Sconosciuti, privata - Horus.

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view post Posted on 1/1/2024, 02:36
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Sconosciuti

KRrxf0d
Era
possibile ricordare così bene qualcosa, così precisamente da averne stampati in mente anche i dettagli più insignificanti - e dimenticare completamente qualcos'altro? Completamente. Pezzi di vita andati via, chissà dove, sepolti dentro di me - oppure persi per sempre. Esperienze vissute. Persone conosciute. Pouf. Cancellate. Come adesso. Come in quel momento, lì al dipartimento Auror. Se pensavo a Rosalie potevo ricordami perfino la prima volta che la vidi nella culla. E in quella stanza invece non ricordavo niente di ciò che mi stavano domandando. Come se fosse successo a qualcun altro.

«Donovan non devi avercela con te stessa» disse infine il Capo.

«Pare sia stato proprio potente quell'Oblivion. E sei stata in coma tre anni. Insomma,» fece Rufus, un mio collega, ridendo infine nervosamente e scuotendo un po' il capo. «Al tuo posto sarei ancora lì per terra» aggiunse infine e perse forza nelle parole man mano. Forse l'idea dei corpi malconci lì in terra quel giorno era ancora molto vivido nei loro ricordi. Era assurdo, lo sapevo. Ma quanto avrei voluto avere anch'io quel ricordo. Avere la possibilità di dire alla mia mente "ecco, eccoli lì, li vedi? Stanno stesi lì a terra e così che è andata". Avere delle certezze, delle risposte chiare, limpide. E invece in tutta quella storia non sapevo nemmeno perché mi ero ritrovata lì quel maledetto giorno.

«Sì, lo so» dissi solo dopo una lunga pausa, stretta nelle spalle. «Però io voglio prendere parte alle indagini.»

«No,» scosse la testa il Capo. «Sei troppo coinvolta. E poi non ti voglio di nuovo in servizio finché non riuscirai a correre tre volte l'isolato senza farti venire il fiatone.»

Rufus gli lanciò un'occhiata tremenda come se stesse pensando la stessa cosa che i miei lineamenti del viso non nascondevano affatto. «Mi pare esagerato» commentai solo in un sussurro, guardando fuori dalla finestra. «Potrei tranquillamente fare un po' di lavoro da ufficio. A casa» feci una pausa.

Casa. Quella non era casa mia. Dopo aver passato un mese in ospedale mi avevano dato un monolocale grigio e vuoto nei pressi del Ministero, abitato da altri Auror soli. Anzi, era meglio definirlo un dormitorio: una stanzetta cucina-salone, una camera con un letto singolo addossato al muro con scrivania e un bagno che aveva conosciuto tempi migliori. Per fortuna avevo una di quelle finestre lunghe con ringhiera che mi dava la sensazione di affacciarmi un po' ad un balcone per prendere una boccata d'aria. Ma ero nel centro città. Avevo comprato delle tende di lino bianco, semplici, e qualche pianta, giusto per provare a rendere più accogliente e intimo quel posto. Ma poi mi ero anche detta che le mie giornate trascorrevano uguali, tutte uguali, e che due tende e una sansevieria non avrebbero di certo reso le mie giornate più vive.

«A casa non so che fare» dissi alla fine. Poi li guardai a turno. «Starei solo peggio a vegetare tutto il giorno in attesa che mi arrivi qualche ricordo a caso» contrassi la fronte e mi ficcai le mani nelle tasche del pantalone grigio a vita alta. «Sono sicura che qui potrei essere di qualche utilità e stare a lavoro mi renderebbe anche più facile unire i puntini» spiegai.

Rufus guardò il Capo, le mani sui fianchi e la giacca sollevata scomposta sulle spalle. «Ha ragione» disse.

«Grazie» sussurrai a fior di labbra, così che solo Rufus potesse capire. Lui mi sorrise.

«Sì però non ti voglio fuori dall'ufficio» alzò il dito contro di me, «sia chiaro o non se ne fa niente» mi minacciò. Doveva essere severo e perentorio all'esterno ma tra le iridi grandi potevo vedere l'espressione preoccupata di un padre.

Quando fui presa come Recluta ero una delle ragazze più giovani. Eravamo tanti, quel giorno. Ma poche donne, pochissime. E alcune non continuarono. Il Capo mi aveva sempre rispettava. E forse, un po', mi voleva anche bene. Non riusciva a guardami per più di qualche istante negli occhi e qualcosa mi diceva che non voleva proprio affrontare il senso di colpa che vedeva riflesso in me - quello di non essere stato in grado di proteggere i propri. Era quello che io sentivo. Un senso di colpa fortissimo a cui nemmeno potevo dare uno scopo Un senso di colpa in quei lunghi giorni al San Mungo che mi aveva risucchiato con l'angoscia e l'apatia e poi mi aveva scatenato dentro una grande rabbia; quindi un senso di rivalsa aveva poi preso il sopravvento, una fredda determinazione che mi aveva permesso di camminare ogni giorno di più... e, infine, mi aveva portato fuori da quell'ospedale.

«Lo prometto» dissi seria, togliendo le mani dalle tasche e congiungendole dietro i reni.

Io e Rufus venimmo congedati e uscimmo fuori dall'Ufficio, nel corridoio. Era quasi ora di pranzo e in quel momento stava scemando il via vai di ministeriali rendendo il Quartier Generale più silenzioso.

«Come ti senti...?» mi chiese infine Rufus.

Gli feci un sorriso. «Come se mi avesse appena risputato una lavatrice.»

«Una lava-che? »

«Una lavatrice,» scandii, «è un oggetto babbano che lava i vestiti. E' un elettrodomestico. Tecnologia» continuai a precisare ma trovai dall'altra parte solo un muro di confusione. «Mio padre è-»degluitii, «era babbano.» Avrei voluto continuare a raccontargli della lavatrice, dei miei che litigavano su chi dovesse metterla - o su chi dovesse stendere i panni e chi stirarli.

«Donovan ci vediamo domani in Ufficio allora,» cambiò discorso, forse conscio di trovarsi su un terreno scivoloso. Come biasimarlo. «Ci sono alcune informazioni a cui vorrei dessi un'occhiata... se ti senti pronta» mi disse Rufus.

«Assolutamente» annuii, lo salutai e lo guardai andare via e sparire oltre il corridoio.

Tirai fuori il taccuino dei ricordi - o, almeno, così avevo deciso di chiamarlo. Una versione un po' romantica ed edulcorata di quello che in realtà era. Un blocknotes dalla copertina nera e morbida su cui appuntavo tutto ciò che mi veniva in mente, anche se non mi sembrava esattamente un ricordo. Per sicurezza, nelle ultime settimane presi a scrivere tutto. E non mi era molto difficile farlo. Rosalie diceva che radiografavo le cose. E così tutto ciò che mi veniva in mente lo descrivevo nei minimi dettagli e tentavo di analizzarlo a fondo. In breve, quel taccuino era diventato a metà tra un diario e un flusso di coscienza. Ed in qualche modo era perfino terapeutico.

Un piccola goccia salata sporcò le pagine rigate del foglio che tenevo tra le dita. Mi passai rapidamente quelle stesse dita sotto l'occhio destro e ricacciai i pensieri più duri, ancora una volta, dentro di me.




- chi scrive a capodanno scrive tutto l'anno :gelato:
 
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view post Posted on 3/1/2024, 11:30
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«Ne sei proprio sicuro, Sekhmeth? »
Pineswine mi osserva col suo solito cipiglio spocchioso. Alza un rado sopracciglio al di sopra della sua fronte rugosa come il collo di una tartaruga. Sento pulsarmi una vena sulla tempia, ma mantengo il mio sangue freddo per il bene del mio posto lavorativo anche se, giuro, lo strozzerei volentieri con una sola mano.
«Certo signore. Come le ho mostrato, qui… » Nonostante i miei buoni propositi, non mi posso proprio evitare di sottolineare che è già la seconda volta che gli faccio notare lo stesso punto. Alzo la bacchetta verso l’alto, ruotando con cautela la statuetta votiva che galleggia a qualche centimetro dal naso del mio superiore. Ci vorrebbe un attimo, uno spasmo della mano, e gli finirebbe dritta sul naso. Non assicuro, poi, della sua integrità fisica e mentale visto che è maledetta.
« C’è una runa palesemente errata nell’iscrizione sulla base. Non è un glifo, è un sigillo di corruzione. » Dichiaro con lentezza, come se avessi davanti un bambino particolarmente ottuso ancora alle elementari. Lui si gratta il mento guardando fisso il punto che gli indico col dito. Ci manca solo che debba fargli un disegnino.
« Dobbiamo passare la Pluffa al Quartier Generale Auror, allora. » Dichiara ad un certo punto, quando ormai mi ero convinto che stesse per addormentarsi con gli occhi aperti come i cavalli.
La stessa vena di prima minaccia di esplodere ed io ho uno spasmo all’occhio.
« Proprio così. » Ribadisco in un soffio irritato.
Sono quindici minuti che sono qui nel suo stupido ufficio; un quarto d’ora sprecato nel tentativo di convincerlo che ho totalmente ragione su questo cazzo di manufatto.
Ho un M.A.G.O. in Rune Antiche, saprò di cosa sto parlando, imbecille incompetente.
Mi mordo un labbro per non rimarcare l’ovvio; ancora mi chiedo come un idiota simile sia potuto diventare Inquisitore Supremo.
« Ok allora, portaglielo. Parla con l’ispettore Hughes, non con Rhaegar. Non… ehm… scomodiamo il Capo Auror. » Agita la mano, pronunciando il nome di Wilde con un certo ostile nervosismo. Io gli scocco un’occhiata veloce mentre con un leggero colpo direziono la bacchetta verso la statuetta; questa plana delicatamente in una scatola di legno dove un geroglifico rosso –il mio marchio di protezione– svetta sulla superficie consunta del coperchio.
« Molto bene. » Dico seccamente, desideroso di uscire di qui.
Mi congedo con lo scrigno sotto braccio, consapevole che Pineswine ha già perduto la sua capacità di concentrazione e si è dimenticato della mia esistenza, occupato com’è a leggere i risultati delle sue scommesse ai campionati di Gobbiglie.
Spero che un giorno si strozzi proprio con una di queste.

