E n d u r a n c e.

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view post Posted on 29/6/2019, 19:32
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◤ Contest Giugno 2019: Equilibrium ◥


— "Così volle Nut" — « È un maschio.»
La voce di Ainsel ruppe il silenzio di quella profumata mattina estiva. Osiris batté le palpebre un paio di volte tenendo il cucchiaio a mezz’aria, lo stesso modo di fare sorpreso che suo figlio avrebbe ereditato anni dopo.
« Cosa? »
« Come cosa! » Lei rise, fece il giro della tavola e raggiunse suo marito. Gli prese la mano, costringendolo a lasciare il cucchiaio nella ciotola di porridge, e se la portò sul grembo. La stoffa di cotone, sottile, lasciava intravedere un morbido rigonfiamento.
« Nostro figlio! » Mormorò dolcemente, abbassando lo sguardo. Osiris non rispose subito; negli ombrosi occhi, di un grigio profondo e scuro, si rispecchiava un turbamento, un timore che gli attanagliò la gola inaspettatamente. Durò solo un istante e ben deciso a nasconderlo alla moglie, l’uomo sorrise, portando anche l’altra mano sulla pancia di lei.
« Ehi, cosino… » Esordì ed una risata argentina si liberò dalla bella bocca di Ainsel. Tuttavia la voce di lui rimase intrappolata nella gola e così, per liberarla, avvicinò il viso per donare a quel bimbo un bacio, sfiorando la stoffa dell’abito della moglie con le labbra.

« Ho paura, madre.» Grave, Osiris rivolse lo sguardo verso Meresankh. La donna se ne stava seduta su una poltrona di paglia, nella grande veranda della casa di famiglia, e leggeva una lunga e antica pergamena. Il vento d’Egitto portava l’odore dell’incenso e di miele d’acacia ed il profumo di sua madre, di sandalo e narciso, saturava la notte di ricordi e pensieri. Lui ed Ainsel avevano deciso di passare qualche giorno ad Alessandria, un po’ per il lavoro di Osiris un po’ perché —così era convinta lei— ai suoi genitori avrebbe fatto piacere essere partecipi della notizia. L’avevano annunciato la sera dopo il loro arrivo, a cena, ed era stata accolta con sorrisi e giubilo. Ciononostante Osiris aveva colto, in Meresankh, il suo stesso sguardo ombroso. Così ora, ad un paio di giorni di distanza, Osiris aveva trovato il coraggio di liberarsi di quel peso che sentiva divorargli il petto. Sua madre aveva alzato gli occhi da ciò che stava leggendo e guardava l’orizzonte, lasciando vagare lo sguardo oltre le palme e gli alberi di acacia del giardino. Il naso diritto, leggermente pronunciato, rendevano il suo viso ancora più severo ed imperscrutabile. Gli occhi, pesantemente truccati con del kajal nero, sembravano trasportarla su un altro universo, in quello che non apparteneva agli uomini, ma agli Dei. Osiris attese la sua risposta per diversi minuti, ma questa non giunse e lui, pentendosi di quanto appena confessato, si abbandonò alla malinconia e, in un gesto intimo che mai avrebbe compiuto davanti sua madre, nascose il volto fra le mani. Sedeva sul gradino del portico della proprietà di famiglia e la sabbia del giardino gli solleticava i piedi nudi. Non avrebbe dovuto dirlo, si disse con un moto di rabbia, affondando le dita fra i folti capelli rossi, lunghi fino alle spalle; sapeva che Meresankh non era una donna particolarmente comprensiva: l’avrebbe certamente biasimato. Non si sbagliava: lei non aveva mai davvero accettato che Osiris non avesse sposato una Strega dell’Antica Dinastia. Aveva storto la bocca quando suo figlio, a sedici anni, aveva portato a casa quella ragazzina irlandese, una straniera bianca come il latte e dai capelli di fuoco. Certo, non poteva aspettarsi diversamente con l'allontanamento in Inghilterra, ma la faccenda era stata difficile da mandare giù. “Non durerà” si era detta con cinismo quando l’anno scolastico era ricominciato e i due avrebbero presto lasciato la Scuola: Osiris sarebbe tornato in Egitto, avrebbe scelto un lavoro nella Magiarcheologia e avrebbe sposato Neith, la figlia dello scriba di Tebe. Così era stato scritto. Invece la relazione con la straniera era durata, a tal punto e con una tale intensità che alla fine si erano sposati ed ora aspettavano un bambino. In un primo momento aveva sperato in una femmina, un dono con cui gli Dei non l’avevano benedetta. Eppure, anche se Ainsel ed Osiris avevano taciuto sul sesso del bambino, Meresankh sapeva che sarebbe stato un maschio poiché l’aveva sognato: un bambino marchiato da Amon, sospeso fra le dita di Seth e Horus. Nonostante lo sconforto e la delusione, lei si era arresa, poiché se era questo il Loro volere, chi era lei per negarlo? Non aveva condiviso con nessuno quei pensieri e tanto era bastato per far credere a tutti che andasse bene così. In fondo era sempre stata una donna austera, nessuno si sarebbe stupito del suo scarso entusiasmo. Gli Dei potevano aver scelto un futuro diverso per suo figlio, ma non avrebbero potuto obbligarla ad amare il bambino, né la nuora. C’era però qualcosa che Meresankh non poteva sapere e che avrebbe scoperto solo più tardi, quando l’amore verso quel nipote non desiderato sarebbe sbocciato come loto nel petto.
Cullata dal silenzio del presente, infine la donna si volse lentamente verso il figlio e nel farlo le lunghe trecce inanellate della sua complicata capigliatura tintinnarono nel vento.
«Paura di non essere in grado, figlio?» La sua voce roca prese Osiris di sorpresa e lui sussultò, alzando di scatto il volto. I suoi occhi, simili a quelli della madre per forma e colore, la osservavano pieni di smarrimento.
« Sì. » Colpevole, Osiris abbassò lo sguardo. Allora lei si chinò verso di lui e gli prese il viso fra le mani ingioiellate; i bracciali d’oro e gli anelli erano freddi come il ghiaccio, così come lo erano le sue iridi.
« Nessuno nasce genitore. Tu meno di tutti. Dovrai trovare il tuo equilibrio, Osiris, prima di crescere una creatura. » Mormorò grave.
« Ma come? » Replicò lui, frustrato. Cinse il polso di sua madre e tentò di liberarsi dalla sua presa, ma Meresankh affondò le dita sulla pelle del figlio; il suo profumo, dapprima così confortante, era ora stordente, quasi nauseante.
« Quando gli Dei ti sorrideranno. »

