L
atino è l’ultima lezione della giornata. L’orologio in cima alla lavagna ticchetta in maniera appena appena udibile. Il tempo arranca lento, come se il quadrante fosse immerso in una qualche melassa appiccicosa e invisibile a occhio nudo e le lancette dovessero opporvisi strenuamente. O forse è solo Haru a
sentirlo così. Il tempo, dopotutto, le è sempre stato ostile. Fuggevole, le scivola dalle dita senza che lei riesca mai ad afferrarne le redini. Rallenta esclusivamente nei momenti più inopportuni e acquista velocità vertiginose proprio quando non deve. La bambina scocca un’occhiataccia –
l’ennesima – alla sua nemesi ticchettante.
Odia il tempo.
Se c’è invece una cosa che Haru ama, sono le parole. Quando è particolarmente disattenta o insofferente rispetto al suo
nemico-numero-uno, le parole sono il suo rifugio più fidato. Nello specifico, quando la noia ha il sopravvento come ora, Haru ha sviluppato l’abitudine di afferrare il dizionario più vicino e scorrerlo sino a che il suo sguardo non incespica in un lemma abbastanza interessante da catturare la sua attenzione. Tutto si rimescola poi nella sua mente in un turbinio vorticoso di inchiostro. Ne riemergono acronimi, acrostici, allegorie, allitterazioni, anagrammi
e anatemi – tutti
nuovi di zecca.
Tic.
Actus reus.
Tac.
A pedibus usque ad caput.
Tic.
Tabula rasa.
Tac.
Haru assapora le parole apprese, facendole rotolare in bocca, gustandone le sonorità rotonde o aspre, soffermandosi ora su una sillaba, ora su un’altra, e ignorando l’odioso ticchettio in background con una caparbietà fuori dal comune. Mentalmente, dispone a incastro le parole, quasi a mo’ di cruciverba.
È un
gioco.
Le regole?
Nessuna, se non quelle strettamente necessarie a intrattenere lei.La logica di fondo?
Sopravvalutata.Haru si bea della mancata necessità di verbalizzare le une o l’altra a terzi. Un sorriso serafico le distende il viso. In sottofondo, la sua mente inizia a intessere una fitta narrazione la cui elaborata maglia è fatta solo delle espressioni che la bambina ha appena scoperto e di cui non è propriamente padrona.
Quando, finalmente, il trillo della campanella la riscuote dal suo torpore, sancendo il termine di una giornata scolastica apparentemente infinita, Haru si sgranchisce le gambe sotto al banco. Si guarda bene dal farsi notare dall’insegnante, che è già praticamente fuori dall’uscio. Fortunatamente il banco della bimba è comunque in ultima fila, proprio in fondo all’aula. Per qualche strano motivo che lei ancora non si riesce a spiegare, alcuni docenti sembrano palesemente interpretare le esigenze fisiologiche dei propri studenti come un oltraggioso affronto personale alla loro professione. Se interrogato sulla definizione di
“lesa maestà” e
“alto tradimento”, Haru è certa che almeno il 70% del corpo docenti risponderebbe con
“chiedere di andare in bagno durante la lezione”,
“bere durante la lezione” e/o
“sgranchirsi gli arti durante la lezione”.
Incredibile.Sta finendo di riporre con cura i libri nella cartella quando un suono ritmato e infausto la avverte che una presenza inattesa già incombe su di lei e sta inevitabilmente per avvicinarla. Con l’intero corpo improvvisamente vigile e teso come una corda di violino, Haru solleva appena il capo. L’identificazione dell’elemento di disturbo apparso nel suo campo visivo le richiede giusto qualche frazione di secondo.
Graham Parker. La bambina si trattiene a malapena dall’alzare gli occhi al cielo e dall’imprecare apertamente.
