The truth of a story lies in the details.

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view post Posted on 15/10/2018, 22:21
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You can take the darkness out of the man, but you can't force him to step into the light.

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Breaking rules leads you to unexplored paths, but it’s still a bad thing to do, you know?


Cork, Irlanda
27 Settembre xxxx
Undici anni prima


«Sei in punizione, Thalia Jane Moran. Tuo nonno sarà ben lieto di farti da balia.»

Aveva pianto a dirotto, proprio sulle pagine del manoscritto dietro al quale si era nascosta per tutto il tempo. Erano da poco passate le tre e la biblioteca del maniero era immersa in un silenzio tombale - fatta eccezione per i suoi singhiozzi ed i sospiri; piccole macchie inumidivano il foglio, lasciando intravedere l’inchiostro e le parole della pagina successiva. Il fuoco crepitava allegramente nell’alveo del caminetto e le lingue amaranto lambivano le pareti annerite di pietra. Piccole scintille si levavano ogni volta che il fuoco rubava ossigeno dalle cavità del legno bruciato, lasciando cadere tizzoni ardenti sul fondo del braciere.
*La odio* pensò con rabbia, lo sguardo fisso sulle fiamme *Non è giusto.* e una nuova fiammata, più alta delle precedenti, lasciava il proprio marchio sulle maioliche dipinte a mano, saettando verso il soffitto.
«Signorina, quelle maioliche sono costate una fortuna.» bofonchiò suo nonno, seduto sulla poltrona accanto alla sua. Quasi aveva dimenticato che lui si trovasse lì e lo spavento nell’udire tanto chiaramente la sua voce simile ad una cantilena la deconcentrò e le fiamme tornarono ad un’altezza accettabile, affinché l’antica costruzione non andasse completamente a fuoco.
Fu in quel momento che Shyneid fece la propria comparsa, recando un foglietto tra le mani, insieme ad un borsellino di cuoio verde smeraldo. Quando si fermò, il tintinnio dei Galeoni al suo interno precedettero il motivo della sua comparsa. «Ho trovato questo sul muretto del giardino.» spiegò, consegnando al marito il messaggio con l’aria di chi sa di non doversi impicciare troppo. «Io sarò a Dublino per l’intero pomeriggio, ma la cena sarà comunque servita alle sei e trenta. Come al solito.» così dicendo, baciò il marito sulla tempia e si avviò, lasciando che egli valutasse quella strana comunicazione senza proferire parola alcuna.
Si limitò a spiarlo con finta noncuranza, come se ogni movimento delle folte sopracciglia grigie non fosse per lei motivo di curiosità. Connor sapeva essere criptico ed era esattamente questo a farla impazzire.
Le sarebbe piaciuto sapere tutto e subito.
«Tra poco sarà qui una persona, Thalia.» esordì alla fine, certo che lei lo stesse ascoltando «E voglio che tu vada al piano di sopra, in camera tua.»
A nulla sarebbe valsa la tattica dei capricci, a niente sarebbe servito puntare i piedi e ricominciare a piangere: seppur pronunciato con calma e gentilezza, quello era pur sempre un ordine. E la parola di Connor era legge.

⊿⊿⊿

Il temporale infuriava, scuotendo le chiome degli olmi e delle querce in lontananza. La fronte premuta sul vetro freddo aveva trovato finalmente sollievo: tutto quel piangere e disperarsi l’aveva resa vittima del peggior mal di testa della storia!
Il suo respiro caldo appannava una piccola porzione trasparente e le manine fredde iniziavano ad inumidirsi a causa della condensa. Percepiva il fastidio di quel contatto, ma il benessere derivato da quella frescura era così tanto che avrebbe cercato di resistere ancora un po’. Chiusa nella sua Torretta, quella orientata ad ovest, poteva scorgere a malapena il querceto sferzato dai venti, turbato dalla pioggia di fine settembre; i tuoni squarciavano il silenzio ed il cielo livido si illuminava a giorno ad ogni folgore.
L’ospite inatteso si era fatto attendere ed era quasi un’ora, ormai, che Connor passeggiava nel corridoio al pianterreno, con le braccia conserte dietro la schiena e lo sguardo assorto in pensieri impenetrabili. Lo faceva sempre quando qualcosa lo turbava ed in soli due anni di convivenza persino lei aveva capito che l’anziano non volesse essere interrotto.
Riaprì gli occhi dopo l’ennesimo lampo di luce chiara ed abbagliante e le parve di scorgere una figura ferma dinanzi alla porta d’ingresso, pochi metri sotto di lei. Un secondo lampo le permise di notarne la figura per intero, compreso il misterioso cappuccio nero calato sul capo.
Alla sua vista sobbalzò, allontanandosi dal vetro in un attimo e tornando sui propri passi soltanto quando la terza folgore si abbatté con violenza oltre la collina. L’uomo era sparito e una voce sconosciuta e cavernosa si era aggiunta a quella del vecchio, ad un giro di scale dalla sua postazione.
Scese velocemente dalla cassapanca ricoperta di cuscini e corse al corrimano delle scale in legno. Mettere un piede su uno di quei diciotto gradini l’avrebbe fatta scoprire immediatamente e lei voleva soltanto ascoltare quella strana conversazione. Così, col viso premuto tra i pali di legno tornito del parapetto, fu in grado di scorgere la figura - ora di spalle - che conversava con Connor, proprio davanti ai suoi occhi.
L’uomo, dalle spalle larghe e la schiena un po’ curva, eguagliava suo nonno nell’altezza, ma a differenza di quest’ultimo, sembrava camminare faticosamente. Connor tacque e, nell’offrirgli un sostegno fino alle poltrone della Biblioteca, scoccò uno sguardo alle scale immerse nell’oscurità.
L’ospite non aveva pronunciato nessuna parola - se non un ringraziamento striminzito per quell’udienza inattesa e necessaria -, ma il suo respiro affannoso l’accompagnò fino a che non fu costretta a scendere al pianterreno.

L’intera situazione l’aveva lasciata senza fiato, emozionata per quel piacevole imprevisto in una giornata tanto cupa. La sensazione di essere diventata parte del mistero entro le mura domestiche le fece riconsiderare l’idea di odiare la madre. In fondo, se non fosse stata punita, lei non si sarebbe nemmeno trovata lì.
«Non puoi continuare a visitare questa casa.» stava dicendo Connor «Non voglio che nessuno ti veda. E’ meglio così.»
Seduta sull’ultimo gradino a ridosso del muro, udì il nonno stappare la bottiglia di Scotch ed immaginò che l’uomo misterioso si sarebbe trattenuto con loro per un po’. Connor osservava rigidamente i dettami dell’accoglienza, un misto tra la tradizione irlandese e quella scozzese. Nelle sue vene, infatti, scorreva il sangue di Erin MacDonald - scozzese fino al midollo.
«Mia nipote è al piano di sopra, quindi facciamo in fretta. Perché sei qui?»
«--è qui.» biascicò quello in risposta, il tono roco della voce inframezzato da un rantolo tutt’altro che rassicurante «--non… non mi credi. Lo percepisco. Ma è così.»
Suo nonno sospirò e per qualche istante nessuno dei due proferì parola. La tensione crescente per quel silenzio le faceva desiderare di essere un piccolo insetto, capace di volare e posarsi con noncuranza su uno dei mobili, per poter vedere ed ascoltare senza timore. Era sicura che Connor stesse pensando a quale risposta fosse più saggio fornire e, alla fine, optò per un semplice «Perché sei qui? Rispondi.»
«--non è come pensi. E’ rimasta lontana a lungo, ma adesso è tornata.»
«Che prove hai?»
Silenzio. *Lei chi? Dove?*
Non poteva fare a meno di porsi delle domande, iniziando ad immaginare chi potesse essere la donna misteriosa di quel dialogo altrettanto segreto. E quell’uomo? Chi era?
«L’ho vista, Connor. E’ lei.»
«Primrose la bandì da questa casa.» rispose in fretta «Non può essere come dici-»
L’ombra di Connor a quel punto fu proiettata sul pavimento dalla luce del caminetto e, appiattita contro il muro - imprigionata dal terrore di essere scoperta -, udì le porte scorrere sui binari e chiudersi in un tonfo secco. Le sembrò che il silenzio avesse ripreso possesso del maniero e l’orologio a pendolo segnò le cinque con i rintocchi sordi che la facevano sempre sobbalzare. Quel pomeriggio, però, era troppo assorta nei propri pensieri per potersi preoccupare di qualche sciocco rintocco.

Abbandonò la propria postazione e cominciò a camminare avanti e indietro davanti alle doppie porte, nella speranza di poter udire la conversazione tra quell’uomo e suo nonno.
Non servivano abilità straordinarie per comprendere che ciò che stava accadendo sarebbe rimasto per sempre un segreto custodito all’interno della biblioteca. Cercò in ogni modo di origliare quella conversazione: appoggiò l’orecchio sulla porta, ma il legno spesso e una specie di ronzio le impedirono di ascoltare alcunché; entrò persino nella Sala da Tè - una specie di piccola serra confinante con la sala da lettura - e provò a spostare il pannello che Desmond aveva smontato più e più volte, scoprendo con disappunto che un Incantesimo di Adesione Permanente doveva essere stato eseguito come unico metodo di riparazione possibile.
Tornando sui propri passi, passando per una piccola anticamera, fu colta alla sprovvista dalla prima figura in uscita dalla Biblioteca. Lo sconosciuto era solo nel corridoio ed il suo sguardo spaziava alla ricerca di qualcosa… o qualcuno. Sembrava che fosse stato già lì almeno una volta ed il ricordo delle parole di suo nonno confermò quella scarna tesi.
Si fermò, premendo il proprio corpicino sullo stipite della porta e provando a celarsi alla vista del vecchio e del suo ospite. Iniziava ad odiare quella casa: non c’erano abbastanza nascondigli per una ribelle come lei alla ricerca di un riparo.
«Shyneid dovrebbe averne preparata una fiala. Aspetta--» stava dicendo Connor e, seguendo lo sguardo dell’uomo - ora il cappuccio era calato sulle spalle -, individuò la nipote, annichilita di fronte all’espressione penetrante dell’ospite.
Se il suo aspetto poteva farlo sembrare un uomo sulla quarantina, con i folti capelli scuri appena brizzolati, il suo viso ed i suoi occhi emanavano un’aura terrificante. Viso e mani, le uniche parti scoperte in quel gelido autunno, erano percorse da cicatrici e solchi malamente rimarginati. Il suo sguardo, a tratti ferino, l’aveva individuata subito ed il respiro si era fatto più veloce, meno rilassato, come una bestia colta di sorpresa ed indecisa sul da farsi. Aveva la sensazione di aver trasgredito ancora le regole della casa, ma stavolta aveva l’impressione di essere giunta al punto di non ritorno.
«Te la spedirò, d’accordo?» aggiunse Connor frettolosamente ed il suo tono non ammise repliche.
Quando la pesante porta di quercia si chiuse ed ebbe mosso i primi incerti passi nella sua direzione, Thalia seppe con assoluta certezza di aver oltrepassato nuovamente la linea tracciata dagli adulti. Era più forte di lei, non riusciva a smettere di comportarsi in quel modo, ma al momento il terrore per ciò che aveva visto - o credeva di aver visto - era più forte di qualsiasi pentimento.