Un forte vento ululava fondendosi al suono sordo della pioggia scrosciante, scuotendo i rami della foresta. In balia della tempesta estiva, le cime degli alberi sembravano danzare al ritmo di un folle rituale che li vedeva stringersi e sfiorarsi e poi, nuovamente, allontanarsi come degli amanti tormentati. Osiris aveva alzato il viso verso il cielo, mentre nella mano destra stringeva la bacchetta illuminata da un fioco lumos che, spesso, veniva oscurato dal lampeggiare dei fulmini, crepe nell’aere.
Gocce d’acqua scivolavano sugli zigomi ambrati dell’uomo che, ad occhi chiusi e con le ciocche attaccate al viso come stille di sangue, bisbigliava parole apparentemente incomprensibili, preghiere arcane di cui ben pochi conoscevano il significato. Poi la lingua incespicò, la memoria lo tradì e le labbra sottili si arricciarono in un’espressione di dolore. L’uomo cadde in ginocchio, nel fango, mentre la bacchetta rotolava via fra le foglie, strappate dalla violenza del vento.
« Non sono pronto per questo, Amon, non sono pronto. » Singhiozzò, quando lacrime amare si unirono alla pioggia. In risposta venne il bubbolare di un tuono, crepitante, che fece tremare la terra e sussultare la Natura: gli Dei erano infuriati.
« Non voglio! Mi avete sentito? NON VOGLIO. » In un impeto di rabbia, Osiris si risollevò in piedi e ciò che teneva ancora nella mano sinistra venne lanciato con violenza contro il tronco dell’imponente frassino che aveva davanti, silenzioso testimone di quella confessione. Lo scricchiolante suono della ceramica infranta fu coperta dal fragore della pioggia.
« NON ORA! » Gridò al Cielo, colpendo la corteccia con forza. La pelle delle nocche si lacerò ma lui continuò, ancora, e ancora, e ancora, e ancora, gridando sempre più forte finché la sua voce non sovrastò la tempesta, poiché quella che scuoteva il suo animo era assai più terribile, assai più tremenda perché generata dalla Paura.
A terra, i frammenti di un’antica statuetta di Iside venivano lentamente sepolti da polvere e fango, nell’abbraccio delle grandi radici.

« Osiris? » Ainsel sollevò la testa dal cuscino, stropicciandosi gli occhi con la mano destra. Dormiva male da quando era incinta, ma questo dettaglio a lui era sfuggito, come del resto quasi tutti gli altri.
« Va tutto bene, credevo di aver sentito un rumore, ma erano solo gli Elfi che chiudevano le imposte. Il temporale le aveva aperte. » Odiava mentirle, ma mentre, a testa bassa e nella penombra, si fiondava nel bagno della loro camera cercando di non gocciolare sul parquet, si disse che era necessario. Si richiuse la porta alle spalle prima che lei potesse rispondere e poi, gettando a terra gli indumenti fradici e maldestramente ripuliti con un incantesimo, si infilò nella doccia dove non poté udire sua moglie bussare alla porta.

« Vuoi dirmi cos’è accaduto ieri sera? »
L’aria dopo il temporale, umida ma piacevole, aveva richiamato una leggera e rinfrescante brezza. Sedevano sulla veranda, illuminati dalla luce di alcune candele sospese a mezz’aria. Ainsel aveva richiuso il libro con uno scatto, ma Osiris non si era mosso, gli occhi ostinatamente rivolti verso la mappa che aveva dispiegato davanti a sé. Sembrava molto antica e degli appunti, in una lingua che ad Ainsel sembrava spagnolo, erano stati scritti ai margini da chissà quali mani intrappolate nel tempo.
« Osiris! » Non ricevendo alcuna risposta, Ainsel alzò la voce, piegandosi in avanti per cercare di vedere il volto di suo marito. Riconosceva quello sguardo disperatamente aggrappato alla pergamena: lei lo comprendeva meglio di chiunque altro, ma c’era qualcosa di alieno, in quegli occhi, persino per lei. Osiris viveva mille vite perdute nei secoli, come stelle spentesi da millenni ma il cui riverbero ancora giungeva lì sopra le loro teste. Lei non riusciva a comprenderlo, ma lui, invece, non riusciva a saziarsi mai di quella luce falsa ed illusoria. Era come essere costantemente in bilico fra Passato e Presente.
« Te l’ho detto. » Fu la sua laconica risposta, pronunciata senza nemmeno alzare lo sguardo; quindi prese un compasso e senza aggiungere altro, si mise a tracciare delle coordinate. Ainsel lo lasciò fare, carezzandosi il grembo ben più ingombrante di qualche mese prima. Si morse un labbro, indecisa, poi sbuffando allungò la mano e gli tolse la cartina da sotto gli occhi.
« Ehi! Che diamine fai? »
« Abbiamo degli incantesimi protettivi intorno la casa. Sei stato via per ore e non ti ho sentito rimetterti a letto. Allora. — Nascose la mappa dietro la schiena e con la mano libera si portò una lunga ciocca dietro l’orecchio —Cosa succede? »
« Io… » La sua risposta, ancora una volta, si fece fioca e si perse lontano, fra gli astri. Osiris era sempre stato piuttosto bravo a mentire: aveva dovuto imparare a farlo, per assaporare un po’ di quella libertà che sua madre gli aveva sempre negato da piccolo. Eppure ora, davanti il viso della donna che amava, non riuscì a dire nulla. La guardò, smarrito, e prima di rendersene conto gli occhi erano scivolati sulla pancia di lei.
« È per lui? » Ainsel lasciò cadere la mappa a terra e si alzò, barcollando. Tremava da capo a piedi, se per il freddo, per paura o per rabbia, Osiris non voleva saperlo.
« Da quando te l’ho detto, sei cambiato. A poco a poco, ogni giorno, mi hai lasciata indietro. Hai cominciato tenendoti occupato il pomeriggio, poi la mattina, infine la sera, finché quasi non ti ho più visto in casa. Hai lasciato a me la decisione di scegliere qualunque cosa, persino il suo nome, come se tutto questo fosse una cosa che riguarda solo me. Ho perso il conto di quante volte abbiamo discusso per delle stupidaggini ed io sono stanca. Sei assente. » Il piccolo petto si alzava e si abbassava, fremente, ed i pugni, chiusi, cercavano disperatamente di arginare l’ira che infiammava i suoi occhi. Le labbra erano livide e per un attimo, prima di riprendere parola, tremarono. Quando pronunciarono ciò che seguì, però, erano ferme e la voce di lei era glaciale, tremenda.
« Ti importa davvero qualcosa di noi, Osiris? Lo vuoi davvero questo bambino? Dimmelo ora. » Osiris sapeva che Ainsel non stava mentendo né che fosse preda di chissà quale isteria da gravidanza. Era colpevole ed ogni sua parola era una freccia dritta al petto. Non rispose e chiuse gli occhi, sentendo la vergogna serpeggiare dentro di lui. Il suo sangue inquinato dalle malevoli voci di Seth era un torrente in piena che rombava nelle sue orecchie e lui non ebbe il coraggio di guardare il viso sfigurato dalla delusione di sua moglie. Da quando aveva saputo che lei era incinta, tutto il suo mondo era stato rovesciato, così come quel precario equilibrio che aveva trovato in quel Paese che mai aveva sentito suo. Si sentiva sospeso in un limbo che non aveva forma, incapace di dormire o anche solo di starsene seduto: avvertiva il bisogno di uscire, tenere occupata la testa, viaggiare lontano dove altre vite incise in una stele o su un sarcofago lo avrebbero aspettato. Non voleva pensare a ciò che sarebbe stato, non voleva pensare a quel che sarebbe cambiato una volta che lui fosse nato; era un geroglifico troppo difficile da decifrare, persino per lui.
« Tu stai per partire.» Fu questo, pronunciato dall’algida voce di Ainsel, a spingerlo a strapparsi dal pentimento e a fissarla, sbigottito.
« Come… »
« Come lo so? » Lei rise ed una punta di risentimento e beffa increspò il suono di quella risata senza sentimento.
« Dovresti tenere in ordine i tuoi gufo, Osiris. Il tuo amico Sahid ti aspetta a dicembre in Messico: che coincidenza, è proprio il periodo della nascita di nostro figlio! » Lo sguardo di lei era inflessibile. Ainsel non era molto alta e non era mai stata temibile, soprattutto da quando era incinta. Eppure, nonostante lui la sovrastasse in altezza e in prestanza, si sentì schiacciato dalla gravità e dalla furia di quel mare che lei aveva negli occhi. Si sentì un imbecille e si alzò di scatto, muovendo un passo verso di lei, addolorato nel volto e nell’anima.
Come spiegarle?
Come rivelarle la paura che covava dentro di sé, se persino lui non ne comprendeva l'origine? Come poteva anche solo pensare di crescere un figlio, quando il suo cuore era intrappolato? Come ammettere che, in realtà, sentiva su di sé una colpa che non aveva, ma che sua madre gli aveva sempre rinfacciato da tutta una vita?
« Ainsel, ascolta… » Si sporse verso di lei, tentando di afferrarle la mano, ma Ainsel indietreggiò. Nei suoi occhi non una lacrima s’era intromessa.
« No, Osiris. Non toccarmi. Puoi andartene… puoi… » Il singulto che le sfuggì tradì un controllo che non possedeva più e lei si morse le labbra, troppo orgogliosa per cedere.
Tremava, quella forte, piccola donna.
Come una foglia in balia del vento. Quel vento che lo richiamava dalla nascita e che lui, temeva, avrebbe richiamato un giorno anche suo figlio. Non era forse questo che aveva scoperto, nella cripta della sua famiglia? Non era forse quello il motivo per cui sua madre tanto detestava l’idea di aver avuto un maschio? Aveva sempre creduto che fosse per il dispiacere di non poter continuare la tradizione. Generazioni di donne sacerdotesse che avevano servito la Dea Sekhmet tanto devotamente da essere state benedette dal suo stesso nome. Guerriere, genitrici di altre guerriere. E poi c’era lui, Osiris, che aveva spezzato la catena e che aveva portato il disonore su Meresankh e la dinastia. Per questo lei era fuggita in Inghilterra, per questo lo aveva rinchiuso ad Hogwarts e per questo lui seguiva i sussurri del Vento che udiva ogni ora della sua vita. Perché lui, Osiris, era questo: non era un soldato, non era un combattente, non era un guerriero o un sacerdote. Lui era semplicemente vento. lo squilibrio perpetuo di una creatura infelice: a questo la Dea Nut lo aveva condannato. Ed era un segreto che non aveva mai avuto il coraggio di rivelare nemmeno a sua moglie. Ora, però, era diverso.
« Ainsel… ti prego, lasciami spiegare… »
Avanzò ancora, lentamente, come se stesse approcciandosi ad una belva feroce. Ed in effetti, Ainsel, a dispetto delle apparenze, lo era sempre stata, in fondo. Ribelle, solitaria, feroce: rappresentava perfettamente quello che era l’emblema della casata della sua famiglia. Non a caso, ricordò con un sorriso amaro, ad Hogwarts era soprannominata la Lupa Irlandese. Adesso, mentre la guardava in preda all’ira e alla tristezza, mentre si stringeva il pancione nel desiderio di proteggere il piccolo che portava in grembo, Osiris non poté che arrendersi all’evidenza di quanto amasse quella donna, nonostante tutto.
« No, Osiris. Non ti avvicin… ah! » Improvvisamente la voce di lei si spezzò in un gemito di dolore e tentennò pericolosamente in avanti. Spaventato, Osiris le corse incontro, sostenendola un secondo prima che cadesse a terra e perdesse i sensi. Gli si accasciò fra le braccia e lui, in panico, la strinse, chiamandola ripetutamente. Poi, con orrore, lo vide: scorreva lento e mostruoso, macchiando oscenamente la pelle chiara delle gambe di lei, un rivolo di sangue.



