C o n t r o l, Thalia Moran

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view post Posted on 23/2/2024, 23:10
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Fa freddo, un freddo di quelli umidi che ti scuotono le ossa, in questo pacifico giorno di dicembre. Ho patito di peggio in Islanda — molto peggio —, ma ho la buona decenza di non fare la gradassa, mentre osservo il calore presente nella carrozza farsi condensa a contatto con il freddo del vetro. Allungo la mano per liberarne una porzione e godermi il paesaggio scorrere davanti ai miei occhi. Non sono mai stata in questa parte della Cornovaglia e probabilmente non l’avrei mai visitata se non fosse stato per l’invito che ho ricevuto pochi giorni fa. Le labbra si arricciano in un sorriso: stiamo tornando e il mondo non è pronto a rivederci insieme.
Fa strano pensare a quel che sta accadendo. Dopo tutto quello che è successo tra noi, durante un ballo che non avrei potuto immaginare altro che terribile, ho ritrovato la via di ricongiungermi — solo un po’ — alla mia migliore amica. Ancora mi stupisco della naturalezza implicita nel tocco delle nostre mani. Mi dico che non sarebbe potuta andare diversamente. Io e Thal siamo sempre state destinate ad appartenerci. Lo sapevo allora e lo so ancora adesso che le illusioni infantili della prima adolescenza sono sfumate.
Getto un’occhiata in direzione del buffo duo che occupa la mia stessa carrozza. Li ho osservati scherzare, spintonarsi, confidarsi e spettegolare con una complicità al limite tra l’amicizia e l’innamoramento. Probabilmente, mi dico, non ne sono nemmeno consapevoli e, se lo fossero, il timore di rovinare il loro rapporto li frenerebbe dal compiere un passo in avanti. Mi ricordano così tanto me e…

«Mi hai concesso questo onore alla fine, Nieve Rigos.»
Alzo un sopracciglio, a metà tra l’indispettito e il divertito. Kurt mi sorride con quella spontaneità che, anni fa, mi ha incastrata in un sentimento più grande di me — che ero piccola e incapace di comprendere l’amore. In effetti, incapace lo sono ancora.
«Sono contento che tu sia venuta. Ci speravo.»
Ora l’espressione sul suo volto è dolce. Non capirò i ragionamenti del mio cuore, mi dico mentre lo sento fare una capriola. Non importa quanto tempo sia passato: Kurt continua e continuerà sempre ad esercitare il suo stupido fascino su di me. O, forse, non si tratta di lui. Forse, è semplicemente il ricordo vivo di un sentimento che ho provato con troppa intensità per dimenticarne le sfaccettature.
«Non mi hai dato molta scelta. Sembrava una questione di Stato. Che altro potevo fare?!»
Pagliaccia. Non potrei definirmi altrimenti e so che Isabella sarebbe d’accordo, pronta a sprimacciare l’immaginario naso da clown sul mio viso. Sorrido al pensiero dei suoi occhi brillanti. Certo che avevo una scelta. Quando la missiva di Kurt è arrivata in dormitorio sulle ali di una civetta, poco prima che partissi per le vacanze di Natale, ho creduto di essere di fronte a uno scherzo, perfino a un’allucinazione. “Nieve Rigos, ti aspetto al Glenmore Forest Park domani mattina alle 10. Non accetterò un no come risposta — Kurt”.
«Potevi dire di no» lo osservo ribattere e il mio sguardo si assottiglia. «Sei sempre stata una professionista del “no”.» Si ferma un attimo, il tempo di lasciare che la provocazione penetri. Poi, mi anticipa la mia risposta piccata. «Ma sono felice che tu non l’abbia fatto…»
Trattengo il respiro. Non guardarmi così, Kurt.
«Hai finito con le smancerie, ruffiano?»
Lui ride, forte.


Ho ripescato un altro frammento della vecchia me, quel giorno — che, poi, è soltanto ieri. Quel matto da legare mi ha sorpresa con una delle sue pazzie. “In pratica, noi ci lanciamo da quassù e, poco prima di schiantarci, loro ci salvano il culo con un Arresto Momentum”. Ho detto di sì, convinta di non avere potere decisionale. Invece, anche in quel momento, l’avevo eccome. Ero solo profondamente toccata dalla cura insita nella sua scelta: ha sempre saputo quanto ami le sfide e altrettante volte le ha assecondate. Perché lo fa? Perché mi cerca dopo il modo in cui gli ho parlato mesi fa?
Me lo sto chiedendo ancora, quando il treno arresta la sua corsa e scendo i pochi gradini che mi separano dalla pietra della banchina. Sospiro, incapace di determinare il mio stato d’animo. So che, venendo qui, rischio di recuperare un altro coccio della persona che sono stata, di incollarlo ai suoi simili e tornare ad essere… Scrollo le spalle. Non voglio pensarci.
Perché sai già come andranno le cose!
Vaffanculo, Abisso.

Lo scroscio del mare fa da sottofondo al mio arrivo. Certo che hai scelto proprio un posto dimenticato da Dio, Thal. Sei sicura che non sia pericoloso? Quella casina sembra reggersi appena sotto i colpi delle raffiche di vento. Faccio un passo in avanti e squash! Cazzo di fango, impreco mentalmente. Distratta com’ero a elaborare le mie considerazioni, ho dimenticato di prestare attenzione a dove mettevo i piedi. Ho l’espressione indispettita adesso, un po’ come quando Kurt mi ha presa per mano prima del salto nel vuoto e ho finto che non trovassi piacevole il calore della sua pelle.
«È un modo per farmela pagare?» ti dico, la voce alta per farla in barba alle sferzate d’aria e al tumulto del mare. Noto che sogghigni, maledetta, ma mi piace vederti così distesa, libera — non del tutto — dal tormento che ho scorto nei tuoi occhi al ballo. Sembri stanca, quasi non ti fossi fermata un attimo, e hai una guancia sporca di nero. «Giochiamo a fare le indiane?»
Ciao, Thal!

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Ho pensato di aspettarti alla stazione, all’inizio, perché avevo paura ti perdessi: St.Ives non è Londra, ma resta comunque un posto isolato in cui farti arrivare da sola, nonostante tutto.
Una parte di me sa - e lo farà sempre - che te la caveresti comunque, a costo perfino di invocare divinità sconosciute ai più per trovare la forza di non uccidermi per il solo fatto di aver provato a condurti qui. E’ con questo spirito quindi che sono tornata sui miei passi, avvolta nel mio cappotto e con un berretto di lana calato sulla fronte; ti aspetterò dove promesso, a poca distanza da una casina che ti sembrerà diroccata più di quanto in realtà non sia.
Mentre il vento freddo mi sferza il viso penso a quanta bellezza ci sia nel luogo in cui si erge la mia dimora futura: le alte scogliere si gettano a strapiombo sul mare impetuoso, che odo scrosciare con forza contro gli scogli appuntiti più in basso; il sentiero sul quale incedo piano è di terra e fango, con ciottoli sparsi qua e là come briciole di pane e l’erba ai lati non è che un velo rinsecchito sulla dura terra cornica. Non ci sono alberi né boschi in questi luoghi ed è forse l’aspetto che mi piace di più: distese aperte a perdita d’occhio, sia da un lato che dall’altro; l’immaginazione è l’unico limite. Mi sono detta tante volte, da quando l’ho acquistata, che sia l’espressione più alta del mio bisogno viscerale di eliminare i confini. La spilla da Caposcuola me ne impone troppi, il mio ruolo in famiglia ne porta con sé altri e questo posto è l’unico luogo in cui io possa essere tutto fuorché un’etichetta.
Gli abitanti del paese sono persone discrete, ma gioviali, e questo mi induce a sentirmi a casa immediatamente: gli incontri sono rari in questa zona, altrimenti battuta da turisti per tutta l’estate, ma se incontri qualcuno il saluto è un rituale a cui sottrarsi è impossibile. Tolte le formalità di un cenno o un sorriso, poi, ognuno procede per la sua strada con i propri pensieri e la vita continua.
Fare i conti con la solitudine che questi posti recano per loro stessa natura è una sfida a cui sono finalmente pronta: non ho paura di chiudere l’uscio di casa e restare sola in mezzo al nulla; forse, è la dimensione più naturale in cui possa vivere, dopotutto.

Avrei continuato volentieri le mie riflessioni iperboliche sul senso della vita se, alla fine dei conti, non avessi perso un numero inquantificabile di anni di vita al garrire di un molesto gabbiano: subito la faccia di Camillo mi affiora alla mente, mentre prendo consapevolezza del fatto che questi volatili esistono da prima, molto prima, che Breendbergh condividesse l’ossigeno col resto del genere umano; ciò non toglie che il trauma subito a causa sua mi faccia saltare ancora il cuore in gola ed ogni membro di quella specie sia per me un memento costante del passaggio di Camillo nella mia vita.
Osservo, quindi, la bestia volteggiare sopra di me ad ali spiegate, studiando le correnti ascensionali in modo del tutto naturale, ma tenendo sempre bene in vista i miei movimenti. Per un attimo che sembra durare all’infinito ci guardiamo così, io immobile con le mani nascoste nelle tasche profonde del cappotto e lui col suo piccolo occhietto nero come la pece. Ad interrompere la quiete di questo momento sono soltanto i suoi stridii fastidiosi, che oltre mi suscitano sbuffi e malessere mi inducono a proseguire maledicendo con il pensiero la creatura e il suo verso infernale.
Sto per raggiungere l’avvallamento nel terreno che mi consentirà di scorgere casa mia quando, del tutto inaspettatamente, percepisco lo spostamento d’aria sopra di me e lo sbattere di ali forti; faccio appena in tempo a sollevare lo sguardo che l’incontro ravvicinato con quella bestia del demonio mi fa impallidire: a becco aperto si sta fiondando su di me e nell’attimo in cui lo realizzo, lo vedo tornare in quota con il mio berretto nel becco, il pon-pon come unico appiglio. A nulla servono le mie imprecazioni, il mio agitare le braccia e l’assennatezza con cui gli prometto una morte dolorosa. Il mio sentimento si acuisce quando, pochi istanti più tardi, lo vedo rilasciare il bottino in acqua dalla modica altezza, forse, di trentacinque metri. Non odo il suono che fa a contatto con l’acqua né mi spreco a guardarlo galleggiare in mare. Mi investe un’ondata di odio puro e pare che il blu impetuoso reagisca con me al torto che ho subito.
«Brutto figlio di una Megera!» urlo, più al cielo che a lui, saltellando e imprecando.