«Tua madre non sarà contenta.» mormorò in un sospiro, superandola «Ma visto che sei qui ti metterò al corrente del necessario, in modo che quando l’occasione si ripresenterà saprai esattamente dove andare e cosa non fare.»
La guidò nella Biblioteca e la fece sedere sul divano in pelle bianca; versò una dose generosa di scotch nel proprio bicchiere di cristallo e ne assaggiò un sorso prima di proseguire.
«Chi è?» dopo qualche incertezza aveva trovato il coraggio di fare la domanda per cui aveva tremato sino a quel momento. Connor agitò il liquido ambrato nel bicchiere con movimenti circolari del polso, lenti ma decisi, e bevve una lunga sorsata prima di replicare che non le avrebbe rivelato la sua identità.
Il suo tono pacato ed il respiro calmo l’aiutarono a scacciare la paura, ma il suo sesto senso le suggeriva che, dopotutto, quel timore e la sensazione di avere il cuore in gola non le sarebbero mai passati davvero.
«E’ un Licantropo.» spiegò «Sai che cos’è un licantropo, Thalia?»
«Ovvio. Me lo ha spiegato papà.» borbottò decisa in risposta, non appena riuscì a ritrovare la propria voce «Non sembrava un lupo mannaro... ma non sembrava neanche una persona normale, però... Dovrebbe essere tutte e due.»
«Non dire così. La sua è una vita solitaria. Anche se non l’ha scelta...» le fece eco, dopo aver bevuto un altro sorso «...E’ un uomo coraggioso e buono. Ti basti sapere questo.»
Tacque e in quel disarmante silenzio la sua mente iniziò a vagare nell’ombra dei propri pensieri più cupi: una notte senza stelle, ma illuminata dai raggi argentei della Luna; un ululato squarciava il silenzio e minacciosi occhi gialli spuntavano tra le foglie di ginepro.
Lo sguardo si perse nelle lingue di fuoco, mentre la fiamma viva lambiva le pareti di arenaria, annerendole; le fissò con intensità, sperando di poter allontanare da sé una paura del buio mai davvero sperimentata, finché gli occhi grigi - spalancati ed immobili - non iniziarono a dolerle. Sbatté le palpebre più volte e capì con un istante di ritardo che a richiamarla alla realtà fosse stata la mano di Connor, gentile e delicata, sui suoi capelli.
«Hai paura?»
«--un po’.»
Ammetterlo le era costata fatica e sofferenza per quell’amor proprio tanto vivo quanto un essere a sé stante. Lo stesso orgoglio che le aveva impedito di ammettere i propri sbagli, quel mattino, ora le era valso una pena più grande: la consapevolezza, seppur minima, di essere così piccola e sciocca da non sapere niente, anche quando credeva di sapere tutto.
«E’ un bene, Thalia. Solo gli stupidi non hanno paura.» rispose allora, sorridendo amaramente «Lui… non ti farà del male se è questo che credi.»
«Ce ne sono tanti?» chiese in un lamento «Quanti Lupi Mannari ci sono?» «Non lo so.» aveva quasi sorriso divertito a quella domanda, ma ebbe la decenza di mutare l’espressione ironica in una più seria e meno canzonatoria «In ogni caso, tuo padre e tua madre ti proteggeranno. Anzi… Ci proteggiamo a vicenda, Thalia. E’ questo che fa una famiglia.»
Annuì, sebbene fosse poco convinta, e si lasciò andare alla morbidezza dei cuscini e al caldo abbraccio di Connor, finché il silenzio ed il tepore della stanza non l’indussero a sospirare profondamente e a scivolare in un sonno leggero.

◺◺◺

Dormitorio Tassorosso
Poco più di un anno fa


Riaprì le palpebre lentamente, scoprendosi come l’unica anima del dormitorio ancora sveglia. Espirò e si stropicciò gli occhi a lungo, cercando di ridestarsi completamente. Aveva sognato, di nuovo, ma questa volta era stato diverso. Nessun bosco. Nessun sentiero. Era soltanto casa sua.
Connor e la sua voce rassicurante: erano trascorsi undici anni da quel pomeriggio e non aveva mai osato dubitare delle sue parole.
Infrangere le regole l'aveva portata a scoprire il suo peggior timore e, allo stesso tempo, aveva aperto - senza saperlo - il Vaso di Pandora delle sue sfortune. Avrebbe infranto le regole di nuovo, avrebbe agito secondo la propria coscienza e l'avrebbe fatto secondo le proprie modalità; non rispettare le richieste di sua madre non sarebbe stato semplice o scontato, ma l'aveva promesso a se stessa e l'aveva promesso a Grania.
Strinse i pugni, nervosa come un animale in gabbia alla ricerca di una libertà che non avrebbe trovato nel silenzio del proprio dormitorio. Percepì qualcosa di liscio nel palmo sinistro ed abbassando lo sguardo scorse una piuma nera, una piuma di corvo. Le barbe scure e lucide le solleticavano la pelle ed il calamo aveva marchiato l’incarnato morbido con la pressione che lei stessa aveva operato su di esso.
Il Licantropo non aveva pronunciato il suo nome, né l'aveva descritta, ma sapeva che quelle piume e le penne dell'Aula Abbandonata non erano state lasciate lì per caso. Non sapeva come e non sapeva quando, ma di una cosa era certa: lei era stata lì e si era assicurata di lasciare una traccia del proprio passaggio, affinché lei sapesse quanto fosse reale.
Questa volta, però, sapeva esattamente chi fosse e quale fosse il suo nome.


 
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view post Posted on 27/10/2018, 15:19
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Note: l'evento si svolge nel cottage di Martha Lynch, nella Contea di Cork, ad un paio di settimane dagli eventi descritti in un'altra OS (click). La lettura di quest'ultima è irrilevante ai fini del tema di questo mese, ma riesce a fornire una collocazione spaziale più precisa e rende più chiaro lo stato d'animo di Thalia. Cronologicamente, ci troviamo nell'estate precedente all'inizio del quarto anno (manca soltanto una settimana al ritorno ad Hogwarts), prima che Thalia diventi Legilimens.


Concorso a Tema - Ottobre 2018


▿Morte▿

il profumo di inchiostro le aveva invaso le narici non appena il libro, che aveva trovato in un vecchio baule di sua madre, si aprì al tocco leggero, ma sicuro delle sue dita.
Era un vecchio testo scolastico, un libro di astronomia. Tra le pagine, ingiallite sui bordi irregolari di pergamena e costellate di mappe piuttosto rudimentali della volta celeste, poteva notare le annotazioni nella grafia ordinata di Leanne. Sorrise, notando come la chiusura delle vocali somigliasse tanto alla sua, pensando che, dopotutto, ci fosse qualcosa di tangibile ad accomunare la sua esistenza a quella della donna austera che l'aveva messa al mondo diciassette anni prima. Sfogliò il manuale, immaginando una giovane Leanne Lynch alle prese con i compiti e le ronde da Prefetto, immaginando come dovesse essersi sentita il giorno prima di un esame o di un'esercitazione importante. *Di sicuro avrà studiato fino a notte fonda per superare ogni prova.*
Sì, anche quella doveva essere un'abitudine ereditata da lei.
I capitoli sulla storia dell'astronomia lasciarono presto il posto a quelli sul rapporto tra Astronomia e Divinazione, con un'ampia parentesi sui Centauri. Proprio sull'angolo della pagina settantaquattro, sua madre aveva tracciato un'ellisse perfetta intorno alla parola divinazione senza trascrivere alcun commento. *Chissà cosa ne pensava... e cosa ne pensa adesso.*
Era strano immaginare che Leanne, così disinteressata alla sua esistenza, scolastica e non, fosse stata un'adolescente proprio come lei. Non parlava mai del suo periodo da Prefetto, né si era mai lasciata sfuggire alcunché della sua vita sentimentale. Non che le interessasse particolarmente conoscere quell'aspetto, in fondo era sempre sua madre, ma si trattava di una tappa obbligata nell'adolescenza di qualunque essere umano.
Una pagina dopo l'altra, Thalia scopriva dettagli sempre meno curiosi del metodo di studio usato dalla madre: non che fosse inutile scoprire il suo modo per ricordare nomi strampalati - come la costellazione del Circinus -, ma perché in fondo era lo stesso utilizzato da lei. I margini ribollivano di annotazioni e, paragrafo dopo paragrafo, si chiedeva se Leanne avesse mai desiderato essere una studentessa meno diligente. Lei ci aveva pensato e, dopotutto, si era convinta di non poter fare a meno di essere ciò che era: sarebbe stato un duro colpo per suo padre, così fiero dei suoi risultati accademici, e uno sfregio nei confronti di Leanne, così precisa ed ambiziosa.

