F e r n w e h,

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view post Posted on 25/9/2023, 23:27
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Esiste una parola in coreano – 눈길 – che si pronuncia ‘nunkil’. È composta da 눈 (‘nun’, che vuol dire ‘occhio’, ma anche ‘neve’) e 길 (‘kil’, che significa ‘strada, sentiero’). La polisemia dei termini da cui è costituita riecheggia anche in 눈길, che finisce quindi per indicare al tempo stesso ‘un sentiero innevato’ e ‘il sentiero degli occhi’, ovvero ‘lo sguardo’, ‘l’attenzione’. This post is exactly about that. And also kinda about Calvino’s “Il sentiero dei nidi di ragno”, ma nel senso



broken mirrors

contest a tema • settembre 2023 • sentiero

ambientazionevilla dei genitori, prima di Hogwarts (8 anni)




Don't pay attention to the things that are thrown away
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aru sa di star incedendo con aria regale. Il fruscio ritmato e impalpabile del suo abito ne è testimone. Il portamento leggiadro con cui si sta muovendo ora spezzerebbe il cuore a qualunque ballerina. Haru lo sa senza alcuna ombra di dubbio. Lo sa, perché è quello il suo dovere. Lo sa, perché altrimenti sarebbe già stata punita. Di nuovo. Non trae alcuna soddisfazione dal saperlo. È impossibile non saperlo, perché la sala in cui sta camminando è inondata di luce tanto forte e fredda da ferirle gli occhi e da rendere difficile individuarne la sorgente. Specchi senza fine tappezzano le pareti, restituendole una miriade infinita e labirintica di riflessi di sé che Haru lotta con ogni fibra del suo essere per non mettere a fuoco. Se levasse lo sguardo allucinato verso l’altissimo soffitto, incontrerebbe ancora un altro specchio. Haru lo sa. Non c’è via di scampo. La Sala degli Specchi è un incubo asfittico. È il cuore pulsante del più vasto panopticon che è la villa londinese di proprietà dei suoi genitori adottivi. Quella stessa villa che, per quanto si sia sforzata per anni, Haru non è mai riuscita a chiamare casa.

I piedi nudi calcano un tappeto bianco che serpeggia sottile e glaciale per tutto il perimetro della Sala, mentre il capo bilancia una ciotola di finissima porcellana in precario equilibrio. Ad ogni passo, Haru avverte le pericolose oscillazioni del liquido cupo come sangue venoso di cui la ciotola è ricolma. L’odore acre e impossibile da ignorare dell’estratto di bacche d’inchiostro funge da terrificante monito del fatto che una singola stilla di quel fluido venefico è sufficiente a deturpare il candore del suo percorso e a decretare la sua inevitabile punizione con la semplicità crudele e arbitraria di un pollice verso. Le regole del gioco sono quasi banali. Ci sono mille modi per meritare il castigo, uno solo per evitarlo.

Haru sta ripercorrendo lo stesso sentiero sin dalle prime luci del mattino. È un rituale meticolosamente concertato, un percorso già tracciato, un vicolo vieco che si snoda senza possibilità alcuna di deviazione, il suo.
I muscoli implorano pietà, gridando un dolore che però resta muto, sbarrato all’altezza della gola della bambina, che lo ricaccia giù con violenza testarda.

Ogni passo spezza qualcosa di nuovo in lei. Lo sente.

Un altro passo, si dice. Un altro passo ancora.

«Sorridi», intima tagliente una voce femminile. La Voce. Haru non sa neppure più se la Voce sia nella sua stessa testa o se effettivamente provenga dall’esterno. Conserva solo il vago ricordo del fatto che un tempo forse si trattasse di qualcosa di altro rispetto a sé. È ormai radicata nel suo cervello in maniera tanto viscerale che è divenuto difficile distinguere dove finiscano i confini di lei e dove inizino quelli della Voce. La Voce, scorporata ed incorporea, sembra avere più solidità della bambina, del suo stesso corpo. Pare prosciugare la sua corporeità per nutrirsene con potenza vampirica. Se esiste o è mai esistita un’alterità fra Haru e la Voce, Haru non ricorda un istante in cui questa non sia stata invariabilmente e nettamente a suo sfavore. Se esiste o è mai esistita una qualche divinità, Haru prega che sia più clemente di quella che la sta sottoponendo per l’ennesima volta a questo rituale brutale e snaturante da quelle che paiono ormai ore ed ore.