Ed è così che la maledizione del gabbiano prosegue: concentrata come sono a guardare il cielo, alla ricerca del mio molestatore, non vedo la pozzanghera fangosa in cui mi sto infilando: quando provo a schivarla, poi, finisco irrimediabilmente con lo scivolare all’indietro e solo il Cielo vuole che non sbatta la testa con violenza a terra.
Mi sento impotente di fronte a una successione d’eventi talmente ridicola da sembrare surreale e, quindi, mi comporto di conseguenza. Sbraito da lì, stesa nel fango, osservando il cielo grigio e la silhouette scura di un altro esemplare piumato, molto più in alto del suo predecessore e totalmente disinteressato a me.
Porto le mani al viso, poi provo a rialzarmi: sono inzaccherata dalla testa ai piedi di fango e faccio appena in tempo a darmi una sistemata che sento la sua voce, quella che sto aspettando, dietro di me.
In cuor mio spero non abbia assistito alla scena appena conclusa, ma so già che le dirò ogni cosa. Mi volto, dunque, e rispondo alla sua domanda con un ghigno divertito che non mi apparterrebbe in circostanze differenti. Nel guardarla spero soltanto che il disagio peggiore siano state le cinque ore di viaggio e il cambio di treno a metà percorso.
La vedo poi indicarsi il volto mentre mi prende in giro e allora capisco di non aver cancellato tutte le prove della mia recente disavventura. Ho ancora la bacchetta in mano e, senza dar peso al fatto che certe confidenze non ci sono più congeniali, la agito velocemente e appello un’esigua quantità di fango e gliela lancio, mirando alla guancia opposta alla mia. Un riflesso in tutto e per tutto, senza pensarci davvero. Allo splat secco che la sostanza produce a contatto con la pelle di ceramica di Nieve, sorrido ancor di più.
«Adesso puoi giocarci anche tu.» dico, giusto per rendere chiaro che nessuna delle due resterà immacolata dopo la giornata di oggi.
«Prima però ho bisogno di una tazza di tè.»

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La mia lingua è una dei motivi per cui mi sono cacciata spesso nei guai, nel bene o nel male. Non so tenerla a freno e, se non la uso per godermi un bacio, finisco per dire la cosa sbagliata nel momento sbagliato; oppure, come in questo caso, a beccarmi una ritorsione al profumo di fango. Non me l’aspetto il tuo attacco, Thal. Così, quando la poltiglia viscosa si abbatte sul mio viso in un tripudio di schizzi, tutto ciò che riesco a fare è chiudere gli occhi e spalancare la bocca per la sorpresa. Impiego qualche attimo a capire cosa sia appena successo e lo testimonia il mio rapido battere di ciglia. Infine, ci arrivo e la mia bocca si arriccia in una smorfia malandrina.
«A te piace proprio giocare con il fuoco, Morry.» Un altro dei nostri nomignoli. Non lo pronunciavo da talmente tanto tempo che le labbra esitano nel sentirne il suono, quasi che temessero di essersi spinte troppo in là. La mia faccia tosta, però, nasconde questo tentennamento con grande abilità. Perciò, risulto ancora una volta indispettita ma in quel modo tutto mio che ho di cogliere una sfida. «Attenta che ti bruci!»
Faccio appena in tempo a dirlo, prima di chinarmi con le ginocchia e affondare la mano nella terra bagnata. Un secondo dopo, lo sbattere del fango contro il tuo cappotto mi strappa una risata. Siamo cresciute — è lo specchio a dircelo —, eppure quella scintilla bambinesca che abbiamo fatto appena in tempo a lasciarci alle spalle si diverte a fare capolino ogni tanto. A ben pensarci, è passato un secolo dall’ultima volta che mi sono lanciata in una lotta tanto barbara, una di quelle che mi ricorda Ỳma. Sapessi le volte in cui ci siamo rotolate nel fango e mi ha presa a colpi di palle di neve, facendomi cadere a terra per la spinta data dal tiro. Era vecchierella e zoppa, ma aveva un forza impensabile. Fa così male pensarci da fare bene.
«Ti è piaciuta questa tazza di tè?»
Mi importa poco dello stato in cui mi trovo, sporca fino alla tibia e con uno stivaletto interamente coperto di melma. Ah sì! E con la faccia dipinta della stessa sostanza, con tanto di schizzi pittoresti che ricordano alcuni di quei quadri moderni dal significato astratto. Ne abbiamo visti durante una mostra, ricordi? I colori venivano fuori dalla tela e giocavano a girarci intorno. Quando ho spinto il dito contro una goccia di blu, quella ha seguito la direzione che le ho imposto ed è tornata ad abbellire il quadro. Mi mancano le nostre piccole abitudini; scoprire Londra e il resto del mondo magico insieme a te.
Alzo entrambe le mani, quella pulita e quella sporca. «Tregua?» propongo. «In fondo, ho affrontato cinque ore di treno e un cambio per arrivare qui. Mi merito un po’ di tè e magari anche un dolcetto.»
Ho sempre mangiato in tua presenza, eccezion fatta per i primi periodi della nostra conoscenza. Ecco perché la proposta viene così naturale. Tu sai che, in fondo, il cibo mi piace da impazzire pur con tutte le complessità del caso; e che non so resistere alla cioccolata. Mi colpisce il pensiero che le cose non siano cambiate affatto in questi anni di distacco. Mi sarei aspettata un altro periodo di assestamento, prima di concederci reciprocamente questo agio. Però, tu mi hai presa per mano al ballo di Natale e hai mostrato apprensione per la presenza dei draghi, mostrandomi come il tempo non avesse infierito sul legame che abbiamo — ho — rinnegato nell’ultimo periodo. Allo stesso modo, io non ho esitato a farmi avanti quando il dubbio che fossi in difficoltà ha attecchito nella mia mente. Non te l’ho chiesto perché non ne ho il diritto, ma mi sono interrogata sull’identità dello sconosciuto: si trattava di un pretendente incrociato sul momento dai modi troppo arditi — per non dire inappropriati — o ci sono dei trascorsi tra voi due?
Avanzo verso di te, aggirando la pozzanghera che ci separa. Quando siamo abbastanza vicine, modulo la bocca in un sorriso ampio, che trattiene a stento una risata. «Però, lasciami dire una cosa: come cadi tu, nessuno.»
Ti ho vista scivolare sul fango con tanto di imprecazioni a corredo. Avevo appena raggiunto un punto sufficientemente alto della collina dove la tua casa sta incastonata. Mi sono persa, purtroppo, lo scontro con il gabbiano. Se avessi potuto godermi la scena, avrei riso ancora più forte di quanto non stia facendo ora nel ripercorrere la scena con la mente. Un po’ come quella volta che l’Umanoide è inciampato sul gradino della scala che conduce al soppalco e… Un improvviso vuoto allo stomaco ferma il mio divertimento per buona pace della tua dignità. Non posso pensare a lui — una damnatio memoriae necessaria per sopravvivere.
«Allora, mi fai vedere la tua reggia?» chiedo con tutta l’intenzione di scacciare il pensiero e le sue implicazioni.
Cazzo, Thal, se avrei avuto bisogno di te otto mesi fa!


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Edited by ~ Nieve Rigos - 2/3/2024, 17:49
 
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Non mi stupisco affatto che tu mi renda pan per focaccia come la bambina di cinque anni che sei stata perché, in fondo, sono felice nel constatare che quella parte di te non sia andata perduta. Non hai avuto un'infanzia facile, ma almeno l'hai vissuta con una forma di spensieratezza - rara, ma presente - che io non ho mai provato. A cinque anni tornavo dal Nuovo Continente al Vecchio, su un mezzo babbano volante e rumoroso, col monito di non mostrare mai a nessuno - specialmente ai No Mag - che avessi sangue magico nelle vene. Perfino io risultavo repressa, se vogliamo, e costretta a comportarmi da Babbana nella Grande Mela: abitavo un appartamento che non ricordo a causa della sua anonimità e restavo sola con mio padre, mentre mia madre girava coi ministeriali statunitensi. Non ho mai saputo quale fosse la sua occupazione lì né il perché fossimo rimasti tanto lontani da Cork. Le bugie e le omissioni mi sono state servite prim’ancora del latte materno e non c'è da stupirsi, quindi, che sia così brava a mentire e dissimulare. Distorcere la verità e manipolare il prossimo è quello che mi hanno sempre insegnato, pur apportando qualche variazione sul tema. Il che è assurdo, a pensarci bene, perché pretendo sempre dagli altri massima trasparenza e onestà.
Tu, però, sai sempre che cosa penso e come costruisco gesti e parole. I miei discorsi non sono mai preparati su carta, non ne ho bisogno giacché l'improvvisazione è la miglior virtù di un bugiardo seriale, eppure li intercetti con facilità e sciogli i nodi delle mie reticenze. Sai quali fili tirare per fare di me la marionetta perfetta.
Non mi oppongo al fango che mi lanci addosso, non provo nemmeno a spostarmi, e ti guardo con mestizia. Sapere che mi hai vista scivolare, imprecare e dannarmi a pulire il cappotto che hai appena insozzato di nuovo basta e avanza a farmi rimanere in silenzio tra la frustrazione, la vergogna e la voglia di ridere.
Mi limito a sospirare, un giusto compromesso tra tutte queste emozioni, e anche questo è un siparietto ben rodato tra noi; mi sorprendo ancora che siamo state capaci in meno di due ore a cancellare due anni e mezzo di rabbia, rancore e dolore. Se il whiskey mi fa questo effetto dovrei berlo più spesso.