Stanca di tergiversare con quel libro, sospirò osservando quanti bauli e quante scatole fossero ancora accatastati ai margini della stanza, pronti per essere svuotati. Il trasloco era ben lungi dall'essere terminato e, per qualche ragione, si sentì in diritto di prendersi una pausa. Dopotutto, era l'unica ad occuparsi del riordino, visto che il resto della famiglia aveva ben pensato di lasciarla sola in un momento tanto teso.
Appoggiò il libro alla mensola della libreria che aveva di fronte e si chinò nuovamente sul baule aperto per cercare nuovi libri da sistemare. Alzandosi, urtò il libro di astronomia che cadde malamente ai suoi piedi, aprendosi a metà. *Accidenti.*
Lasciò perdere un vecchio compendio di Incantesimi all'interno del baule e s'inginocchiò per constatare i danni della sua disattenzione.
Il dorso era intatto e uno scricchiolio inquietante le suggerì che le legature dovessero aver ceduto un po' a quei movimenti affatto delicati. La pagina di sinistra, la duecentoventisei, era piegata trasversalmente ed il rischio di strapparla le aveva fatto provare il terrore tipico dei cinque secondi peggiori della sua vita. Raccogliendolo, un foglio di pergamena - più scuro e più spesso per essere una pagina del manuale - scivolò fuori, finendo a terra, sotto la libreria.
*Oggi non me ne va dritta una.* - pensò stizzita, riponendo il libro nel baule e chinandosi del tutto, lasciando che fossero le dita lunghe e affusolate a cercare il foglio perduto sotto al pesante mobile di quercia. La ricerca le fece guadagnare una scheggia all'indice e un guanto di ragnatele degno di qualsiasi racconto dell'orrore per un aracnofobico. Con un'espressione disgustata, Thalia sventolò la mano sperando di riuscire a liberarsi della tela trasparente e soltanto poi si rassegnò a strusciarla sui jeans puliti. Succhiando l'indice dolorante, si prese finalmente la briga di esaminare quella che doveva essere una lettera. Per un attimo, smise di respirare. C'era una data, un luogo e la tipica formula di una pagina di diario. Ora che la guardava meglio, i bordi irregolari sul margine sinistro le suggerivano che quella fosse stata davvero una pagina di diario.
La coscienza le imponeva di rispettare il riserbo della madre, ma la curiosità era lì, pronta a pungolarla sempre di più. Non aveva idea che Leanne avesse scritto i propri pensieri in un diario e pensare che ne avesse lasciato una pagina in un vecchio libro di scuola, le faceva più gola di qualsiasi dolce venduto a Mielandia.

7 Dicembre, 19xx

Caro diario,
sono così arrabbiata, così confusa, così... Non credo ci sia un modo per dirlo, le parole che uso così bene in ogni momento della giornata, proprio adesso che ne ho bisogno non vogliono saperne di uscire.
Ho bisogno di parlare, ma ho bisogno anche di silenzio. Anche se, a dirla tutta, il silenzio e la solitudine non mi mancano per niente. Ne ho a sufficienza per una vita intera e credo ne avrò abbastanza ben prima di averne raggiunto la metà.
La verità... è che ho bisogno di lui.

Ogni giorno passo il tempo a chiedermi come sarebbe stato se lui fosse rimasto, se ci avesse mai ripensato. E ogni volta rimango senza risposte. Anche adesso gli occhi mi si riempiono di lacrime e non riesco a scrivere. A vol-- #### ci sia una ragione per quel gesto, per quella scelta. E non capisco. Non lo capisco proprio! Che cosa poteva spingerlo ad andare via?

Mi impegno così tanto! Così tanto da addormentarmi sfinita ogni sera sul divano davanti al ritratto di quel vecchio Preside petulante e non mi accorgo della mattina che incombe finché qualche stupido bambino del primo anno non viene a scuotermi come se cercasse di rianimarmi! Li odio. Odio chiunque provi ad essere gentile con me, mostrandomi un sentimento che in realtà nessuno prova davvero, perché nessuno sa che cosa provi.
Tornerà mi dicono, ma cosa ne sanno loro?
Odio anche lui, perché ogni anno rimango da sola ad un binario ad aspettare un treno che mi porti lontano da tutto. Lontano da lei, lontano dalle fotografie che lei ha lasciato dappertutto, come se bastassero a farmi sentire meno la sua mancanza.
Lo odio, perché ogni volta il mio compleanno sembra una maledizione. Alice, poi, è odiosa! Si vanta di come suo padre le regali le cose più belle e più costose del mondo!
E a me che cosa resta? Solo qualche fotografia che non guardo più, uno stupido peluches spelacchiato e un biglietto di scuse vecchio di dieci anni.
La cosa che detesto di più è la sua faccia. Me la ricordo fin troppo bene. Gli occhi scuri come i miei, un po' a mandorla e le fossette sulle guance. Mamma non smette mai di ripetermi che le ho prese da lui! Forse dopo questo Natale imparerà a non nominarlo più!

Oggi il Professor Xxxxx ci ha spiegato che un Legilimens potrebbe riuscire a sostituire i ricordi di una persona con altri, perfino migliori! Oh, quanto vorrei trovare qualcuno disposto a farlo per me! Di certo è stata una lezione perfetta per questa giornata, anche se... anche se è colpa di Xxxxx se mi sono ricordata di lui.
No, non è vero.
Me ne ricorderei lo stesso, perché oggi... è oggi. E' un giorno speciale, ma questo lo dice lei. Per me è il giorno più brutto dell'anno.

Se ripenso a quel giorno, mi ricordo ben poco. Di lui mi restano sorrisi sbiaditi e parole buttate al vento. Mi aveva promesso che ci sarebbe stato per il mio primo giorno di scuola, che sarebbe rimasto ad aspettare con ansia il mio ritorno per le vacanze di Natale e per quelle estive. Aveva giurato che avremmo festeggiato quando sarei diventata Prefetto, perché sarebbe successo. Lo diceva sempre che ero brava abbastanza per meritarlo. Aveva promesso di aiutarmi con i G.U.F.O. e che non se ne sarebbe mai andato. E invece non c'è. Ha preferito sparire. Che cosa mi rimane di quelle promesse? Solo parole vuote. Vuote come casa nostra.

Vorrei che fosse morto, perché con lui, quel giorno, è morto il mio amore per lui. Lo odio così tanto che vorrei incontrarlo soltanto per urlarglielo in faccia.
«Ti odio papà!»
Sarebbe così liberatorio, non credi?
Credo che se ne sia andata anche una parte di me. Non sorrido praticamente mai. E. me lo ripete spesso che dovrei sorridere di più, come se lei facesse altrettanto. Lo so che è sbagliato, so che dovrei reagire. Ma oggi no, non me la sento proprio. E' il giorno del mio compleanno e qui, sul mio letto, c'è solo un biglietto di auguri di mia madre. A volte penso che non vorrei esistere, che vorrei essere lontana anni luce da qui. Però mi rendo conto che non posso e che dovrei soltanto stare zitta e smettere di scrivere.
Non posso cambiare il passato. Lui non c'è e questo non cambierà mai.
Però giuro, giuro su quello che ho di più prezioso che non lo cercherò mai. Perché ha scelto di andare via e dimenticarsi di me. Ma io no.



▵▵▵

Non si era resa conto di tremare, le labbra schiuse in un'espressione di stupore misto a dolore.
Era la prima volta in vita sua che provava un dispiacere tanto profondo e così reale per sua madre da non poter evitare di lasciare che le guance si inumidissero di lacrime.
Suo nonno l'aveva abbandonata quando Leanne aveva soltanto sei anni e quella era stata l'unica informazione che lei e le sue sorelle avevano ricevuto alla stessa età che aveva la loro madre quando, con una vecchia valigia sgangherata, Gregory Lynch aveva varcato la soglia del numero trentanove di Romilly Street senza voltarsi indietro. Era stata nonna Martha a raccontarlo loro, perché la vicinanza di Connor le aveva condotte tutte a porre la fatidica domanda su quell'uomo che, invece, non avevano mai visto.
Dal canto suo, si era immaginata nonno Greg - così come lo aveva soprannominato nella sua fantasia - come un uomo arcigno, solitario e poco avvezzo alla compagnia. D'altro canto, come poteva essere diversamente? Chi, sano di mente, avrebbe abbandonato la figlioletta e la moglie senza dare spiegazioni?
Sapere la storia da nonna Martha era una cosa, ma ora aveva conosciuto l'opinione di sua madre sull'argomento e quella scoperta le aveva straziato l'anima.
Pensò a come fosse stato per lei crescere senza un padre e fu razionalmente in grado di rendersi conto, nonostante le lacrime le offuscassero la vista, di quanto fosse fortunata, nonostante tutto. Certo, la sua famiglia stava letteralmente andando in frantumi, ma suo padre - almeno - era lì.

Fissò la pergamena per qualche minuto, ammutolita dalla rabbia che sua madre doveva aver provato a soli sedici anni e che, ancora in quei giorni, doveva provare. Non la biasimò, ma capì di non poterla comprendere fino in fondo. Era vero, una parte di Leanne era morta quando nonno Greg se n'era andato, lei lo sapeva fin troppo bene.
Ripiegò il foglio in quattro parti, così come quello era scivolato sul pavimento di assi poco prima, e lo ripose con cura alla pagina duecentoventisei.
L'unica parte sconosciuta di sua madre, quella fatta di rabbia, rimpianto e dolore, sarebbe rimasta sepolta lì, tra quelle vecchie pagine ingiallite. Dove nessuno l'avrebbe mai più trovata.


Death is not the greatest loss in life.
The greatest loss is what dies inside us while we live.