Haru vorrebbe solo gettarsi a terra e divincolarsi senza controllo, svincolare i capelli da quello chignon così esasperatamente stretto, strapparsi di dosso con violenza quei vestiti inamidati che pizzicano la pelle e costringono i movimenti, urlare al cielo tutta la sua insofferenza.
Invece, obbedisce. Si fa violenza. Non ha altra scelta. Non è ammesso errore, nella Sala degli Specchi. Non c’è spazio per aspettative disattese. Forza i muscoli del viso a piegarsi a quella volontà. Contro ogni sua naturale pulsione, mette a tacere quell’istinto disperato in sé che le grida di ribellarsi.
Il sorriso non è che una ferita aperta che le squarcia crudele il viso. Fa male. L’ennesima finzione, l’ennesima violenza, l’ennesima farsa che consuma ciò che la bambina è e sa di essere. Haru si chiede se, sotto tutte le maschere che la avvelenano e la erodono dal di fuori, qualcosa di sé ancora sopravviva dentro di lei. Si chiede quanto ancora potrà sopravvivere. È uno stillicidio con un conto alla rovescia che non perdona. Ne percepisce appena il ticchettio minaccioso in controluce. Rabbrividisce. Continua a incedere con gli occhi spalancati su quell’incubo senza fine.


La pelle formicola in maniera insopportabile, come se conservasse in sé la sensazione fantasma di occhi estranei e intrusivi che percorrono il suo corpo. Brulica dello zampettare inarrestabile di mille sguardi aracnidi onniscienti e moltiplicati all’infinito dalle superfici riflettenti che si prendono gioco di lei. Li avverte, Haru.

Eppure, è la bambina stessa a camminare sul filo della ragnatela, a un tempo involontaria funambola e prigioniera inerme nel nido del ragno. Il ragno le intima di esibirsi, fissandola coi suoi mille occhi e muovendola con le sue mille zampe. La tortura è tanto più atroce quanto più è invisibile. Nessuno scorge la trama insidiosa in cui Haru è invischiata. Alle volte, lei stessa fatica a ricordarsi della sua esistenza. Ogni tentativo disperato di dibattersi e divincolarsi è vano, non fa che stringere le maglie della rete ancora più ferocemente attorno al suo corpicino. Alla luce artificiale del Givenchy Royal Hanover, le fila della ragnatela rifulgono come fossero sottili fili d’argento elegantemente avviluppati alle sue vesti, e non come catene insidiose che si stringono come una morsa su di lei.


La Voce le intima di fermarsi. Haru non sa quanto tempo sia trascorso esattamente. È sola, adesso. Stremata e madida di sudore, si trascina dolorosamente fino alla sua stanza. La strada è la solita, ma la sontuosa scalinata le sembra più scoscesa oggi. La luce che si rifrange dai mille particolari dorati di camera sua fa un po’ più male agli occhi del solito. Serra la porta dietro di sé con una fatica indicibile. È tutto così pesante. Si accascia al suolo. Sta respirando affannosamente, quasi in rantoli strozzati, pensa con freddezza. Le membra dovrebbero bruciarle, ma non sente assolutamente niente del genere. Sta piangendo? Dovrebbe. Eppure, non sente lacrime scivolare dagli occhi. Passa meccanicamente il dorso delle mani sotto la rima degli occhi. Nessuna lacrima. Si osserva clinicamente dall’esterno. La pelle sta già iniziando a ricoprirsi di lividi violacei in luoghi che nessuno fuorché lei vedrà. Vuota. Ha freddo, pensa.

Si rende conto che, al dolore sordo e generalizzato a cui è ormai abituata, si è improvvisamente andato ad aggiungere qualcosa di acuto e vivo che reclama violentemente la sua attenzione.
Abbassa lo sguardo. Scopre che le mani sono serrate in pugni, con le unghie affondate selvaggiamente nelle palme. Dev’essere questo il dolore che la sta radicando nel suo corpo, costringendola a restare presente, in carne viva.

