Ciondolava senza meta in mezzo a quello che sembrava essere il principio di un'apocalisse annunciata. Alla fine qualcuno c'era finito davvero nei cespugli, ma era troppo alterato per capire se ci fosse finito a vomitare o se fosse in dolce compagnia. Ripercorrendo i ricordi a ritroso, le istanze di studenti nei cespugli sbucavano dai meandri di un quarto d'ora di vagabondaggio come funghi. Andava di moda, si disse, lasciare qualcosa nella vegetazione: il cuore o la dignità, in base al mood della serata.
Pensò, raccogliendo quel poco di lucidità che gli rimaneva, che sarebbe stato difficile trovare la professoressa di pozioni nel bel mezzo della rigogliosa vegetazione di Hogwarts e che sarebbe stato piú probabile – per deformazione professionale, supponeva – trovarci quella di Erbologia.
Barcollava, occultato, da ben piú di un quarto d'ora, ma quella fetta di orologio era stata spesa a cercarla in un perimetro verdeggiante nel quale ne percepiva l'assenza. Rinunciò, mentre qualche Lazzaro improvvisato si risollevava da un groviglio di foglie e malessere come nulla.
Il respiro corto, tagliato a spicchi dalle sostanze. I continui urti di chi non lo vedeva si facevano beffe della lentezza dei suoi riflessi. Qualche spallata di troppo, il terreno sotto ai piedi che sembrava sciogliersi sotto il peso dei suoi passi. Leopoldo. Dov'era Leopoldo? Anche lui era saltato nei cespugli a darsi alla pazza gioia, abbandonandolo al suo destino. Si sentiva solo.
Traballava un passo alla volta, usando ogni superficie verticale come una stampella per reggersi in piedi. Che disastro. Si sentiva tanto decadente, quanta era la decadenza succeduta ad una serata meravigliosa, come da protocollo. Finiva sempre così quando ci si divertiva, qualcuno per forza di cose doveva rompersi e trasformarsi in una rottura, almeno per gli altri. Lui era piombato nel baratro indecoroso che accoglieva i superstiti di ogni eccesso.
Fece una lunga passeggiata, ondulante, con la vista appannata a sbeffeggiarlo per le sue scelte di vita discutibili. Più il battito del suo cuore rallentava, più il panorama iniziava a perdere i propri dettagli ed i propri confini. Luci e forme. Un quadro impressionista che gli dava l'impressione di essere… beh, un deficiente. Avrebbe riso se avesse avuto abbastanza fiato nei polmoni. Invece continuò a marciare, e avrebbe continuato – si era promesso – senza mai fermarsi. Non finché non avesse incontrato Adeline.
Così si lasciò alle spalle il giardino, l'atrio, il giardino e l'atrio di nuovo. Poi qualche scala che non seppe dire dove portasse e a cui cambiare faceva sicuramente piacere, ma un po' meno dopo la promessa di essere demolita per la frustrazione. Il corrimano lasciava che le mani corressero, mentre lui scavalcava i gradini a passo d'uomo, ritrovandosi sbilanciato in avanti.
Era come se fosse lì – lì dove, poi? – ed allo stesso tempo come se non ci fosse. Scendeva e saliva come un'anima in pena. Imboccava questa o quell'altra scorciatoia. Questo o quell'altro corridoio. Questo o quell'altro passaggio. Tutto, celato agli occhi di chi aveva la sfortuna di cavarsela peggio di lui con la magia, di quadri e fantasmi vari e di tutte le cose animate che altrimenti gli sarebbero state d'aiuto.
Si lasciò il giardino alle spalle, non sapendo come ci fosse tornato e si lasciò alle spalle anche qualche altra scalinata. Era dal primo anno che non si perdeva ed ora si era smarrito, letteralmente, sì, ma anche sul piano metaforico. Che piano era, quello metaforico? Il terzo, forse.
Si era ricordato di essere entrato nella stanza delle necessità, perché necessitava di un sorso d'acqua, di lavarsi mani e viso, ma non si ricordava quando, si era solo assicurato di non lasciarsi testimoni alle spalle, perché nessuno lo vedesse idratarsi.
Poi si era lasciato il giardino alle spalle e di nuovo qualche gradino, qualche Aurispico forse, qualche disgraziato che si era accasciato prima di arrivare alla sua sala comune per riposare, nel modo che si confaceva ad un cristiano che voleva dormire in santa pace.
Quando trovò la professoressa Walker, non seppe dire dove l'aveva trovata, né quando. Ma sapeva di averla trovata perché così gli avevano detto le persone nelle pareti, il vento fresco, la pennellata d'azzurro del suo vestito e il gouache luminoso dei suoi capelli biondi. E quei due puntini, come il blu delle tempere morbide con cui si dipingevano le onde frizzanti e il verde dei cespugli che ospitavano piú alunni di quanti ne ospitassero i dormitori. Era notte? Era giorno? Era passata mezz'ora o era già mattino. Non capiva più nulla.
«Adeline!» La salutò per richiamare la sua attenzione, con un sorriso gioioso e gli occhi entusiasti. Il volume della voce basso, per non fare troppo baccano ed il tono un tantinello vivace. Respirava piano, seguendo il ritmo di un cuore che batteva lento e costante. Da qualche parte si era appoggiato con disinvoltura, per nascondere che non riuscisse a starsene sulle proprie gambe senza un supporto. Sentiva la mano accarezzare i mattoni ruvidi e i mattoni ruvidi che gli davano dello sciocchino, accerezzandogli la mano a loro volta.
«Stai bene?» Le domandò. Come non fosse stato lui quello in punto di morte.
Morire era una bella seccatura, specie quando ti rovinavano le aspettative. Gli doveva scivolare addosso una doccia, o forse era lui che doveva scivolare in una doccia. Solo così avrebbe potuto lasciarci le penne, stando a quanto gli aveva detto una zingara una manciata d'anni addietro. Si domandava se fosse anche lei nei cespugli; ormai il dubbio l'aveva ciccato in pieno e sentiva di aver bisogno glielo ripetesse. Era davvero terribile quando ti rimaneva una certezza nella vita e poi, tutto d'un tratto, questa veniva a mancare. Terribile.