© Thalia | harrypotter.it

 
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view post Posted on 22/1/2019, 17:36
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Painful Sorrow
Concorso a Tema - Gennaio 2019

« Remorse is the poison of life. »
Charlotte Brontë


Quella era la terza volta in un mese e di tutte le situazioni possibili ed immaginabili in cui si era cacciata per colpa di Desmond, Thalia era convinta di non aver mai provato nulla di paragonabile a quel momento. Il buio, inframmezzato solamente dagli spiragli di luce delle finestrelle, si espandeva al pari di una coperta sulle lunghe assi curve del pavimento. Lo scricchiolio del legno le provocava ad ogni passo leggero un brivido che partiva dalla nuca, solleticata da alcuni capelli troppo corti per essere tenuti insieme agli altri dall’elastico, e si propagava lungo tutta la spina dorsale, sotto la maglietta leggera. Faceva caldo, era piena estate, e nel destreggiarsi tra un baule polveroso e un appendiabiti coperto di ragnatele, disteso sul pavimento, Thalia immaginava di poter uscire di lì prima che fosse troppo tardi per mangiare un gelato. Non sapeva quanto tempo fosse trascorso da quando la botola si era richiusa in uno schiocco secco e la promessa del cugino di venirla a riprendere presto si fosse persa nell’eco dei corridoi sottostanti. Voleva solo apprezzare la frescura di quel dolce premio meritato. Se si fosse concentrata un po' di più su quello - e meno sulla sensazione che qualcuno la stesse osservando -, sarebbe stata capace di percepirne il gusto dolciastro.

Il Maniero era un intrico di stanze, passaggi e scale, con quattro diverse soffitte in corrispondenza di ogni torretta. La sua unica certezza era quella di essere in una di quelle quattro costruzioni circolari, sola con i propri pensieri e qualche ragno intento ad intessere le proprie tele agli angoli spioventi del soffitto. *Sei terribile Des.* pensava camminando lentamente, cercando di capire se stesse passando nel bel mezzo di una fitta ragnatela chinandosi e spostandosi per coglierne il timido luccichio. Cianfrusaglie di ogni genere si nascondevano negli angoli bui e sperò davvero che nessuno dei suoi parenti avesse nascosto lassù un oggetto particolarmente sospetto o che tra le pieghe di vecchi abiti si celasse una creatura pericolosa. Aveva solo sette anni, eppure non aveva paura di trovarsi lì perché sola. Temeva di essere abbandonata e dimenticata. Era l’istinto di chi, tanto amato quanto lo era stata lei, percepiva per la prima volta il bisogno di essere rassicurata. E Desmond, alla soglia dei tredici anni, aveva capito di poter sfruttare quella sua debolezza per trarre per sé un divertimento oltre ogni immaginazione. Le ci era voluto un po’ per capirlo, naturalmente, ma il Grifondoro aveva elaborato quel piano perfetto nella completa consapevolezza che lei avrebbe abboccato. *Prova di coraggio. Come no.* si era detta, tornando sui propri passi e sedendo stancamente su un tappeto impolverato. Giocò con le frange grigie di polvere, accarezzando la trama ispida del disegno con l’altra mano. Il rosso e il blu - i colori principali - erano scoloriti nelle zone ove la luce del giorno aveva fatto capolino dai lucernari, lasciando striature cromatiche diverse da quelle originali. Il motivo, un arabesco intricato, attirò la sua attenzione per diversi minuti, mentre a gambe incrociate cercava di tenere conto del tempo che sembrava non trascorrere mai.
In tutti quei minuti, Thalia cominciò a riflettere su Desmond e sul perché fosse così antipatico con lei. Da quando erano tornati a Cork, sentiva di essere stata per lui come la spina nel fianco di cui il ragazzino non aveva mai davvero sentito la mancanza. Era figlio unico, non aveva mai avuto modo e tempo di relazionarsi con altri bambini e a Hogwarts era stato notato per le angherie verso i coetanei e i più giovani; non si trattava mai di cose troppo serie, naturalmente, ma zia Sheila era stata contattata spesso dal Preside o da una docente e le punizioni erano sempre state severissime. In quei momenti, Desmond recitava la parte del bambino pentito, con lo sguardo languido e le intenzioni più buone del mondo; uscito dalla propria stanza, però, la sua vittima sacrificale lo attendeva al principio delle scale tra il primo e il secondo piano. Gli era così affezionata - nonostante si ostinasse a chiamarla Jean - che non poteva sopportare l’idea di restare separata da lui per tutta la durata delle sue punizioni. Era l’unico essere umano in tutto il maniero, ad eccezione di Fiona che ancora cercava di raccapezzarsi con gli sbalzi umorali e gli sprazzi di magia innata, che potesse davvero capirla e sopportarla. Non si era mai chiesta perché, tuttavia, Desmond la usasse come un gioco. Le faceva fare cose che le avrebbero fatto guadagnare punizioni durissime, prima dal padre - sempre più morbido nelle ramanzine - e poi dalla madre, dal carattere decisamente marziale. Ogni sfida, il vero tallone d’Achille della bambina, veniva colto da Desmond come un modo per trascorrere il tempo e da lì, l’esito era sempre lo stesso: uno sgabuzzino attendeva di essere aperto per accogliere la figuretta sfinita dopo un giorno intero di peregrinazioni per tutto il maniero alla ricerca di fantomatici tesori nascosti.

Nella lunga attesa, Thalia iniziò a covare quella frustrazione che tanto spesso ormai andava a scavare piccoli solchi, via via più profondi, nel suo cuore e nel suo rapporto col cugino. Mentre gli spicchi di luce brillante si spostavano sul pavimento col passare dei minuti e delle ore - col caldo e i capelli appiccicati al retro del collo - Thalia aveva iniziato a strappare i lunghi filamenti delle frange, prima con fare annoiato e poi con rabbia sempre maggiore. Nessuno la stava cercando, ne era sicura, perché il corridoio sotto di lei taceva e non udiva la risatina sommessa di Desmond a testimoniare che, per tutto il tempo, lui fosse stato lì ad attenderla come promesso. Lui prometteva, ma non manteneva mai la parola data, come se l'onore non fosse stato che un orpello aggiuntivo alla sua figura, al pari di un ninnolo o un accessorio qualunque.
Quando le ombre della sera erano ormai giunte ad oscurare la luce del giorno, Thalia iniziò ad udire i passi pesanti di qualcuno e una porta chiusa in uno schiocco secco; era ancora seduta su quel tappeto ed aveva resistito alla tentazione di rannicchiarsi soltanto per non essere trovata in quel modo da chiunque l’avesse cercata lì. Poi, nello scorgere una sottile lama di luce sorgere dal pavimento attraverso la botola alzata e nell’udire la voce amorevole di zia Ellen, Thalia scattò in piedi come una molla. La donna la invitava a scendere, rassicurandola di come tutto fosse finalmente finito. Senza dire una parola, Thalia fece capire alla zia di non voler essere presa in braccio per lasciare quella soffitta buia. La donna non ebbe cuore di contraddirla e tacendo la guidò silenziosa lungo i gradini di pietra della scala a chiocciola. La teneva semplicemente per mano, consapevole di non poter fare altro ed aspettandosi da lei una qualunque reazione.
Stropicciandosi gli occhi stanchi e lacrimosi, si scoprì ancor più arrabbiata di prima nel vedere il cugino in piedi ad attenderla alla fine della scala con un'espressione di gaudio indescrivibile. «Sei uno stupido!» sbottò rabbiosa, separandosi dalla zia e preparandosi a spingere il cugino con tutta la forza delle piccole braccia magre «Ti diverti non è vero? Almeno io ho qualcuno che mi vuole bene! » continuò, alzando la voce «Tu invece non hai nessuno! Nessuno!» Aveva riflettuto a lungo su quello che avrebbe potuto dirgli, sul modo in cui quei pensieri carichi di veleno letale si sarebbero lasciate trasportare fino a lui; la foga non le mancava e la sua voce acuta lasciò calare il silenzio come una scure. Ellen tacque, forse per timore che un semplice sfogo potesse divenire un litigio vero e proprio; si aspettava che il nipote rispondesse a tono e già si preparava a separare i contendenti quando entrambi presero direzioni opposte senza aggiungere altro. Al Medimago non restò altro da fare che osservarli andar via, delusi ed arrabbiati, silenziosi e feriti entrambi in modo differente. Sapevano che tutto sarebbe stato diverso.

