallelamente, a cosa ti ho detto appena sei entrata come una ladra, un topo, in casa mia. Altro che ratto.
“Neanche se mi pagassero.”
Che falso. Non è questo l’effetto che mi fai, ora; non lo era nemmeno quando cercavo di vincere la lotta al dominio.
Ne ero però genuinamente convinto, ma poi hai pensato bene di farmi perdere il controllo al punto che, nel momento in cui ti ho inquadrato come parte della caccia, alla fine io abbia finito per provare qualcosa nel saperti assoggettata.
Ma ora che qualcosa è cambiato in te, ora che ti sento protesa verso di me, questo mi sembra davvero uno scherzo del destino; uno scherzo del cazzo. Il problema, però, è che siamo solo noi due idioti i fautori di questo grande, immenso casino, questa catastrofica cazzata.

È chiaro, quindi, cosa vuoi che io faccia: lo dice tutto il tuo corpo, la tua bocca che cerca avidamente la mia. Quel che mi sfugge è cosa vuoi fare tu? Terminare la nostra amicizia, recidendo quel filo, quell’affinità trasformandola in una di un altro tipo, probabilmente.
Una volta avrei avuto scrupoli: ti avrei respinta. Non avrei ceduto alla semplice carnalità, riconoscendo in me una morale, un principio, una coerenza.
Io lo so che questo è il preludio a qualcos’altro perché questo bacio non ha nulla di puro, né da parte mia, né dalla tua. D’altronde sono diventato molto bravo a capire il momento in cui sto per fare un errore grosso come un meteorite e a mettermici proprio sotto a braccia aperte.
Nella mia esitazione, in quei secondi in cui ti sento scivolare con le dita tra i miei capelli, sono proprio lì a urlare alla sua scia: distruggi.

Schiudo le labbra: ti assecondo, accetto il tuo bacio, accolgo la tua lingua esitante. Poi la cerco con studiata lentezza, con impellente necessità. Non ho più il sostegno del muro, dove ho vacillato per un momento. Stringo i tuoi fianchi, ti avvicino a me con la stessa facilità con cui solo poco fa ho stretto la tua gola fra le mie dita. Così fragile, come una stalattite, ma altrettanto pungente.
Col respiro spezzato ti abbandono per un istante, il petto si abbassa e si alza ritmico, appena accelerato dalla frenesia che sento animarmi. Ti guardo con un’intensità che, in fondo, può essere fremente come quella della rabbia. Ha solo un brillio diverso tra le mie iridi d’argento.
Fermati, Horus, puoi ancora spostarti, mi dico: rimetti in moto gli ingranaggi.
Ma sono sempre lì sotto, non mi copro più nemmeno la testa.
Sono io, stavolta, a cercarti. Le mie dita si stringono sulla tua maglia e accolgo anche il tuo corpo protendendomi in avanti, ti do quel permesso che finora non ti avrei mai e poi mai concesso e poi mi prendo con arroganza il tuo. Vale lo stesso per te vero? Perché tu non avevi messo in conto che potessi desiderarmi con la stessa mia urgenza.
Con troppa lucidità penso che è la giusta punizione per entrambi. Potrebbe essere il nostro modo di annullarci, di sfogare rabbia e rancore e odio cosí, cedendo ad una violenza animalesca che però entrambi vogliamo e desideriamo che possa attraversarci i corpi, un castigo per ciò che eravamo e per dove siamo arrivati.

Non voglio stare fermo, mi fa impazzire, mi fa pensare. È per questo che cedo a modi rudi, come ormai è parte della mia natura. Avanzo, la tua schiena è di nuovo addossata al muro, lo sento mentre le spalle sbattono sulla porta per l’urto. Ti bacio senza alcuna traccia di castità, se mai ci fosse mai stata. Non c’è un fine romantico, non c’è amore in tutto questo, lo so e mi sta bene.
Ti assaggio e ti assaporo, quasi fingendo che non sia davvero tu, che sia davvero un’altra Nieve che io non conosco, che sto scoprendo solo ora, come se ci fossimo incontrati in un locale dove abbiamo scoperto la nostra attrazione sfiorando lo stesso bicchiere con le dita.
Ho bisogno di annullarmi.
Prendo il labbro fra i denti, lo mordo, lo sfioro con la lingua, e poi lo riprendo come fossi indeciso sul da farsi. Non sono indeciso proprio per niente mentre afferro la tua gamba e la alzo, portandomela al fianco affinché mi accolga.
Stringo gli occhi e accetto l’impatto del meteorite.

– You keep me on the edge of my seat –


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Edited by Horus Sekhmeth - 29/7/2023, 18:12
 
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