Mi è capitato solo una volta di camminare per i corridoi del Quartier Generale Auror.
Sono molto diversi dai nostri per numero e personale, ma ciò che ci accomuna è il claustrofobico spazio che caratterizza i nostri uffici-cubicoli. Non posso fare a meno di osservare curioso i manifesti ai muri, dove loschi tipi mi osservano mostrando i denti. Faccio una smorfia sarcastica quando supero l’ennesimo Mago sporco e con un occhio solo: un tripudio di cliché, questi ricercati. Nel frattempo, i miei occhi scorrono velocemente le varie targhette che si susseguono una dopo l’altra su porte lucide; mi sembrano tanti vagoni di un treno.
“Thomson”, “Sleet”, “Channing”, “Heinberg”: nomi che non mi dicono niente e che supero proprio come farebbe un paesaggio oltre un finestrino. Di “Hughes” nessuna traccia e questo corridoio mi sembra infinito.
D’un tratto mi fermo e sospiro; mi sembra di camminare da una vita. Sposto la scatola nell’altro braccio e mi tolgo gli occhiali che ho dovuto necessariamente mettere per alleviare il bruciore agli occhi.
Una volta appurata la natura oscura di questa statua del dio Baal, misteriosamente rinvenuta durante una ricognizione in un castello vicino Limerick, in Irlanda, mi sono precipitato qui per evitare che un qualsiasi civile potesse entrarne in possesso e che colui o colei che l’ha maledetta –per certo un avvezzo alle arti oscure– possa essere rintracciato il prima possibile.
Detesto Smaterializzarmi, motivo per cui mi muovo in moto o come falco quando mi è possibile, ma questa volta non ho potuto farne a meno vista l’urgenza. Sospiro, cercando di scacciare il senso di nausea che ogni volta mi attanaglia lo stomaco quando mi tocca farlo.
In più, sono stravolto di stanchezza (e, per una volta, il Gattaccio non c’entra nulla) perché sono giorni che dormo al massimo quattro ore.
Mi rimetto in marcia una volta rimessi gli occhiali al proprio posto, sicuro che mi toccherà chiedere informazioni non appena becco qualcuno. Il problema è che sembra deserto, ‘sto cazzo di posto.
Finalmente noto una figura di spalle poco più avanti e benedico quella che credo essere la mia buona stella. Ingenuo.
« Scusa? » Richiamo l’attenzione della donna, costringendola a voltarsi.

Il fiato mi si spezza in un silenzioso rantolo quando la coltre corvina svela il suo viso.

L’hai guardata andare via, Horus, e non hai fatto niente.
I suoi capelli neri, tagliati di fresco, le sfiorano il collo bianco come quello di un cigno; sono un sipario che hai deciso –che avete deciso– di calare su di voi.
Hai stretto i pugni e distolto lo sguardo da lei, fissando il pavimento di pietra. Il cuore, che è stato calmo fino ad ora, comincia a correre nel petto, inciampando tra le costole.
Non capisci perché ti brucia così, perché la rabbia ti sta assalendo al punto che le unghie stanno lasciando solchi nella morbidezza del palmo.
Chiudi gli occhi e rivedi nuovamente la Morgenstern –quella stronza– assalire quello stesso collo che hai guardato poco fa; quel collo cui tu hai avvicinato la lama del tuo pugnale, mesi fa; quel collo che tu stesso avresti voluto profanare. Perché è questo quello che hai pensato, Horus, per quanto tu lo abbia negato e lo stia ancora facendo con te stesso.
Sei un predatore, ma ancora non lo sai; ancora non sei consapevole del tuo istinto e degli artigli che presto avrai, del becco che tra poco schioccherà nel cielo; delle tue ali che nascondi sotto lo strato di carne e ossa umane. Ti nascondi in un rigore che t’apparterrà sempre, ma che cambierà forma, proprio come farà la tua anima.
Scuoti il capo ed i riccioli rossi ti ricadono sulla fronte; te li scacci con un gesto nervoso e riprendi a camminare, combattendo l’istinto di voltarsi.
Urania è scappata, di nuovo. Hai osservato impassibile il gufo precipitarsi alla finestra e, nel momento in cui lei ha preso la lettera, hai capito che non l’avresti mai più saputa quella verità.
I tuoi occhi, spade nel buio, guardano di fronte a te.
Di quella sintonia, di quel filo rosso che vi si era attorcigliato al mignolo contro la vostra volontà, non c’è più nulla.
Lo sai, in fondo, che non parlerete mai. Che lei non tornerà, che tu non avrai mai risposte.
Ti dici che ti sta bene così.

Ma tu menti, Horus.


« Rue… »
La voce mi esce in un roco sussurro; le mie labbra sono intorpidite da quel nome che non pronuncio da anni.
Non mi rendo nemmeno conto che la scatolina sta scivolando dalla mia mano.
Sto fissando il volto di un fantasma del mio passato, una delle ragioni di molte delle mie notti agitate che si sono susseguite durante l’ultimo anno ad Hogwarts.
Ho sepolto Urania Donovan nei giardini della scuola anni fa, quando ho lasciato il castello per sempre. L’ho inumata nello stesso cimitero in cui ho nascosto tutti i legami che possedevo; l’ho seppellita insieme al ragazzo che sono stato.

Sono sospeso in un limbo che sembra aver attraversato lo spazio-tempo come un wormhole. Un corridoio diverso, ma pur sempre un corridoio, è palcoscenico di un momento che si era incastrato fra giorni, mesi ed anni. Rimasto lì, bloccato come una falena in una ragnatela, come le domande che a lungo mi sono posto e poi ho abbandonato tra i pesi che ho tolto dalle mie spalle. Sento a malapena il suono sordo del legno che cade sul pavimento. Batto le palpebre e lo stomaco mi si contrae. Rivedo, di fianco a lei, il me diciannovenne. Il me prima di Villa Cavendish. Il me prima dell’essere falco. Il me prima della rottura con Emily. Il me prima di sapere la verità su mio padre.
Il me che non voglio più rivedere, rivivere.
Mi riscuoto con un’imprecazione a mezza voce quando mi accorgo che il prezioso manufatto giace a terra. Mi piego a raccoglierlo approfittando di questo istante per chiudere un secondo gli occhi e prendere un respiro. Quando mi rialzo, ricaccio in un anfratto del mio corpo l’agitazione. Sono di nuovo me.
Mi avrà riconosciuto? Sono cambiato tanto. Non c’è più il rigore di quell’Horus che ha conosciuto, pallido come la neve, i capelli sempre tagliati di fresco, la barba perfettamente rasata. Ora sono l’opposto: più selvaggio, i capelli lunghi raccolti in una coda, la pelle abbronzata. Un opposto.
Poi mi dico che, ovvio, mi ha riconosciuto: anche se il mio aspetto è mutato, la voglia sotto il mio occhio è un tratto che, purtroppo, non posso nascondere.

« Da quanto tempo. »
Riprendo il controllo di me stesso, ritrovo quella lucidità con cui ho lustrato la mia armatura.
Un umanoide: mai termine fu più azzeccato, Rigos, i miei complimenti.
Guardo Rue Urania dritta negli occhi e sorrido, le labbra incurvate morbidamente verso un angolo della guancia. Non c’è, sul mio viso e nella mia voce ammorbidita, il sarcasmo che le ho riservato quel giorno ad Hogwarts; è solo una banale cordialità che vuole celare ad ogni costo il tumulto che quest’incontro sembra aver generato e che nego.

Sono tranquillo, mi convinco: il mio rancore è morto tanto tempo fa, con me.

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view post Posted on 4/1/2024, 11:52
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Domani
comincerò ad avvicinarmi al caso. Finalmente. Rufus mi ha detto che vuole mostrarmi alcune informazioni. Non vedo l'ora. Credo che l'unica cosa che possa farmi veramente bene in questo momento sia smettere di crologiarmi in questa situazione di merda e agire. O forse una parte di me sa fin troppo bene che, mettendomi in gioco, smetterò di pensare alla mia vita. Ultimamente non dormo bene, figurarsi sognare. Quando scivolo particolarmente a fondo dentro di me magari faccio qualche breve incubo ma nulla di più. Anzi, se dovesse scrivere tutta la verità direi che quello che sto vivendo è l'incubo per eccellenza, un incubo ad occhi aperti che sai pure che non smetterà mica svegliandoti. Ecco perché ho spesso pensato all'opposto... in quei giorni in ospedale. Alla direzione opposta, insomma. Ma non è così che voglio affrontare quello che mi resta da-

« Scusa? »

Mi voltai di scatto, sollevando la testa dal taccuino - che mi rimase aperto tra le mani. E mi ritrovai davanti un uomo alto, capelli ramati raccolti morbidamente, un po' di barba e degli occhi incredibilmente penetranti. Quegli occhi. Una morsa mi attanagliò lo stomaco e mi destabilizzò. Feci scorrere le mie iridi tra le sue e solo in un secondo momento notai la voglia rosea sotto l'occhio sinistro. L'occhio di Horus. Mio padre aveva un sacco di libri sulla mitologia egizia e da piccola ricordai di aver solcato con i polpastrelli quelle pagine illustrate più di una volta e- l'avevo già vissuta quella cosa? La voglia, l'enciclopedia di mio padre. Un potentissimo déjà-vu mi passò davanti agli occhi e per un attimo annebbiò la mia mente.