Freno i pensieri improvvisamente, memore del perché cerchi di non bere.
Con il Whiskey in corpo mi sono resa ridicola di fronte a Weiss e non ho intenzione di rivangare il passato a riguardo. Non ho più incontrato Aiden da nessuna parte, anche se Smilzo me lo ricorda costantemente: spero che stia bene nella sua casupola tra i boschi di Hogsmeade e che fare l’Auror, tutto sommato, non l’abbia portato a lasciarci le penne.
L’altra figura barbina l’ho sostenuta con la Milford-Haven e i miei stupidi - inutili più che altro - tentativi di mettere un cerotto dove ho aperto una ferita: oltre ad essere bugiarda, in passato, sono stata anche spocchiosa, arrogante e stronza. Megan, in fondo, mi sta solo restituendo il favore con gli interessi.
Eppure non sono questi gli episodi che mi affiorano alla mente mentre proseguo verso casa, mentre davanti a me ammiri lo spettacolo che è il paesaggio e che io non riesco a godermi.
Il whiskey è la ragione per cui sono finita a letto con Scott.
Bugiarda mi dico Comodo pensarla così.
Non è stato il sapore dolciastro e un po’ fiorito di quel liquore a dare spazio all’istinto: volevo quel contatto e una parte di me si odia per il solo fatto di desiderarlo ancora in minima parte. Non faccio che crogiolarmi nel bisogno di confrontare le due persone che fanno parte, sentimentalmente almeno, della mia vita col solo scopo di convincermi che l'uno prevalga sull'altro, sancendo una volta per tutte la liceità delle mie azioni: lasciare Lucas da solo, tornare con Mike e sentirmi burro nelle mani del primo tanto quanto in quelle del secondo.
Mi fermo fisicamente e contemplo la tempesta che si sta accentrando sulle nostre teste, pronta ad esplodere con fragore. Che diamine mi sta succedendo? Non ho elaborato già abbastanza i recenti eventi per sapere che sono binari morti?

Quando ti volti a guardarmi, l’entusiasmo e la burla negli occhi, mi punzecchi a parole e allora torno bruscamente al presente.
«Guarda che è un cottage, non Buckingham Palace.» ribatto, affiancandomi a te «Ed ha pure bisogno di una ripulita...» confesso, infilandomi le mani nelle tasche del cappotto lurido.
Ormai siamo prossime all’abitazione che, ai tuoi occhi apparirà ben diversa da com’è in realtà: non esistono davvero il buco sul tetto né il trave in bilico sulla porta sfondata o il cartello che intima di girare a largo, causa cedimenti strutturali. Ti prendo per mano, di nuovo come due giorni fa, e avrai l’impressione di essere passata attraverso una doccia fredda mentre usciamo dal sentiero e ci immettiamo nell'inesistente vialetto: il brivido che ti percorrerà la schiena è normale, una qualche diavoleria di mio nonno per tener lontani gli intrusi. Solo dopo aver passato il primo momento di shock ti troverai di fronte alle mura in calce bianca, il fumo che fuoriesce dal comignolo in mattoni e pietra e qualche aiuola sguarnita accanto all’ingresso.
Ti lascio andare per poter aprire la porta e ti cedo il passo lasciandoti entrare per prima.
«Non è ancora al suo massimo, ma credo che i fine settimana mi basteranno per rimetterla in sesto.»
Il pavimento di legno è pulito abbastanza affinché tu possa vederne le venature e il piano della cucina è drasticamente anonimo, sviluppandosi alla tua sinistra. Il caminetto, in fondo alla stanza, è acceso - un’idea dell’ultimo minuto - e l’unico arredo in quella zona è un tavolino in legno rotondo con un paio di seggiole scricchiolanti (ma te ne accorgerai quando ti ci siederai, pregando di non finire a terra come la sottoscritta). Dal punto in cui ti trovi, mentre mi sfilerò il cappotto e procederò a fare lo stesso con te - perché la sorpresa di vedermi qui dentro deve fare pace con l’immagine fantastica che devi esserti costruita nel viaggio fin qui -, vedrai anche la scala a chiocciola e il soppalco vuoto. Non dormirò qui finché non avrò sistemato ogni cosa.
«Lo so, sembra che mi abbiano diseredata, ma ti assicuro che ho dei progetti per questo posto e sarà presentabile, prima o poi.»
Gli unici oggetti che vedi sono quelli che possiedo in questo luogo e mentre il vento ed il mare beccheggiano oltre le finestre, preparo il tè. Non voglio chiederti se sei contenta di essere qui: una parte di me sa che lo sei, ma l’altra non sa interpretare i tuoi pensieri.
Non ancora, almeno.

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«Che ne dici di grattanettarmi un pochino? Non che mi faccia problemi per il fango, ma rischio di riempirti casa di impronte.»
Casa tua non è una reggia, me ne accorgo presto. Direi piuttosto che ha un’aria malinconica, come se ti fossi trovata a scegliere questa sistemazione per prendere le distanze da qualcosa (o qualcuno). Di nuovo, fa capolino nella mia mente il viso insipido del biondino intravisto al ballo: è un Aiden Weiss con un pizzico di buongusto in più? Dovrò dargliele di santa ragione per fargli capire che aria tira? Non che tu abbia bisogno di essere protetta, non praticamente almeno. Sei più in gamba di me e decisamente più vessata nell’arte degli incantesimi. È la tua fragilità emotiva a preoccuparmi. Ho come la sensazione che tu stia impiegando ogni stilla di energia per reggerti in piedi e non pensare, non tutto il maledetto tempo.
Mi scappa un sorriso nel rivivere la familiarità con cui mi hai presa per mano poco fa e la naturalezza con cui mi hai sfilato il cappotto. Siamo cresciute, ripeto, ma non abbiamo mai davvero lasciato indietro la nostra intesa. So che tu mi conosci e capisci, anche i lati di me che mi ostino a celare. Chissà che non sapessi, in fondo in fondo, che prima o poi sarei tornata da te! Al contempo, io conosco e capisco te perfino quando sembra impossibile attribuirmi una tale profondità emotiva. Ho cominciato a vestire il ruolo della superficialotta, attaccabrighe, spacciatrice di fumo magico. Alla fine, nonostante il vociare dei corridoi, mi sono detta che non importava. Questo, almeno, finché l’Umanoide non è rientrato nella mia vita.
Arrossisco, stringendomi nelle spalle. «Sono sicura che diventerà il tuo angolino di paradiso e che ti rispecchierà» dico per scacciare la sensazione di imbarazzo e, insieme, di preoccupazione con la quale sono costretta a fare i conti quando riemerge il ricordo di Lui. Ma lo penso davvero. Se faccio una panoramica degli interni, riesco a individuare i piccoli spot che ti ritaglierai, rendendoli magici — lo so, sono banale. «Già mi immagino l’angolo lettura lì» proseguo e indico un punto della casa dove vedo bene una poltrona, un’illuminazione calda e te con un libro dei tuoi tra le mani. Accanto, immancabilmente, tè caldo e il lattiere in ceramica.
Mi avvicino al punto in cui ti trovi, tutta intenta a mettere su l’occorrente per un piccolo momento di intimo ristoro. Sciacquo la mano sporca per evitare di imbrattare me stessa e casa tua. Mi sembra ancora impossibile trovarmi qui con te, ripensare agli eventi del ballo e a quanto poco sia bastato per riavvicinarci. Sembrava quasi che fossimo in attesa dell’occasione giusta per farlo, come se avessimo rinnegato da tempo l’astio che ci ha animate. Sono sicura che ne parleremo apertamente presto o tardi, ma so anche che oggi non è il giorno giusto.
Incrocio le braccia al petto e poggio un fianco contro il bancone della cucina. «Se vuoi una mano, considerami assunta. Me la cavavo parecchio bene da Safarà» propongo senza pensarci troppo su. Tu stai aiutando me e io vorrei fare lo stesso per te. Non per senso dell’obbligo ma perché il tempo in tua compagnia lenisce tante ferite; perché tu sei casa. «Se riesci a sbloccare la mia magia, ti aiuto a colpi di bacchetta. Altrimenti — e sciolgo l’incrocio sul petto — lo farò come una babbana, ché mi è forse anche più congeniale, conoscendomi.»
Sono leggera come sempre, in questo momento, nel portare alla luce le mie difficoltà. Non me ne vergogno, non con te. Ricordi la volta che ti parlai dei giorni in Islanda e delle cose che mi sono accadute? Non c’era traccia di dolore nei miei occhi, né tentennamenti. Ora so con certezza di aver seppellito i ricordi così in profondità nel mio inconscio da essermi convinta che nulla del mio passato potesse influenzarmi.
Non è tutto come prima, però, lo percepiamo entrambe. Non solo perché, scrutandomi, noterai la sfumatura diversa nella mia voce — una nota di malinconia —, ma anche perché c’è un velo di tensione quando parlo ancora.
«Chi è quel tizio del ballo?» sbotto all’improvviso. Una parte di me l’ha fatto perché temo i nostri silenzi, quelli nuovi che producono uno stridio prima impossibile da immaginare. L’altra non ha resistito dopo un intero viaggio (o quasi) speso a rivivere l’episodio del ballo. Ad ogni visione, che tu ci creda o meno, i miei occhi stavano fissi sulla scena che mi ha fatta sentire in obbligo di intervenire. «È un nuovo Aiden Weiss o un coglione incontrato per caso che non ha capito l’antifona?»
Altre supposizioni non posso farne. So che stai con Minotaus — un bambolotto incapace di mostrare un’emozione di qualsiasi foggia — e non mi sfiora l’idea che tu possa aver scelto qualcun altro all’infuori di lui. Vedi dove stanno i segno del passato? In tutto ciò che non sappiamo di noi.
«Non voglio farmi i cazzi tuoi, Thal» aggiungo, ma non sono pentita. «È che, se è un nuovo Weiss, scoprirà presto che sono cazzi miei.»
Eccola, la sentenza che pende sul capo del tipo che decisamente non incontra i miei favori. Almeno, per adesso.