Ti prego, ora no. Restare cosciente di sé, in quel corpo suo-non-suo che dovrebbe appartenerle, adesso semplicemente non è tollerabile.

Con uno sforzo titanico, la bambina si costringe a spalancare le mani, le palme rivolte verso il cielo quasi in un gesto supplice. Il suo corpo tenta di ribellarsi a quella resa, animato da una qualche inspiegabile e contraddittoria forma di istinto di autoconservazione. Ora no. Esala un sospiro. Un secondo. Poi un terzo. Lo sguardo, da concentrato sulle mezzelune sanguigne che si è inferta da sola, si fa via via sempre più vitreo e remoto, sino a diventare completamente irraggiungibile.

Haru oggi compie otto anni.

Ansante, si raggomitola in un angolo, incassando la testa fra le ginocchia. Le cinge con le braccia esili. Sul pavimento di marmo, si fa più piccola possibile, un groviglio di nervi scoperti e muscoli che dovrebbero essere in fiamme ma sono di ghiaccio.

Chiude gli occhi. Giusto per una manciata di secondi. Basta.
Li riapre.

Haru non c’è più.
Finalmente.
버려지는 것들에 눈길 주지마

 
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view post Posted on 30/10/2023, 16:21
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golden child

contest a tema • ottobre 2023 • tabù

ambientazionescuola, prima di Hogwarts (10 anni)




You look so much like me
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L
atino è l’ultima lezione della giornata. L’orologio in cima alla lavagna ticchetta in maniera appena appena udibile. Il tempo arranca lento, come se il quadrante fosse immerso in una qualche melassa appiccicosa e invisibile a occhio nudo e le lancette dovessero opporvisi strenuamente. O forse è solo Haru a sentirlo così. Il tempo, dopotutto, le è sempre stato ostile. Fuggevole, le scivola dalle dita senza che lei riesca mai ad afferrarne le redini. Rallenta esclusivamente nei momenti più inopportuni e acquista velocità vertiginose proprio quando non deve. La bambina scocca un’occhiataccia – l’ennesima – alla sua nemesi ticchettante. Odia il tempo.

Se c’è invece una cosa che Haru ama, sono le parole. Quando è particolarmente disattenta o insofferente rispetto al suo nemico-numero-uno, le parole sono il suo rifugio più fidato. Nello specifico, quando la noia ha il sopravvento come ora, Haru ha sviluppato l’abitudine di afferrare il dizionario più vicino e scorrerlo sino a che il suo sguardo non incespica in un lemma abbastanza interessante da catturare la sua attenzione. Tutto si rimescola poi nella sua mente in un turbinio vorticoso di inchiostro. Ne riemergono acronimi, acrostici, allegorie, allitterazioni, anagrammi e anatemi – tutti nuovi di zecca.

Tic.

Actus reus.

Tac.

A pedibus usque ad caput.

Tic.

Tabula rasa.

Tac.



Haru assapora le parole apprese, facendole rotolare in bocca, gustandone le sonorità rotonde o aspre, soffermandosi ora su una sillaba, ora su un’altra, e ignorando l’odioso ticchettio in background con una caparbietà fuori dal comune. Mentalmente, dispone a incastro le parole, quasi a mo’ di cruciverba.

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È un gioco.
Le regole? Nessuna, se non quelle strettamente necessarie a intrattenere lei.
La logica di fondo? Sopravvalutata.
Haru si bea della mancata necessità di verbalizzare le une o l’altra a terzi. Un sorriso serafico le distende il viso. In sottofondo, la sua mente inizia a intessere una fitta narrazione la cui elaborata maglia è fatta solo delle espressioni che la bambina ha appena scoperto e di cui non è propriamente padrona.


