Non sto piangendo, TU stai piangendo.
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| 24 yrs – cursebreaker – Giza |
PS 375/437 PC 313/363 PM 410/430 EXP 101,5
Faccio appena in tempo ad udire le parole di Sitra e, anche se vorrei dirle che sì, ha ragione ma non me ne pento, mi sento strappare alla realtà che finora ho conosciuto.
Non riesco a lasciarmi andare ad un sospiro di sollievo nel percepire il suo tocco su di me, perché il buio cala improvviso. Non è più quella tenebra sconosciuta in cui sono stato sospeso nella morsa del dolore; è qualcosa di… diverso. Altrettanto sconosciuto ma in un qualche assurdo modo è familiare.
Stringo la presa attorno l’ansa dorata e batto le palpebre nel ritrovarmi in questa strada senza orizzonte. Mi guardo intorno confuso, storcendo la bocca in una smorfia di fastidio per le gambe anchilosate quando decido di camminare accompagnato dallo sciabordare dell’acqua ai miei piedi. Non sono più in Egitto, questo è chiaro, ma non comprendo in alcun modo quale dimensione si sia aperta perché non mi sfiora nemmeno per un istante l’ipotesi che l’Ankh sia una Passaporta. È una chiave, un mezzo per un passaggio in un mondo che non conosco.
Risuonano i miei passi e il mio collo si piega di lato quando vado incontro alla nube che mi si para davanti. Riconosco i contorni di una grotta, il lucore bluastro di qualcosa al suo centro e improvvisamente le dita tentennano attorno il metallo quando riconosco il velo rosso a cui i miei occhi s’agganciano immediatamente.
Ly.
Pronuncio mentalmente una semplice sillaba che, tuttavia, pesa come un macigno, una di quelle stalattiti pronte a cadere sul tuo capo, come una ghigliottina.
Compio d’istinto un passo avanti e schiudo le labbra; non sento nemmeno il taglio che le attraversa perché solo l’eco del mio cuore riempie questo silenzio. Seguo ipnotizzato la sua mano –la sua mano piccola, sempre fredda,dolce– tendersi e stringere un Uas. Un gesto che mi procura una confusione nebbiosa. Ricordo, come in un flash, il simbolo che, tanti anni fa con ancora il suo sapore sulle labbra mi ha tracciato sulla sabbia, dopo la visione. Capisco, allora, ancora prima che la reliquia che tengo, me lo possa comunicare.
L’Ankh palpita, sembra risuonare come me, come la delusione che mi palpita nel petto quando, lasciando scivolare lo sguardo, inquadro una figura. Non è la presenza con lei di un uomo a turbarmi; non mi sono mai aspettato che Emily non andasse avanti dopo di me; non dopo che anche io ho fatto lo stesso, nonostante il vuoto delle mie relazioni effimere.
No, è il suo volto. Il suo maledetto volto che mi storce il viso e mi spinge a scattare in avanti per il tempo di un respiro: Cavendish. Mi è impossibile dimenticare, cancellare tutto l’odio che non ho mai smesso di provare per lui; sono troppo cieco, ora, per rendermi conto che è molto più giovane del padre colui che vedo vicino Emily. È la rabbia a dominarmi adesso e tutto quello che ho fatto al Mangiamorte mi sembra una carezza in confronto a ciò che vorrei fare adesso a lui.
Si è alleata con lui. Si è schierata.
Faccio appena in tempo a pensare, prima che io venga strappato all’incubo agghiacciante cui sono stato costretto ad assistere.
“NO!” Grido nella mia testa. No, aspetta, voglio ucciderlo devo capire, imploro gli Dei, ma loro hanno altri programmi per me.
Stringo gli occhi, spinto da una gravità ignota che capisco provenire dall’Ankh. In un lampo mi trovo in un luogo chiuso, senza riuscire a capire; mi sento catapultato in avanti verso un frammento, rendendomi conto che non è ciò che io conservo.
Non è il mio baule, questo. Lei è spezzata.
Come me.
E tu, ora sei qui nell’ennesimo vortice, in questa danza nauesante. Sei qui davanti ai miei occhi e se fino a poco fa volevo correre da te, ora rimango immobile; vorrei quasi fuggire.