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«Ti stai pentendo di aver giocato a fare l’indiana?» chiedo e intanto che parlo lo svolazzo della mia bacchetta ti fa svanire di dosso il lerciume che ci siamo vicendevolmente tirate.
Prendo poi dei ciocchi di legno da una borsa di plastica vicino alla porta, mentre ti guardi intorno e fai tuo lo spazio che ti si presenta. Alzo le spalle e annuisco alla tua interpretazione di me attraverso luoghi ed oggetti e per un attimo immagino di assecondarti. In realtà nello stesso punto in cui tu mi vedi intenta a leggere ci sarà solamente un divano con una poltrona, ma niente libri. Quelli li terrò al piano interrato, che tu non hai idea esista, e mi crogiolo nella consapevolezza che questo è davvero un posto mio: l’atto di compravendita porta il mio nome e i soldi guadagnati col mio lavoro da Zarathustra mi hanno permesso di acquistarla. Mi rendo conto di essermi calata in un contesto distante anni luce da ciò a cui sono abituata, ma mi piace proprio per questo: St. Ives è il mio inizio e, allo stesso tempo, la mia incarnazione.

Infilo i ciocchi nella porzione inferiore della stufa, sussurro “Incendio” e la fiamma attecchisce immediatamente. Il bollitore d’acqua è già pronto, ma ti osservo lo stesso di sottecchi mentre ti lavi le mani.
«Non sapevo che Safarà avesse piatti sporchi da lavare…» ti prendo ovviamente in giro e ricordo con nostalgia i pomeriggi in cui mi pregavi di passare a trovarti al negozio solo per poter sfuggire alla noia almeno un po’. Mi chiedo se l’inattività a cui la tua situazione ti costringe non ti sembrerebbe meno assillante se tornassi a lavorarci; magari l’occupazione delle mani aiuterà a smuovere la mente, che ne sai?
Capisco lanciandoti uno sguardo in tralice che c’è qualcosa che ti frulla per la testa e non lo stai dicendo solo per cortesia, ma quando accenno a dirti «Dai, spar-...» mi colpisci con la forza di un Bolide con la tua domanda.

Sapevo che non avresti lasciato correre. Per punizione non mi sono resa conto di aver appoggiato la punta delle dita della mano sinistra sulla piastra più vicina, quindi alla sensazione pungente e dolorante di calore ritraggo la mano repentinamente. L’istinto mi porta a succhiare le dita alla ricerca di sollievo, ma poi col fianco ti scanso e apro velocemente l’acqua, che scorre libera sulla pelle tanto quanto vorrei facesse col mio senso di colpa e la mia stupidità.
Ti lascio parlare, anche se la preoccupazione - lo so - ti sta mangiando viva dall’interno come un parassita e lascio sospesa nell’aria la tua ultima affermazione.
«Aiden Weiss è stato una parentesi e un’incomprensione.» dico, stringendo uno strofinaccio attorno alla mano per asciugarla. I miei occhi scrutano l’orizzonte visibile dalla finestra e vorrei che la mia mente si perdesse ad immaginare le verdi terre aldilà del mare, ma tu me lo impedisci. Mi stai guardando e aspetti una risposta che non so se voglio darti.
«E’ un giornalista del Profeta» proseguo e mi sembra già di sentire le tue sinapsi andare in cortocircuito al nominare con tanta naturalezza la testata giornalistica che odio per principio. Ti chiederai che cosa ci faccio con uno della Gazzetta e dove sta di casa la sua professionalità nel trattarmi come ha fatto due sere fa.
Peccato che il giornalismo, tra me e Lucas, c’entri poco.
«Quando sono tornata ad Hogwarts dopo le vacanze di Natale del quinto anno… era responsabile di una mia intervista.» ti spiego brevemente l’accaduto, le poche battute scambiate e il modo in cui - apparentemente - la mia conoscenza con Scott sarebbe dovuta finire.
«E invece, all’inizio dell’anno scorso io…» mi mordo il labbro, mentre i flashback di quella notte ritornano a balzarmi davanti agli occhi e lo scoppiettio del mio camino acceso diventa quello di Villa Scott. Lascio che le sensazioni di quella sera prevalgano sul presente e mi frammento, metaforicamente, tra la me del passato - libera, libera di scegliere e di essere chi volevo - e la me del presente. Il piacere che ho provato, l'appagamento del momento e quello successivo, tutto giustifica il mio gesto e, in parte, lo avvalora ancora. Mi legittima perfino a non sentirmi in difetto se ripenso all'altra sera, perché la mia mente può raccontarsi centinaia di frottole, ma so di aver risposto al suo tocco esattamente come voleva lui. Mi odio per quello che ho provato al contatto con le sue mani, mi vergogno per aver voluto - nonostante tutto - che si spingesse più in là di quanto ha fatto pubblicamente. Mi sale la bile alla gola, la soffoco con la forza della disperazione e mi concentro su altro; sciolgo l’intreccio tra la stoffa che mi avvolge le dita e lancio lo strofinaccio sul bancone alle tue spalle, passando la mano sana sul viso in un chiaro cenno di frustrazione.
Da due sere non faccio che pensare che sia tutto maledettamente sbagliato e che questa persona, che si crogiola con piacere nel ricordo, non sono io; emetto un suono che è a metà tra un grido soffocato e un cenno di insoddisfazione.
«Ci sono finita a letto e la mattina dopo me ne sono andata senza dire una parola.»
Ecco. L’ho detto. Sono stata una perfetta manipolatrice, ancora una volta, e l’ho dimostrato nel peggiore dei modi. Ti chiederai che fine abbia fatto la Thalia che conoscevi, che mai si sarebbe permessa di approfittarsi di qualcuno, ma sarà subitanea l'associazione tra il mio gesto verso Scott e quello che ho fatto a Primrose Moran. In fondo, da entrambe le esperienze, ho ottenuto un giovamento.
Mi rendo conto dalla tua espressione, però, che non riesci ad inanellare gli eventi che mi hanno condotta a tornare con Mike - se prima o dopo la mia notte con Scott - facendo di me un'adultera in piena regola.
«Sono tornata con Mike l’estate successiva e… ovviamente non sa nulla di tutto questo.»
Sono scesa a patti col fatto che nessuno dei due sia rimasto con le mani in mano nel periodo di separazione: aver assistito al bacio tra lui ed Alice Lestrenge mi legittima a serbare il ricordo tra i peggiori della mia vita, così come la sensazione di fallimento più totale. Solo che Mike non aveva bisogno di confidarmi nulla: li vedevo ogni santo giorno, come una specie di punizione divina, ed io - invece - ho cercato conforto altrove.
Sono stanca, nell'accezione più cerebrale del termine: sento che devo fermarmi o la spirale di pensieri e ricordi in cui sono piombata mi ucciderà lentamente. Mi appoggio al bancone, guardando bene dove metto le mani questa volta: la vergogna che sento è sufficiente e vorrei risparmiarmi - almeno - il dolore fisico.

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Sobbalzo, incapace di dissimulare. Non per il tuo racconto — non ci siamo ancora arrivate —, bensì per la bruciatura che ti sei distrattamente causata. Ti lascio passare per trovare ristoro nel tocco fresco dell’acqua. Intanto, istintivamente, recupero la bacchetta dalla tasca. È già accaduto, in tempi e modi diversi, che l’esigenza di curare qualcuno mi spingesse a recuperare una piccola connessione con la magia. Non ho voluto esplorare le ragioni legate alle circostanze in cui mi sono attivata prima d’ora, finché non ho capito che…
Nel tuo caso, non ho dubbi né esitazione perché un sentimento mai sopito di appartenenza guida le mie mani. Quando ti liberi dello strofinaccio, ti prendo per il polso. Il mio è flessibile, mentre crea un semicerchio in senso orario, dal basso verso l’alto. Infine, do una piccola stoccata con la bacchetta in direzione delle tue dita. La formula non la esplicito. Lascio che echeggi nella mia mente per accompagnare i movimenti. L’incantesimo riesce, di nuovo. Me ne accorgo dal rossore sulla punta dei tuoi polpastrelli: piano piano, lo osservo sparire. Rinfodero la bacchetta e finalmente riesco a guardarti.
«Ne parleremo a tempo debito» affermo perché, prima, ho bisogno di sapere; perché tu vieni prima di me.
Mi assecondi per fortuna e metti insieme i ricordi per rivelarli ad alta voce. Sei tormentata e io corrugo la fronte nell’attesa di capire perché. Dunque, il biondino è un giornalista del Profeta. Ma tu che ci fai con uno degli scagnozzi di quel giornale mediocre? Me lo spieghi subito dopo e non mi stupisco dell’intervista. Per qualche ragione, sembra che alla Gazzetta importi delle nomine a Hogwarts — quelle dei Caposcuola, almeno — e mi domanderei il perché, se le tue ultime parole non piombassero tra noi con la solida violenza di un masso. Lo senti anche tu lo schianto, non è vero?
Una sveltina, Thal. Tu. Quante cose mi sono persa, lasciandoti spaurita nel buio dei tuoi travagli, commento senza dar voce ai miei pensieri.
Non è che mi stupisca sapere che tu abbia fatto sesso. Sei bella, anche se non te ne rendi conto, ed è normale che l’attenzione degli uomini (e delle donne) si catalizzi su di te. È piuttosto il modo in cui si è svolta la vicenda. Non puoi saperlo, ma hai messo in pratica una delle regole di Roth, una di quelle che ho seguito sempre con rigore.
Bugiarda, interviene l’Abisso.
Fottiti, rispondo io.
Vorrei chiederti tante cose in questo momento: com’è stato? Se ne è valsa la pena? Se, a questo punto, la vicinanza con il giornalista al ballo non fosse voluta? Perché sei scappata, ché non è proprio da te? O, mi correggo, della te che conoscevo due anni e mezzo fa. Vorrei anche complimentarmi per aver superato lo scoglio di Minotaus, che ti avrebbe lasciata illibata per sempre. Ma perché, poi, sei tornata con lui?
«Sai che non ti giudicherei mai, Thal. Proprio io! Non avrei la faccia tosta di puntare il dito dopo le cose che ho fatto e faccio.» Sai cosa ho combinato prima che scoprissi della morte di Roth, ma probabilmente non immagineresti nemmeno fin dove mi sia spinta per attutire il vuoto che mi divora da dentro. «E, poi, era ora che ti lasciassi alle spalle quel frigido di Mike!» È più forte di me. Non riesco a trattenermi neppure dal ghignare. Voglio anche stemperare la tensione che si ciba di te. Torno seria. «Provi qualcosa per lui? Per il giornalista, intendo.»
È una domanda pensata, basata sull’osservazione delle tue reazioni. Non saresti china sul piano della cucina, se non ti fosse importato. Non gli avresti permesso di avvicinarsi tanto — e non l’avresti concesso neppure a te stessa — al ballo. Buffo come abbia travisato il tutto, non trovi? È la prova provata del tempo trascorso dall’ultima volta che ci siamo viste, prima che io sparissi nel nulla.
Poggio una mano sulla tua spalla, un modo per offrirti un piccolo conforto. «Sei tu che ti giudichi per quello che hai fatto, non è così?»