Quando, finalmente, il trillo della campanella la riscuote dal suo torpore, sancendo il termine di una giornata scolastica apparentemente infinita, Haru si sgranchisce le gambe sotto al banco. Si guarda bene dal farsi notare dall’insegnante, che è già praticamente fuori dall’uscio. Fortunatamente il banco della bimba è comunque in ultima fila, proprio in fondo all’aula. Per qualche strano motivo che lei ancora non si riesce a spiegare, alcuni docenti sembrano palesemente interpretare le esigenze fisiologiche dei propri studenti come un oltraggioso affronto personale alla loro professione. Se interrogato sulla definizione di “lesa maestà” e “alto tradimento”, Haru è certa che almeno il 70% del corpo docenti risponderebbe con “chiedere di andare in bagno durante la lezione”, “bere durante la lezione” e/o “sgranchirsi gli arti durante la lezione”. Incredibile.
Sta finendo di riporre con cura i libri nella cartella quando un suono ritmato e infausto la avverte che una presenza inattesa già incombe su di lei e sta inevitabilmente per avvicinarla. Con l’intero corpo improvvisamente vigile e teso come una corda di violino, Haru solleva appena il capo. L’identificazione dell’elemento di disturbo apparso nel suo campo visivo le richiede giusto qualche frazione di secondo. Graham Parker. La bambina si trattiene a malapena dall’alzare gli occhi al cielo e dall’imprecare apertamente.

Tra odiosi tentati sgambetti, raffiche di battutine canzonatorie per nulla sagaci, tirate di capelli quasi riuscite e continui accenni di invasione al suo prezioso spazio vitale, Graham Parker è uno degli esseri umani più sgradevoli con cui Min Haru abbia mai avuto il dispiacere di interagire. Non gliene ha mai fatto mistero. Le occhiate adoranti che lui le rivolge chiamandola beffardamente “golden child” la disgustano nel profondo. Detesta con ogni fibra del suo essere ognuna delle libertà che l’altro pensa di potersi concedere nei suoi confronti.
“Sta’ fermo dove sei, Parker”, gli intima in tono risoluto, senza neppure degnarlo di un’occhiata in tralice. Oggi non ha nemmeno le energie per rimetterlo al suo posto in maniera garbata. È sfinita, l’aria viziata in classe è a dir poco soffocante, e i nervi a fior di pelle formicolano dei mille stridii delle sedie trascinate dai compagni di classe sul pavimento dell’aula. Se qualcuno dovesse effettivamente toccarla, Haru pensa che potrebbe mettersi a urlare.
Graham, ovviamente, la ignora. Continua imperterrito ad avanzare nella sua direzione. Ogni passo di lui preme contro le pareti del cranio di lei. Ogni centimetro che guadagna su di lei sa di nuova, scottante e colpevole violazione. Il formicolio brulicante aumenta di intensità, ora un ronzio palpabile sull’epidermide. Brucia.
Haru chiude lo zaino con un gesto secco e si rialza in piedi, determinata a rimuoversi dalla situazione prima che degeneri in qualcosa di ancora più intollerabile.
Il ragazzotto torreggia comunque sopra di lei di diverse spanne. La ragazzina lo sa bene e non le piace per niente. Specie non quando l’aria pesante dell’aula già minaccia di asfissiarla. Specie non quando sa di trovarsi con le spalle al muro. Specie non quando gli ha già chiaramente detto di NO.
“Devi starmi distante”, ribadisce quasi in un ringhio. È sempre più acutamente consapevole del fatto che l’altro le stia rapidamente ostruendo l’accesso a qualsiasi possibile via di fuga.
La reazione del ragazzo a quel punto le mozza il fiato in gola. Non sono tanto le parole in sé a lasciarla attonita. Come qualsiasi organismo unicellulare che si rispetti, Graham è totalmente incapace di inventare un comeback anche solo semi-decente e quindi si limita a scimmiottare le sue parole in tono petulante. Penoso, davvero.
Le mani del cretino, tuttavia, sono quasi all’altezza delle tempie. L’imbecille le sta usando per stiracchiarsi gli angoli degli occhi in una piega allungata e innaturale. E le ‘r’ che pronuncia – imitandola malamente – suonano come fossero delle ‘l’. Che non ha senso, perché Haru è cresciuta in Inghilterra da una vita intera e l’unica inflessione che deve guardarsi bene dal far infiltrare nella sua parlata è plausibilmente quella di Liverpool della sua istitutrice privata. È pure inaccurata, come beffa.