« Avevate detto che stava bene, che non c’era da preoccuparsi, che l’incidente non aveva compromesso né lei, né il bambino. »
« S-sì, era così, m-ma non sapevamo che… »
« Voglio vedere mia moglie. E mio figlio. »
Il Medimago si torse le mani e si scambiò uno sguardo preoccupato con la Guaritrice, una donnetta bassa e robusta con gli occhi di un Crup bastonato.
« Ehm… signor Sekhmeth…— Si intromise, timida —« Riteniamo che non sia il caso… suo figlio è sotto l’effetto di alcuni incantesimi di guarigione e… »
Osiris avanzò, il viso non troppo dissimile ad una maschera di pietra; estrasse la bacchetta e la puntò contro i due dipendenti del San Mungo che indietreggiarono spaventati. Il corridoio era deserto, nessuno si sarebbe accorto di un paio d’imbecilli in meno.
« Voglio vederli, ora. »

Il piccolo riposava in un teca di vetro, come una preziosa reliqua rinchiusa in un museo. Alcuni Guaritori stavano eseguendo dei rituali, imponendo mani e bacchette davanti il suo corpo minuto e pallido. Osiris si portò la mano alle labbra, guardando il fagottino muovere debolmente le dita; una grossa macchia scura deturpava grottescamente la parte sinistra del suo visetto paffuto.
Dall’incidente di quella sera, tre mesi prima, la paura che aveva provato nel petto si era tramutato in terrore. Mentre Ainsel era stata prontamente soccorsa dai Medimaghi del San Mungo, lui si era appoggiato al muro della corsia col cuore che batteva all’impazzata. Quando aveva visto il sangue, aveva sentito il respiro mozzarsi, la vita abbandonarlo perché qualcosa di assai più terribile s’era presentato, lo scotto che gli Dei avevano preteso per il suo egoismo. Si era accasciato in un angolo con la testa fra le mani, ricordando tutti quei Maghi e Streghe accalcarsi attorno a sua moglie. E così aveva capito come quella paura nascondesse, in realtà, ben altro. Finora rinchiusa in un bozzolo dall’aria familiare, era stata fagocitata da un terrore ancora più grande. Quando era entrato nella stanza e aveva sentito che era andato tutto bene, che il bambino ed Ainsel si sarebbero ripresi, Osiris aveva capito che quel sentimento sinistro che adombrava il suo animo non era verso se stesso, ma verso suo figlio. Si rese conto che il timore di non vederlo crescere, la paura che un giorno potesse abbandonarlo, come lui aveva fatto con i suoi genitori, era tale da averlo spinto a rifugiarsi nella negazione; una paura così naturale, così banale, così reale.. Allora era corso da Ainsel e le aveva chiesto perdono, in lacrime, Osiris aveva realizzato che aveva desiderato quel bambino nell’esatto momento in cui gli era stato detto e che il solo pensiero di averlo perduto aveva annientato ogni altra stupida ed egocentrica fobia. Da quel giorno, pur consapevole del proprio destino, si era impegnato per trovare una giusta Via nel Chaos: gli Dei lo avevano sottoposto ad una prova e lui gli era stato grato per questo. Eppure ora, ritrovarsi nuovamente in balia di quella tempesta, metteva a dura prova la sua fede. Forse gli Dei erano ancora in collera con lui, forse gli avevano donato la speranza perché il dolore sarebbe stato ancor più grande. Era questa la sua punizione? Un’infezione talmente aggressiva ed improvvisa da costringere un parto prematuro: tutto affinché lui potesse assistere alla morte di quel figlio che aveva inizialmente, ed erroneamente, rinnegato.
« Signore? »
La voce accorata di un'altra Guaritrice lo distrasse. Gli aveva posato una mano sul braccio e Osiris l’aveva guardata lentamente.
« Ora vuole vedere sua moglie? »