«Rue...»

E come se il déjà-vu non fosse abbastanza, lo sconosciuto mi chiamò per nome. Anzi, mi chiamò con il mio nomignolo. Chi era quell'uomo? Avevamo un certo grado di confidenza se mi chiamava Rue. Niente cognome o nome per esteso. Addirittura Rue. Che fosse un mio collega? Un collega però a cui ero stata particolarmente legata visto come mi si era rivolto. E non mi sembrava tanto irrealistico visto che ero attratta da lui a pelle anche in quel breve frangente.

Dischiusi la bocca ma non riuscii a dire nulla e dopo un attimo si sentì solo il tonfo dell'oggetto che aveva tra le mani e che cadde a terra tra i nostri piedi. Lui non si scompose affatto, continuando a prestare a me la sua attenzione. Sembrava un momento sospeso dal tempo e un po' troppo forte per entrambi. Cosa stava accadendo? Da parte mia potevo anche comprendere un personale spaesamento - ma per lui? Perché sembrava così... sconvolto nel vedermi? Lo vidi chiaramente ridestarsi anche solo per raccogliere quella scatolina di legno da terra. Quando fu di nuovo in piedi, aveva un'espressione più morbida sul viso.

« Da quanto tempo. »

L'aveva detto con un tono - malinconico? Dolce? Non avrei saputo definirlo. Ero troppo impegnata a cercare di ricordarlo. Di ricordare chi era stato per me quell'uomo così affascinante.

Chissà come dovevo sembrare vista da fuori. Ultimamente mi immaginavo sempre con la stessa faccia confusa. Corrucciata, pensierosa, a volte cupa, a volte un po' divertita per cercare di sdrammatizzare la crudezza dei miei non-ricordi. Anche la settimana scorsa mi era capitata una cosa simile. Mi ero seduta su una panchina accanto una persona ad Hyde Park e questa si era voltata - era una donna anziana - e mi aveva chiamato per nome chiedendomi dove fossi stata tutto quel tempo. Ed io dovevo essere apparsa davvero imbecille a guardarla totalmente spaesata e quindi avevo imparato a dire subito la verità: il fatto è che mi risveglio solo ora dopo un coma di 3 anni ed ho perso molti ricordi - così, a volo, tanto era inutile girarci intorno. D'altronde chi aveva fatto parte del mio passato una risposta se l'aspettava quando dicevo di non ricordare chi fossero. Accompagnavo questa frase sempre con un leggero sorriso, quasi volessi renderla più leggera per chi l'ascoltava - senza pensare nemmeno per un attimo a me stessa. A come mi sentissi. Ma avevo deciso che le lacrime e la voglia di sprofondare sarebbero rimaste al San Mungo dove avevo davvero toccato il fondo. Ma mi ero rialzata con un obiettivo, uno scopo; uno scopo che ne racchiudeva molteplici e che mi dava la forza di svegliarmi ogni mattina. Certo, le lacrime prendevano in sopravvento qualche volta e arrivavano senza preavviso - soprattutto quando la sera ero a casa da sola. Ma non avrei più permesso che mi dominassero. Che decidessero come dovevano andare le mie giornata, la mia vita da quel momento in avanti. Che mi mangiassero viva e mi risputassero a pezzettini. Avevo troppe cose a cui dare un nome.

E, a proposito di nomi, avrei davvero voluto sapere quello dell'uomo che mi era di fronte. Di primo acchito avevo pensato ad un collega con cui avevo avuto un rapporto magari più intimo ma non ne ero così sicura - d'altronde al dipartimento Auror conoscevano tutti la mia storia e lui sembrava un po' sorpreso di vedermi lì.
Quindi feci un mezzo passo verso di lui, continuando - lo sapevo - a fissarlo con insistenza. E domandai infine ciò che desideravo tantissimo sapere.

«Mi scusi - anzi, scusami.» Decisi di passare ad un linguaggio informale visto che mi aveva addirittura chiamato con il mio nomignolo. «Ti potrà sembrare strana questa domanda ma... per caso ci conosciamo?» sperai che il mio tono fosse dolce e non respingente anche se la domanda che gli ponevo poteva essere destabilizzante.

 
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view post Posted on 5/1/2024, 15:29
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Non la vedo da anni ormai, ma il suo volto è come un libro lasciato tra le mensole di una biblioteca. Polveroso, nascosto da altri volumi, è passato inosservato per molto tempo finché le dita non lo hanno sfilato tra gli altri e, lentamente, ne hanno sollevato la copertina.
Allora la storia ivi raccontata prende forma nella memoria e le parole che avidamente gli occhi riconoscono, una dopo l’altra, riportano ricordi di vite vissute.
Ed è proprio una vita quella che mi sembra passata, quando mi sento trafitto dalle iridi cineree di Urania Donovan.
Sostengo il suo sguardo chiedendomi se, anche lei, sta sfogliando le pagine di quel libro dimenticato.
Mio malgrado ricordo molto del nostro racconto. Se potessi chiudere gli occhi, sottraendomi al suo sguardo, sentirei il profumo silvestre che sprigionavano i cipressi di Hyde Park, la tensione tra noi due e la paura di venir denunciato proprio da un Auror. La pressione della lama sul suo collo, il profumo che emanava, la tentazione di voler premere il pugnale (o le labbra?) sulla carne. E poi tutto è cambiato, virato in una strada intrapresa in punta di piedi, cambiando totalmente la direzione del nostro incontro.
A poco a poco si è impiantato, in noi, il bocciolo di un’amicizia le cui radici ci hanno visti affondare nel medesimo terreno. Ci siamo nutriti delle nostre parole, dello scambio delle nostre vite e della negazione che ci fosse qualcosa di più.
Urania mi ha sempre attratto in un modo che solo ora riesco a definire e che, nel guardarla, mi spinge a chiedermi se io ne fossi mai stato cosciente.
Giunge, poi, il sapore amaro della rabbia, nient’altro che un’ombra di ciò che fu: il bacio della Morgenstern, la sensazione di essere di troppo, scacciato come uno qualunque e allontanato da lei con sfacciata malia ai tuoi danni.
S’affaccia, infine, il sentore della delusione e dell’abbandono quando quella famosa risposta non giunse mai, né al gufo, né nel corridoio ghiacciato di Hogwarts. Lì, quelle pagine, sono state chiuse ed il libro è finito schiacciato da altri, lasciato a prendere polvere.
Qui, invece, vengono riaperte, ma con niente più che la consapevolezza di essere stati nient’altro che spettri.

Eppure, nell’udire la sua voce, nel comprendere che, in quei occhi, c’è una sorpresa diversa dalla mia, mi sento trapassare da un senso sgradevole che mi si avvinghia allo stomaco.
« Stai… scherzando? »
La domanda mi giunge alle labbra in modo naturale. È lo sbigottimento che mi coglie impreparato, ma quel sorriso abbozzato non smette di aleggiare sulle mie labbra.
Va bene, mi dico, è comprensibile e non me la prendo per questo.
Poggio il contenitore sul davanzale di una finestra e mi tolgo gli occhiali lentamente. Forse, mi dico, è per questo che non mi ha riconosciuto, perché Udjat è coperta delle lenti.
Non la biasimo, se non fosse per questo dettaglio molti di coloro che mi hanno visto ad Hogwarts non mi avrebbero mai riconosciuto.
La guardo di nuovo, ora il viso totalmente libero. Il sorriso gentile fatica ad estendersi agli occhi, ma voglio darle il beneficio del dubbio perché, anche se sono passati anni, l’idea di essere stato cancellato totalmente dalla sua memoria –e non sapere perché– farebbe lo stesso male.
E io non voglio più provarlo, quel male.
« Sono Horus. » Dico, piegando il capo leggermente in avanti per guardarla meglio in viso. « Ti ricordi, ora? »
Non puoi non farlo, Urania.
Non aggiungo altro perché c’è davvero bisogno che glielo dica?
Eravamo amici, una volta."

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view post Posted on 5/1/2024, 16:55
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Riuscii
a vedere abbastanza chiaramente l'effetto che la mia domanda aveva generato nel volto di quell'uomo. Quando mi chiese se stavo scherzando - nel non averlo riconosciuto - deformai le labbra in un'espressione triste provando un'immediata empatia. Quanto doveva essere spiazzante rincontrare qualcuno dopo anni, qualcuno che era appartenuto in qualche modo al tuo passato, e non essere riconosciuti? Forse anche... triste? Non pensai molto a me. Ci avevo pensato fin troppo e avevo deciso di accantonare il mio dolore. Ma ogni volta che vedevo quella stessa espressione nei volti di chi non riconoscevo - be', era davvero un pugno nello stomaco.
Quando mi disse il suo nome, purtroppo, nella mia mente non ci fu nessun click. Mi morsi le labbra anche quando si tolse gli occhiali e si avvicinò un po' di più al mio viso. No, niente Horus, non so chi tu sia - avrei voluto dirgli. Ma tacqui. Mi concessi qualche attimo per guardalo negli occhi: grigio argento, quasi metallici, affusolati e contornati da lunghe ciglia color mogano. Distintivi grazie a quella voglia che non avevo mai visto su nessun altro. E le sopracciglia disegnavano un taglio molto netto e conferivano allo sguardo ancora più profondità. La barba ramata accarezzava delicatamente la sua pelle chiara e gli donava molto. Infine la sua voce bassa e appena roca mi era rimasta nelle orecchie. Riassumendo il tutto - ero abbastanza sicura di essere arrossita.