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Edited by ~ Nieve Rigos - 6/3/2024, 17:29
 
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Il fatto che tu abbia curato le mie bruciature con la magia è passato in sordina, almeno alla parte senziente del mio cervello; ho percepito l’impulso del dolore, ho lasciato che coprisse tutto il resto e ho vissuto passivamente i secondi che ci hanno portato a questo preciso momento. L’attimo in cui ti dico quello che mi è successo al di là del mio cambiamento e, forse, proprio in virtù di questo.

Stringo i pugni sul bancone, ho la testa incassata tra le spalle e i capelli sciolti a coprirmi il viso. Non puoi vedere lo sguardo che rivolgo al panorama fuori dalla finestra: vedresti fuoco e fiamme, anche se non mi appartengono, e se potessi le rivolgerei al mio debole riflesso sul vetro.
Sono domande quelle che mi fai che mi sono posta tante volte. La mattina seguente, una settimana più tardi, sei mesi dopo, quando una lettera mi annunciava la sua partenza per un altro paese giurando di dimenticarmi. Me lo sono chiesta al suo ritorno, due sere fa, e ho scoperto che non sapevo rispondere. Non a parole.
«Sto ancora con Mike. E non l'ho tradito.» ribatto, quasi in un ringhio, ma non ce l’ho con te. Me la prendo, piuttosto, con il fatto che vorrei potermi dividere in due lasciando che ogni parte di me segua un percorso differente. Come te lo spiego che due persone oltremodo impareggiabili abbiano su di me lo stesso medesimo effetto?
Come posso farti capire che Mike corrisponde alla parte migliore di me e Lucas alla peggiore? Lui conosce le mie ombre, le accetta e le comprende. Il mio ragazzo non potrebbe mai: è troppo puro di cuore, per quanto non gli piaccia ammetterlo, per concepire quello che faccio quando non siamo insieme, le trame che intesso e quelle che cerco di districare. Non c’è limite al peggio, Lucas questo lo sa e con lui mi sento sicura a nascondere il mio volto, lo stesso che tu avresti voluto colpire e graffiare per vendetta.
Sospiro e non trovo pace, ma tu questo lo hai capito perfettamente anche da sola. Come ci riesci, mi chiedo, dopo tutto questo tempo?
«Io mi giudico sempre, Nì, e sono costantemente giudicata.»
Adesso ti guardo, ma non c’è velo di tristezza nei miei occhi. Sento il tocco delicato della tua mano sulla spalla e non mi muovo di un millimetro, anche se vorrei abbattere il muro che mi sostiene e mi impedisce di crollare.

Amo Mike, perfino per la sua ingenuità. Non che sia un illuso, conosce i mali di questo mondo tanto quanto li conosco io, ma non li ha dovuti saggiare sulla propria pelle. Non sa quanto sia fortunato. Mi ha confessato di voler provare a diventare Medimago e mi sono detta che non ci sarebbe miglior persona di lui tra le corsie e i reparti del S.Mungo. La sua compassione per il prossimo mi disarma, ma è la ragione per cui sto con lui: mi tiene ancorata alla parte buona, a quella consapevole che non c’è solo il male minore da scegliere o una costrizione nella sofferenza. Ci sono le piccole vittorie quotidiane, le sciocchezze che ti strappano un sorriso e i momenti di silenzio in cui non serve dire niente. Basta respirare e apprezzare la pace del momento.
Ecco, se dovessi spiegarti perché lo amo… questo è il motivo.
Lucas però capisce che cosa sono oltre l’espressione cordiale, comprende i lati oscuri del mio carattere che per anni ho finto non esistessero. Con quanta semplicità ho cancellato la memoria ad un ragazzino del terzo, poco prima di diventare parte dell’Esercito degli Studenti? Quanto poco ho dovuto riflettere prima di pietrificare Frances e fuggire dalla casa della donna la cui memoria ho depredato? Un millesimo di secondo, forse meno addirittura.
E tutte le bugie? Lucas ne dirà di continuo - non solo scrivendo per il Profeta - e persino in questo possiamo comprenderci. Lui toglie qualsiasi velo e ogni maschera io indossi. Mi vede per ciò che sono e per quanto mi riconosca come sua simile, questo ci unisce più di quanto possa dividerci.
Realizzare quanto sia abissale la differenza tra loro e così simile il sentimento che provo per ciascuno è disarmante. Ho sempre pensato che le emozioni fossero la mia debolezza, ma non me ne sono resa conto fino a questo preciso istante.
Ti guardo, Nieve, e capirai che nella mia testa si sta combattendo una guerra di proporzioni epiche.

«Non lo vedevo da un anno, più o meno.» ti confesso, umettando le labbra secche. La mia voce è cupa quanto i miei pensieri e solo il fischio del bollitore riesce a smuovermi fisicamente. Apro le ante di un pensile e ne estraggo due tazzine dai decori floreali sbiaditi, ma impreziositi da lamine d’oro. Non ci sono i piattini, ma queste sono mancate finezze a cui credo non farai caso. Verso il té, il vapore mi offusca vista e mente assaporo il silenzio che si è creato tra di noi, per un attimo soltanto, penso a che cosa confessarti subito dopo. Sono gesti meccanici i miei, ma mi servono quanto l'ossigeno.
«La cosa incredibile è che per quanto sappia sia sbagliato, non riesco a smettere di pensare all’unica notte passata con lui. Non credo…anzi, so che non è giusto. Eppure lo faccio.»
Così come continuo ad usare le mie abilità per carpire segreti e nascondere le mie tracce all’occorrenza.
«Sono patetica, ma non è colpa né di Mike né di Lucas... è solo e soltanto mia.»

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Edited by Thalia Moran - 11/4/2024, 18:43
 
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Mi sono spinta troppo in là. Non perché il nostro rapporto sia ancora comprensibilmente tremulo, ma perché non sono mai stata capace di trattenermi in favore di un pizzico di delicatezza in più. Tra le due, la diplomatica sei sempre stata tu. Hai provato a insegnarmi la moderazione, a trasmettermela con la tua saggezza. Io, però, ho fatto fatica a darle applicazione. Il dominio dell'istinto, sai bene, non è prono a concedermi il tempo di consultare la ragione.
È per questo mio modo di fare che apprendo che la tua relazione con Mike stia ancora in piedi. Non posso fare a meno di domandarmi di nuovo perché tu sia tornata da lui. So che ha rappresentato un nodale elemento di stabilità nella tua vita e, tuttavia, la linea tra solidità e noia è sempre stata troppo sottile per ignorare i segnali. Ecco perché mi sono convinta che non andasse bene per te. In un certo qual modo, ti ho vista spegnerti tra i confini sicuri della vostra relazione, come se ti inducesse a mantenere il controllo su te stessa e le cose piuttosto che spingerti a concederti qualche rischio — qualche libertà.
Realizzo anche, qui e ora, le conseguenze del tuo cambiamento. Nel ragazzo di cui non so il nome, devi aver trovato quella scintilla a lungo sopita dentro di te. È divampata velocemente — forse troppo perché tu potessi capire a cosa stessi andando incontro — e ha incenerito il legaccio che ti ancorava alle domande delle quali temi le risposte. “É giusto o sbagliato?”, “Cosa farebbe la Thalia che sto impersonando, la studentessa diligente e impeccabile?”, “Quale sguardo mi rivolgerebbero gli altri se compissi un passo falso?”. Il tuo, di sguardo, non ha fatto tardi a tacciarti di qualcosa che sto tentando di identificare.
«Chi stabilisce cosa è giusto o sbagliato?» ti domando, seria. «Tu, più di me che vedo il mondo in bianco e nero, non cogli le sfumature quando si tratta di sbrogliare la matassa fatta di estremismi dei tuoi sentimenti» commento, pensosa, con l'eco di un "senti chi parla!" nelle orecchie. «Non è detto che sia impossibile essere due cose diverse allo stesso tempo. Puoi essere la versione di te più giudiziosa che esista. Significa forse che non hai il diritto di "sbagliare"?»
È difficile per me tenere le fila di questo discorso senza costringermi a scendere in profondità, negli strati del mio io che preferisco ignorare. A me fa comodo non pensare giacché, se lo facessi, dovrei capire chi sono e perché sono come sono. Gli interrogativi si accumulerebbero e, come te, non sono sicura di voler conoscere le risposte.
«Io sbaglio continuamente e, di tanto in tanto, per grazia di Dio, ci azzecco. Mi definiresti un disastro o una cattiva persona? Mi diresti mai che sono un caso perso? Ti arrenderesti con me perché non so vivere secondo quello che gli altri si aspetterebbero da me?» Il mio discorso non mira a ottenere una rassicurazione da parte tua. So quanto lo sguardo che rivolgi al modo che ho di essere sia diverso dal mio, che non sa fare a meno di munirsi della spada della critica. So cosa diresti, se ti dessi il tempo di parlare. «Non è tutto male o tutto bene. Non siamo una cosa sola.»
Devo a Isabella l’evoluzione della mia maturità. La sua visione delle cose è una boccata d’aria fresca, di quelle che portano via il giudizio e ti lasciano avvolte nel sollievo. Con lei, ho trovato una compagna di follie, certo, ma anche una guida per imparare a guardarmi dentro con occhio più imparziale; o quantomeno a provarci. Non ha fatto un miracolo — mi conosci troppo bene per pensare questo della nuova me —, ma mi ha aiutata a crescere; a imboccare una via più lineare di quelle cui solitamente affido il mio destino sconsiderato. Le devo molto.
«Io non so chi sia, ma so chi sei tu. E, anche se credi di aver commesso un errore andandoci a letto, una parte di te è d’accordo con me. Puoi volere qualcosa che non sia giusta. Ma, poi, giusto per chi? Magari ti va bene, magari ti va male. E allora? Dovresti girare le spalle a questa cosa solo perché ti fa paura? Perché io lo so che è questo il problema, Thal. Tu non sei abituata ad avere paura, non quando si tratta di queste cose. E non vuoi averne.»
Ho già compiuto qualche passo indietro. In realtà, non ho smesso di camminare nemmeno un attimo da quando ho cominciato a parlare. Non sono avvezza a vestire i panni di chi dà consigli. Di solito li ricevo. Mi sento inadeguata, vista la piega che ha preso la mia vita. O, a essere sinceri, quella che ha sempre avuto.
«Magari è un coglione. Magari è peggio di Mike. Magari non ci devi fare proprio nulla. Ma datti un secondo di tregua. È successo e ti è piaciuto. E va bene così.»
Ohhhh, sono sul punto di aggiungere, quasi esasperata. Ho il buongusto di astenermi, stavolta.