Tre sere dopo, Osiris sedeva ancora sotto quella veranda e gli occhi, persi nel vuoto, seguivano distrattamente un minuscolo merlo che aveva trasfigurato da una foglia. Sospirò e porse la mano verso l’uccellino che gli si posò sul palmo e svanì. Erano stati costretti a tornare a casa, nonostante le proteste: “inutile rimanere, non c’è più niente da fare, solo aspettare”. La macchia rossa concentrava tutto il sangue in quel solo punto, come un parassita, ed il bambino non aveva abbastanza forze per mantenere attivi gli altri organi vitali. “Se sopravviverà, potrebbe non avere una goccia di Magia dentro di sé”, così il Medimago li aveva liquidati, con un sorrisetto di circostanza e una pacca sulla spalla. “Ci vediamo domani mattina, andate a riposare” e tante care cose.
« Andrà bene. » Silenziosa, Ainsel si era avvicinata a lui e, debolmente, si era seduta al suo fianco. Dall’incidente, avevano ritrovato una fragile serenità e quando lei gli cinse la mano e se la portò al petto, Osiris si voltò e la strinse a sé.
« Gli Dei mi hanno punito… » Sussurrò lui, affondando il viso nella chioma folta di lei. Ainsel, però, sorrise e passò le dita fra i capelli del marito.
« E ti perdoneranno, perché io li ho implorati. »
« Tu… cosa? » Incredulo, Osiris si discostò e la guardò aggrottando le sopracciglia. Non avevano mai parlato dei loro Credo, ben consapevoli che in entrambi dimoravano diverse tradizioni che il bambino sarebbe stato libero di scegliere, una volta grande.
« Ho chiesto al tuo Amon di perdonarti e di benedire Brénnain… se accadrà… lo… lo consacreremo a lui e dimenticheremo quest’incubo. » Confessò, abbozzando un fioco sorriso. Ainsel si volse distrattamente verso il bosco che confinava con la loro casa e tacque, mentre Osiris ne osservava il riflesso baciato dalla luna.

L’indomani un insolitamente caldo sole di novembre li aveva accompagnati fino al San Mungo. In una stanza illuminata da una luce morbida, Ainsel sedeva su una poltrona verde scuro e le guance brillavano per le lacrime che le avevano bagnato le lentiggini. Rideva e stringeva a sé un bambino dai folti riccioli rosso scuro che tentava di afferrarle i capelli. Di quella grande macchia non era rimasta che una voglia di fuoco che circondava il suo occhio sinistro, stonando sulla pelle immacolata. Osiris li osservava appoggiato allo stipite della porta, il cuore accarezzato da un sentimento così puro da non avere parole per poterlo descrivere: il bambino, il suo bambino ce l’aveva fatta. Abbassò gli occhi, riconoscente, e si guardò le mani, mentre il Sole gli baciava i palmi.
« Vieni a conoscerlo? » Ainsel lo guardò e gli sorrise e lui non poté fare altro che avvicinarsi e chinarsi dinanzi a lei. Nel vedere sua moglie e suo figlio ridere, Osiris comprese ciò che sua madre voleva dirgli mesi prima. Non era più in collera con i suoi Dei, poiché aveva compreso che tutto quello che era accaduto era servito affinché scoprisse l’Amore. Nel riflesso di quei due volti che amava, ora vedeva gli Dei sorridergli. Ma avevano lasciato un monito: il simbolo sacro sul viso del bambino avrebbe ricordato all’uomo il peso delle sue scelte.
Cuore e piuma erano ora perfettamente in equilibrio sulla bilancia dell’Aldilà: quale dei due avrebbe prevalso sull’altro l’avrebbe deciso Osiris, col tempo.
« Ciao... Horus. » Sussurrò ricolmo di gratitudine, stringendo la minuscola manina di suo figlio.

◤It is not in the stars to hold our destiny but in ourselves.◥Code © Horus



Edited by Horus Sekhmeth - 8/5/2023, 16:55
 
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view post Posted on 27/4/2023, 23:08
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E R A S E D
Ti percepisco.
Percepisco il tuo sguardo sulle mie spalle come un pugnale puntato fra le scapole;
percepisco il tuo profumo permearmi la pelle, lo sento sulle labbra come se ti avessi baciata.
Quel maledetto profumo che mi avvolge fra le sue spire, lo spettro di te che mi tormenta, mi ossessiona.
Eppure mi allontano a passo lento, cadenzato, percorrendo il sentiero pieno di lucciole che riconduce al cancello di Hogwarts. Sto paventando la stessa calma che ho mostrato quando ti sono passato vicino, senza tuttavia essere riuscito a frenare quell’unica parola che ti ho sibilato.
È la calma che hai frantumato con le tue parole gelide: continuo ad ostentarla come fosse un dispetto. Mi mostro così, come se tu fossi ancora là dove ti ho lasciata, a guardarmi andare via, ancora una volta. Cosa mi aspettavo? Che ti arrabbiassi o che mi cercassi? Che fossi felice o infuriata? Continuo chiedermelo mentre cerco di ritrovare il controllo del mio respiro sempre più incontrollato: cosa avrei fatto se fosse andata diversamente? Se al posto di quel “buona serata” tu mi avessi detto qualcosa di diverso? Qualsiasi altra cosa, in fondo, sarebbe andata bene… no?
Forse no.
O tutto, o niente, mi dico rabbioso. Quando sfioro con lo sguardo la superficie nera del Lago, quando supero l’ultima folla di ragazzi esultanti per la Coppa delle Case, allora comincio a correre.
Corro più veloce che posso, con il respiro smorzato, il grido incastrato nella gola.
Corro verso la foresta, ma forse è più corretto dire che sto scappando.
Scappo da te. Scappo da tutto ciò che siamo stati e che mai saremo. Scappo da ciò che ho scelto, da Lui. Lui che mi ha lasciato spogliato di tutto. 
Scappo dalla rabbia che provo nei tuoi e nei miei confronti, per ciò che mi devasta dentro.
Scappo e basta.
Serro la mascella, mentre dalla tasca estraggo la bacchetta: me la punto alla tempia con furia.
E la carne si fa aria.

Il falco risale verso il cielo fra le fronde degli alberi e in pochi vigorosi battiti le piume sfiorano le ultime foglie, prima di vibrare nel vento. Il suo stridio acuto, terrifico, fa sussultare i gufi che, appollaiati sui rami in attesa della caccia, si irritano per quello sciocco rapace che fa scappare le loro prede. Ma mentre vira verso le montagne della Scozia, lasciandosi dietro le guglie del castello di Hogwarts, il falco è ormai lontano da tutto, straniero ai sentimenti umani di cui, lo sa, tornerà schiavo non appena i piedi dell’uomo toccheranno la terra.
Ma adesso no, adesso c’è solo il cielo colmo di stelle sopra la sua testa e sopra le sue ali.