«Horus» esordii a voce forse un po' più bassa di quello che avrei voluto. Deglutii e mi schiarii la gola. «Non è che ci sia un modo facile per dirlo quindi te lo dirò di getto - come ultimamente mi sta capitando di fare. Credo che sia la soluzione migliore» aggiunsi infine abbassando per qualche attimo lo sguardo - e una nota del suo profumo mi accarezzò le narici.

Sollevai nuovamente lo sguardo: chi era stato Horus per me? Perché avevo rimosso anche lui? Perché quel maledetto Oblivion aveva cancellato non solo i ricordi di quella notte ma era riuscito a divorare anche altri parti della mia vita? C'era un senso a tutto ciò? O ero stata vittima di un caos imprevedibile che aveva colpito la mia mente come una pallina da flipper impazzita?

«Ecco io...» ripresi a parlare, tornando a guardarlo negli occhi e spostando le mie iridi tra le sue. «...sono stata in coma» persi un po' di energia sull'ultima parola. Eppure l'avevo ripetuta tante volte. Eppure tante volte avevo dovuto dare le stesse identiche spiegazioni fino quasi alla nausea. La parola coma era entrata nella mia quotidianità e non mi faceva più tanta paura. Ma in quel momento trovai difficile riprendere a parlare. Perché? Ad ogni modo Horus si trovava al Quartier Generale Auror e quindi che fosse un collega o un amico poco importava: potevo sentirmi libera di entrare un po' più nel dettaglio rispetto a quanto avevo detto alla vecchietta ad Hyde Park. «Pare che tre anni fa io abbia intrapreso un'ultima missione di cui, però, non ricordo nulla... un missione che sappiamo solo essere andata molto male. Nessuno è sopravvissuto. Se la sono presa anche con le nostre famiglie. Mi hanno detto che i miei genitori sono morti. Anche mia sorella. E in quel frangente ho subito un potente Oblivion che mi ha portato al coma e mi sono svegliata dopo tre anni solo qualche mese fa con la memoria che è uno scolapasta e quindi...» risi nervosamente quasi la cosa fosse divertente, «...sinceramente sto cercando di recuperare i pezzettini del puzzle - ma non so nemmeno quale forma abbia questo puzzle o dove siano finiti tutti i pezzi che lo compongono perciò...» distolsi lo sguardo e mi passai le mani nei capelli, ormai molto lunghi, ma avevo deciso di non tagliarli, «...ecco, lo so che sono un sacco di informazioni e mi dispiace tanto di avertele vomitate così addosso ma è così... difficile» dissi infine.

Difficile? Solo? Perché finora era stato facile? In quegli ultimi mesi avevo solo creduto di aver messo da parte il baratro ma eccolo lì, che riaffiorava sulla superficie ad una domanda di uno sconosciuto. No. Ad essere onesti non era uno sconosciuto. E forse il modo in cui mi stavo lasciando andare con lui doveva suggerirmi qualcosa: che Horus, per me, era stato qualcuno di importante.



Edited by .Urania - 5/1/2024, 17:12
 
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view post Posted on 6/1/2024, 18:16
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Questa volta è il mio nome pronunciato dalle tue labbra a stranirmi.
Com’è successo prima quando l’ho fatto io, la tua voce è risuonata in questo corridoio come un’eco lontana, una nota in una sinfonia silenziosa, una ninna nanna calata su di noi.
Alzo le sopracciglia, il sorriso per un momento rimane aggrappato ostinatamente al mio viso perché con puerile ingenuità, quando ti sento chiamarmi, mi convinco che tu abbia ricordato. Poi mi gelo e, col tuo preambolo, mi sento riportato a quel giorno ad Hogwarts. Scioccamente, come se nulla fosse cambiato, come se ancora fossimo noi fra le mura del castello, quasi m’aspetto che tu mi stia rivelando quella verità che non mi ha fatto dormire per tutta una serie di notti che mai ti racconterei. Invece è come se tu mi avessi colpito con un Glacius.
La parola “coma” è un sasso lanciato in una pozza gigantesca, più grande del lago sopra cui ci siamo raccontati le nostre vite.
Mi ritraggo lentamente quando invece ero proteso verso di te e irrigidisco ogni muscolo del mio corpo. Ti ascolto senza il coraggio nemmeno di respirare, l’ossigeno costretto all’interno dei polmoni. Le mie pupille si dilatano nel vedere sul tuo viso un dolore che, chiaramente, non avevo mai scorto fra i tuoi lineamenti di ghiaccio. In quegli occhi felini che avevo imparato a conoscere e che mi avevano inchiodato già dal nostro primo incontro, ad Hyde Park, leggo uno smarrimento che fa male al cuore. Se prima una sola parola era semplice sasso, ora sono un cumulo di pietre che diventa frana e spazza via tutto sotto il suo peso.
Io non sono una persona empatica e non posso capire cosa stai provando, purtroppo. Ma so leggere le persone, o almeno ho la presunzione di volerlo credere. In questo caso, però, è tutto così palese in te che anche uno sciocco sarebbe in grado di vedere la sofferenza del non ricordare.
Molte volte, io, ho desiderato scioccamente dimenticare molte cose.
Emily, tanto per cominciare.
Le lacrime di mia madre, la devastazione che Hagalaz ha portato nel mio corpo.
Altre volte invece non avrei mai voluto dimenticare molte cose.
Il volto di mio padre, la sua voce, il calore delle sue carezze; il suono delle risate sue e di mamma.
Abbasso lo sguardo, le braccia lungo i fianchi; accuso il tuo racconto più duramente di quanto possa immaginare. Tutto mi aspettavo, fuorché questo.
Il modo con cui ti passi le dita fra i capelli lunghi –sono cresciuti tanto, molto– mi destabilizza. Non ti ho mai vista così, ma ricordo un momento sul molo del Lago Nero in cui ho percepito in te una fragilità a cui io, senza rendermene conto, ho voltato le spalle.
Non mi sento, ora, di fare lo stesso.
« Mi dispiace… – Trattengo l’aria per un lungo secondo e ti scruto, cerco il tuo sguardo perso – … Urania. »

Non riesco a chiamarti Rue. Non perché io mi senta ferito dal fatto che tu possa non ricordarmi –e come potresti?– ma perché mi sembra di intromettermi in un modo che non mi appartiene più. Mi sembra di introdurmi a passo pesante nella tua memoria e non so se sia un bene rievocare determinati ricordi.
Il nostro ultimo incontro… è stato crudele.
La mia mano immobile, stretta tra le tue dita, era come quella di una statua di marmo: gelida.
Sospiro, inforcando gli occhiali.
« Eravamo... amici. » Ci provo, a sorriderti rassicurante. Forse mi riesce anche, ma non dentro di me. Dentro di me vorrei solo… solo rimettere insieme quel puzzle.
Perché lo so che tante volte ho sperato che il tuo gufo arrivasse.
Proprio questo pensiero –il gufo– mi fa scattare un ricordo e aggrotto le sopracciglia.
« Quando ci siamo visti l’ultima volta eravamo ad Hogwarts e tu hai ricevuto una lettera, all’improvviso e sei… scappata via. Forse era la tua missione. » Non so perché te lo sto dicendo; per quel che mi riguarda poteva essere un incarico fra i tanti.
Oppure… una scusa per fuggire da me.
Che egocentrico.
« Scusami, non penso di poterti essere più d’aiuto di così. » Mi stringo nelle spalle con una semplicità che non mi appartiene. La mia mano sfiora il contenitore di legno che è sul davanzale; segue distratta i rilievi dei geroglifici impressi del mio sigillo e faccio altrettanto con gli occhi, seguendone i glifi.
Questa volta non riesco a sostenerlo, il tuo sguardo.
Ciononostante, non riesco ad allontanarmi e continuo a chiedermi solo:
Chi ti ha fatto questo?

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«Ah»
mormorai quando mi disse di quel gufo ad Hogwarts. E improvvisamente non c'era più il Quartier Generale davanti a me, non ero più nel corridoio di fronte agli uffici, non ero più io. Ero un'altra. Ero nel corpo di una ragazza, certo, ma non sembrava lo stesso che avevo in quel momento. Quelle che sembravano le mie mani srotolarono una pergamena vergata di fresco. Riuscii ad avvertire la granulosità della pergamena sotto i polpastrelli e perfino l'odore di inchiostro nelle narici. Le parole però si accavallarono l'un l'altra e non riuscii a leggerne il contenuto. Era li la chiave di tutto? Erano quelle parole che mi avevano portato via quella sera? La missione. L'ultima missione. Chi mi aveva mandato la pergamena? Chi erano davvero i miei colleghi quella notte? Chi eravamo andati ad incontrare? Cosa era successo? Perché? Mi sforzai di guardare quelle lettere accavallate sperando che una magia le sbrogliasse e mi facesse capire cosa ci fosse scritto. La cera del sigillo cadde sulla punta delle mie scarpe con un tonfo silenzioso. E poi le mani di quella ragazza non mi appartennero più quando afferrò la bacchetta e incendiò la pergamena. Quando incendiò le mie risposte, E poi ecco, il gufo. Il battito delle ali del volatile ruppe il silenzio irreale che avvolgeva le mie orecchie, si allontanò ed io mi voltai - o meglio, quella ragazza si voltò - verso il fondo del corridoio cupo del quinto piano del Castello e lo vidi. Era molto diverso dall'uomo che mi trovavo davanti in quel momento: giovane, sbarbato, arrabbiato. Ma lo sguardo... lo sguardo era lo stesso. Gli occhi come lame che mi trapassavano lo stomaco aggrovigliato. Ero sicura fosse lui. Come, in cuor mio, sapevo che quella ragazza ero io. Uno squarcio della nostra vita passata aveva oscurato la mia vista e quando tornai al presente, quando tornai alla me - che quasi non aveva più niente a che fare con quella ragazza a cui tremavano le mani - quando tornai in me ero a terra.