Non ha senso, si dice, eppure una coltre glaciale cala comunque a ghigliottina su di lei da capo a piedi. Non ha senso, eppure il sangue prende comunque a martellarle nelle orecchie al ritmo cadenzato di una bomba a orologeria con una miccia incredibilmente breve e un conto alla rovescia già innescato.

Tic.


Tac.


Tic.


Tac.


Tic.


Tac.



Non ha senso, eppure il groppo che le serra la gola è comunque un alveare violento di grida strozzate – moncherini carbonizzati di urla che sembrano restarle intrappolati all’altezza del collo. Vorrebbe vomitarli fuori. Il desiderio di ferire qualcuno non è mai stato così impellente. Stringe i pugni.
Con gli occhi ridotti a due fessure, Haru si costringe a sputare fuori dai denti, “Il prossimo passo che fai verso di me è l’ultimo della giornata”. È una promessa, ma l’altro chiaramente non la prende sul serio. Haru non pensa neanche di poterlo biasimare più di tanto, considerato che ogni centimetro del corpo di lei sta tremando visibilmente. È un groviglio di nervi tirati allo stremo, un pezzo di carne viva e pulsante di rabbia vetriolica.
Quando il cretino la ignora per l’ennesima volta e si stringe ancora più su di lei, un sorrisino strafottente sulle labbra e l’offensiva farsa ancora in atto, qualcosa scatta dentro la mente della ragazzina. Qualcosa di atavico. Qualcosa di corrosivo e vischioso che le ghermisce il petto da dentro e che non perdona. Il contatto delle scapole con la parete gelida dietro di lei acuisce la sensazione asfittica di essere irrimediabilmente in trappola. Il suo intero essere vi si ribella. La ginocchiata violenta che, senza preavviso, collide col corpo del ragazzo gli colpisce le palle con una precisione chirurgica ed un plop che il cervello di Haru è prontissimo a codificare come ‘estremamente gratificante’. Nel giro di qualche frazione di secondo, Graham è riverso a terra in posizione fetale, le mani strette sui cosiddetti ‘gioielli di famiglia’ e il volto contorto in una smorfia di dolore sbigottito.

Haru si carica lo zaino in spalla. Non si ferma più a lungo di così. Non può permetterselo. La scarica di adrenalina che ha tutt'ora in circolo è pericolosa. Il suo corpo ancora vibra del contraccolpo e freme per sfogarsi. Per colpire. Di nuovo, di più, con più foga. Ha il respiro accelerato e le pupille dilatate in maniera innaturale. Scansa la figura ingombrante e agonizzante dell’altro, tenendosene alla larga come fosse una carcassa putrescente. “Ti avevo detto di starmi alla larga”, aggiunge con voce roca e affannosa, senza neppure voltarsi a guardarlo. Teme che, se incrociasse gli occhi del teppistello protozoico, non riuscirebbe a resistere al desiderio di calciarlo una seconda volta. Si risistema le bretelle della cartella sulle spalle. Espira profondamente. Senza troppe cerimonie, lo supera. Esce dall’aula ancora in apnea.



Haru non va subito a casa. Si attarda in bagno. Deve accertarsi di lavare via le prove del suo delitto dalla sua faccia prima di rientrare.

Si spruzza acqua gelida sul viso di porcellana. Il gesto rivela appena il sottotono color sabbia del suo incarnato, prima completamente nascosto da uno strato di trucco tanto chiaro da risultare quasi evanescente.

Tabula rasa, riflette. L’espressione di per sé non suggerisce alcun cromatismo, ma sembra quasi implicare di default un certo candore. Una pagina svuotata di qualunque cosa. Bianca, forse? Il fatto che qualcosa all'apparenza immacolato racchiuda in sé la parola tabù la rende ancora più affascinante.

Alza il capo, percorrendo i contorni taglienti del tabù supremo. Tabù supremo che le restituisce uno sguardo altrettanto indecifrabile. Occhi dal taglio inconfondibilmente non occidentale la scrutano dallo specchio. I suoi occhi.

Haru sonda la propria mente alla ricerca di rimorsi o sensi di colpa. Ne riemerge a mani perfettamente vuote. Inclina la testa di lato.