L’atrio del palazzo è vuoto: vista l’ora tarda, sarebbe strano il contrario. Risalgo le scale come in trance e giunto al secondo piano batto il pugno con forza sulla porta, incurante di chi possa star dormendo. I tonfi rimbombano per quelli che mi sembrano una quantità incredibile di minuti.
Quando Isabella apre la porta di casa, impiega diverso tempo per capire chi ha davanti. Sono sicuro che abbia aperto senza nemmeno guardare dallo spioncino, la stupida. Ha gli occhi gonfi ed arrossati per il sonno ed indossa un imbarazzante pigiama di pile con nuvole bianche su sfondo azzurro cielo. Qualcosa per cui l’avrei sicuramente presa in giro, in un’altra occasione.
« Ma che cazz… Horus?! » riesce a dire, la voce ancora impastata dalla dormita che ho interrotto. Si stropiccia gli occhi, non so se per incredulità o per scacciare il residuo sonno.
« Tu lo sapevi. » ringhio. Non mi fa tenerezza, non provo dispiacere per averla svegliata. Per tutta la sera da quando ho visto Emily, non ho fatto altro che pensare che ci fosse Isabella, dietro quell’incontro. Lo so che è irrazionale, so che suo fratello Leon è un Grifondoro e non avrebbe mai potuto sapere cosa avrebbe fatto una Serpeverde, non più nemmeno Caposcuola. Ma non mi importa: ho bisogno di un capro espiratorio ora.
Lei mi rivolge un'occhiata stralunata, probabilmente pensa che io sia vittima di un Confundus ma poi improvvisamente la consapevolezza spazza via gli ultimi rimasugli di stanchezza. Spalanca gli occhi e la sua espressione si fa sveglia, attenta. La vedo indugiare sui miei capelli arruffati, sui graffi sulle guance, sulla terra che macchia la mia camicia dai bottoni saltati, sugli strappi all’altezza delle ginocchia sbucciate come quelle di un ragazzino. Isabella non sa che sono un Animagus, ma anche senza questa informazione capisce chiaramente che è successo qualcosa.
Io, invece, so di aver perso il controllo di quella forma animale che ormai padroneggio alla perfezione, o almeno così credevo fino a stanotte. Digrigno i denti, li sento stridere con ferocia.
« No. » mi dice limpidamente, anche se la vedo stringere la presa sul bordo della porta.
« Non lo sapevo. » ripete e lo fa guardandomi dritto negli occhi. Nelle sue iridi nere leggo un dispiacere sincero, un senso di colpa che non ammetterà mai. Probabilmente ha supposto che sarebbe potuta esistere la possibilità che Lei potesse essere lì, ma ha comunque deciso di convincermi subdolamente a presentarmi a quella stupida festa. Forse perché io per primo ho finto di essere andato avanti con tutta la somma delle cazzate che ho fatto, convinto di non aver bisogno d’altro e di poter confermare quella bugia con qualcun’altra, anche solo per una notte. Anche a costo di spezzare Amber o Sitra.
Ma Isabella non sa perché io abbia deciso di lasciare Emily; conosce tutta la storia, o almeno… quella che ho deciso di raccontarle, ma le ho imposto di non chiedermi mai il perché della mia scelta. E lei, anche se non ha mai compreso, l’ha sempre rispettato.
« Hor… »
Improvvisamente tutta la mia rabbia nei suoi confronti scivola via per quel sussurro accorato che mi rivolge. La nebbia d’ira che mi offusca sparisce e io vedo solo un’amica che non ha fatto altro che cercare di farmi andare avanti. Tentenno, ma poi mi sporgo in avanti e l’abbraccio. O forse dovrei dire che mi aggrappo. Isabella mi stringe, preme la mia testa sulla sua spalla. Il peso del mio corpo per lei che a dispetto della sua statura minuta è incredibilmente forte, non è un problema e mi sostiene, come se tutti i suoi allenamenti fossero serviti solo a quello.
Ho bisogno di quell’abbraccio e rimaniamo così come due sciocchi sulla soglia di casa. Non c’è nessuno a vederci e in ogni caso, non mi importerebbe.
« Vieni dentro. » mi dice poi in tono un po’ rude e autoritario.
La seguo nel salone improvvisamente intontito, senza guardarmi intorno. Ho gli occhi fissi sulla schiena di Isa, sui suoi dreadlocks che ondeggiano ipnotici. Mi indica il divano pieno di cuscini colorati e totalmente fuori posto in quel contesto, il peluche di un Ungaro Spinato.
« Ti preparo un tè. » dice burbera, facendo svolazzare la bacchetta verso la dispensa.
Guardo il divano per qualche istante, ma decido che non voglio sprofondare in quella comodità. Preferisco sedermi sul morbido tappeto color senape. Ora che sono fermo, il corpo mi fa male per la caduta e percepisco tutta la tensione cui l’ho costretto.
« È più grave di quel che pensassi se ti metti lì per terra! » Isa prova a scherzare, abbozza un sorriso a cui rispondo solo con un piccolo cenno delle labbra. Non riesco a fare di più, ho il viso intorpidito.
Poi sento una vocina piccola, acuta, provenire dal corridoio buio.
« Tia! Tia! »
Isa sparisce nella stanza della piccola Emma e io bevo il mio tè in silenzio mentre la sento calmare la bimba con una ninnananna in italiano.
« Scusa… non volevo svegliarla… » bisbiglio quando torna, senza però guardarla e concentrandomi solo sul vapore che esala dalla tazza.
« Ma sì, tranquillo. È nella fase dei capricci notturni. » Si lascia cadere sul tappeto vicino a me e allunga le gambe. Poi mi fissa e si batte la mano sulle cosce.
« Avanti, ragazzone, vieni anche tu dalla zia. » sghignazza. La guardo male, ma poi mollo la tazza sul pavimento e scivolo giù. Appoggio la testa sul suo grembo, grato di quella dolcezza —rara ma speciale— che mi riserva quella che ormai riconosco come la mia migliore amica.
Non dico nulla, rannicchio le ginocchia al petto, come un bambino.
Chissá che scena assurda deve essere vista dal di fuori. Ma è solo per stanotte, mi dico: solo per questa notte mostrerò il mio dolore, il mio rimpianto più grande. Non c’è bisogno di spiegare: Isabella ha capito e non chiede, non fa domande. Non ne ha bisogno, lo vede dai miei occhi arrossati. Mi toglie piano delle foglie dai capelli, mi accarezza la schiena come si fa con un cane ferito.

Ricordo tutto di quella notte, nell’aula di Storia della Magia. Ricordo quelle mani sottili che mi hanno cancellato dal petto non solo le ferite, ma il terrore che per anni mi ha atterrito, avvicinandosi a me quando mi ero ormai convinto che respingessi chiunque come una calamita dai poli invertiti. Quando lei s’è fatta avanti, insinuandosi fra le mie paure, trattenendomi prima che cadessi, che fuggissi, che mi sgretolassi divorato dall’interno.
Ricordo i suoi baci, il suo corpo ed il mio, insieme, su quel pavimento ghiacciato. Ricordo quando, sentendola bisbigliare nel sonno, ho creduto che niente, niente lì fuori avrebbe potuto separarci, che nulla di orribile ci sarebbe accaduto e che eravamo solo due adolescenti come tanti altri.
Dio, fammi tornare a quel momento, quando mi stringeva a sé come se fossi il suo tesoro più prezioso e mi sussurrava dolcemente all’orecchio: “Ti amo, Ra”.
Voglio sentirlo ancora una volta.


Nascondo il viso nella stoffa del pigiama di Isabella nello stupido tentativo di arginare il pizzicore che sento agli occhi e per allontanare i ricordi che, come un fiume in piena, mi invadono la testa. Memorie che per anni ho cercato di dimenticare, illudendomi persino di esserci riuscito.
Non è vero che mi va bene. Non è vero un cazzo.
Tutto ciò che ho fatto per te, padre, non ha fatto altro che annientarmi, un frammento alla volta: sono in balia di Seth e tu lo sai, mi hai gettato in pasto a lui al tuo posto e oramai non posso più tornare indietro.
Ma la rabbia, ora, non è più una vampa incontrollabile: si è acquietata lentamente cullata dalla stanchezza e dal tocco rassicurante di Isabella. Di quella cenere è rimasto solo un senso di sofferenza che mi stringe lo stomaco. Poi, poco a poco, stravolto, scivolo nel sonno.
Quando sto per addormentarmi, sento Isa sospirare, avvilita.
« Non hai mai smesso… »

Stringo gli occhi, e mando giù quel nodo che mi attanaglia la gola.
No. Mai.