Sei pallida e così vicina da non ricordare più l’ultima volta in cui lo siamo stati.
Riverberiamo, come i manufatti che stringiamo tra le mani; ti ripercuoti nelle mie iridi indurite, sfiori la mia pelle macchiata dal sangue. Mi sembra quasi di percepire ancora il tuo bacio, sopra lo sfregio delle mie labbra.
Vibro, senza rendermi conto della devastazione che provo, quando al tuo volto accosto quello di Cavendish.
E tu, tu riesci a vederla la furia che si cela sul mio viso? Riesci a tradurre, dietro gli schizzi scarlatti che mi dipingono, ogni lineamento contratto per te? Riesci a vedere l’ombra di un sorriso all’angolo della bocca? Riesci a leggere nella mia mente la mia stessa autocommiserazione?
“Ci sei riuscito, Horus.” Dice, con voce di miele.
Ora sì, che mi odi, non è vero?
Questa volta, però, non allungo la mano per afferrarti, è troppo veloce tutto questo. È troppo forte la gravità che ci respinge e io, forse, gliene sono grato.
Tu esisti solo per quest’attimo che tuttavia ho vissuto con l’intensità di mille vite, mille notti, mille giorni, mille anni.
Eppure so, con una certezza spaventosa, che dovrò cercarti. Me lo dicono gli Dei stretti nella mia mano che l’Uas deve ritrovare l’Ankh.
Che compito ingrato mi hai affidato Amon, inquinato dalla vendetta che si delinea come una bussola nella strada che vedo dinanzi a noi.
Mi costringo a chiudere gli occhi mentre tutto vortica ancora. Li serro con forza perché ho paura di vederti di nuovo. Non ora, mi rendo conto: non sono in grado di reggere. Tutto questo è peggiore di qualsiasi maledizione. Di qualsiasi dolore inflitto.
Che ingenuo che sono.
Lo capirò solo tra poco, quando i miei piedi toccheranno la terra riarsa dagli incendi e l’odore del grano e della cenere invaderà le mie narici.
Mi guardo intorno agitato, timoroso di vedere Emily comparire vicino all’uomo che detesto e disprezzo. Eppure non c’è, lo sento. Quindi avanzo, sfioro con lo sguardo l’Ankh chiedendo, silenziosamente, dove mi stia portando. La risposta è davanti a me, nella piramide sconosciuta che si staglia in questo luogo sperduto, campi elisi di un mondo deviato.
Così accade.
Lo percepisco.
Per un attimo l’aria manca i miei polmoni, li evita come fossero un ostacolo. Arranco in avanti, barcollo, perché questa voce, questa voce non la sentivo da diciotto anni.
Mi rendo conto che questa volta non sono più solo le mie mani a tremare, ma è il mio intero corpo.
Sono i miei occhi che scandagliano le pareti di mattone crudo.
Il terrore si impossessa di me, quando mi avvicino ancora e la spaccatura si apre; la mia anima fa lo stesso.
Deglutisco piano, ma ho un groppo in gola. È un ragno che risale il mio collo.
È la tua voce che urla il mio nome. Non è altro che un sussurro, per te, ma per me è il grido che mi impedisco di liberare. È il ruggito del leone che sei stato per me, è la carezza che ho amato, è la sofferenza che mi hai inflitto.
Lo capisco che non sei una visione. Lo capisco, che sei tu
« … I—It-y*… »
It-y.
È involontario il riflesso in cui si muovono le tue labbra ferite. Mormorano un soprannome che non hai pronunciato per così tanti da averne quasi dimenticato il significato.
Per quanto tempo hai atteso questo momento? Quante volte lo hai vissuto in mille e mille scenari?
Quanti sentimenti hanno accompagnato quest’incontro? La gioia, la speranza, l’affetto. Poi è arrivata una maschera d’argento a cambiare le carte, a farti invertire la rotta.
Hai cominciato ad allontanare il pensiero di quest’incontro perché non riuscivi ad accettare che, sotto l’odio che sentivi di provare, c’era ancora amore. E speranza.