Ero svenuta? Mi erano mancate improvvisamente le forze? Era stato un attimo in cui avevo completamente perso il contatto con il mio corpo. Come se mi fossi smaterializzata altrove - ma non in un altro luogo, in un altro tempo. Le ginocchia fasciate dal sottile strato del pantalone classico erano gelide a contatto con il pavimento e solo quella sensazione mi stava trattenendo nel tempo attuale.

Cosa era successo? Mi era tornato un ricordo? Era vero quello che avevo visto o era stata solo un'allucinazione? Una parte di me era sconvolta da quella sensazione di dualità, come se un buco nella diga si fosse aperto e dell'acqua a me estranea mi avesse bagnato il cervello in fiamme. Un sollievo. Ecco perché un'altra parte di me era elettrizzata. Potevo davvero ricordare? Quello che avevo perso poteva essere di nuovo mio?

«Horus» dissi a fior di labbra, alzando lo sguardo verso lui. Non m'importava di essere a terra in quel momento. Immaginai cosa dovesse pensare di me quell'uomo in quel momento. Era la prima persona del mio passato che rincontravo che mi faceva quell'effetto. Era dall'ospedale che non mi cedevano le gambe in quel modo. Horus mi aveva portato effettivamente indietro e mi aveva mostrato, senza volerlo, un pezzettino del puzzle che tentavo disperatamente di completare. Gli ero...mancata? Mi aveva voluto bene?

«Invece mi sei stato d'aiuto» aggiunsi dopo qualche istante. Sorrisi, poi risi piano e mi portai le mani sugli occhi trovandoli già bagnati. «Un attimo fa ero in quel corridoio» dissi tra le mie mani, intervallando i singhiozzi con dei sorrisi spezzati. La presenza di Horus, sentivo, mi avrebbe dato quello che stavo cercando. «Pensavo di aver perso tutto invece...» ...posso riaverlo. Poteva sembrare una sciocchezza, un'esagerazione, una follia - ma uno sconosciuto (no, non era uno sconosciuto, era un amico) era entrato nella camera buia in cui mi ero rannicchiata e aveva acceso la luce.


 
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Quando l’ipotetico vetro che ci separa si rompe, una scheggia si conficca fra te e me; penetra nel profondo di quest’istante, squarcia la realtà che stiamo vivendo –che tu stavi vivendo.
Sei qui, ma non lo sei davvero e quando scorgo i tuoi occhi vitrei mi allarmo.
« Urania? »
Se solo sapessi quanto mi è difficile chiamarti così. Sono, tuttavia, uno sconosciuto per te e come tale non posso azzardare niente di più che un’impostata cortesia, una gentilezza comune. Fa così strano perché, se ci pensi, se solo ricordassi, ci siamo legati come due poli opposti di una calamita. Era quel senso di familiarità che abbiamo istintivamente provato ad averci unito, nonostante l’incontro burrascoso che abbiamo avuto. La consapevolezza che ci faceva pensare di esserci conosciuti molto prima di quando è davvero successo.
Quel giorno eravamo l’uno alla mercé dell’altra: io con un pugnale stretto nella mano, l’ombra dell’assassinio che calava sulla mia testa come una ghigliottina; tu col tuo distintivo, col tuo cipiglio, la tua testardaggine nell’anteporre il tuo senso di giustizia alla tua sicurezza.
Mi sono chiesto spesso cosa sarebbe successo se tu non fossi mai intervenuta; se la mia lama avesse davvero tagliato la giugulare di quell’uomo. La risposta che mi sono dato è che forse ora non sarei qui: quel semplice attimo, quel passo che ti ha condotto fin nell’angolo di vegetazione in cui mi ero nascosto, è bastato per salvarmi. Rimango un assassino, non cancella ciò che sono stato e che, mi dico, sarò se se ne presenterà l’occasione e la mia incolumità sarà messa a rischio. Ma se quel giorno fosse successo, se avessi ceduto all’ebbrezza di un’esaltazione malata e distorta, ora non sarei ciò che sono. Non sarei degno al cospetto degli Dei.
Non te l’ho mai detto, ma del resto, quando avrei potuto farlo?
Siamo stati neve al sole, sciolti al primo raggio di calore.
« Ura–– » Ripeto, non avendo ricevuto risposta. Muovo un passo in avanti, lascio andare il contatto con la scatola sigillata con forse più impeto di quanto vorrei. Non mi accorgo del suo essere in bilico sul davanzale.
« Merda! » Esclamo, balzando in avanti.
Ti ho visto afflosciarti al rallentatore, un fiore piegato dalla forza del vento: in questo caso, suppongo, in balia del turbine dei tuoi ricordi.
Faccio in tempo a raggiungerti giusto un attimo prima che tu sbatta per terra. Ti passo il braccio dietro le spalle e ti adagio piano sul pavimento freddo, tenendo sollevato il busto.
Il mio nome scivola dalle tue labbra come un pigolio e d’un tratto provo una tenerezza immensa per te. Non lo so se è perché ti sento così fragile mentre ti sostengo o perché non vedo più quel bagliore metallico nei tuoi occhi sperduti permettendomi così di vederti più umana. Non lo so se è il modo con cui pronunci il mio nome o per le lacrime che inumidiscono le tue iridi. So solo che mi si stringe il cuore mentre ti guardo sorridere tremante e io, in risposta, tendo impercettibilmente la bocca perché di primo acchito vorrei asciugartele.
Mentre parli, il mio sguardo vaga per il tuo viso, le sopracciglia contratte.
Non sto provando pietà per te, Urania, non ne hai bisogno. Solo… non piangere. Io non sono capace a consolare qualcuno, sono pessimo.
Mando giù questa consapevolezza, così come il ricordo di quel corridoio.
« Sì, beh… forse quello era meglio non ricordarlo. » Abbozzo un sorriso, cerco di sdrammatizzare perché, in fondo, ancora non so spiegarmi bene il motivo della mia rabbia. All’epoca sembrava così tremenda da far tremare anche le finestre, ma adesso mi sembra così futile. Un bacio, dopotutto; una risposta mancata. Me ne dovrei stupire, dopo averti piantata in asso così, quel giorno sul lago? Eppure volevo solo scusarmi e l’orgoglio, uno dei difetti principali del mio carattere, mi si è ritorto contro e ti ho puntato la spada della mia indifferenza al cuore.
« Quanto hai… » Quanto hai ricordato? Ma la voce mi muore in gola e mi mordo un labbro. Preferisco lasciar perdere e piuttosto faccio leva sulle ginocchia per aiutarti a tirarti su. Cerco di ignorare il lucore delle lacrime sulle tue guance pallide; non posso raccoglierle come perle tra le dita. Non sta più a me.
Lo è mai stato? mi chiedo.
« Ce la fai ad alzarti? » Ti chiedo; è più facile concentrarmi sulla tua salute fisica. Le ferite del corpo, del resto, sono molto più semplici da gestire: vale per gli altri e per se stessi.

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Non
ero mai stata una tipa molto fisica*. Il contatto con un'altra persona, se non necessario, non lo apprezzavo molto. Il contatto con gli altri mi aveva sempre infastidito. Non amavo le strette di mano, qualora non fossero necessarie; amavo ancor meno gli abbracci casuali e non pienamente indispensabili; odiavo, praticamente, le pacche sulla spalle, le mani sul viso di chi cercava la mia attenzione o pensava di compiere un gesto affettuoso, il ticchettio delle dita sul braccio per farsi guardare - cos'era quel déjà-vu? Mi sembrava di aver pensato le stesse identiche cose in una situazione simile, una volta. Comunque... certe confidenze e intimità le riservavo per altri momenti e per specifiche persone. Quindi normalmente non avrei mai lasciato che qualcuno mi si avvicinasse così tanto come aveva fatto Horus in quell'istante. Non amavo essere toccata ma quando Horus lo fece mi sembrò così naturale, così giusto - perché mi sembrava di conoscerlo da una vita. Come poteva, uno sconosciuto, avere un'aria così familiare? In quel momento diedi la colpa alla dualità della mia condizione. Era stato un amico, ci legava del tempo insieme e dei ricordi: era ovvio che provassi per lui un senso di familiarità senza ancora averne memoria, no? E quindi misi a tacere una piccolissima parte di me che mi stava sussurrando all'orecchio: è stato così anche la prima volta che vi siete conosciuti. Ad ogni modo la sua presa salda attorno al mio corpo, i suoi occhi nei miei e il suo profumo mi stavano seriamente destabilizzando, più di quanto avrei immaginato.
Eravamo molto vicini in quel momento, tanto che potevo contargli le ciglia. Non volevo distogliere lo sguardo da Horus come se, restando così, potessi scrutarlo dentro e scoprire chi era, perché mi faceva quell'effetto e perché era tornato all'improvviso nella mia vita. Aveva le sopracciglia contratte e le labbra appena protese verso di me che quasi avrei voluto...