Ma non lo dico.

— 24 yrs – post "The Roaring 20s" —Code © Horus



Edited by Horus Sekhmeth - 14/10/2023, 10:55
 
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view post Posted on 15/10/2023, 11:55
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theUnforgiven
Non so quanto tempo rimaniamo così.
Sotto le palpebre chiuse rivivo l’incubo non solo di questi minuti –oppure sono ore? Giorni?–, ma tutto ciò che è accaduto negli ultimi anni. Ho snudato i denti come una belva ferita, col viso al sicuro nel’incavo della tua spalla, stretto dalle tue braccia.
Sento l’eco della tua voce che ora, nella nostra lingua, torno a riconoscere: mi accarezza la guancia, le orecchie.
“…per un graffietto?”
Che sbruffona. Eppure ti ho dedicato solo un sorriso tremante, incapace di ridere perché il soffio esalato dalle tue labbra mi ha portato a stringerti ancora di più, salvo ricordarmi della ferita appena rimarginata.
Ciò che proprio non riesco ad accettare sono state le tue ultime parole prima di chiedermi di portarti via, a riposare.

Ti sollevo come fossi fatta d’aria, le tue braccia mi cingono il collo: sono lingue di vento, mi sfiorano la nuca come le nubi del cielo.
Casa tua è semplice, spartana: non sei una tipa da tanti fronzoli, tu. Non me ne stupisco.
I miei occhi si abituano al buio di una sola candela su uno scrittoio semi-vuoto addossato ad una parete.
Quando ti adagio sulle lenzuola fresche, emetti appena un minuscolo gemito di dolore.
Il cuore si è fatto più grande, nel mio petto: Ib trema davanti al tuo coraggio e penso solo che Sekhmet –se solo avesse guardato– sarebbe stata fiera di te.
Ti sposto le ciocche disordinate dal viso, osservo la pelle mortalmente pallida tendersi sugli zigomi, privi della vitalità del loro consueto rossore.
Le tue ciglia nascondono un tremito, tradito dalla tua bocca. 
La mia rabbia s’acquieta, s’acciambella nella gabbia toracica, ma la sento lì: non è sparita, non è nascosta, mi sta logorando, divorandomi pezzo per pezzo dall’interno con una calma atroce, devastante.
È come se la barca solare dove nostro signore Amon Ra viaggia ogni notte non avesse più alcuna protezione dai demoni dell’oltretomba.
Come sotto la volta celeste, sono solo, qui.
Distolgo lo sguardo da te con un gesto infastidito e torno sul terrazzo. Mi sembra quasi di vedere ancora l’ombra del Mangiamorte laddove c’era il tuo corpo. Per un solo istante mi concedo di fissare le macchie di sangue sulle mattonelle, poi volto le spalle e raccolgo le nostre bacchette.
I miei gesti sono meccanici, controllati: le mani non tremano più, gli occhi non sono più inumiditi dalla paura e dalla sofferenza. Sono frammenti d’acciaio che scrutano l’orizzonte, verso est, in direzione di Giza, lontana dallo scorrere placido del Nilo e delle sue promesse di vita eterna.

Ra, fra le mie braccia, è ancora più leggero di Sitra: è quasi impalpabile. Ma il becco che scatta, lo sguardo vigile mi fanno tirare un sospiro di sollievo, il primo a librarsi fuori dalla mia gola.
Stringo anche lui al mio cuore e dolcemente pigola, come quand’era solo un pulcino come me.
Quando torno nella camera, Sitra sta dormendo. Il suo respiro lento, ma cadenzato, è una ninna nanna che potrebbe convincermi a sdraiarmi vicino a lei, riposare, ma sorrido scettico.
Vorrei poterlo fare, perché il mio corpo chiede pietà e altrettanto fa la mia mente, ma l’urgenza del suo avvertimento non mi permette di sostare più del necessario.
Poso Ra ai piedi del letto, togliendo le bende imbevute della fonte di Hapi con delicatezza: la Magia ha funzionato, è guarito, ma non riesco a ringraziare gli Dei.
Tutto questo non sarebbe dovuto succedere.
Gli carezzo la testa mentre lui s’appollaia sul ciglio della sponda di legno. Lui socchiude gli occhi per un istante, poi nasconde la testa sotto l’ala e a me scappa uno sbuffo.
Osservo in silenzio, al chiarore della luna, questa scena idilliaca che mi si para davanti.
Sarei felice così, in quest’angolo di Egitto, in questa casa piccola, umile, ma accogliente? Con la cena calda sul tavolo, il vino sulle labbra e il riso sulla bocca di Sitra appoggiata alla mia spalla, ad osservare gli dei benevoli sopra di noi.
Sarei felice se ci fosse lei a dormire al mio fianco, con Ra che si libra libero nel cielo, mi accompagna nelle nostre consuete cacce, senza alcuna minaccia a penderci come una spada di Damocle sul capo? Sarebbe questa, la serenità?

Non per me.
Non ora.
Forse mai.


Scivolo a terra: poggio la schiena contro il bordo del letto e reclino la testa sull’orlo del materasso. Mi concentro sul respiro di Sitra, pronto a captare qualsiasi variazione.
Col braccio sopra il ginocchio, faccio dondolare la mano, pensieroso.
Il soffitto sopra di me è oscuro, come la cappa del Mangiamorte; come l’Ankh raffigurata nella pergamena di mio padre.

Non mi sono reso conto di essermi addormentato. Riapro gli occhi a fatica e batto le palpebre un paio di volte prima di accorgermi di dove sono. Guardo veloce l’orologio al mio polso, imprecando a bassa voce. Non sono passate che un paio d’ore e mi permetto di respirare. Quando mi rialzo, la prima cosa che faccio è avvicinare il dorso della mano alle labbra di Sitra per controllare il ritmo della sua respirazione. È profonda, tranquilla; ha una mano sul ventre, la testa girata da un lato. Ra non c’è, ma non mi allarmo: so che è fuori.
Tentenno un lungo minuto: potrei rimanere qui, attendere che si risvegli, assicurarmi che stia bene e poi, solo dopo, procedere verso Giza ad affrontare qualcosa probabilmente molto più grande di me. In fondo sapevo che questa ricerca mi avrebbe portato su strade sotterranee, lontane dalla luce di Amon, nel mondo caotico di Seth. È per questo che non ho salutato nessuno e ho mentito a tutti: a mia madre, a Isabella, Ned e persino a Nieve, benché sia l’unica a parte mia madre a sapere quantomeno dove sono.

Mi avvicino alla scrivania e rovisto finché non trovo un pezzo di pergamena e una piuma.
Vergo velocemente un messaggio, poi lo piego in quattro e mi dirigo verso la porta che dà sul terrazzo.
Prima, però, sosto ancora vicino al letto di Sitra e un angolo della bocca si arriccia.
Mi chino sulla sua fronte e le labbra sfiorano la sua pelle tiepida.
Quando ti ho detto perché non potevo legarmi a qualcuno, tu mi hai detto –prima di addormentarti– che i legami non sono una debolezza.
« Una debolezza no… » ti correggo in un sussurro « un pericolo… sì. »
Quello che lascio è un bacio leggero, forse più doloroso del pugnale che avrebbe dovuto conficcarsi nel mio, di fianco.

Quando esco, ho rimesso l’orecchino al lobo sinistro.