⛛ ⛛ ⛛

Col passare degli anni, Thalia aveva ripensato spesso a quel giorno e si era chiesta se Desmond l’avesse mai perdonata del tutto. Il loro rapporto era cambiato, entrambi avrebbero affidato all’altro la reciproca esistenza, e se non fosse stato per quella macchia il loro rapporto non sarebbe mai stato lo stesso. Non ci sarebbe stato neanche il Blarney, la paura e il rimorso di averla portata così lontano da casa solo per pattinare.
In quel giorno di fine dicembre, lo vide lasciare il maniero per dirigersi oltre le mura di cinta sul retro, attraversando il giardino coperto di un sottile strato di nevischio; lo osservò in silenzio, mentre lasciava il cancelletto di ferro battuto socchiuso e s’immergeva nella sacralità di un luogo dimenticato da tutti, eccetto lui. Era lì che si rifugiava fin da ragazzino ed era lì che trovava conforto nei momenti bui. Era nel cimitero di famiglia, rimasto inutilizzato da anni, che Desmond poteva parlare con i propri demoni. Erano l'ombra di un'infanzia vissuta a metà, di un percorso iniziato e mai davvero compreso. Varcata la soglia del cancello di ferro, il sorriso lasciava il suo volto e la luminosità del suo sguardo ridente abbandonava i suoi occhi per lungo tempo.
Gli lasciò il tempo di riflettere e di pensare, mentre con calma percorreva i suoi stessi passi e - giunta al cancello - rimaneva silente ad ammirarne il profilo. Desmond non aveva mai pianto, né aveva mai espresso a parole quel senso di abbandono che la perdita del padre gli aveva provocato. Era così piccolo che la memoria non gli aveva permesso di ricordare i tratti del volto paterno, così simile al suo, e osservava quella lapide chiara - senza nome né data - posata tra le altre, ingrigite dal tempo e coperte di muschio morbido. Se solo avesse avuto la minima idea di ciò che sapeva lei, forse sarebbe riuscito a superare quel dolore; ciò che Thalia sapeva e non poteva dire era marchiato a fuoco nell'espressione sul suo volto infreddolito. Mosse qualche passo avanti e finalmente lui la scorse, ma non disse nulla finché non gli fu accanto. «Mamma non ha mai voluto far incidere il suo nome.» sospirò, il tono di voce limpido e sereno. «Ha sempre sperato che fosse ancora… che non ce ne fosse bisogno.» concluse, col tono amaro e arrochito di chi avrebbe preferito continuare a tacere. Dal canto suo, Thalia non poté far altro che rimanere in silenzio, osservando le linee morbide di quella lapide semplice, senza nome e senza età. Aveva visto George Turner in un ricordo così nitido da sembrare reale: era giovane, bello e talentuoso. Poteva sembrare surreale, ma era così vero che le sembrava ancora di sentire la sua voce in quel corridoio. E Desmond, invece, non ne aveva idea. In quel momento il peso di quel segreto la oppresse al punto da non potersi trattenere, ma il buon senso la richiamò all'ordine e ciò che era sembrato un mugugno senza senso riacquistò subito valore. «Sono stata cattiva con te, lo sai?» disse allora, avvinghiando il braccio attorno a quello del cugino.
I morbidi capelli rossi si adagiarono con delicatezza sulla spalla del ragazzo e non ebbe il coraggio di sollevare lo sguardo su di lui finché non fosse stato in grado di ribattere a quella semplice constatazione. «Io lo sono stato più di te, lo sappiamo entrambi.» mormorò, scompigliandosi i capelli con la mano libera «E avevi ragione ad essere cattiva, Jean. Me lo meritavo.» Non serviva essere una Legilimens alle prime armi per sapere a quale episodio si riferissero: quella soffitta era rimasta chiusa da allora e nessuno dei due aveva osato riesumarne il ricordo fino a quel momento.
«Io non credo. Penso che avrei potuto dirti tante cose, tutte tranne quella.»
Non ebbe bisogno di scendere in dettagli, poiché sapeva che Desmond avrebbe capito ogni cosa. Col trascorrere del tempo, aveva compreso di aver esagerato, di non aver potuto fare a meno di usare l’unica arma a propria disposizione contro le sue angherie. E se da un lato aveva ottenuto di non venir più rinchiusa in piccoli sgabuzzini bui, dall’altro aveva perso la serenità del proprio animo. Il senso di colpa per quelle parole l’aveva perseguitata per settimane, anche dopo che sua madre le aveva impartito la più severa delle punizioni e, soprattutto, l’aveva redarguita sul potere delle parole.
«Sono stata cattiva con te. Non ho smesso un solo giorno di pensarci, Des.» ripeté sospirando e così la mente corse a ciò che, invece, non era ancora stato detto e forse non lo sarebbe mai stato. Gli occhi chiari del ragazzo la scrutarono per un attimo, prima di adombrarsi nuovamente. «Che importa? Era la verità. Sono solo e non avevo modo migliore per sentirmi bene se non prendermela con te.» fece una pausa e si separò da lei, passando entrambe le mani sul volto stanco. La sua voce ovattata la raggiunse come una stilettata in pieno petto e quando riemerse dal proprio oblio, Desmond sorrise amaramente scrutando il cielo nuvoloso. «Tu eri l’unica… sei l’unica a non avermi mai compatito. Forse ti odiavo per questo, Jean. Tu mi vedi per quello che sono.»
Rise senza allegria, immaginando di rivedersi in quel corridoio in compagnia della bambina che Thalia era stata «Sembrava volessi incenerirmi. Lo ricordo così bene. E tutta la colpa era mia, non era tua.»
proseguì «Sono io ad essere stato mangiato vivo dai sensi di colpa, Jean. Anche solo per aver storpiato il tuo nome. Per averti rinchiusa negli sgabuzzini, per aver cercato di farti sentire sola tanto quanto mi sentivo solo io.»
Non avrebbe saputo che cosa dire e, forse, anche se l’avesse saputo avrebbe continuato a tacere. Il rimorso di Desmond non era nulla in confronto al suo; il bambino pestifero divenuto un uomo piangeva il padre ogni inverno, nello stesso giorno in cui era scomparso nel nulla, e lei - testimone di un fatto talmente assurdo per essere raccontato - aveva il presentimento che George Turner, suo zio, fosse ancora vivo. Aveva omesso quella verità scomoda per anni, ma presto avrebbe avuto le conferme che la sua famiglia aspettava da troppo tempo. Il rimorso per quella verità taciuta, per le cose che aveva visto e sentito pochi anni prima, la divorava ogni giorno, sempre di più. E nell’accogliere Desmond tra le braccia in un gesto di affettuoso perdono, Thalia non riusciva a pensare ad altro che non fosse la propria redenzione. Si erano feriti come tutti i bambini a quell’età ed ora, da adulti, sentiva che le cose non erano cambiate. Lo strinse con forza, nascondendo il volto tra le braccia affinché lui non la vedesse, sperando che potesse davvero perdonarla per le parole pronunciate tanti anni prima, ma soprattutto per quelle che non aveva ancora osato proferire.

« You feel guilt.
You feel remorse.
And if you still have your soul,
you haven't lost your chance at redemption. »

Sylvain Reynard


Note:
A beneficio di chiunque si appresti a leggere questa One Shot, allego il link dell'episodio a cui si fa riferimento, implicitamente, nel corso dell'intera vicenda. Ciò a cui Thalia allude nella seconda parte può trovare riscontro qui (×) e qui (×).

© Thalia | harrypotter.it

 
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view post Posted on 18/4/2019, 15:24
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What is she like?
I was told—
she is a
melancholy soul.
[...]
A lonely kite
lost in flight—
someone once
had flown.

17 Marzo


Il silenzio del dormitorio, inframezzato solamente dal respiro profondo e quieto delle sue occupanti, incorniciava un raro momento di calma che difficilmente si sarebbe ripetuto durante la giornata. Era domenica ed era il giorno del suo compleanno. Schiudendo le palpebre al buio, ci mise un attimo per capire di non essere sola sul letto a baldacchino bardato coi colori di Tassorosso. Sbatté le palpebre un paio di volte per abituare la vista all’oscurità, individuando finalmente l’identità del peso sullo stomaco che, già da qualche minuto, aveva cominciato a disturbarla con piccoli passi leggeri. Un paio di occhi gialli la scrutavano da vicino, il collo teso e le orecchie a punta ben dritte; la coda frustava l’aria e una zampetta stava cominciando a muoversi verso il suo viso.
*Se mi graffi hai finito di vivere.* pensò, schermando il volto con la mano. Per tutta risposta, il micio si avvicinò prepotentemente, strusciando la testolina dal pelo morbido sul palmo caldo. «Felix, per l’amor del cielo...» sussurrò rabbiosa, respingendo il felino malamente. Quello, per tutta risposta, sedette nello spazio vuoto tra il fianco ed il braccio disteso sopra le coperte, cominciando a miagolare fastidiosamente. *Fiona, questa me la paghi.*
Non aveva bisogno di vedere il manto rossiccio striato di candido bianco per sapere che quello era il gatto della sorella Grifondoro, mandato appositamente da lei per portarle i migliori auguri di compleanno di cui fosse stata capace. Conoscendo Fiona, il biglietto attaccato al collarino del micio, si sarebbe fatto esplodere in un tripudio di coriandoli, che non solo avrebbe spaventato le altre ragazze, ma avrebbe anche insudiciato quello spazio comune praticamente immacolato. Così, calciando via le coperte, Thalia si mise seduta cominciando a sciogliere la treccia e scrutando infastidita il gatto. «Vattene, bestiaccia.» rincarò la dose, scacciandola col gomito prima che quello ricominciasse a strusciarsi su di lei per garantirsi una razione di coccole extra. A piedi nudi si avviò nella Sala Comune, silenziosa quanto il resto del Castello, seguita dal felino che trotterellava allegro accanto a lei. Sprofondando sul divano, riuscì ad impossessarsi del biglietto e soltanto dopo aver ravviato i capelli vermigli trovò il coraggio di aprirlo.

«Fiona.»
Lo sguardo della sorella si posò su di lei con l’innocenza di un bambino colto in flagrante con le mani nel vasetto di marmellata; poi, un sorriso sarcastico - troppo simile al suo - animò il visino lentigginoso della sedicenne. «Dai vuoi dirmi che non ti è piaciuto?» disse, alzandosi e provando a togliere un coriandolo verde rimasto impigliato tra i capelli del Prefetto. Scostandosi da lei prima che le sue dita potessero sfiorarla, Thalia sorrise impacciata alla tavolata di Grifondoro in ascolto. «Non potresti smetterla con quei bigliettini? Ho passato venti minuti a cercare di togliere i coriandoli dal divano.» sibilò a denti stretti e continuando a sorridere. «Se lo facessi» replicò Fiona «ne sentiresti la mancanza. Ammettilo. Iris ti ha dato il suo regalo?»
Con un cenno di dissenso, Thalia si volse alla tavolata dei Serpeverde senza tuttavia riconoscere la testolina bruna della sorella minore. «Dimmi che non l’hai contagiata con le tue manie.»
«Assolutamente no. Cioè...» ridacchiò tra sé «Ovviamente ci ho provato... ma sai com’è fatta. Ti somiglia e non vuole perdere tempo in cose divertenti.» *Naturalmente.* Le scoccò uno sguardo non abbastanza truce, che la fece ridacchiare ancora di più. «Pensi di passare alla fiera ad Hogsmeade o continuerai a studiare per i G.U.F.O.?»
«Non lo so. Se tu ci vai... io non vengo.» ribatté il Prefetto, accennando un saluto ad un paio di Tassorosso all’altro lato della Sala. «Devo finire un tema di Storia che tu stasera controllerai. Vero che lo farai?» Nel tempo che quella domanda impiegò ad essere formulata, Thalia aveva già raggiunto la porta d’ingresso della Sala Grande, salutando la sorella con cenno distratto della mano.

