L'incidente del Canale di Suez, Privata.

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view post Posted on 26/2/2024, 14:30
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Triste, come chi ha perso il nome delle cose.

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CodiceIl governatorato di Ismalia mi fa completamente cagare. L’egitto – capitale minuscola per mancanza di rispetto – mi fa cagare. Letteralmente e metaforicamente. Ho paura che se bevo dell’acqua da una delle fontanelle sparse qua e là, mi cucco una di quelle dissenterie che me la ricordo da qui fino al giorno in cui vado a riposare all’ombra dei cipressi. Ma non ci berrei comunque; mi è capitato di vedere qualcuno lavarsi i piedi, in una di quelle fontanelle, lasciando una pennellata di polvere scrosciare via, come un secondo strato di cute spellata a forza dagli spazi tra le sue dita.
Odio quel posto piú di tanti altri, in quella nazione fuori dalla Grazia di Dio. Ne ho tante di ragioni per farlo e la prima che mi viene in mente è che non è nient’altro che un immondezzaio – urbano, sociale – con i baffi finti e unticci, con il cappello a cilindro logoro e bucato. Ismalia è conosciuta come la Città dei Fiori e quando te ne parlano sembra una cartolina. Un turista come un altro si aspetta di vedere un’oasi verde che si dispiega come un miraggio in mezzo al deserto. Pace, prosperità. Un luogo incantato che attinge dalle acque vitali del Canale che ho preso di mira. L’arteria di una nazione che si nutre del flusso incessante di navi e merci, della storia e della cultura che l’hanno attraversata.
Le strade principali sono un’accozzaglia ben incastrata di dettagli architettonici colonialisti e moderni. C’è il tocco degli Antichi Egizi, quelli che avevano insegnato agli alieni a costruire le piramidi, e dei conquistarori Ottomani, dei costruttori Francesi e dei visionari egiziani – i disgraziati che ancora tirano a campare, ci tengo a precisare, giusto perché non vengano confusi con quelli fighi che si studiano tra i banchi di scuola.
Sono quasi le 17:30 e il cielo si è tinto di una sfumatura rosa che pare un quadretto. Colpetti leggeri di acquerello che incorniciano i giardini ed i parchetti, dove le famigliole allegre ed i turisti cercano ora refrigerio. Intanto fa un caldo disgustoso e io me ne sto qua a sudare l’anima fuori dal corpo. Respiro il profumo di tè alla menta e di caffé, ed il vociare allegro che vibra nell’aria mi fa quasi pensare che sono in un posto sano di capoccia.
Poi mi infilo in un vicolo, quello in cui ho dato appuntamento ad Horus, cala il sipario e il pagliaccio si strucca.
Qui l’atmosfera si fa piú cruda e finalmente mi dico che hanno smesso di prendermi per il culo. Me lo dico quando la puzza dell’olio fritto mi investe e mi si appiccica ai vestiti, penetra i pori. Me lo ripeto quando il mio sguardo si lancia all’inseguimento forsennato delle crepe sull’asfalto, che finiscono per aggrapparsi alle pareti delle case e degli esercizi commerciali.
Muovo qualche passo e mi rendo conto di quanto siano trascurate le viuzze secondarie. Mi accorgo della sporcizia, dei sacchi di rifiuti accatastati come monumenti alla negligenza. Calpesto vetri di bottiglie rotte e sputo per terra anche io, perché penso che, tanto, peggio di così non può andare.
L’egitto mi fa cagare. Ismalia mi fa cagare.
Mi fanno ridere i disegni che imbruttiscono le superfici verticali, le mura di mattoni dai colori caldi. Nell’Islam la calligrafia è una grande cosa, perché ritrarre volti umani è peccato, o comunque è una pratica che non viene vista di buon occhio; con questa nozione in testa uno si aspetta che i graffitari abbiano un tratto degno dei piú grandi artisti. E invece, guarda un po’, anche i loro tag mi fanno pietà. Non ci capisco un cazzo e penso che tanto valeva farci direttamente i geroglifici.
Ci sono dei marmocchi che giocano con un pallone da quattro spicci. Uno tira una granata e segna, facendo incazzare il portiere di turno. Poi la palla mi passa a fianco e finisce sui vetri infranti, bucandosi. Il moccioso mi guarda con la morte in viso, come se gliel’avessi sgonfiata io. Io ricambio con una faccia di cazzo che sembra suggerirgli di andare a fare i goleador nei parchetti, senza avere tante pretese. Lui mi guarda e io lo guardo. A volte non servono le parole per capirsi e io ringrazio di non aver sentito qualcuno parlare arabo, mentre raccatta gli amichetti e sfreccia via.
Ora sono solo, aspetto Horus, quello terreno. Non mi dispiacerebbe incontrare la divinità e lasciargli una recensione a mo’ di tripadvisor, ma poi mi ritrovo a riflettere. In aereo mi sono guardato l’ultima puntata di Percy Jackson, la serie Disney, e temo che la bidimensionalità sia contagiosa. Penso a Poseidone e sputo di nuovo per terra. Lo farei anche pensando a Zeus, ma non lo faccio perché rispetto troppo l’attore – pace all’anima –, immaginandomi che sia colpa degli sceneggiatori e non sua. In John Wick non se l’era cavata male.
Guardo l’orologio, mi guardo intorno. Non vedo ancora nessuno. Ma il posto è giusto e anche l’ora e gridando a pieni polmoni, mi metto ad elencare il Pantheon locale, per richiamarlo, sperando ovunque sia mi possa sentire.
Prima Horus. Poi Ra. Poi Sekhmet. Manca solo Allah e nemmeno tiro fuori i quattro bifolchi che c’erano in Moon Knight, perché già sono saturo.
L’egitto mi fa cagare. Ismalia mi fa cagare. Ho sete e non vedo l’ora di mandare di nuovo in crisi l’economia di quella latrina a cielo aperto.

 
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