Ma non puoi negare e non puoi cancellare il tempo che hai passato ad addormentarti con l’immagine di tuo padre dietro la soglia del sonno. È rimasta sospesa nella tua memoria finché, a poco a poco e inesorabilmente, è svanita.
Le foto non sono più bastate a tenere in vita il ricordo perché, ad un certo punto, tua madre ha cominciato a nasconderle in una scatola. Era troppo doloroso, per lei. In fondo, era suo marito, l’amore della sua vita. Per te è stato impossibile non notare la sofferenza nei suoi begli occhi blu quando qualcosa, anche piccola, riportava la sua mente a Lui.
Quanto può avere peso una singola persona? Un unico essere umano rappresentare parte del mondo di altre due, sole e luna per l’uno e per l’altra, sotto un’ unica volta celeste: quella della tua Dea Nut.
Eppure, nonostante questo, tu hai salvato una sola foto che, però, non guardi quasi mai e tieni in una cornice rotta senza avere il coraggio di aggiustarla. È una reliquia che serve come monito a ricordarti come qualcosa si sia rotto, in te, quel giorno di diciotto anni fa.
E ora li ripercorri seguendo un filo d’Arianna che in un labirinto di sogni ed incubi ti ha condotto fin qui, ai piedi di una piramide sconosciuta, dinanzi al giudizio degli Dei, dinanzi a Lui. Puoi quasi vederla attorno al suo corpo sospeso, un’aura di peccati.
Tu però, in fondo, sei sempre e solo stato un bambino che rivoleva il suo papà. Non importava a che costo.
Perché lo hai amato, Horus, immensamente. Tuo padre non era solo luna e stelle, per te, era l’intero universo. Amavi la sua voce calma e profonda, amavi i suoi capelli fulvi come la criniera di un leone ora screziati da un bianco che ti turba, ti spaventa amavi il suo profumo di cui, tuttora, la tua amortentia è intrisa.
Eravate una cosa sola, voi due, tu il suo sangue e lui il tuo.
Ha vissuto in te sempre, anche dopo tutti questi anni dove ha infestato la tua anima come uno spettro ostinatamente attaccato alla vita.
Non ti sei accorto di aver mosso un passo in avanti, poi un altro, perché i tuoi occhi sono fissi sulla sua figura. Sei sconvolto da colui che vedi, dal suo occhio innaturale, dalla cicatrice che l’attraversa, dalla precarietà della sua esistenza dentro questa prigione che puoi osservare solo da una misera fenditura. Vorresti afferrarne i bordi, aprirla come le sbarre di un carcere. Ma questo spazio è tutto quello che ti è concesso, Horus. Questo scorcio è tutto ciò che hai adesso di tuo padre.
Ti avvicini col cuore pulsante e la testa che gira, non senti altro se non questo sordo scandire del tempo. Ricordano i tamburi rituali che hanno seguito la vostra marcia durante il sacrificio ad Hator.
“Sei vero? Sei davvero qui?”
Te lo chiedi inevitabilmente, ma è la voce del bambino che sei stato a domandarselo. Il tuo corpo si ferma, non esiste più. Le orme che lasci dietro di te sono la vita che hai percorso finora: un cammino atto solo per raggiungerLo.
Eccolo, il suo viso, Horus: è come lo ricordavi? Certo che no: è passato tanto tempo e le rughe che si sono andate a disegnare sui suoi bei lineamenti tu non le hai mai potute vedere insorgere.
Tuttavia, Lui è ancora lì; lo rivedi nella forma del naso e delle labbra e degli occhi, sfregiati. Lo rivedi nel tuo stesso riflesso allo specchio, ogni giorno.
Allunghi una mano fremente, sei in preda ad un’agitazione che non riesci ad impedirti. L’abbassi in fretta, ti aggrappi alla camicia lurida perché questa volta sì che il tuo cuore minaccia di esplodere.
Lui è lì.
Tuo padre è proprio lì, davanti a te.