Golden child non reagisce mai alle provocazioni perdendo il proprio aplomb da signorina perbene.

Golden child non sorride sorniona ripensando alla ginocchiata rifilata al coetaneo dove-non-batte-il-sole.

Golden child non si compiace della consapevolezza che la sua infrazione non verrà punita, perché tanto nessuno crederebbe mai ad un resoconto di ciò che Haru ha appena fatto.

Golden child non indulge sul ricordo vivido del rantolo strozzato emesso dall’altro mentre si raggomitolava a terra, sulla sensazione inebriante che quel repentino stravolgimento di dinamiche di potere è stato in grado di indurre.



Haru , però.



Il ghigno sghembo e istantaneo in cui si incurvano le labbra della bambina è accompagnato dal lampo solitario della sua fossetta. È un'apparizione fugace, che si dissolve tanto velocemente quanto si è materializzata, ma non per questo meno reale.


Golden child è un’illusione a caro prezzo,
ma non è detto che solo Haru debba pagarlo.

나와 너무나 닮은 너

 
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view post Posted on 29/2/2024, 22:19
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up in flames

contest a tema • febbraio 2024 • possesso

ambientazionescuola, prima di Hogwarts (11 anni)




Fireworks exploding in my hands
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I
n un mondo di participi più o meno felicemente congiunti, Haru era sempre stata convinta di essere così irrimediabilmente danneggiata che avrebbe finito per confonderlo col dativo di possesso. Pertanto, aveva riflettuto, la perfetta autoconclusività dell’ablativo assoluto era l’unica soluzione percorribile per lei. Lei e Jun avevano trascorso ore ed ore a parlarne assieme, intenti a sviscerare le rispettive idee sulle relazioni sentimentali.

“Meglio limitarsi a sfiorare le vite degli altri con tocchi leggeri”, aveva rivelato la ragazzina all’amico con uno svolazzo della mano ed un sorriso che voleva essere leggero, ma che –malgrado gli sforzi– non aveva raggiunto gli angoli degli occhi. Sfiorare, sì. Giusto con la punta delle dita, una carezza gentile coi polpastrelli, appena percettibile, sempre attenta a non piantare le unghie. Garbata, distaccata.
Meglio sfrecciare veloce al loro fianco come una meteora, regalando abbastanza della sua luce e del suo tepore da farli stare bene, e poi volatilizzarsi prima che la sua incandescenza distruttiva diventasse evidente e dolorosa per i loro occhi. Prima che diventasse chiaro come i mille frammenti colorati che componevano il mosaico-Haru e che tanto catturavano l’attenzione altrui fossero cocci ingannevoli. Sgargianti, così luminosi da accecare chi si fosse azzardato a scrutarli troppo a lungo, nascondendo spigoli taglienti che non perdonavano.


Haru bruciava. Lo sapeva fin troppo bene. Non era cieca all’illusorietà del proprio aspetto.

Sin dalla più tenera età, aveva avvertito in sé un’insolita forma di fame. La tipica fame di qualcuno a cui tecnicamente non era mai stato fatto mancare nulla in termini di agi, ma che praticamente sapeva senza alcun’ombra di dubbio che nulla di ciò che le veniva dato le appartenesse per davvero. Non si trattava di niente più che d’una concessione magnanima e transazionale da un’entità superiore, che, in quanto tale, poteva essere revocata in qualsiasi momento.

Haru riusciva ad immaginare vividamente la voracità infantile con cui si sarebbe avventata su qualcosa di suo per davvero, le dita mosse da un’ingordigia torbida che non conosceva confini e che non era nemmeno interessata a conoscerli. Le mani, artigli pronti ad ancorare e stringere a sé con prepotenza maldestra. La atterriva.
Estranea com’era all’idea di tenere in mano qualcosa che le appartenesse sul serio, Haru non era certa che la sua goffaggine non potesse tramutarsi in crudeltà. Nessuno le aveva mai insegnato la delicatezza. Legarsi all’altro senza affondarvici le unghie per radicarvisi, senza stringere così forte da soffocare e uccidere, le sembrava impossibile.