« Sì, beh… forse quello era meglio non ricordarlo. »

Mi asciugai le ultime lacrime con il dorso delle mie mani fredde - incredibilmente fredde in quel frangente - e lo guardai di nuovo. Venne da sorridere anche a me. Avevo in mente il suo sguardo arrabbiato di quel ricordo. Chissà cos'era successo tra noi e se ci sarebbe stato modo di capire o, magari, rimediare. In ogni caso, era passato tanto tempo.

Voleva pormi una domanda, forse, ma non continuò la frase. Si affrettò subito a pronunciarne un'altra mentre mi aiutava a sollevarmi, il braccio era ancora saldo attorno al mio torace. Assecondai il suo slancio trovando per un attimo le gambe incredibilmente deboli, tanto che per non cadere in avanti gli poggiai le mani sul petto. E forse fu un errore perché rese il nostro contatto ancora più intimo. Esitai; una volta in piedi non volevo separarmi da lui. Era come se quell'improvvisa vicinanza fosse un balsamo per le mie ferite - non solo fisiche. Dopo mesi dal mio risveglio Horus era una luce nell'oscurità. Ed io non volevo privarmene.

«G-grazie» dissi persa completamente nel suo sguardo. Ero così vicina a lui che davvero avrei potuto dirlo a fior di labbra e sicuramente mi avrebbe sentito. Mi feci un po' di coraggio ma poi le parole mi uscirono urgenti, come un fiume in piena, fuori dal mio controllo. «Sei la prima persona che incontro del mio passato a farmi quasi svenire» sorrisi appena, «e a farmi ricordare qualcosa. E per me è troppo prezioso quindi grazie, davvero. Sarò molto diretta ma la verità è che vorrei passare altro tempo con te... se ti va.» E senza rendermene conto, strinsi appena tra le mani la stoffa che avevo sotto i palmi.

Non riuscivo ad allontanarmi. Non volevo che mi lasciasse andare. Come se qualcosa dentro di me mi stesse dicendo di non perderlo di nuovo. Ma poi ammorbidii le dita e lasciai scivolare via le mie mani dal suo petto.

«Ecco magari posso dare io una mano a te, adesso? Cercavi qualcuno o qualcosa al Quartier Generale?» dissi in un sussurro, quasi fosse una cosa intima tra noi, perché per colpa forse di quella eccessiva vicinanza mi sembrava che ci fossimo solo io e lui. O, magari, era sempre stato così.




*
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view post Posted on 11/1/2024, 19:20
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Sei come un bellissimo vaso, Urania; le tue forme preziose, i decori sulla porcellana, semplici ma eleganti sono l’involucro di un contenuto misterioso.
Solo che sei un bellissimo vaso rotto.
Sei tenuta insieme da frammenti che si incastrano nel tuo corpo con precario equilibrio. Toccarne anche solo uno minaccia di mandarti in pezzi e, in effetti, così mi sembra di aver fatto.
Cercando di farti rialzare, ho come l’impressione di averti –invece– fatta sprofondare, spezzare. Barcolli contro di me, ti aggrappi alla mia maglietta e io mi immobilizzo. Puoi sentire la mia schiena e i muscoli delle spalle irrigidirsi mentre ti trattengo saldamente per la vita per evitare che tu cada di nuovo.
Non pensavo avrei mai potuto guardare i tuoi occhi così da vicino; non con questa consapevolezza almeno, non per come sono ora. Mi osservi in un modo che non mi piace, perché è per me sconosciuto, mi spaventa. Mi fa sentire a disagio eppure mi spinge a ricambiare con altrettanta intensità, incapace di muovere un passo indietro. In quanti pezzi potresti andare se solo mi allontanassi?
Le mie iridi vagano sul tuo viso spaurito, sull’umido lucore delle ultime lacrime che hai scacciato col dorso della tua mano. Sorrido o, almeno, ci provo, assecondando la tua battuta.
« Il primo che vedi e il primo che ti fa svenire… che fortuna, eh? » Cerco ancora una volta di sdrammatizzare perché la profondità dei tuoi occhi adamantini mi inchioda in questo corridoio, cogliendomi alla sprovvista forse molto di più di quando ti ho riconosciuta o quando ho scoperto che non ricordi nulla.
Le tue dita stringono il cotone, la tua voce è poco più di un sussurro e io taccio per un lungo istante. Leggo qualcosa di più dietro l’espressione che si dipinge sul tuo volto, vedo il contenuto di quel vaso spezzato che è la tua mente.
Vuoi davvero passare del tempo insieme a me? Ed in che modo?
Perché non sono sicuro di aver letto bene tra i tuoi respiri rarefatti ciò che il mio istinto sta solo ipotizzando e negando. Ma mi aggrappo alla ragione e al contesto: certo, mi dico, è normale ciò che mi chiedi. Se sono davvero l’unico ad averti fatto quest’effetto e ad aver generato in te l’innesco nella memoria, è normale che tu voglia cercare di vedere se con me possono sbloccarsi altri ricordi sepolti dietro la coltre bianca del coma.
Annuisco piano, schiudendo le labbra per dire qualcosa che, ancora una volta, trattengo sul bordo della volontà.
« Certo che mi va. » Rispondo dolcemente. « Magari non ti faccio svenire –spero– ma forse riesco ad aiutarti più di così. » Prendo le tue mani fra le mie allontanandole dal mio petto; sono così fredde al punto che un brivido mi corre lungo le scapole. Allora faccio un passo indietro, lasciandole andare e rimettendo una distanza fra noi. Per quanto poca è comunque abbastanza per non rischiare di…
Aggrotto la fronte, perplesso. Rischiare cosa?
Accolgo la tua proposta d’aiuto con un sospiro trattenuto. Non so perché questa vicinanza mi abbia destabilizzato tanto; o, forse, dovrei dire perché il modo in cui mi hai guardato mi ha lasciato così turbato.
È solo perché ha cominciato a ricordare qualcosa, chiarisco con me stesso.
Sposto lo sguardo verso lo scrigno, oggetto ora della mia attenzione sulla scia di ciò che ero venuto a fare fin quaggiù.
« Sto cercando l’Ispettore Hughes… » Mi massaggio la nuca con la mano, in imbarazzo, mentre ti guardo di sottecchi.
« Non so se… ehm… ti ricordi chi sia… »

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view post Posted on 17/1/2024, 12:16
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Il
contatto con le sue mani era qualcosa a cui non ero preparata. Per nulla. Mi sentii una rimbambita totale quando, in quei pochi attimi, Horus mi prese le mani tra le sue accompagnando il mio gesto di allontanarle dal suo petto. Una rimbambita. Farfalle nello stomaco, rossore sul viso, gola secca. Le avevo tutte? . Eppure, benché avessi perso pezzi della mia memoria qui e lì, ero abbastanza sicura di ricordare che non fossi totalmente estranea al contatto maschile. Anzi. Non stavamo certo parlando di grandi numeri ma avevo avuto i miei incontri leggeri - un incontro di una sera o poco più. E mi andava bene così. Non amavo i legami - o forse non ero ancora pronta? Non lo sapevo. Fatto era che mi ero sempre sentita e considerata uno spirito libero. E quindi mi sorprese molto il modo in cui io stessa reagii a quella presa. Un misto di imbarazzo, eccitazione e desiderio tipico di un'adolescente alla prima cotta. Quello di Horus fu un contatto saldo, sicuro però anche dolce. E quando finì - troppo presto, per i miei gusti - mi lasciò un senso di spaesamento. Aveva detto di sì? Che voleva passare del tempo con me? Quando entrambi facemmo un passo indietro per mettere un po' di distanza tra noi - da quel momento che mi sembrava essere durato un attimo o un'eternità - quando facemmo un passo indietro io vacillai un istante ma poi tornai alla realtà. Come riemersa da un sogno quasi dimenticato.

«Mi ricordo di Hughes, sì» dissi, felice di poterlo aiutare, felice di poter avere una scusa per continuare a scambiarci qualche parola, qualche sguardo.

Gli feci cenno con la mano di seguirmi, aprendo la strada, senza aggiungere altro in merito. Mi venne quasi la tentazione di prenderlo sottobraccio e sollevai anche una mano, un piccolo accenno, ma poi me la ficcai in tasca. Non era il caso. Ero molto tentata dal riavere la sua pelle a contatto con la mia, quella sensazione di calore pur tra mani fredde. Ma non avevamo quel tipo di confidenza - anzi, che tipo di confidenza avevamo avuto in passato? Ero davvero curiosa di scoprirlo.

Mentre camminavano diretti all'ufficio di Hughes riflettei sul fatto che ricordavo Hughes e non ricordavo Horus. Perché? Qual era stato il criterio di selezione della mia mente? Perché ricordavo i miei colleghi, ad esempio, ma non ricordavo quell'uomo che adesso passeggiava al mio fianco, un uomo con cui era palpabile una certa intesa o comunque un rapporto quantomeno di amicizia? L'aver ritrovato Horus aveva riacceso sì la luce nella mia mente, dopo mesi di caos e buio infinito; al contempo però mi aveva posto davanti ad un altro quesito. Ma - dissi a me stessa - non era il momento di demoralizzarsi, anzi: qualsiasi input era pur sempre un input e mi avrebbe portato un po' più avanti, un po' più a capire e comprendere il quadro completo. Dovevo avere pazienza. Ma non era sempre facile.