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Edited by ~ Nieve Rigos - 13/3/2024, 19:55
 
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Non mi sono mai autocommiserata, perché le scelte - le mie, almeno - sono sempre state coerentemente personali. Essere vittima di me stessa sarebbe il peggior reato che potrei compiere e so che è l’unico che non farei mai. Eppure, mi rendo conto con un secondo di ritardo che le mie ultime parole sono proprio questo: commiserazione.
L’ho detto prima: sono abituata ad essere giudicata, nel bene e nel male - spesse volte più nel primo che nel secondo - e convivo con questo da sempre; ci ho costruito sopra le mie responsabilità, le scuse e le bugie e che racconto, le mie insicurezze e le paure di cui ora mi tacci. Nel sentirtelo fare non provo rabbia né verso te che comunque mi stai a sentire né rispetto a qualsiasi altra cosa, persona o idea. Sono due giorni che non mi fermo, che la mia testa non la smette di girare e arrovellarsi intorno ad un problema che non c’è.
Smetto di guardare il vuoto e anche se la tua voce mi sembra ovattata e di non capirci nulla, in verità ti ho ascoltata dall’inizio alla fine; faccio soltanto fatica a vedere con chiarezza, per la prima volta, quello che vedi tu.
«Non sono pentita.» biascico a un certo punto e non so nemmeno se riesci a sentire quello che dico, ma lo dico lo stesso «La mattina dopo ero…»
Santi numi, quanto può essere difficile esprimere quello che provo? Perché diamine non ci riesco?
Ti guardo, come se volessi il tuo aiuto per trovare le parole giuste che si incastrino perfettamente tra loro per costruire a parole l’immagine della confusione che ho nella testa. Lascio quindi ricadere le braccia lungo i fianchi, il volto sollevato e lo sguardo perso sul soffitto. Vedo una ragnatela, mi fisso a coglierne le trame e ci vedo un insettino impigliato; si dibatte, i suoi movimenti scuotono la struttura in cui è intrappolato, ma non c’è scampo. Più si agita, più si vincola.
Trattengo il respiro per un momento e mi rendo conto che sono proprio in quella situazione, solo che la ragnatela è la mia ed è anche la mia prigione. Tiro su col naso, il respiro affannoso che precede le lacrime mi fa fremere e serro le palpebre con forza. Vorrei sparire, perché non so come stare qui.
«Non ho sbagliato-» dico allora, la voce che mi trema e mi infastidisce «-ad andarci a letto. Lo volevo, sul serio.»
Premo i palmi sul viso e spero di riuscire a scacciare le lacrime: non sei abituata a questa mia fragilità o alla confusione che mi porto dentro e trascino con me, come un cane al guinzaglio; di fronte a te non ho mai pianto né mi sono concessa di essere bisognosa di conforto. Eppure adesso vorrei tanto che la smettessi di parlare e mi abbracciassi. Vorrei che me lo dimostrassi, ascoltandomi e basta, facendomi capire che va bene così, che posso essere la persona migliore e peggiore del mondo allo stesso tempo; invece, sento che mi giudichi per la troppa rigidità che indosso.
«E’ sbagliato che ci abbia continuato a pensare quando ho deciso che era finita…Non posso pensare ad un altro se sto con lu--»
Eccolo il primo singulto, quello che precede le lacrime e l’incapacità di parlare. Non siamo venute qui per questo, eppure in un certo senso è l’unico motivo. Se non ti fossi intromessa tra noi, al ballo, avrei fatto una cazzata allucinante. Voi non lo sapete, tu e Camillo, che mi avete strappato dalle mani l’occasione di mandare tutto a puttane e decido di dirtelo. A questo punto, credo, non vale la pena trattenermi e aspetto solamente il momento in cui smetterò di sentire tutte queste emozioni fare a pugni le une con le altre, alla ricerca di un attimo per respirare.
Inspiro, mi asciugo occhi e guance con la manica del maglione, sporcandolo del poco trucco che indosso. Quando me ne accorgo cerco di levarlo con le dita, poi comincio a sfregare la lana con forza. Non sto parlando, ma tu lo hai capito che i silenzi sono parole a loro volta. No?

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Basta parlare. La clessidra ha smesso di sputare i suoi granelli e ha decretato la fine della mia pazienza; o, meglio, della moderazione che ho mostrato finora, se così vogliamo chiamarla. Quindi, mi faccio avanti e allontano le tue braccia, impegnate a sfregare il maglione, per inserirmi nel poco spazio che le separa. Ti stringo, forte come non ho più fatto nel tempo trascorso a distanza. E in questo contatto metto tutto ciò che non ho ancora detto — che sono mortificata per averti fatta soffrire, per dirne una — e tutto ciò che vorrei dire. Non è di questo che hai bisogno adesso, pero; delle scuse e delle spiegazioni. Hai bisogno della tua amica e, stavolta, io sono qui.
Poggio una mano sul tuo capo, lisciando dolcemente i capelli rossi che ricadono sulle tue spalle tremanti. Mi distrugge rendermi conto di quanto tu abbia patito in questi anni; capire che avrei potuto e dovuto fare di più per te come ci eravamo silenziosamente promesse all’alba del nostro rapporto. Mi è mancato tutto questo. Mi sei mancata tu, ma non avrei mai voluto riaverti a questo prezzo. Sei quanto di più prezioso esista al mondo per me.

«Ninì, ce la fai a stare ferma per un secondo?»
Seggo su una sedia, scalpitante. Siamo nell’ufficio vuoto, il nostro quartier generale, e tu mi stai acconciando i capelli. Indosso un vestito delicato, confezionato da nonna Lucrezia per l’occasione, e mi sento speciale come non ho mai potuto essere da bambina. Ai tempi in cui vivevo in Islanda me lo sarei sognato, un abito così. Invece, il cambio netto che ha subìto la mia vita mi ha condotta a smettere di sopravvivere per godere del presente, delle sue bellezze, della tua amicizia.
«Non ci riesco. Non è nella mia natura» ribatto e non ho tutti i torti — la nonna, sempre lei, ne sa qualcosa.
«Cosa c’è che non va? Forza, dimmelo!»
Tu, però, sai leggermi dentro. A volte, penso che per te io sia trasparente. Non invisibile. Trasparente. Non c’è cosa che possa nasconderti: un pensiero, un dubbio, una delle mie trovate al limite del regolamento scolastico. Non ho scampo di fronte ai tuoi occhi. Ciò che amo di più è che, nonostante tutto, non mi giudichi. Tu consigli e basta, perché mi vuoi bene.
Sospiro, colta in fallo. «Sento le voci dei bambini del mio passato dirmi che sono ridicola» confesso, dispiaciuta. Rovino sempre il mood delle serate, non è vero? «Mi dicono che sono una caricatura e forse hanno ragione. Chi voglio prendere in giro con questo vestito? Non fa per me.»
Le tue dita continuano a muoversi tra i miei capelli, intrecciandoli con gentilezza. Percepisco il tuo tocco farsi più soffice, come se non stessi semplicemente annodando i miei capelli ma anche districando i miei pensieri con il tuo silenzio. Infatti, non dici nulla. Metti un fermo al tuo ruolo di parrucchiera e torni a essere quello che ti riesce meglio con me: un’amica, la mia amica.
Non aggiungi altro. Ti avvali dell’aristocratica compostezza insita nella tua natura. Poi, ti chini e mi abbracci, ancora dietro le mie spalle. Io, dopo un momento di tensione, mi lascio andare, sfiorando la tua mano. Accenno un sorriso, che acquisterà volume nel corso della serata. È solo merito tuo se, di qui a breve, mi godrò una parentesi di spensieratezze e un ballo folle con Maurizio Pisciottu.
Sei qui, al mio fianco. Lo sei sempre.


«Andrà tutto bene» sussurro al tuo orecchio, piano. Percepisco il malessere che si agita dentro di te e mi astengo dal mescolarlo ancora. Hai bisogno che io sia stabile, l’àncora a cui aggrapparti per non affogare. «Ci sono io qui con te. Non vado più via.»
Il tono rimane lo stesso. La morsa, invece, acquisisce vigore. Ti tengo stretta. Non ti lascio andare. Quindi, non temere le onde e la loro prepotenza. Giuro sul mio onore che non ti avranno stavolta. Te lo prometto senza esplicitarlo, a labbra socchiuse. Rimango, Thal.
«Buttalo fuori. Lo reggo io, per un po’, il tuo peso.»

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Il contatto fisico con le persone non mi spaventa, semplicemente non ci sono abituata. E’ strano pensare a qualcosa che hai sempre saputo di te stesso, ma è come se non ti appartenesse; ed è ancor più curioso analizzarne l’origine e il senso più intimo.