Ma questa parte se l’era tenuta per sé. Non mostrava volentieri ciò che realmente sentiva. Dopotutto, il timore di venire fraintesa era ben più forte del bisogno di vicinanza. Non cercava rassicurazioni, e l’idea di ricevere occhiate cariche di commiserazione le dava il voltastomaco. Aveva quindi sapientemente spostato la conversazione verso lidi più ameni, e Jun l’aveva seguita fiducioso.

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Ora, Haru è tesa e vigile. È consapevole della posa innaturalmente rigida che ha assunto, ma non sa bene come romperla, né se sia consigliabile farlo. Abbassa lo sguardo senza muovere un muscolo in più del necessario. Il bigliettino bianco spiegazzato di fronte a sé la fissa insistente, esigendo risposta.

Non vede la faccia di Jun, ma sente la nuca pizzicare del formicolio del suo sguardo dal retro dell’aula.

Fissa ancora una volta il bigliettino. “Haru e Jun?”, le chiede. Di nuovo.
Come la prima volta che Haru ci ha gettato lo sguardo quando se l’è ritrovato davanti.
Come tutte le dannate volte che Haru ci ha gettato lo sguardo da quando se l’è ritrovato davanti.

Un timido cuoricino a sostituire l’accento sulla ‘ì’ di ‘Sì’. Il ‘No’, lì accanto, è vergato in una grafia sottile e tremante. Sotto, un disegno di lei e di quello che lei ha ritenuto per anni essere il suo migliore amico che si fissano ai bordi opposti di un ponte. La mano di Jun tesa verso di lei.


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Se socchiudesse le palpebre, Haru riuscirebbe a visualizzare nei minimi dettagli l’espressione adorabilmente concentrata dell’amico mentre realizzava quel bigliettino, il labbro inferiore catturato fra i denti, la piccola pieghetta fra i sopraccigli, la testa inclinata di lato a studiare le ombreggiature del suo schizzo. Sente la bile risalirle verso la gola. Persino l’autocontrollo estremo che le è stato inculcato da una vita intera non riesce a mascherare completamente il tremore che la percorre da capo a piedi.
Jun sa cosa pensa Haru delle relazioni sentimentali. Ne hanno parlato a cuore aperto più e più volte.
Lo sa, e pensa comunque di poter valicare quel confine impunemente. Poche cose bruciano quanto la chiara percezione di essere stata inascoltata e non-vista in maniera così fondamentale da una delle persone a cui tiene di più. Guarda nuovamente il disegno.

Vorrebbe farlo a pezzi.

Uno strappo. Netto, reciso.
La rimozione di qualunque concordanza con l'esterno.
Un tradimento assoluto per un tradimento di possesso.
La precisione catartica di una lacerazione inferta intenzionalmente.


Totalmente immersa in un turbinio labirintico di emozioni incontrollate, lo tortura con le mani.

Di lì a poco, il suono della campanella annuncia il termine della lezione. La ragazzina si alza lentamente. Teme che, se dovesse muoversi troppo rapidamente, la nausea che le attanaglia le viscere da quando ha ricevuto quel foglio la costringerebbe a vomitare. E comunque, non c’è alcuna fretta. Conosce Jun. Sa che il ragazzo non la avvicinerà prima di aver ricevuto una risposta da lei. Già, conosce Jun; e il fatto che lui non conosca lei scotta molto più del previsto.
Min Haru non si volta neppure per un istante. Zaino in spalla, raccoglie le sue cose ed esce senza proferire una parola. Non riuscirebbe a parlare neanche se lo volesse. Il groppo in gola è insopportabile. Non ha più niente da dire. O forse ha troppo da dire, e il volume di ciò che dovrebbe dire è troppo per essere verbalizzato. Muta, prosegue verso l’uscio.

Dietro di sé, solo due cose.

Caduto a terra, il frammento di foglio con le due caselle traditrici accartocciato malamente.
Sul banco, il resto del disegno ridotto a niente più che un fuoco di origami.

Haru si impone di non immaginare l’espressione ferita del suo ex-amico. Quasi ci riesce.
Si costringe a rilassare forzatamente le spalle. Se ne va.
Assoluta, come solo un ablativo sa esserlo.
Would all the stars then shine a bloody red?

 
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