«Quando ci siamo conosciuti?» gli domandai all'improvviso, senza guardarlo, continuando a camminare con tranquillità, come se il tempo fosse nostro e non ci fosse nessuno né alcun impegno. Sorrisi, guardando davanti a me. «E come ci siamo conosciuti, soprattutto?» aggiunsi, sperando che potesse rievocare in me qualche ricordo - o anche solo aiutarmi a capire di più su di lui. Su di noi. Sarebbe stata una storia bella da raccontare? Piacevole? Degna di nota oppure comune, come tante altre? Ero curiosa, tanto. Ma anche spaventata. Perché in quel momento tutto era nuovo, per me. Se Horus avesse voluto, avremmo potuto ricominciare a frequentarci. Da sconosciuti saremmo diventati... amici? E anche quella poteva essere un'avventura.


 
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view post Posted on 18/1/2024, 14:04
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Mi lascia perplesso venire a sapere che ti ricordi di un certo Hughes e non di me.
Nel mio infantile orgoglio avevo dato per scontato che fosse normale che, non avendo più in memoria la nostra amicizia, un banale collega non ti avrebbe nemmeno sfiorato i cassetti della mente che ti hanno chiuso a doppia mandata.
Mi trattengo dal guardarti accigliato e, anzi, sono felice di rivolgere la mia attenzione verso lo scrigno che riprendo sotto braccio dopo averti annuito. Non voglio che vedi nei miei occhi la delusione. Sono bravo a celare, ad essere un umanoide, ma sono stato colto così di sorpresa dalla tua improvvisa comparizione, da non aver ancora avvitato bene i bulloni che tengono su la struttura della mia indifferenza. Credo sia anche a causa del tuo viso contratto, dalla tua fragilità di cui mai mi ero accorto, del fatto che, dentro di me, sono felice di vederti anche se non avrei mai voluto farlo con te in questo stato.
Mi avvio con te fra i corridoi sterili di questo piano. Mi spiego, camminando, che forse ricordi questo Hughes perché siete stati insieme o lo eravate al tempo della tua amnesia. In fondo, cosa ne so di cosa è stata la tua vita quando ci siamo allontanati in quel corridoio di Hogwarts di cinque anni fa? E poi, la nostra, è stata un’amicizia che d’un tratto ho troncato io sul nascere. Proprio perché ero ferito anche se, certo, non giustifica la mia crudeltà. Sì, può essere: le relazioni, del resto, amorose o d’amicizia che siano, sono sempre poste su una scala di priorità. Per me, almeno, è sempre stato così. Ora di priorità ne ho solo una, mi dico duramente: trovare Lui. Per te sarà lo stesso. Magari è proprio ricostruire i tuoi rapporti in scala di priorità.
Oh, Iside benedetta, Horus. Sei mica geloso?
Arriccio il naso per il fastidio che mi procura questo pensiero.
Certo che no, mi rispondo, voltando distrattamente il capo verso una finestra illuminata dalla luce bianca di un cielo freddo e nuvoloso.
La tua domanda mi coglie di sorpresa e sussulto impercettibilmente, affondando le unghie nel legno della scatola al sicuro nell’incavo del braccio sinistro.
Mi volto verso di te, ma non mi stai guardando. Schiudo le labbra per parlare, le serro nuovamente. Mando giù il panico che scivola nella gola come un boccone amaro.
Cazzo.
E ora come te lo dico che quando ci siamo conosciuti io ero in procinto di uccidere un uomo e tu per arrestarmi?
Aggrotto le sopracciglia: mi sono sempre chiesto se l’avrei mai fatto. Forse no. Ero solo un ragazzino inebriato dal potere che gli era stato impiantato da una creatura pazza. Mi eccitava l’ebrezza di sapere che la vita di un uomo era in mano mia, trasferita nella lama di un pugnale che avrei potuto affondare nella giugulare di colui che era alla mia mercé. Ho sfidato gli Dei stessi e per poco non ne ho pagato le conseguenze.
Tu mi hai salvato, Rue. Solo che non lo sai.
Guardo il tuo profilo pallido, carezzando con lo sguardo il naso diritto, le sopracciglia scure che incorniciano il tuo sguardo affilato, sfioro la linea della mascella, il collo avvolto dalla morbidezza di una stoffa a righe sottili, un bel fiocco che mi fa sorridere.
Quel giorno in cui te l’ho sfiorato col respiro e con la bacchetta è lontano.
« Ci siamo incontrati casualmente ad Hyde Park. Tu mi hai aiutato… » Tentenno solo un istante, sistemando meglio lo scrigno. « …A trovare un oggetto che avevo smarrito. Al tempo lavoravo per un antiquario che mi aveva affidato il compito di trovare un articolo che ci avevano rubato. » Parlo con leggerezza, stringendo le viti della corazza. Poi sorrido. « Per coprirmi e giustificare il mio ritardo, dicesti al mio capo che eravamo amici di lunga data e che non ci vedevamo da un po’. Io dissi che eri stata in… » Mi sforzo di ricordare, poi scoppio a ridere e torno a guardarti. « …Patagonia! Non ho idea di come mi sia venuto in mente! » Il mio riso si protrae ancora per un po’ ed io sono felice di averla sistemata così, con semplicità. Che poi è tutto vero: mi sono solo premurato di non includere qualche dettaglio.
« Alla fine, comunque, fu una fatica sprecata perché l’oggetto si rivelò un falso. Ti regalai la chiave come pegno di ringraziamento e come ricordo.»

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Ascoltai
il bizzarro racconto di Horus con un sorriso divertito stampato sulla faccia. Mi raccontò una storia che, sinceramente, mi dispiacque molto aver dimenticato. Un incontro per nulla banale o normale. Ma quando poi nomino quella chiave, mi fermai e smisi di camminare.

La mia mano destra corse ad un punto imprecisato tra i miei seni. Imprecisato per chi mi vedeva dall'esterno ma per me era l'ennesimo pezzo del puzzle che trovava una collocazione nel giro di pochi minuti. Strinsi la stoffa della camicetta e mi sciolsi rapidamente il fiocco che mi nascondeva il collo. I lembi si aprirono e scivolarono lunghi e sottili poggiandosi sui miei seni. Slacciai il primo bottone della camicia, poi il secondo e mi passai sotto i polpastrelli la catenina in oro che trovai subito. Feci scorrere le dita aiutandomi con l'altra mano, fin quando trovai la chiave in ottone che vi era appesa e la tirai fuori. La osservai, poggiata lì sul palmo della mia mano. Uno dei pochi oggetti che avevo trovato accanto al mio comodino quando mi ero risvegliata al San Mungo. Uno dei pochi oggetti che possedevo quel giorno lontano. Uno dei pochi oggetti che mi aveva seguito in quest'altra vita.

«Cioè... questa?» dissi infine, dopo parecchi secondi di contemplazione. Alzai lo sguardo per cercare quello di Horus. Ancora una volta quell'uomo mi aveva sorpreso. Ancora una volta mi aveva dato modo di capire che c'era qualcosa, nel nostro rapporto, da non poter liquidare con una parola come conoscenti. Forse, nemmeno semplici amici. Mi ero rigirata quella chiave tra dita pensando e ripensando a chi o a cosa appartenesse, perché era con me, perché avevo scelto di indossarla quella notte.

E, di nuovo, il corridoio davanti a me scomparve e davanti ai miei occhi vidi il mio riflesso allo specchio. Una camicia di jeans aperta e la chiave al collo, adagiata nell'incavo tra i seni. Mi osservavo silenziosa, inclinando appena la testa, mentre le ciocche di capelli scuri mi solleticavano le clavicole. Non guardavo me stessa ma guardavo lei fare capolino sul mio corpo. E poi chiudevo i bottoni lentamente, mentre una leggera ansia pervadeva il mio corpo, come se mi stessi preparando a qualcosa di importante e quella - la chiave in ottone - fosse qualcosa che consideravo una sorta di portafortuna. Un oggetto che mi avrebbe protetto. Accompagnato. Difeso.

Tornai in me dopo quel brevissimo ricordo lontano che non mi destabilizzò come aveva fatto il primo ricordo, lì con Horus. Quella volta ero tranquilla, come se avessi riacchiappato un sogno lontano. Mi venne quasi da sorridere. E riflettere che forse non avevo pensato all'unica cosa che rendeva quella chiave così importante: un dono. Era stato il dono di una persona. Una persona non casuale, per forza di cose. Una persona che aveva reso una semplice e banale chiave in ottone un oggetto con un carico emotivo molto importante.

«Questa cosa è incredibile» aggiunsi, sorridendo, tornando a guardarla e rigirandomela tra le mani. «Ti confesso che è stata una delle prime cose che ho visto quando mi sono risvegliata al San Mungo» gli raccontai, ripensando a pochi mesi prima. Così vicini eppure così distanti, ormai.

Mi ero risvegliata nel panico più totale, mi erano state vomitate addosso un sacco di informazioni senza soluzione o risposta. Mi era stato chiesto di stare calma. Di riposare. E quando ero rimasta da sola, a guardarmi intorno in quella stanza spoglia, un leggero sbrilluccichio aveva attirato la mia attenzione. E così mi ero voltata alla mia destra e avevo visto quell'oggetto così inaspettato e così inusuale. Un qualcosa che non mi sarei aspettata di trovare. Un oggetto che aveva sicuramente una storia, uno scopo. E così l'avevo tenuto d'occhio per settimane. Alla fine, avevo scelto di indossarlo e non l'avevo tolto più.