« Sei tornato, It-y! » Saltelli tutto contento giù dai gradini delle scale. Tuo padre è davanti alla porta e spalanca le braccia con un gran sorriso, pronto ad accoglierti. Tu, però, non noti gli occhi tristi che spengono il suo sguardo. Sei troppo occupato a lanciarti dall’ultimo gradino –con un gemito di Ainsel– e gettarti tra le sue braccia. Gli cingi il collo e nascondi il viso nell’incavo della spalla mentre senti le sue mani stringerti forte. Sei sempre stato il suo tesoro più prezioso. Ti lascia un bacio sui capelli e d’un tratto l’assenza che hai patito per un mese intero è sfumata come acquerello. Senti tua madre avvicinarsi, ti accarezza la schiena con dolcezza.
Tu, allora, scoppi a piangere e ti lasci andare ai singhiozzi: ogni volta è sempre più difficile lasciarlo andare. Sei un bambino troppo fragile.
« Ma no Horus, non piangere! Papà è qui! » Ti tranquillizza lei, ma tuo padre ti tira su e ride, dondolandoti piano. Chiunque abbia conosciuto Osiris Sekhmeth ad Hogwarts rimarrebbe sconvolto nel vedere il freddo cobra di Serpeverde tanto affettuoso.
« Gli sei mancato tanto, Riri. » Sospira Ainsel con un sorriso accondiscendente. Anche a lei lui è mancato tanto, ma questo Osiris lo sa già perché non ha fatto altro che contare i giorni che lo separavano da voi.
« Lo so. » Se con una mano ti tiene, con l’altra ti asciuga una grossa lacrima che ti ruzzola giù sulle guance arrossate. « Scusa piccolo se ci ho messo un po’. Ma… ho una sorpresa per te. »
Improvvisamente dimentichi il pianto, perché, si sa, le sorprese sono irresistibili anche nei momenti di maggiore tristezza. Lo guardi incuriosito e lui ti sorride.
Osiris si gira insieme a te e tu senti un morbido, adorabile pigolio.
Su una gabbia posata sul mobile dell’ingresso, c’è un pulcino di falco sacro.
Lo ascolti parlare, non hai il coraggio di rispondere anche se, lo sai, la verità è che la voce sembra essersi perduta nei meandri di questo labirinto consacrato allo Djed il cui significato ti terrorizza. Tuttavia vedi solo Lui, non esiste altro che Lui.
Il tuo viso è un quadro di tormento ed i tuoi occhi si offuscano gradualmente, come una finestra chiusa su un giorno di sole: il sole che tu sei, il sole che era Lui.
Le tue labbra si allineano, tese, cerchi di mantenere una compostezza che non possiedi più questa notte e riflettono, così, l’ombra crescente di quest’emozione che non sei mai riuscito a cancellare davvero. La pelle del tuo viso, sotto il sangue, impallidisce, si dipinge dei solchi di dolore celato in una tela dipinta con i colori mutevoli della tua vulnerabilità.
Ma non cadono lacrime dai tuoi occhi, non ora.
Così arriva, prorompe rompendo qualsiasi argine. La sua vista dopo diciotto anni di cecità: è questo a fluire nel tuo petto, spazzando via qualsiasi titubanza; è acqua che trascina la diga con sé, travolge tutto.
Carichi il braccio e colpisci con tutta la tua forza la parete di fianco il suo volto. Lo spostamento d’aria potrebbe quasi sfiorarlo, se solo fosse palpabile.
Colpisci ancora e la forza del tuo pugno si riverbera sulla tua faccia, ora trasfigurata, ora incredibilmente vicino alla Sua.
« Diciotto fottuti anni. »
Sibili con una furia che mai hai provato in vita tua; perché la furia generata dall’amore è devastante e tu non l’hai mai davvero provata.
Emily non esiste più.
Cavendish non esiste più.
Il Male non esiste più.
Lui era tutto e così è ancora adesso. Lo sai e lo hai sempre saputo.
« DICIOTTO FOTTUTI ANNI CHE TI CERCO. »
Questa volta lo gridi, la tua voce rotta screziata da tutto ciò che hai provato in tutto questo tempo.
« E “non cercarmi è tutto ciò che hai da dirmi dopo tutto questo tempo, It-y? »
Non te ne rendi conto di averlo chiamato ancora con quel soprannome.
Non puoi farlo perché quest’onda non ha ragione di esistere senza Chaos.