Il vociare confuso della fiera aveva lasciato poco spazio all’immaginazione: la festività del giorno aveva assorbito la gran parte dell’attenzione generale, eccezion fatta per quei pochi studenti a conoscenza dell’altra festa in corso. Si aggirava lontana dal centro nevralgico dell’evento, senza voler davvero intaccare il proprio umore con la confusione tipica di San Patrizio. Le bancarelle si susseguivano una dopo l’altra, un palchetto vuoto attendeva di essere utilizzato per una sorta di spettacolo la cui natura, al momento, le sfuggiva.
Non le piaceva troppo festeggiare il proprio compleanno, forse perché nel corso degli ultimi anni, aveva compreso quanto fosse stupido ed inutile celebrare il giorno della propria nascita. Aveva accolto con piacere gli auguri dei compagni, salutato con affetto il gufo - puntualissimo come sempre - di nonna Martha e aveva storto il naso alle poche righe stringate aggiunte dalla madre, perennemente in viaggio per conto del Ministero. Le sembrava fosse trascorsa un’eternità dall’ultima volta che lei e Leanne avevano avuto l’occasione di parlare civilmente, con l’affetto sotteso a quel legame speciale tra madre e figlia; eppure, nonostante soli tre mesi separassero il suo ritorno a casa per l’estate, Thalia non voleva tornare a Cork. La sensazione di indefinitezza e l’impressione di aver lasciato qualcosa a metà turbavano la sua quiete, come se in fondo al cuore la ragazza sapesse di aver nascosto agli altri e a se stessa, piccoli ma significativi pezzetti di sé e che questo, presto o tardi, le si sarebbe rivoltato contro. Sospirò, passeggiando per le viuzze periferiche del Villaggio, rapita dai suoni lontani della fiera di Hogsmeade. Il selciato compatto attutiva il rumore dei suoi passi lenti e non un filo d’aria le impediva di proseguire a testa alta quella lunga passeggiata. In rare circostanze aveva sentito l’esigenza di isolarsi dal mondo e ritrovare se stessa in una maniera più completa ed altrettanto di rado aveva sentito il bisogno di spingersi oltre i cancelli di Hogwarts per ritrovare la pace. Gettando uno sguardo alle montagne che abbracciavano la vallata in cui Hogsmeade giaceva quieta, Thalia ripensò a quanto di lei fosse legato a quel piccolo centro abitato da soli maghi: durante la pausa primaverile, da bambina, lei e Seamus erano soliti Smaterializzarsi mano nella mano e a far visita a Des; i primi scherzi organizzati in compagnia del cugino, poi, avevano tutti la firma di Zonko; e ora che si trovava lì a vagare solitaria col caos della festa alle spalle, Thalia marciava in silenzio e senza meta, col pensiero cupo dell’ultima volta in cui si era fermata davanti all’ingresso della Testa di Porco. La stessa colonna storta, l’insegna del locale non più smossa dal vento e lo stesso brivido lungo la schiena. Sembrava non essere cambiato nulla e, invece, era cambiato tutto. Improvvisamente, le parole di Weiss da Zarathustra le tornarono alla mente come se l’Auror le avesse pronunciate in quell’istante. Si riscosse rilassando le spalle tese e rintanando le mani nelle tasche del soprabito color crema. Non aveva dimenticato il loro scontro durante le feste di Natale e si era stupita persino di essersi mostrata tanto accondiscendente nei suoi confronti quando, nel negozio, gli aveva comunicato di sentirsi a disagio all’idea di mandare ancora Clio al Quartier Generale per suo conto. Il suono del campanello alla porta di ingresso di Zarathustra aveva continuato a tormentarla per il resto della giornata, come un monito perpetuo alla propria stupidità: possibile che Aiden avesse tanta presa su di lei, lei che era così razionale come Nieve aveva sempre sostenuto ed apprezzato? Come aveva potuto cedere tanto facilmente ai suoi tentativi di celarsi a lei e addirittura incoraggiarlo a sperare in un successivo incontro? Scosse il capo, proseguendo il proprio giro e superando il locale malfamato. Se Nieve avesse saputo di quell’incontro, di quel dialogo leggero e imbarazzante al tempo stesso, forse non le avrebbe più rivolto la parola. Sospirando amareggiata, si trovò a ripensare a quel giorno da Zarathustra, alla stupida trovata di Weiss di fingersi un manichino e alle successive frecciatine che - con troppa semplicità - avevano trovato posto in quella conversazione.
Non era solita concedere il perdono facilmente, né era avvezza a togliere il saluto a qualcuno senza le dovute considerazioni e ragioni; ciononostante, Aiden Weiss l’aveva spinta alla deriva col suo fare bambinesco e ingenuo e, proprio per quel suo atteggiamento anomalo, lo aveva odiato - e pensava d’esserci riuscita davvero - con tutto il cuore. Istintivamente, a riprova che quei pensieri le tormentavano mente e corpo, aveva preso a seguire le orme di quel giorno maledetto, quello che aveva cambiato ogni cosa; raccolto un ramoscello secco, cominciò a trascinarlo ad ogni passo, l’estremità inferiore a lasciare una piccolissima scia del suo passaggio sul terreno polveroso. Lo aveva quasi perdonato - stupida com’era - ed ora ripercorreva i loro passi, come se quell’esperimento potesse in qualche modo giustificare il suo comportamento. Non era certa di nulla, nemmeno di voler seguire le sue indicazioni… ora che quelle avevano fatto prepotentemente breccia nella sua memoria. *Le volpi.* pensò stizzita, schioccando la lingua sul palato in un chiaro cenno di dissenso noto a lei sola *Certo. Come no.*
Il fitto sottobosco non era meno verdeggiante di allora, così come il sentiero meno impervio; la radura, il lago e la cascata erano là da qualche parte, a diversi metri di altitudine da lei. Non ci sarebbe tornata mai più, di questo era certa, che a Weiss piacesse oppure no. *E perché mai dovrebbe saperlo?* quel pensiero l’attraversò come una saetta e si sentì rabbrividire in profondità, fino a che quella sensazione spiacevole non abbandonò il suo stomaco, stretto in una morsa per pochi secondi. Più ci pensava e più si convinceva di poter fare a meno di quell’Auror da strapazzo, che Nieve avesse ragione a redarguirla e che la diffidenza e rabbia dimostrate da Niahndra dovevano essere sufficienti a imprimere nella sua forza di volontà, praticamente inesistente, la spinta necessaria a negarsi a quel rapporto dannatamente sbagliato. Non c’erano confini, non c’erano regole. Lui pensava di aver tracciato un percorso la sera del Ballo, ma non era così; lei l’aveva capito il mattino seguente, impacchettando i suoi averi per il ritorno a Cork. Non stava bene, non stavano bene. Nulla era risolto o cambiato e il dono che lui aveva sentito di doverle fare era rimasto a Cork, in un cassetto del comodino nella sua minuscola camera da letto. Non voleva pensarci, ma lo aveva fatto di continuo, finché una conversazione con Fiona sui propositi per l’anno nuovo non aveva sancito una decisione cruciale: non riflettere più sul passato, non fantasticare sul futuro e tantomeno rivolgere attenzione a quelle poche cose che, ancora, riuscivano ad incupire il suo sguardo ridente. Usò il legnetto come una frusta su una povera felce selvatica a quel ricordo, mordendosi il labbro inferiore per la stizza. Non aveva rispettato uno solo di quei buoni propositi ed aveva finito per pensare al passato, disperarsi per il futuro e avvicinare a sé - ancor di più - le cose negative che aveva cercato di seppellire nella memoria, sperando di dimenticare.

Non ricordava, però, quanto quella salita fosse faticosa e non ci mise molto a trovarsi sommersa dalla fatica, ansimando rumorosamente. Cercò l’appoggio di un tronco d’abete, ruvido e percorso da lunghi solchi nella corteccia. Sopra la sua testa un nugolo di passerotti cinguettava allegro, spostandosi di ramo in ramo, nella penombra del pomeriggio. Una fila di formiche risaliva il tronco e goccioline rapprese di resina impedivano il loro passaggio, costringendole a virare a destra o a sinistra di quelle a seconda delle necessità. Rimase rapita nell’osservare quelle creaturine laboriose per natura, disposte a percorrere chilometri per trovare cibo da conservare nei formicai a terra. Le seguì con lo sguardo, anche quando il loro percorso le portava al versante opposto di quella pianta secolare; di lì a poco, si era detta, sarebbero spuntate di nuovo ed altre, in ogni caso, sarebbero ridiscese veloci. Fu in quel momento che la vista fu attirata da qualcosa di diverso, meno animale e decisamente più umano: un disegno stilizzato intaccava la corteccia, provocandole un fastidio alla base della nuca e che si propagò velocemente alla spina dorsale in tutta la sua interezza. Detestava quelle dimostrazioni artistiche che non facevano altro che causar dolore e danno a esseri incapaci di difendere loro stessi; per di più, il soggetto dell’opera d’arte, richiamava fastidiosamente le parole dell’Auror che cercava disperatamente di dimenticare. Una volpe, proprio come aveva detto, campeggiava a pochi centimetri dal suo naso, ora che in punta di piedi era riuscita ad avvicinarsi maggiormente. Le gote si tinsero di vivo rosso, nascondendo la spruzzata di lentiggini, e le iridi grigio-azzurre come il ghiaccio si animarono di una luce diversa da quella malinconica ed onnipresente. Fingere di stare bene non sarebbe servito a niente, poiché sapere di essere giunta lì dove lui desiderava si sarebbe dovuta trovare la faceva letteralmente imbestialire. Si pentì di non avergli usato altrettanta violenza quando avrebbe potuto, varcando la soglia della sua mente ed imponendogli - se solo ne fosse stata capace - di lasciare stare per sempre. Lasciò perdere le industriose formiche, il canto degli uccelli e il giorno morente, scegliendo di abbandonare il sentiero battuto in favore dell’ignoto del sottobosco circostante. Frustò l’aria col suo legnetto un paio di volte, cercando rabbiosamente la seconda volpe incisa: aveva parlato di “volpi”, al plurale, come se quel simbolo avesse per lui il significato di indicare la via alla sua dimora. Non trascorsero che pochi istanti prima che la seconda, la terza e anche la quarta si palessassero ai suoi occhi furenti. Accecata dal fastidio e dall’ira affatto dissimulate in mezzo al nulla più assoluto, Thalia si rese conto di essere stata ingannata e manipolata di nuovo: l’aveva indotta a cercarlo, in qualche assurdo modo, e persino le persone intorno a lei - inevitabilmente - avevano finito per spingerla in quella direzione. Era più facile pensare che, per una volta, la colpa non fosse sua e sarebbe stata anche in grado di rendersene conto se solo avesse smesso di comportarsi come un essere capriccioso e incontrollabile. Non riuscire ad accettare l’evidenza era per lei uno smacco ancor maggiore, specialmente ora che, nel mezzo del nulla - circondata da alberi altissimi e dal silenzio innaturale -, davanti a lei non esisteva niente. Aveva cercato altri indizi, affatto paga della fatica compiuta fino a quel momento, senza tuttavia trovarne nessuno; era stanca di essere così succube di Aiden Weiss e dei suoi continui raggiri, che nell’ennesimo eccesso di rabbia si trovò a scagliare il legnetto a diversi metri di distanza, facendolo mulinare in aria tra le fronde di un basso cespuglio di ginepro. Un tramestio veloce e rumoroso l’avvisò di aver turbato la quiete di una lepre, che presto vide sgambettare lontano in un fuggi fuggi di cui era colpevolmente responsabile.
«Accidenti a te.» *E a me.*
Senza indugio alcuno, si lasciò cullare dal silenzio nella speranza di ritrovare pace; poi, ravviandosi le ciocche vermiglie ed assicurandole dietro le orecchie, si voltò per andar via. Non valeva la pena di soffermarsi in quel punto. Non ancora. Non così. Nessuno avrebbe mai saputo che era stata lì e Weiss si sarebbe presto dimenticato di lei. Sì, sarebbe andata proprio così.