Se provo a guardarmi dall'esterno sembra impossibile che io - proprio io, Thalia Moran - abbia una qualsivoglia difficoltà a relazionarmi col prossimo. Eppure, se si gratta un po’ la superficie della patina che mi avvolge, si possono alla fine scorgere i segni delle abitudini che mi sono cucita addosso per non soccombere al giudizio altrui. Santo cielo, quanto odio che gli altri si facciano l’opinione sbagliata di me! D’altro canto capisco che sia impossibile avere piena contezza di chi io sia davvero se non mostro mai veramente il fianco a nessuno.

Mi chiedo spesso chi debba ringraziare per questa mia incapacità a mostrare emozione o debolezza oppure a chi debba rendere merito per avermi resa implacabile nell’assurgere agli obiettivi che mi pongo.
In entrambi i casi la risposta è soltanto una: mia madre.

Non sono avvezza alle coccole, questo lo sanno anche i muri e - forse - lo sa anche Mike, giacché per ogni mio capriccio o lacrima, la risposta più comune io abbia ricevuto sia stata “Piangere ti aiuterà ad ottenere ciò che vuoi? Te lo dico io. Assolutamente no.” oppure “Smettila, così sprechi solo energie”. Dai oggi, dai domani - come il mare lambisce lo scoglio e lo smussa con la sua forza costante - ecco che il danno è fatto. Mia madre mi ha insegnato che non ho tempo per piangere sul latte versato, disperarmi per le cose che non posso cambiare e, soprattutto, che il tempo continua a scorrere nonostante io cerchi di rubare anche solo un minuto per me. Se mi avesse almeno concesso la grazia di una carezza, ad oggi non faticherei tanto a lasciarmi andare. Saprei centellinare le attenzioni, renderle speciali e far sì che non siano scontate né troppo abbondanti tanto da stancare.
Il mio essere lievemente allergica al contatto umano mi ha resa vulnerabile, poiché non appena qualcuno riesce ad insinuarsi nella mia zona di comfort e tenta l’approccio io cedo come un castello di carte al soffio del vento.
E’ successo con Mike, Aiden, Lucas e perfino con te.

Mi irrigidisco all’inizio quanto mi tocchi, avvolgendo le braccia attorno alle mie spalle, incapace di capire come tu - Nieve Rigos - sia oggi in grado di superare non solo le mie barriere, ma anche le tue.
Con te sono stata la mia versione più onesta, sardonica e amorevole al tempo stesso: hai visto di me tutti quegli stati d’animo che nessuno, nemmeno le mie sorelle, possono dire d’aver sperimentato. Per loro provo un istinto di protezione che va oltre la mia stessa pelle, non so come spiegarlo, e so che un giorno quando saremo ognuna in un angolo diverso del mondo sarà comunque facile non sentire troppo la loro mancanza; la loro assenza sarà motivo di ritorno, sempre nello stesso posto. Per te, invece, sento di dover fare di più e meglio, di averlo fatto e di essere finita a fare un buco nell’acqua quando te ne sei andata. Ho percepito il vuoto, lo strappo definitivo, il senso dei miei sentimenti per te ridotto in cenere. Le mie confidenze, le tue, le nostre gite e le nostre litigate risolte con una gomitata tra le costole. Ogni cosa importante o stupida è svanita nel nulla. Quando sei ricomparsa, alla fine, mi sono sentita mancare la terra sotto ai piedi, nella spiacevole sensazione di non sapere che cosa fare. Mi sono detta che non avrei ceduto io per prima, stavolta, che ti avrei fatto sudare il mio perdono - anche se ero pronta a darti questo e molto di più - in virtù di ciò che siamo state e avremmo potuto essere. Mi hai respinta, odiata e mortificata, mi hai perfino istigato a picchiarti. Alla fine, ho perso io. Ho perduto non solo il baricentro del mio essere me senza te, perché era facile pensare di non averti intorno e dover sopravvivere in qualche modo al tedio delle giornate tutte uguali, ma come potevo essere me e averti intorno, senza parlarti e senza sapere - soprattutto - perché mi ignorassi e odiassi?
Quindi perdonami se non ricambio il tuo gesto immediatamente. Non riesco a conciliare la persona che sono oggi a fronte della figura che mi si pone innanzi. Sei cambiata così tante volte che non so riconoscerti, ma il mio io risponde al tuo, come se fosse un linguaggio non scritto. Sarà una questione di odore, come il cane riconosce il padrone dopo lungo tempo di separazione, e solo quando non riesco più a restare immobile - e tu mi stringi di più - ti avvolgo le abbraccia attorno alle spalle a mia volta.

Non piango subito, perché - come dicevo - non mi è solito farlo. O meglio, prima degli attacchi di panico non ero capace di versare una lacrima nemmeno di fronte al dolore fisico, ma oggi sono diversa. Oggi soffro di ansia e quando passa mi odio per non saperla gestire.
In questo preciso istante mi odio perché dovevo essere io la tua forza, il punto di appoggio a cui aggrapparti per riavere la tua magia, e invece sei tu che mi conduci alla leggerezza.
Non appena sgorgano rigandomi le guance, le lacrime ti inumidiscono i capelli che mi solleticano il naso e lo zigomo; la sensazione di sollievo è così forte e immensa da dare voce ad un singhiozzo rotto solo dalla paura che ho di dimostrarti quanta fragilità nascondo dietro la facciata di perfezione e rigore.
Non so per quanto rimaniamo in questa posizione, con te che mi accarezzi i capelli dolcemente sussurrandomi parole che mi calmano. Mi sono sentita in gabbia, Nieve, ma mi stai aprendo la porta verso la libertà e, forse, non te ne rendi nemmeno conto.

Tiro su col naso, alla fine, ti faccio capire che sono pronta a staccarmi e che posso continuare a stare in piedi da sola.
«T-ti s-s-sei ac-accota, v-vero?» biascico, la bocca impastata dal pianto. Ti mostro il palmo guarito e ti sorrido come un’ebete «No-non hai davvero b-bisogno di me.»
Mentre lo dico, però, penso che io di te - al contrario - non posso fare a meno.

–The truth is, everyone is going to hurt you.
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view post Posted on 16/3/2024, 16:32
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Va tutto bene, piccola. Non ti lascio più.
È questo che sussurra il silenzio tra una battuta e un’altra. È questo che dicono i miei gesti senza trasformarsi in parole. Ed è la stabilità del mio corpo a sancire l’accordo che mette fine ai miei errori e, spero, al tuo senso di sperdimento. Adesso che sento la portata di ciò che ti è accaduto in mia assenza, è impossibile nascondersi dietro la rabbia che mi ha provocato la tua gelosia per Lei; la paura subentrata con la tua noncuranza nei confronti del mio dolore; il fermo proposito di impedirti di scavare tra i miei ricordi e pensieri con la Legilimanzia. Avrei dovuto sapere, capire il perché dei tuoi gesti. Invece, troppo presa dal mio vuoto, ho rispedito al mittente ogni segnale inviato nella mia direzione.
Lo accuso, il colpo, quando singhiozzi e ti lasci andare. Quando dai ascolto alle mie parole e consenti al peso della tua sofferenza di aggrapparsi alle mie spalle. Lo sostengo, tutto questo patimento, aggiungendolo al mio senza vacillare. Lo sai meglio di me che ho affrontato di peggio, che le difficoltà hanno plasmato il mio io, che non cederei neppure di fronte alla sfida più cruenta che la vita possa presentarmi. Non ho forse già attraversato tutti i gironi dell’inferno con la perdita di Roth? Non ho già sacrificato la mia anima al diavolo per consentirmi di sopravvivere?
Ecco perché il tuo singulto non mi muove, non intacca la solidità che ti ho promesso e che ho recuperato negli ultimi mesi. Sono quello che tu sei stata per me per tutto il tempo della nostra amicizia. Sono il mannaro che resiste alla propria maledizione per il bene di chi ama. Così, ti concedo il tempo di mostrarti fragile, di svestire i panni che tua madre ti ha costretta a indossare ché eri solo una bambina. Conosco questa parte della tua storia. Non hai mai ceduto a una lacrima nel parlarmene, non hai mostrato emozioni, come se stessi enumerando i dettagli importanti per la riuscita di un incantesimo. Eppure, io l’ho visto il tormento serpeggiare nei tuoi occhi — l’incastro tortuoso cui non sei mai riuscita a sfuggire. Almeno, fino ad ora.

Sciolgo l’intreccio che ti ha premuta contro il mio corpo, assecondando il tuo bisogno di spazio. Sei ancora vicina, così tanto che mi pare di percepire il sale delle tue lacrime, e traballi sulle gambe. So quanto sei forte e so quanto ti sia costato cedere alle tue emozioni in questo modo. Posso immaginare che una parte di te se ne penta, la stessa che non riesce a liberarsi del riverbero delle parole di tua madre. Ciononostante, rimani e mi parli. Mi strappi addirittura un sorriso.
Sei così intelligente, Thal, ma anche così ingenua.
Sfioro il profilo del tuo mento con le dita per portare i nostri occhi gli uni negli altri. Hai visto qualcosa che credi di aver capito e hai tratto la conclusione sbagliata.
«Io avrò sempre bisogno di te, testa di zucca» sussurro come se il contrasto tra la gentilezza dei miei modi e la virulenza delle mie affermazioni potesse ricordarti chi sono, pur non spiegandoti nel dettaglio chi sono diventata. «Questo — e sfioro con lo sguardo la porzione di pelle guarita — è solo un collegamento tra me e la magia che tu hai innescato. Riesco negli incantesimi curativi solo quando dall’altra parte c’è qualcuno che amo. Se non ti amassi, il tiglio argentato avrebbe continuato a dormire e la mia magia a nascondersi.»
Ti fornisco il quadro della situazione per smentire i tuoi timori. Non ho la padronanza della mia magia, ma solo quella delle intenzioni. Farei di tutto per proteggere chi mi sta a cuore, disposta a sopportarne le conseguenze. Non credere che il mio Abisso non abbia preso ad agitarsi, ricordandomi che non sono stata capace di fare lo stesso con Lei; di aver contribuito alla solitudine e alla malinconia che l’hanno condotta infine a… È solo che tu sei qui, che io sono qui. E tu hai bisogno di me. Roth è un fantasma che continuerò a frequentare — di nuovo a galla — nei miei sogni, negli istanti in cui il presente cederà al senso di colpa.
«Ti ho fatto credere il contrario: di non avere più bisogno di te. La verità è che ti ho chiesto aiuto non tanto per tornare a fare la strega. Volevo ricucire lo strappo che io stessa ho causato. Avere l’occasione di chiedere scusa, mostrandoti che non è cambiato nulla anche se volevo pensassi di sì.» Porto la mia fronte a contatto con la tua e chiudo gli occhi. Mi concedo un sospiro, ché provare tutte queste emozioni ne richiama altre e lo sforzo di domarle — insieme a quello di espormi — sta gravando sul mio animo. Quando mi distacco, sto ancora sorridendo. «Avrei potuto schiantarlo, il biondino, se solo avessi pensato che fosse un pericolo per te. Ma ci sarei riuscita per merito tuo. Per ciò che rappresenti per me. Di questo, non dubitare mai, okay?»
Sfioro la tua guancia con il dorso delle dita. Vorrei capissi quanto sei importante per me.