Abbassi il capo, ma questa volta lo fai tremando nuovamente. Vorresti solo appoggiare la tua fronte alla sua. Il non poterlo fare ti fa respirare così velocemente da incespicare, digrigni i denti per riuscire a trattenere l’ossigeno.
Nell’incapacità della stasi, rialzi il viso, il pugno si apre, il palmo si appoggia alla pietra: ti sostieni, perché non sei sicuro che queste tue gambe riescano a farlo.
« Che cazzo significa che non puoi tornare? Dove sei? Che vuol dire stavolta Come ti tiro fuori da qui?»
Cerchi i Suoi occhi, ma un brivido t’inquieta in questa pioggia di domande che ti inonda. C'è troppo che vuoi dire, in fondo come biasimarti? Ci sono diciotto anni di silenzi a infrangersi su di voi: devi dire tutto.
Hai paura, Horus.
Hai paura di perderlo ancora, ora che lo hai trovato.
Hai paura di quelle ciocche bianche, di quell’occhio innaturale che non conosci, di quella cicatrice.
« Ti prego, papà… » Lo guardi e questa volta, lo sai, che quella maschera scivola via dal tuo volto e tutta la tua pena, tutto il tuo amore per Lui si riflette nei tuoi occhi.
« … Ti prego rispondimi. »
Conficchi le unghie nella pietra. Ti aggrappi disperatamente.
« Mi sei mancato così tanto… così tanto… » Sussurri in un soffio.
– Tell me would you kill to prove you're right –
Abilità – I°, II°, III° no Fattoriam: ✓ – IV°: ✓ Proibiti Colossum – V°: ✓ Proibiti Stupeficium – VI°: ✓ Proibiti Perstringo – I° Chiara: Atlantis Cage – Smaterializzazione; – Abilità Runica; – Animagus Esperto; | Equipaggiamento ▸ ANELLO DIFENSIVO: Pezzo unico. Pietre: Acquamarina. Protegge da danni fisici e incantesimi. Anche dall'Avada Kedavra ma poi si spezza. [1xQuest] (usato come orecchino) ▸ PIETRA PER BACCHETTA: Una pietra sconosciuta che amplifica la potenza del mago. ▸ ANELLO DELLA GORGONE: Se utilizzato contro un avversario umano blocca totalmente o parzialmente i suoi movimenti per 1 turno, non pietrificandolo. ▸ PUGNALE NORMANNO: Argento lavorato, pulizia in linee, disegno essenziale. [Tasca posteriore] ▸ SACCHETTA MEDIEVALE: All'interno è stato praticato un Incantesimo Estensivo Irriconoscibile [x5 oggetti medi][+3 PC +1PM][Agganciata alla cintura] All'interno:
– Generi di viaggio. – Mantello della resistenza: Protegge dalle fiamme. [+8PC] – Guanti Sostegno del Paladino: Guanti ignifughi, impermeabili, resistenti all'acido, alle basi, al freddo... Proteggono le mani da tutti gli elementi naturali e da colpi fisici. – Artiglio di Fenice: Usato come ciondolo protegge parzialmente dalle ferite. [1xQuest] – Polvere Buiopesto Peruviana: Permette, se lanciata in aria, di far calare l'oscurità a proprio piacimento. Ottimo se usata come diversivo prima di una fuga. [x2] ▸ RUNA HAGALAZ DELLA SEPARAZIONE: Utilizzabile in Quest, una volta ogni 5 turni. Rende l'utilizzatore in grado di creare uno o più proiettili di vento, che possono essere scagliati contro i nemici, e provocano gli stessi danni di un proiettile babbano di piccole dimensioni. In alternativa, può essere utilizzata per creare un "muro" invisibile e impenetrabile, della durata di un turno; in questo secondo caso, però, la runa avrà bisogno di sette turni per ricaricarsi. Ad ogni utilizzo, tuttavia, l'evocatore ha un contraccolpo al mana e alla salute pari al 2% del mana e della salute totale, che persisterà fino alla fine della quest. [incastonata in un anello, dito medio sx] |
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*= "It" in egiziano antico è "padre"; "It-y" è quindi un vezzeggiativo con cui Horus chiama suo padre da quando è piccolo.