« So che lo odi, ma ho bisogno che porti questo a Meresankh. »
Sopra al mio braccio, Ra fa schioccare il becco: detesta fare il gufo postino, ma questa volta tende la zampa senza fare storie cosicché io possa assicurare il biglietto da recapitare.
Salgo sul muretto del terrazzo e guardo nuovamente i profili luminosi e addormentati delle case in lontananza: sto cercando Sopdet –Sirio, per gli stranieri– affinché mi guidi.
Accarezzo il collo di Ra e sento i suoi artigli premere delicatamente sull’avambraccio scoperto, lasciando solchi rossi sulla pelle, un linguaggio che conosco solo io.
« Raggiungimi a Giza. Sta’ attento, i semr.*»

Con uno slancio del mio braccio, Ra prende il volo spalancando le grandi ali e io lo osservo allontanarsi e sparire nel buio in direzione del tempio, dove mia nonna starà compiendo gli ultimi rituali di chiusura della notte. Tentenno, penso alla preoccupazione in cui lascerò Sitra, l’unica a sapere cos’è successo. Dovrei scriverle, ma… non posso. Non voglio lasciare tracce, non voglio che lei…
Chiudo gli occhi e mi punto la bacchetta alla tempia.

Le mie ali sono un’ombra che si staglia tra le stelle silenziose.



*= *i semr (i smr) = mio sangue (mio compagno).

PostHadiat min alraml; PreMirror of Daedalus Code © Horus

 
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view post Posted on 30/3/2024, 22:33
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◤ Contest a Tema, marzo 2024: Focolare ◥

– Itaca –
3 anni prima

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– Ainsel —
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Villa Andromeda - Somerset

« Allora, tesoro, sei agitato? »
La voce di mia madre mi spinge ad alzare il viso dalle pagine ingiallite che sto leggendo ed io, accecato dal sole inglese (ben più mite di quello d’Egitto) impiego un attimo per metterla a fuoco.
« Per? » Domando schermandomi gli occhi con una mano.
Lei si siede di fianco a me ed il suo profumo di gelsomino mi accarezza come se le sue dita mi sfiorassero la guancia.
Mi rinvengo subito, chiudendo il libro con uno scatto secco.
«Per domani intendi? » È una domanda retorica a cui lei risponde con un cenno della testa.
« Mah, meno di quel che pensi. » Mi stringo nelle spalle, passandomi le dita fra i capelli e guardando distrattamente le siepi che circondano casa.
Da quando sono tornato, dopo gli anni passati tra Menfi e Nekhen*, il giardino è esploso di colori e piante: le ortensie, i cespugli farfallini e i narcisi sono più rigogliosi che mai e perennemente in fiore; bello, bellissimo, ma una grande sfortuna per me e per la mia allergia. Il prato, poi, è di un verde meraviglioso e accecante, le rose così brillanti da sembrare finte. Senza parlare poi della monstera gigantesca e i pothos che riempiono ogni mensola del salotto e della cucina. Sinceramente non ho la più pallida idea di come diavolo mia madre faccia a far crescere tutte queste piante; è veramente assurdo pensando a quanto io sia sempre stato un ignorante totale in Erbologia; materia che è poi sempre stata l’unica che ho trovato davvero complicata e che ho odiato, subito dopo quello schifo di Divinazione.
Mamma non risponde subito; con le mani gioca con la stoffa bianca della sua gonna a pieghe, lunga fino alle caviglie, e come me guarda le siepi. Io ne osservo i lineamenti con molta attenzione: il naso alla francese, il viso pieno di lentiggini, le lunghe ciglia bionde, gli intensi occhi blu mare.
Lo so a cosa sta pensando: a papà.
Quando le ho detto cosa avrei voluto fare e le ho rivelato che lo studio era il motivo (più o meno principale) per cui sono andato a stare in Egitto per ben tre anni, non l’ha presa bene.
Dopo la Sua scomparsa, il suo attaccamento nei miei confronti è aumentato al punto da risultare spesso e volentieri piuttosto soffocante. Ce l’ho avuta con lei per un po’, quando Camille spezzò il sigillo** e io ho scoperto come mamma avesse incantato la mia mente affinché non ricordassi del legame fra Osiris e i Mangiamorte, quando origliai una conversazione fra i miei genitori.
Col tempo ho imparato a perdonarla: papà e mamma si sono amati così tanto che persino io, bambino, riuscivo a comprendere la grandezza di quel sentimento. Perderlo e vivere nella speranza che fosse ancora vivo, anno dopo anno, è stato logorante per me che ero il figlio, figuriamoci per lei che era la moglie.
Perciò è normale che non fosse particolarmente entusiasta della mia scelta di lavorare come Spezzaincantesimi, la figura che, in teoria, avrebbe dovuto proteggere papà durante tutte le sue missioni… inclusa l’ultima.
« Questo… »
La sua voce è roca, come se emergesse da pensieri profondi cui io non ho accesso. Si volta piano, si porta una ciocca dietro l’orecchio. « … Non ha nulla a che fare con lui… vero? »
Mi immobilizzo al mio posto e trattengo il respiro.
Non parliamo mai di papà, mai: le sue foto sono scomparse da casa, la porta del suo studio è perennemente chiusa, i suoi abiti sigillati in un baule in soffitta. Persino sul letto matrimoniale non esiste un cuscino che possa anche solo lasciarne ipotizzare un’impronta, una presenza, un fantasma. Come se, una volta sparite le sue cose, fosse possibile dimenticarne l’esistenza in questa casa, il calore della sua risata spazzata via dall’inesistenza del suo viso.
Mamma mi fissa ed io, a disagio, mi costringo a guardare altrove, fra le fronde degli alberi.
« No, certo che no. » Mi affretto a rispondere, consapevole, però, che il dubbio si insinui in ogni parola pronunciata.
Sussulto quando le sue dita gelide mi sfiorano il viso in una carezza dolce. Mi costringo a guardarla, consapevole della sofferenza e della nostalgia che per un attimo soltanto offusca l’oceano delle sue iridi. Raccolgo la sua mano nella mia, lasciando che indugi sulla pelle abbronzata del mio volto. Le sorrido con dolcezza, incoraggiante.
« Va tutto bene, mamma. Io torno sempre a casa, lo sai. »
Casa… lo so che non sempre è facile chiamarla così, non davvero, ma in fondo, mamma, non mi hai sempre detto che ci possiamo bastare, tu ed io?
Eppure dal tuo sguardo adesso non mi sembra più così: è un fuoco debole in un camino pieno di ceneri ma che tuttavia resiste, si inerpica come quel pothos in cucina.
Lei annuisce piano, ma non risponde al sorriso.
« Dovresti proprio rasartela la barba, Horus. E quei capelli… sono troppo lunghi. »
Lunghi… come li portava Lui.
Quando rientro in salone lasciandola sola in veranda, mi sembra di udire un singhiozzo.