Tra odiosi tentati sgambetti, raffiche di battutine canzonatorie per nulla sagaci, tirate di capelli quasi riuscite e continui accenni di invasione al suo prezioso spazio vitale, Graham Parker è uno degli esseri umani più sgradevoli con cui Min Haru abbia mai avuto il
dispiacere di interagire. Non gliene ha mai fatto mistero. Le occhiate adoranti che lui le rivolge chiamandola beffardamente
“golden child” la disgustano nel profondo. Detesta con ogni fibra del suo essere ognuna delle libertà che l’altro pensa di potersi concedere nei suoi confronti.
“Sta’ fermo dove sei, Parker”, gli intima in tono risoluto, senza neppure degnarlo di un’occhiata in tralice. Oggi non ha nemmeno le energie per rimetterlo al suo posto in maniera garbata. È sfinita, l’aria viziata in classe è a dir poco soffocante, e i nervi a fior di pelle formicolano dei mille stridii delle sedie trascinate dai compagni di classe sul pavimento dell’aula. Se qualcuno dovesse effettivamente toccarla, Haru pensa che potrebbe mettersi a urlare.
Graham,
ovviamente, la ignora. Continua imperterrito ad avanzare nella sua direzione. Ogni passo di lui preme contro le pareti del cranio di lei. Ogni centimetro che guadagna su di lei sa di nuova, scottante e
colpevole violazione. Il formicolio brulicante aumenta di intensità, ora un ronzio palpabile sull’epidermide.
Brucia.Haru chiude lo zaino con un gesto secco e si rialza in piedi, determinata a rimuoversi dalla situazione prima che degeneri in qualcosa di ancora più intollerabile.
Il ragazzotto torreggia comunque sopra di lei di diverse spanne. La ragazzina lo sa bene e non le piace per niente. Specie
non quando l’aria pesante dell’aula già minaccia di asfissiarla. Specie
non quando sa di trovarsi con le spalle al muro. Specie
non quando gli ha già chiaramente detto di
NO.
“Devi starmi distante”, ribadisce quasi in un ringhio. È sempre più acutamente consapevole del fatto che l’altro le stia rapidamente ostruendo l’accesso a qualsiasi possibile via di fuga.
La reazione del ragazzo a quel punto le mozza il fiato in gola. Non sono tanto le parole in sé a lasciarla attonita. Come qualsiasi organismo unicellulare che si rispetti, Graham è totalmente incapace di inventare un
comeback anche solo semi-decente e quindi si limita a scimmiottare le sue parole in tono petulante.
Penoso, davvero.Le mani del cretino, tuttavia, sono quasi all’altezza delle tempie. L’imbecille le sta usando per stiracchiarsi gli angoli degli occhi in una piega allungata e innaturale. E le ‘r’ che pronuncia – imitandola malamente – suonano come fossero delle ‘l’.
Che non ha senso, perché Haru è cresciuta in Inghilterra da una vita intera e l’unica inflessione che deve guardarsi bene dal far infiltrare nella sua parlata è plausibilmente quella di Liverpool della sua istitutrice privata. È pure inaccurata, come beffa.
Non ha senso, si dice, eppure una coltre glaciale cala comunque a ghigliottina su di lei
da capo a piedi.
Non ha senso, eppure il sangue prende comunque a martellarle nelle orecchie al ritmo cadenzato di una bomba a orologeria con una miccia incredibilmente breve e un conto alla rovescia già innescato.
Tic.
Tac.
Tic.
Tac.
Tic.
Tac.
Non ha senso, eppure il groppo che le serra la gola è comunque un alveare violento di grida strozzate – moncherini carbonizzati di urla che sembrano restarle intrappolati all’altezza del collo. Vorrebbe vomitarli fuori. Il desiderio di
ferire qualcuno non è mai stato così impellente. Stringe i pugni.
Con gli occhi ridotti a due fessure, Haru si costringe a sputare fuori dai denti,
“Il prossimo passo che fai verso di me è l’ultimo della giornata”. È una promessa, ma l’altro chiaramente non la prende sul serio. Haru non pensa neanche di poterlo biasimare più di tanto, considerato che ogni centimetro del corpo di lei sta tremando visibilmente. È un groviglio di nervi tirati allo stremo, un pezzo di carne viva e pulsante di rabbia vetriolica.