 
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Blueberry Cottage. Cork.
Fine estate tra il III° e il IV° anno.
Segue: Fractures


«Pensi che a me piaccia l’idea?!» Seamus batté i pugni sul tavolo, facendo tintinnare le posate sui piatti di ceramica e lasciando calare tra loro un silenzio dalla natura effimera. Leanne non era una donna facile né remissiva e, pur amando profondamente il marito, non riusciva ad accettare la sua sottomissione al volere del facoltoso suocero. Da che ne avesse memoria, Seamus aveva osato trasgredire alle regole del vecchio in due sole occasioni: la scelta della professione e il loro viaggio negli Stati Uniti dopo la nascita della loro prima figlia. Persino all’epoca, Connor aveva pensato di poter dettar legge su tutti loro e Leanne proprio non capiva perché quell’uomo si ostinasse a voler mantenere il controllo sui propri discendenti.
Forse, dopotutto, quell’incomprensione era generata da una sola grande costante della sua vita: non aveva un padre e sua madre, una donna tenace senza dubbio, era sempre stata troppo impegnata a lavorare fino a tarda notte per permettere ad entrambe di sopravvivere.
«Non ti sei opposto.» replicò lei, calma ed impassibile, le palpebre strette in un’espressione di aperta sfida «Non quanto me.» Sì, Leanne percepiva il peso della genitorialità proprio come aveva fatto Martha: non avrebbe permesso a nessuno di toccare la sua prole, di far valere regole non scritte che non fossero state prima approvate da lei. Suo marito poteva non essere d’accordo, poteva persino non avere un’idea in merito se lo desiderava per scaricarsi la coscienza, ma Leanne non si sarebbe lasciata intimidire.
Seamus serrò le labbra sottili, abbassando lo sguardo sui pugni stretti e le nocche sbiancate dalla tensione crescente. Era chiaro che avesse ragione, ma quanto gli sarebbe costato ammetterlo? Gli appariva impossibile a pensarci bene, ma Leanne e Connor non si erano mai sopportati un granché, benché tutti sostenessero il contrario. All’inizio, suo padre aveva fatto di tutto per includerla e lei, come una creatura riottosa, aveva deciso di negarsi di volta in volta, scegliendo la propria strada - per quanto tortuosa - per raggiungere ogni obiettivo. Aveva sperato, col passare dei mesi e poi degli anni, che Connor l’accogliesse con calore o - se proprio non ne fosse stato capace per il rifiuto non troppo implicito di lei - di rispettarla in quanto strega, con una posizione al Ministero, e una mente brillante quanto la sua. Per lei, invece, aveva sperato qualcosa di diverso: donarle una parte di quella famiglia che le era mancata, far sì che non si sentisse più sola. Eppure, la solitudine era un’erba cattiva difficile da estirpare. Di tanto in tanto, Seamus ne scorgeva le impudenti gemme far capolino tra loro, chiudendo Leanne in una gabbia invisibile i cui effetti guastavano ogni cosa.
«Hai le tue ragioni, Lils.» il vezzeggiativo non sortì l’effetto sperato, originando invece un’orribile ruga sulla fronte della donna, corrucciata fino allo stremo. «Ma è suo nonno. Avrà sempre qualcosa da insegnarle.» *A me ha insegnato così tanto.* «E’ mia figlia.» ribatté pronta «Decido io che cos’è meglio per lei.»
Non c’era verso che la situazione mutasse a proprio favore: quell’esclusione - l’ennesima - dal progetto familiare a cui avevano aderito il giorno del loro matrimonio andava a consolidarsi sempre di più. Era stanco, stanco di lottare per quella famiglia che tanto gli aveva dato e troppo gli stava togliendo.

Da dietro la porta della cucina, Thalia sospirò piano tappandosi le labbra con la mano, accompagnando senza saperlo il respiro esausto del padre. La fronte, appoggiata al legno liscio, si mosse lentamente da destra a sinistra col desiderio sempre maggiore di compiere un gesto diverso, uno di quelli che potesse placare la sua frustrazione. Era così stanca dei litigi, delle incomprensioni e delle parole non dette. I silenzi, quei lunghi ed interminabili agguati fatti di sguardi taglienti, la sfinivano. Non importava che fossero soli o seduti a tavola con le figlie: sua madre lo fulminava con lo sguardo e lui, rassegnato forse, volgeva il proprio altrove. Serrò il pugno fino a farsi male, stringendo le palpebre e concentrandosi solamente sui giochi di luce proiettati nell’oscurità del suo sguardo spento che quello sforzo le provocava.
All’ultima stoccata di Leanne, Seamus non aveva osato rispondere. L’aveva sentito alzarsi, facendo quanto più rumore possibile con la sedia; aveva preso i piatti e, probabilmente, li aveva fatti levitare attraverso la piccola cucina del cottage come ogni giorno.
Poi, dopo minuti che le sembrarono interminabili, suo padre parlò. «Non capisco se ti infastidisce di più che possa avere dei segreti che potresti non scoprire mai --» e qui fece una pausa, forse fermandosi dinanzi alla moglie «-- o se ti urta il fatto che non sia stata tu ad istruirla sulla faccenda.»
Era la sua ultima mossa quella: instillarle il dubbio dell’errore, far breccia in quel suo ego spropositato e che di tanto in tanto sapeva mitigare. Ne aveva abbastanza di tutto quell’Io. Dov’era finito il “Noi”? Se lo chiese, scrutando senza paura i suoi occhi marroni. *Forza, fallo.* La invitò a servirsi di quell’arma che tanto le serviva nel suo lavoro e che, ormai, aveva scoperto sfruttasse per scopi meno nobili. Quante volte si era sentito violato, durante una discussione in piena notte, soltanto perché lei poteva anche se non avrebbe dovuto?
«E’ mia figlia, Seamus. Nostra. E lui non aveva alcun diritto di fare ciò che ha fatto.»
Ed eccolo lì, quel “noi” tanto osannato, fatto di promesse e giuramenti solenni. Si era illuso di sentirle pronunciare parole diverse? D’altro canto lui era solo un ex giocatore di Quidditch. Quella esperta con le parole e l’animo umano era lei.
Thalia lo sentì sbuffare, forse persino ridacchiare. Immaginò che, a quel punto, Leanne fosse davvero furiosa con lui, ma che non avesse avuto il tempo di ribattere in alcun modo.
«E’ un’Occlumante, che ti piaccia oppure no. E ora siamo qui. Hai vinto, Lils. Ci siamo liberati di mio padre, delle sue idee e della protezione che poteva darci.»
Un’altra concessione, ardita questa volta, che avrebbe dovuto tenere per sé. Eppure Seamus non era mai stato capace di nasconderle nulla: quella donna cocciuta era tutto il suo mondo.
«Protezione?» esclamò lei in tono stridulo, incapace di comprendere che cosa intendesse. Anche Thalia a quelle parole riportò l’attenzione sulla conversazione. «Non intendo andare oltre. Ho sbagliato a parlarne.»
Accostò l’orecchio alla porta e alla cacofonia di suoni provenienti dalla cucina - sedie trascinate, borbottii e sussurri - si unì lo sbattere della porta a vetri che dava sul piccolo giardino interno. Sua madre doveva averlo seguito, poiché nessun altra voce sopraggiunse dalla cucina. Un terribile sospetto si fece strada a quel punto, disarmandola completamente. Connor aveva visto qualcosa. *Lui sa.*