«Quando ho aperto gli occhi era lì, sul mio comodino. Insieme ad altri pochissimi oggetti personali.» La chiave, il portafogli, un orologio danneggiato. Questo c'era accanto al mio letto, insieme ad un vasetto con qualche fiore leggermente appassito. «Mi sono sempre chiesta perché» mormorai, «perché fosse una delle poche cose che mi avevano trovato addosso quella notte.» Feci una pausa, tornando a guardarlo. «Probabilmente lo consideravo il mio portafortuna per quella missione» azzardai, scuotendo poi appena la testa. «E prima che tu dica qualcosa - sì, ha funzionato, perché sono stata l'unica sopravvissuta» dissi in fretta, proprio per fargli capire quanto tenessi a quella chiave e quanto avesse significato per me in quei mesi in cui avevo perso tutto ma lei, dal mio risveglio, c'era sempre stata.


 
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view post Posted on 24/1/2024, 15:46
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Compio ancora qualche passo prima di rendermi conto che ti sei fermata. Mi volto, guardandoti interrogativo e chiedendomi se non abbiamo saltato l’ufficio di Hughes.
Non mi aspetto di certo di coglierti a slacciarti il fiocco che ti adorna il collo.
Sollevo le sopracciglia e schiudo le labbra: se prima ero sorpreso, ora lo sono ancora di più.
« Rue che cosa stai facendo…? »
Non mi avvedo di aver usato quel soprannome che non mi sento più di poter utilizzare con te. Sono occupato a cercare di capire cosa diamine tu stia facendo sbottonandoti la camicia così d’improvviso. Una volta sarei arrossito, ora ti scruto, sicuro che ci sia una motivazione dietro questo gesto di cui mi sfugge ora lo scopo. Seguo lentamente le dita avvolgersi attorno al bottone, i lembi del fiocco aperti sulle clavicole, ma distolgo presto lo sguardo per puntarlo sul muro dietro di te.
Lo so che la mia mente ha pensato subito male, pur sapendo che era impossibile che tu facessi qualcosa del genere gratuitamente. Se potessi sorriderei per la mia maliziosità, ma sono abbastanza in pace con me stesso da ammettere che sarebbe stata una bell’immagine.
Alla fine sorrido, ma per un altro motivo.
« Sì, è proprio quella. » Confermo la tua ipotesi, alzando gli occhi dalla chiave al tuo viso. Continua a stupirmi come tu sia circondata da ricordi che mi riguardano e come la tua mente abbia deciso di cancellarmi totalmente.
Mi chiedo se non ci sia un motivo dietro: inconscio, ovviamente. E come a conferma di questo dubbio, ti vedo nuovamente sospesa in un luogo che non è qui; dura solamente un battito di ciglia e tu per fortuna non hai un principio di svenimento. Se questo scrigno mi cadesse, sarebbe un bel casino.
« Hai ricordato qualcosa? » La domanda mi esce con un tono stranamente speranzoso, come se saperti nuovamente consapevole della nostra amicizia potesse risollevarmi.
È piuttosto egoista da parte mia pensarlo visto quanto devi aver perduto.
Sto infatti per replicare che non credo proprio la chiave ti sia servita come portafortuna, quando tu metti le mani avanti e mi zittisci, spingendomi a chiudere di scatto la bocca.
« Va bene, se la metti in questi termini… » Capitolo infine, con un sospiro.
Riprendo a camminare, mordendomi un labbro. Ricordo quando mi sono svegliato io, dal coma, ormai quasi dieci anni fa.
« Sai… » Prima che possa imterrompermi, comincio a parlare. Credo perché ho bisogno di riempire il silenzio, ma anche perché saperti difettata continua a turbarmi.
« È successo anche a me. » Guardo davanti a me, tentenno un attimo.
« Di andare in coma, intendo. » Prendo un gran respiro: nonostante il tempo passato, continuo a provare un certo malessere nel parlarne.
« È accaduto tanti anni fa. » Chiarisco, con un’occhiata veloce al tuo viso –non al tuo collo.
« Non è stato per molto tempo, un paio di settimane. Ma quando mi sono svegliato ho fatto molta fatica a ricordare… –cosa– chi ero. Chi era la donna seduta davanti a me che poi ho scoperto essere mia madre. Non riconoscevo nemmeno il mio corpo. » Confesso in ultimo fissando vacuamente il corridoio senza fine di questo piano. Mi sembra quasi di sentire la cicatrice lungo il busto tirare i lembi di carne e l’anello con incastonata Hagalaz vibrare.
Forse lo sta facendo davvero, capisco, e allora mi affretto a virare la conversazione sul fulcro del discorso che in realtà volevo farti.
« Poi però la memoria mi è tornata. Magari farà lo stesso con la tua e questa condizione è passeggera. » Provo a piegare le labbra in un sorriso, ma ne risulta solamente un’espressione meccanica. Volgo il capo verso di te fissando intensamente i tuoi occhi. Nelle orecchie risento le urla degli studenti, i ministeriali che accorrono sul prato sporco, una volta che le Passaporte sono ricominciate a funzionare. Sento ancora sulla pelle il sangue sgorgare dallo sfregio che mi devasta la parte superiore del corpo.
« Vorresti ricordare? Vorresti davvero ricordare tutto quel… » Mi interrompo bruscamente, poi scuoto la testa. « Scusa, domanda del cazzo. » Mi affretto ad aggiungere piuttosto bruscamente.
Solo perché io vorrei dimenticare, non significa che per gli altri sia così. C’è chi invece pagherebbe Galeoni per ricordare. Sapere perché hanno massacrato la tua famiglia, ad esempio, è sicuramente un valido motivo

– The truth that could set souls free is buried within sweet pandemonium –

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Edited by Horus Sekhmeth - 24/1/2024, 16:06
 
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KRrxf0d
Non
mi era certo sfuggito che mi aveva chiamato, di nuovo, Rue. Ma lì per lì non dissi nulla in merito, continuando a restare concentrata sulla chiave in ottone che poi rificcai sotto la camicia. Stavo per riprendere la nostra camminata verso l'ufficio di Hughes quando Horus iniziò a parlare. Il tono che usò era incerto. Cauto. Rimasi perciò a guardarlo in silenzio. Lo sguardo che teneva fisso davanti a sé mi fece pensare che era il suo turno di perdersi in un ricordo lontano. Prese un bel respiro, come se trovasse faticoso affrontare quelle sue stesse parole - e allora perché dirle a voce alta? Perché condividere quei ricordi con me? E poi, ascoltandolo, capii. Capii che forse il suo era un gesto affettuoso per consolarmi, per tranquillizzarmi grazie ad un'esperienza simile che anche lui aveva vissuto.

Dapprima abbozzai un leggero sorriso, come se silenziosamente lo stessi ringraziando. Non era tenuto affatto a condividere con me dei momenti così delicati. Ma poi Horus alzò gli occhi verso di me, incatenandoli ai miei; uno sguardo così penetrante che mi afferrò la gola e lo stomaco. E continuò. La voce mi parve diversa, il tono portava dietro una rabbia lontana. Parlò in modo brusco, secco.

«Horus» mormorai.

Che cosa aveva ricordato lui, infine? Che cosa era meglio dimenticare? Cosa gli era accaduto? D'improvviso le sue emozioni vibrarono fortissimo e si infransero su di me. Le accusai quasi fisicamente. Una parte di me voleva che lui continuasse a parlare, ad aprirsi, ad aprire quella ferita - forse mal rimarginata - per farmela vedere, per mostrarmela in tutte le sue fattezze, così che io potessi saperne di più. Un'altra parte voleva riavvolgere l'orologio a qualche minuto prima, al momento in cui mi aveva chiamato Rue, sorpreso forse del fatto che mi stessi slacciando la camicetta. Volevo che tornasse a sorridere. Volevo che tornasse ad essere sereno - che non portasse i segni del dolore che, purtroppo, riconoscevo e conoscevo fin troppo bene.

«Non è una domanda del cazzo. Anzi» dissi a voce bassa, nello spazio che ci separava. Ma ero sicura che mi avesse sentito. «Ma una cosa a cui penso anch'io... molto spesso.»

Nel corridoio lungo e placido su cui si affacciavano gli uffici degli Auror in quel momento c'era un completo silenzio. Potevo sentire addirittura il mio cuore affrettarsi a pompare sangue più velocemente. Avvertivo il mio respiro ma anche il suo. O forse era solo la mia impressione. Ma era come se quel corridoio fosse scomparso e ci trovassimo altrove. E di nuovo la sensazione di conoscerlo da sempre, di conoscerlo da una vita, di essergli in qualche modo legata - quella sensazione tornò e mi scombussolò non poco.

E quindi feci qualche passo verso Horus. Lo feci, senza riflettere. Sentii solo il bisogno di averlo più vicino. Non mi diedi molto tempo per ragionare. Mi mossi e basta. Camminai e basta. Pochi passi e arrivai così vicina a lui che quasi le punte delle mie scarpe toccarono le sue. E anche la mia mano fece di testa sua, prima che potessi rendermene conto. I miei polpastrelli freddi si poggiarono sulla sua guancia destra, dapprima lentamente, poi completarono il gesto finché la mia mano non si appoggiò del tutto. Volevo ammorbidire quell'espressione meccanica che aveva rapito il suo volto. Volevo cancellare quel dolore, come se la mia mano potesse essere una gomma e il suo dolore uno schizzo a matita. Ma sapevo che non era così. Sapevo che non funzionava così. Lo sapevo perché lo sentivo io stessa. Ma quel gesto fu più forte di me e i miei occhi finirono in quelli di Horus di nuovo, come pochi istanti prima, come quando mi aveva sorretto e io avevo potuto inebriarmi del suo profumo.


 
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