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– Isabella —
yvRNU5J
Dipartimento Spezzaincantesimi

« Bene Sekhmeth, Saitou ci ha avvisato delle tue conoscenze e dei tuoi studi, motivo per il quale a quanto pare puoi saltare la prima parte dell’addestramento. »
Il tizio davanti a me, di cui tra l’altro nemmeno ricordo il nome, cammina spedito tra i corridoi del piano senza lasciarmi nemmeno il tempo di guardarmi intorno. Nonostante sia più basso di me di mezza spanna, fila veloce come un Boccino ed io devo stargli dietro a grandi falcate. Avrò tempo di osservare quella che sarà la mia seconda casa, qui al Ministero, eppure mi è inevitabile non far agganciare lo sguardo alle vetrine piene di reperti espositivi e calchi che si intervallano fra la porta di un ufficio e un’altra.
« Passerai direttamente alla seconda parte, quella pratica: domani hai un’esercitazione sulle fatture, un approfondimento sui sortilegi e per i prossimi giorni sarai affiancato da un collega più esperto per la sicurezza in scavo. Tutto chiaro? »
L’uomo si pianta davanti una porta aperta, fissandomi torvo. Ho come l’impressione che non gli vada particolarmente a genio uno nuovo che salta a pie’ pari la parte teorica dell’addestramento da Spezzaincantesimi. L’antipatia che mi ispira mi porta ad annuire senza spiccicare parola per non dare credito alla sua strafottenza.
Lui nemmeno si degna di guardarmi mentre si affaccia nell’ufficio e prorompe in un odioso: « Cunningham… quando hai finito di farti gli affari tuoi, la matricola è tua. » Ed è tuo pure il calcio nel culo che vorrei tirarti, amico; ho giusto il buon gusto di non inimicarmi qualcuno già dal primo giorno di lavoro.
Mi affaccio anche io, il tempo di vedere due anfibi sporchi di fango –brrr– su una scrivania incasinatissima e una testa piena di treccine. La donna, sorprendentemente massiccia, salta già dalla sedia con un grande e caloroso sorriso ad accogliermi: il primo da quando sono arrivato.
« Uellà regazzì! Isabella Cunningham, la tua nuova baby sitter! » Mi porge una mano inanellata che stringo forte.
« Ciao Isabella, sono Sekhmeth. »
« Oh sì caro, so bene chi sei. » Ghigna al mio sguardo interrogativo.
« Girava voce che quello nuovo c’avesse un visetto molto caruccio. »
L’allusione mi porta a sorridere, ma il tizio stringe le labbra con enorme fastidio. A quanto pare ho aggiunto un’altra tacca alla sua palese antipatia per me: questa cosa mi delizia.
« Non siamo ad un concorso di bellezza. » Commenta acido. Isabella gli tira una spinta che per poco non lo lancia fuori dalla finestra.
« Eddai, Ford, si scherza, si fà pe’ ride! » la butta in caciara, poi mi prende a braccetto. « Vabbè porto il pupo a fasse un giro, se vedemio, Ford! » Senza neanche voltarsi, Isabella mi conduce via.
Il suo forte accento scozzese mi crea non pochi problemi e faccio fatica a comprendere tutte le parole. La frase che segue, però, la capisco benissimo.
« Lascialo perde quello. C’ha perennemente ‘na mandragora su per il culo. » Mi sibila nell’orecchio. Io scoppio a ridere ben più di quanto sia opportuno e la mia risata ci fa eco quando ci avviciniamo ad un altro ufficio.
In quest’improvvisa allegria, mi sembra quasi di dimenticare il peso della discussione con mia madre di un giorno fa ed il magone che ho provato incrociando, lungo il percorso, alcuni studi appartenenti a Magiarcheologi della Soprintendenza.
Saresti felice per me? O avresti costantemente paura che io rischi la vita, come pensa la mamma?
No, tu saresti fiero di me: diresti che un leone è pur sempre il figlio di un leone.

« Vieni, visto che saremo sempre sotto lo stesso tetto, ti presento il tuo vicino di cas––cubicolo… Lyyyyynchhhhh, ci seiii? »
« Lynch?! »
« Sì, Ned Lynch. Lo conosci? »
« Altroché! » Il mio sorriso si fa tutto denti.

hvHleYt
– Ra —
yvRNU5J
Da qualche parte – Scozia

La corrente d’aria fredda si insinua e scorre, come acqua, fra le piume remiganti che fendono il vento; i caldi raggi aranciati del sole accendono il mio manto come se fossi una meteora che attraversa il cielo al tramonto.
Ra sta fischiando irritato e io faccio scattare il becco in segno di protesta, virando a destra per allontanarmi da lui. Sembriamo due fratelli: lui è sicuramente il maggiore, quello assennato e con la testa sulle spalle. Io sono il ragazzino ribelle che non ascolta e si va a sempre cacciare in un mare di guai. Tuttavia in questa forma, con quest’anima, non esiste più alcun ragionamento umano, né alcun schema o archetipo da dover rispettare.
Sono io e basta. Non c’è una gabbia di carne e di ossa, non ci sono tegole sopra la testa. C’è solo un vasto e sterminato dominio di cui mi inebrio anche solo respirando, il tempio celeste degli Dei.
Non c’è luogo sulla terra in cui io possa stare e sentirmi come mi sento quando sono un falco, fra le nubi d’ovatta e la furia del vento. Mentre sotto di me il reticolato di strade umane si inerpicano insignificanti su una mappa impostata, qui sono senza confini.
Persino il grosso gufo che mi è davanti non rappresenta un ostacolo, anzi. Allungo il collo in avanti e mi inserisco in un flusso d’aria più calda facendo vibrare la coda per bilanciare l’accelerazione e raggiungerlo alle spalle. Quando il mio becco si chiude, una piuma dell’ignaro postino viene strappata via ed il rapace sibila d’indignazione. Gira la testa, mi guarda come un anziano che biasima il giovinastro che gli sfreccia di fianco facendolo barcollare. Io lo sfido, cerco di beccargli ancora una volta la coda per poi scartare all’ultimo secondo, un attimo prima che lui mi colpisca con l’ala.
Ra è sopra di noi: dopo avermi richiamato all’ordine un paio di volte, alla fine ha deciso di lasciarmi fare. Non è molto contento, lo so, ma io sì.
So che, umanamente parlando, sono solo dispettucci, cazzate da bambini. È solo che quassù non esiste morale o etica, figuriamoci il rispetto per gli anziani.
Quassù puoi fare qualunque cosa: anche stizzire un gufo che è quasi il doppio di te, consapevole che le hai già prese un sacco di volte da quelli come lui.
E quando ritorno di gran carriera con un battito d’ali per pizzicare la zampa del rapace, questi infine si sfinisce e, proprio come il vecchio tira un bastone contro il marmocchio indisponente, il gufo mi tira una tale beccata sul collo da strapparmi un ciuffo di morbide piumette che si perdono nell’aria.
Ra si esibisce in un “kiiii” lunghissimo: sono indeciso se interpretarlo come un severo “ben ti sta” o come una specie di sonora risata.
Io, arruffato, salgo di quota e mi affianco a lui con un trillo di scuse.
Mi sgrideresti anche tu, se solo fossi stato a casa con me abbastanza a lungo da vedermi crescere?

È che… vedi, io il mio spazio me lo sono ricavato alla fine, anche senza di Te: ho un nido dove tornare, un luogo da condividere con degli amici, un regno dove sentirmi libero.
Ho trovato un posto per ogni parte di me: non servi Tu a donargli calore.

Allora perché dovunque io vada sento così freddo in fondo al cuore?
Perché nessun nido, luogo, regno o casa mi scalda davvero da quando non ci sei più tu, It-y***?

|| Above the sand you hold my hand before the end of time comes ||
code ©Horus.



* = Menfi, antica capitale sopra cui ora si trova Il Cairo; Nekhen, nome egizio della città di Ieracompolis dedicata al Dio Falco.
** = In riferimento a quanto accaduto in Ritorno a Dulwich
***It-y = "it" significa "padre" in antico egizio. Il suffisso "-y" è un vezzeggiativo, come "papà".
 
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