Quando il cretino la ignora per l’ennesima volta e si stringe ancora più su di lei, un sorrisino strafottente sulle labbra e l’offensiva farsa ancora in atto,
qualcosa scatta dentro la mente della ragazzina.
Qualcosa di atavico.
Qualcosa di corrosivo e vischioso che le ghermisce il petto da dentro e che non perdona. Il contatto delle scapole con la parete gelida dietro di lei acuisce la sensazione asfittica di essere irrimediabilmente in trappola. Il suo intero essere vi si ribella. La ginocchiata violenta che, senza preavviso, collide col corpo del ragazzo gli colpisce le palle con una precisione chirurgica ed un
plop che il cervello di Haru è prontissimo a codificare come ‘estremamente gratificante’. Nel giro di qualche frazione di secondo, Graham è riverso a terra in posizione fetale, le mani strette sui cosiddetti ‘gioielli di famiglia’ e il volto contorto in una smorfia di dolore sbigottito.
Haru si carica lo zaino in spalla. Non si ferma più a lungo di così. Non può permetterselo. La scarica di adrenalina che ha tutt'ora in circolo è pericolosa. Il suo corpo ancora vibra del contraccolpo e freme per sfogarsi. Per colpire.
Di nuovo, di più, con più foga. Ha il respiro accelerato e le pupille dilatate in maniera innaturale. Scansa la figura ingombrante e agonizzante dell’altro, tenendosene alla larga come fosse una carcassa putrescente.
“Ti avevo detto di starmi alla larga”, aggiunge con voce roca e affannosa, senza neppure voltarsi a guardarlo. Teme che, se incrociasse gli occhi del teppistello protozoico, non riuscirebbe a resistere al desiderio di calciarlo una seconda volta. Si risistema le bretelle della cartella sulle spalle. Espira profondamente. Senza troppe cerimonie, lo supera. Esce dall’aula ancora in apnea.
Haru
non va subito a casa. Si attarda in bagno. Deve accertarsi di lavare via le prove del suo delitto dalla sua faccia prima di rientrare.
Si spruzza acqua gelida sul viso di porcellana. Il gesto rivela appena il sottotono color sabbia del suo incarnato, prima completamente nascosto da uno strato di trucco tanto chiaro da risultare quasi evanescente.
Tabula rasa, riflette. L’espressione di per sé non suggerisce alcun cromatismo, ma sembra quasi implicare
di default un certo candore. Una pagina svuotata di qualunque cosa.
Bianca, forse? Il fatto che qualcosa all'apparenza immacolato racchiuda in sé la parola
tabù la rende ancora più affascinante.
Alza il capo, percorrendo i contorni taglienti del
tabù supremo.
Tabù supremo che le restituisce uno sguardo altrettanto indecifrabile. Occhi dal taglio inconfondibilmente non occidentale la scrutano dallo specchio. I
suoi occhi.
Haru sonda la propria mente alla ricerca di rimorsi o sensi di colpa. Ne riemerge a mani perfettamente vuote. Inclina la testa di lato.
Golden child non reagisce mai alle provocazioni perdendo il proprio
aplomb da signorina perbene.
Golden child non sorride sorniona ripensando alla ginocchiata rifilata al coetaneo
dove-non-batte-il-sole.
Golden child non si compiace della consapevolezza che la sua infrazione non verrà punita, perché tanto nessuno crederebbe mai ad un resoconto di ciò che Haru ha appena fatto.
Golden child non indulge sul ricordo vivido del rantolo strozzato emesso dall’altro mentre si raggomitolava a terra, sulla sensazione inebriante che quel repentino stravolgimento di dinamiche di potere è stato in grado di indurre.
Haru sì, però.
Il ghigno sghembo e istantaneo in cui si incurvano le labbra della bambina è accompagnato dal lampo solitario della sua fossetta. È un'apparizione fugace, che si dissolve tanto velocemente quanto si è materializzata, ma non per questo meno
reale.
Golden child è un’illusione a caro prezzo,
ma non è detto che solo Haru debba pagarlo.