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That you were always with me when it hurts, I know that you'd understand–

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view post Posted on 11/4/2024, 18:05
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Chiudo gli occhi e scelgo il silenzio che questo momento mi - ci - regala. Improvvisamente sono svanite buona parte delle mie reticenze nei tuoi confronti e sono sparite anche le paure che mi assalivano in tua presenza; ho sempre pensato di doverti controllare, domare perfino, perché non hai mai avuto la capacità di farlo davvero tu stessa. Ti serviva stabilità ed io lo ero, a modo mio. Oggi ti scopro diversa e la cosa non mi stupisce. Sono cambiata anche io, forse in peggio, ma questo non importa più ormai. Dal disequilibrio delle nostre vite l’armonia è riuscita a trovare uno spazio per germogliare di nuovo e, dopotutto, credo anche sia stato più semplice del previsto. Se mostrarti il fianco era il modo giusto per riaverti, allora, ho appreso una nuova lezione dalla vita - l’ennesima - riguardo i sentimenti e il loro potere.


«Prima o poi mi farai morire.» sussurro. Non voglio dire che mi punterai addosso la bacchetta e mi farai fisicamente del male, questo lo sai bene. Credo tu non abbia bisogno di spiegazioni ulteriori: sai di essere colpevole in veste di carnefice e di essere allo stesso tempo l’antidoto del veleno che ho ingerito in questi ultimi anni. La mia spalla sinistra si scontra con la tua in un cenno giocoso fatto per allontanarti e un sorriso a fior di labbra ti fa capire che sto bene, forse solo un po’ meglio di prima, ma che possiamo ripartire da qui.
«Lui non sarà mai un problema.» commento poi, sospirando «E so cavarmela anche da sola, specialmente con lui.»
Non so quanta verità ci sia nelle mie parole, ma voglio farti credere che siano l’unica versione possibile della storia; dopotutto, non ho la forza di pensare ad una dolce alternativa da inventare e raccontare.

Ti porgo la tua tazza di tè ancora fumante e spingo verso di te la zuccheriera panciuta col cucchiaino già pronto per essere usato, mentre avvolgo le dita attorno alla mia tazzina e ti osservo in silenzio. Non c’è modo di spiegare quanto sia strano per me vederti qui, nella cucina fatiscente che restaurerò nei miei fine settimana liberi prima del diploma, e di che effetto mi faccia sapere che sei stata una folle per tutto questo tempo. In fondo, però, non l’ho sempre saputo?
Tergiverso un pochino, ti guardo e distolgo gli occhi dalla tua figura cercando le parole per dirti a quali conclusioni sono arrivata per aiutarti davvero. Se tanto mi dà tanto, tu hai aiutato me ed ora è tempo che ricambi il favore.
«Avevo ragione allora, è tutta una questione di testa e cuore.» mormoro, prima di sorseggiare il mio tè «Se sono le emozioni a vincolare la tua magia adesso, devi per forza sfogare quello che hai chiuso in un cassettino qui dentro.» picchietto con dolcezza l’indice sulla tempia e non smetto di guardarti. Sai che cosa voglio dire.
Devi dirmi che cosa è successo, Nieve. Devi raccontarmi di lei - Astaroth e anche Grimilde - se vogliamo superare questa cosa. Non voglio dirti io che cosa devi fare, so che lo sai e so anche quanto sia maledettamente difficile.
«Puoi provarci con le buone…» e ti immagino pensare a tua madre scagliando incantesimi rabbiosi a casaccio «...oppure posso aiutarti a mettere ordine. A modo mio.»
Ti sto offrendo la sua arma e so che questo ti fa paura più di una sentenza di morte: spero la vedrai più come una lama infuocata che cauterizza una ferita e non come metallo che fende e dilania la carne.
«Devi decidere tu.»

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view post Posted on 14/4/2024, 16:14
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No, Thal. Questo non posso farlo. Non posso concedertelo.
La vedi nella reazione del mio corpo, la risposta alla tua proposta. Mi irrigidisco e premo con più forza i polpastrelli contro la porcellana il cui tè ho appena sorseggiato. Le sopracciglia hanno trovato il modo di avvicinarsi. Le labbra sono un’unica linea che taglia il volto il orizzontale. È andato tutto così bene, finora, che rimpiango il battito di ciglia servito per cambiare atmosfera. I germogli apparsi nel terreno prima arido della nostra amicizia tentennano. Io torno diroccata come la casa in cui ci troviamo.
«No. Quello no.»
Pronuncio la negazione due volte, con forza, gli occhi chiarissimi fissi nei tuoi. Non ti odio, non rimpiango nulla di ciò che ho detto, non scappo via. Resto piantata nella piccola porzione del tuo regno. Non riesco a fingere, però, che tutto vada bene; che le tue parole non abbiano sfiorato il bordo arrossato delle mie ferite infette; che tanto non sia bastato a farmi trasalire. Tu lo sai. So che lo sai. E il problema è che lo so anche io: che non c’è altro modo per aiutarti… ad aiutarmi.
Una parte di me prova ancora rancore nei tuoi confronti. Ripesca dal baule dei ricordi il nostro incontro nell’ufficio dei Caposcuola e rivive l’indifferenza che ho scorto sul tuo viso nell’apprendere di Roth. Mi sarei aspettata che corressi ad abbracciarmi, sì. Avrei voluto che capissi; che trovassi il senso della mia scelta di lasciarti nel bianco sbiadito dell’iride, nel tremore delle ciglia. Ho sperato che fosse l’affetto per me a guidarti, non la gelosia. Sono troppo immatura per scusarti — ho solo diciotto anni, in fondo —, ma non lo sono al punto da impedirci di andare avanti. Roth è uno scoglio contro il quale ci infrangeremo ancora, e ancora, e ancora. Sei disposta, tuttavia, ad accettare che il mio amore per lei travalica l’impossibile in un modo che non saprò mai spiegare? Saprai scenderci a patti per il bene che mi vuoi?
«Ha manipolato la mia mente» esordisco, un tremore sottile nella voce. È l’ira a guidarla, il desiderio spasmodico di vendicare il torto subìto. «Mi ha detto di Roth molto tempo prima che lo… scoprissi sul serio. So che non ha senso detta così, ma è complicato.» Devo spiegarti qualcosa che non ho mai detto a voce a nessuno prima di adesso. Prima di te. «A quanto pare ho reagito male. Molto male — non ti sorprende, vero? — e ha deciso di mettere le mani nella mia testa. Aveva già preparato tutto prima di incontrarmi, prima di dirmelo. Aveva dietro la Pozione Dimenticante e me l’ha data.»
È stato Julian a raccontarmelo. Un modo grossolano per rimediare alla sua complicità nel misfatto. Dev’essere stato l’odore insopportabile della coscienza sporca a muovere la piuma tra le sue mani e ad affidare la lettera a una civetta. Non ho perdonato nemmeno lui. Avrebbe dovuto fermarla. Avrebbe dovuto impedire che mi facesse del male.
«Ha continuato a farlo per un po’. Ero stanca, avevo emicranie continue, mi sentivo confusa. Mi dava da bere un “tonico”, così lo chiamava, per aiutarmi a stare meglio. Era Pozione Dimenticante, ovviamente.» Sposto l’attenzione sulla superficie del tè. Le increspature che osservo sono causa mia. La magia inizia a disperdersi, libera dal mio controllo. «Ha mentito finché non ha più potuto. Il giorno del mio diciassettesimo compleanno, ero andata a Londra per comprare qualcosa. Me lo ero inventata per avere il permesso di allontanarmi da scuola e festeggiare con i nonni, con…» Serro le labbra. «È arrivato dal nulla un tizio del Ministero — Aurelius, penso, una costante della mia vita quando si tratta di gestire Villa dei Gigli; un alleato prezioso — e mi ha detto che Roth mi aveva lasciato in eredità la sua villa prima di...»
La rompo, la tazza, e me ne accorgo solo quando il tè mi scotta la pelle e un taglio netto si apre sul palmo della mano. Non m’importa. Non emetto fiato. Mi limito a raggiungere il lavello, a depositarvi tutti i cocci che ho raccolto e a lasciar scorrere l’acqua fredda sulla ferita. Noti la familiarità con cui mi muovo nella tua cucina? E io, io lo faccio?
«Pe-per lo shock o quello che è, mentre ero nella villa, ho ricordato. Ho visto la prima volta che me l’ha detto, la mia reazione, il modo in cui mi ha ficcato in bocca a forza la pozione. E ho capito. Ho messo insieme i pezzi. Quel cazzo di ricostituente era un fottuto veleno che mi scombinava la testa.»
Il ringhio che mi esce di bocca accompagna il pugno che assesto contro le mattonelle della cucina. Ne segue un altro e un altro ancora, finché il dolore fisico attutisce solo in parte il tramestio spinoso che graffia le pareti del mio petto.
«Vaffanculo» impreco senza rendermene conto. «Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo.»
I vetri delle finestre tremano, risuonando in coro con la mia ira, con il mio dolore, con la delusione e il vuoto che ho provato — che provo ancora. La mia madre biologica avrebbe fatto lo stesso o mi avrebbe salvata col suo amore? Non credo. Non mi ha mai voluta.


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