↟↡↟

Era rimasta chiusa nella camera da letto che ancora condivideva con Fiona per il resto del pomeriggio. A restituirle lo sguardo non era più il soffitto dipinto a tinte bluastre del Maniero, col suo piccolo Sistema Solare fatto affrescare quando era solamente una bambina; ora, solo una fila di pesanti assi tinteggiate di bianco e qualche ninnolo appeso con un filo trasparente al tetto spiovente. Con un sospiro, smise di rigirarsi tra le dita la piuma di corvo trovata sul letto a baldacchino qualche mese prima e conservata a beneficio di un momento propizio che forse non sarebbe mai arrivato. O forse sì? Ci aveva riflettuto a lungo e non aveva trovato alcuna soluzione al suo dilemma: che cos’aveva visto suo nonno frugando nella sua testa per insegnarle ad essere una buona Occlumante? La Foresta Proibita - ricordò, tenendo conto degli elementi con le dita della mano libera - un fantasma e, forse, il Castello. Che cos’aveva potuto capire da quei pochi elementi? Forse nulla. *Oppure tutto.*
Il rumore sordo di qualcuno che bussava alla porta la costrinse a nascondere in fretta il cimelio di Cordelia Moran sotto al cuscino imbottito con altre piume, decisamente meno pericolose, aspettando il suo ospite sconosciuto in una posa rigida ed innaturale.
«Posso entrare?» dallo spiraglio comparve parte del viso di suo padre. Perché aveva sperato che fosse lei? Gli sorrise incoraggiante, benché la forza di sostenere una conversazione con lui fosse ben lontana in quel momento, e lo osservò mentre si chiudeva la porta alle spalle.
«Che cosa stai facendo?» le chiese, sedendosi sul bordo del letto. Si mise a giocherellare con le frange di una coperta, senza guardarla negli occhi e Thalia si sentì quasi grata per quella parvenza di riserbo nei suoi confronti. Dopo un breve silenzio, Seamus sollevò lo sguardo sulla figlia, incontrando i suoi stessi occhi azzurri come il ghiaccio sul volto pallido e cosparso di lentiggini. Thalia allora rispose con un’alzata di spalle. «Tua madre è arrabbiata col nonno.» il tono grave e l’espressione dolente le suggerirono solo una parte della natura intricata dei suoi pensieri. Suo padre era un uomo buono, troppo per certi versi, incastrato tra menti brillanti e animi non sempre generosi quanto il suo. Thalia soffriva nel vederlo ridotto allo stremo, ben sapendo di essere una delle concause di quello stato. Come accadeva spesso con un figlio, Thalia era e sarebbe rimasta l’origine dei grattacapi di Seamus e Leanne. Per quanto potesse credersi perfetta, non lo era affatto.
«Lo so.»
In quell’ammissione di consapevolezza, Thalia avrebbe voluto potersi dichiarare innocente, ma non avrebbe potuto. In principio aveva pensato che l’Occlumanzia non fosse un male, che sua madre esagerasse come al solito. Perché non poteva semplicemente accettare che sua figlia, un giorno o l’altro, non avrebbe avuto bisogno di nessuno, se non di se stessa, per proteggersi dai mali del mondo? Era così sbagliato, insomma, credere che Connor avesse compiuto una buona azione, per di più disinteressatamente? Se solo le avessero chiesto che cosa ne pensava lei di quel dono. Indossato come un guanto le avrebbe permesso di portare avanti i suoi progetti - sempre che la pianificazione fosse davvero effettiva - senza che nessuno di loro corresse alcun pericolo. Le parole di suo padre, però, le ricordarono che Connor, forse, non era stato del tutto genuino nell’offrirsi a lei come mentore.
«Non è colpa tua.» continuò allora, guardandosi intorno con interesse. Individuò la Nimbus 2001, appoggiata al muro in equilibrio precario. Lo sguardo s’illuminò a quella vista e sorrise appena nell’osservarlo; la delicatezza usata per saggiare il bilanciamento del manico di scopa le portarono alla memoria l’infanzia, la sua scopa-giocattolo e primi tentativi di restare in equilibrio in una zona nascosta ed incantata di Central Park. E anche allora, quando Leanne lo scoprì, il sogno s’infranse come un calice di cristallo stretto da dita troppo forti. Sua madre era la nota stonata della sua infanzia, quella che non riusciva mai ad accompagnare ad un ricordo felice. «A me sembra di sì.» pigolò, appoggiando la fronte alle ginocchia rannicchiate al petto. Nascondere il viso era più semplice e quando Seamus le accarezzò i capelli, per un istante solamente, tutto le sembrò tornare al posto giusto. «Se lo vuoi, le porte del Maniero sono aperte. Nessuno ti impedisce di tornarci.» la rassicurò, intercettando i suoi pensieri, e nel sollevarle il mento con un tocco gentile, si scoprì ad avere il cuore spezzato nel constatare quanto quella faida famigliare stesse facendo soffrire le sue bambine. Non c’era ombra di sorriso negli occhi grigi di Thalia, né la determinazione, così tipica della sua indole, a non lasciarsi andare alla disperazione. «Non preoccuparti.» sospirò allora.
«Si sistemerà ogni cosa.»


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Hogwarts. Scozia.
Primo trimestre, IV° anno.
Segue: Unsteady


La fetta di pane tostato si sbriciolò tra le mani, tra l’incredulità e la frustrazione della strega dai capelli vermigli, raccolti in una treccia morbida sulla spalla. Socchiuse le palpebre per un istante, lasciando cadere le briciole pungenti sul piatto d’argento, espirando profondamente e lasciando la rabbia fluire. La testa le ronzava dal momento del risveglio, quando alla cacofonia di chiacchiere e porte sbattute del dormitorio, si era unita la voce fuori campo di una delle compagne. L’aveva fissata senza apparente motivo, gli occhi cisposi e l’espressione inebetita di chi ha dormito troppo, ma non ha affatto riposato. Quella storia doveva finire, ma sembrava solamente essere all’inizio; un tragico, tragicissimo inizio.
«Thalia, mi passeresti il succo di zucca, per favore?»
Bobby Miller, primo anno. Una matricola come ce n’erano tante: un po’ distratto, tante buone intenzioni e un mix pericoloso tra gentilezza disarmante e altruismo ridondante. Meccanicamente gli servì la caraffa senza degnarlo di uno sguardo, troppo spaventata all’idea di abusare di quegli occhi di un azzurro slavato. Non riusciva a controllarsi, non poteva. Winston le aveva insegnato solo la metà di quel che le sarebbe servito per dominare la Legilimanzia e aveva scoperto, a malincuore, di non essere nello stato mentale e fisico più opportuno per rispettare i confini della riservatezza altrui. Tutto ciò che poteva fare era rinchiudersi nei propri silenzi, evitare gli sguardi preoccupati dei compagni e sperare di trovare nei suoi adorati libri le risposte più immediate alla domanda più urgente di tutte: come si controllava una cosa del genere? Le iridi color dell’ardesia si concentrarono allora sul piatto coperto di briciole, grandi e piccole, e chissà perché nella sua testa s’immaginò di non essere poi tanto diversa da quella fetta di pane andata in frantumi. Non aveva voluto nulla di quanto possedeva: aveva abbracciato l’Occlumanzia come una difesa e ne aveva visto gli effetti sulla sua famiglia.

Un mese prima, aveva salutato suo padre sulla banchina di King’s Cross con un sorriso mesto e un cenno della mano, a cui l’uomo aveva risposto dimessamente. Le raccomandazioni di rito si erano perse nel vuoto e aveva soltanto dovuto voltare le spalle al lungo marciapiedi per lasciarsi indietro parte dei suoi problemi. Seamus sarebbe tornato a casa senza indugio o forse si sarebbe fermato a Diagon Alley per schiarirsi le idee; qualcosa le aveva suggerito che sarebbe rimasto a lungo in piedi di fronte alla vetrina di Accessori di Prima Qualità per il Quidditch ripensando alla sua carriera di Battitore ormai finita. Quanto a sua madre, le aveva salutate tutte all'imbocco della stazione, prefendo dirigersi svelta al Ministero per portare a termine delle faccende importantissime. Aveva cominciato a considerare il Ministero della Magia come un organo in grado di risucchiare l'anima, un paragone che in futuro Thalia avrebbe associato all'azione di un Dissennatore. Leanne era così concentrata nell'eccellere sul lavoro da non accorgersi di nient'altro. Che le sue figlie fossero in piena crisi adolescenziale o che il marito avesse considerato l'idea di una pausa nella loro vita coniugale, non le importava. Glielo si leggeva nell'espressione dura del volto, nello sguardo freddo nonostante il caldo color cioccolato dei suoi occhi. Rigore e disciplina, nemmeno questo aveva chiesto. Eppure era tutto ciò che Leanne potesse offrirle.

Non aveva voluto neanche la Profezia, ovviamente, ma quello era stato un regalo di Cordelia e delle sue mire ancora sconosciute. Ciò che era ormai chiaro era che Connor avesse percepito l’odore del pericolo dalle poche informazioni ricavate dal suo addestramento e la resa dei conti si sarebbe avvicinata prima di quanto lei stessa avesse preventivato. Perdere il controllo sulla situazione in quel modo non era da lei. E che cos’avrebbe potuto fare per tornare padrona di sé, del presente e di tutto il resto?
«Thalia, scusami...» un cenno distratto alla sua destra le permise di riconoscere Gillian, terzo anno, un’amica della sorella minore. «Fiona dice che potresti prestarmi il dizionario di Rune… L’ho dimenticato in dormitorio e non voglio fare tardi alla prima ora.» Si sarebbe potuta rifiutare, naturalmente, ma un cenno di assenso del capo e la spinta della borsa coi libri verso Gillian sancirono l’adesione a quel piano. «Mi serve nel primo pomeriggio, quindi cercami a pranzo. D’accordo?» La ragazzina annuì con entusiasmo, appropriandosi del dizionario con mano lesta e sparendo alla vista insieme a Fiona e al gruppetto di ragazze con lei. «Al diavolo la colazione.» sbottò tra sé, alzandosi in fretta e furia.
Se non fosse stato per la Legilimanzia, l’altra grande novità di quell’estate, forse sarebbe riuscita a concentrarsi di più sui propri obiettivi. I gruppi di studenti fermi agli incroci dei corridoi, all’imbocco della Sala Grande o nelle aule erano il male assoluto. In sole sei settimane era riuscita a saltare la cena tre volte in sei giorni, senza contare quel defilarsi troppo sospetto al trillo della campanella a fine lezione. I sermoni di Peverell, poi, sarebbero stati anche più interessanti, se solo la metà dei suoi compagni non avessero fantasticato su argomenti ben lontani dalle rivolte degli Elfi Domestici dell’XI secolo; quelle erano le ore peggiori per constatare quanto la sua abilità ad intercettare i pensieri altrui fosse senza controllo.

Varcando la soglia della Sala d’Ingresso divenne facile preda del panico più puro: un gruppetto consistente di primini si ammassava sulla bacheca alle porte della Sala Grande, sgomitando per leggere qualcosa appeso di fresco quel mattino. Tra quelle testoline curiose c’era anche quella di Iris, che le venne incontro con un cipiglio contrariato. «Midnight. Organizza una specie di corso extra, ma la mamma non mi darà mai il permesso di andarci.» sentenziò, stringendosi nella sua uniforme da Serpeverde. Le scostò i capelli castani dal viso, prima di tirarglieli giocosamente; non li aveva legati, una contravvenzione al regolamento di cui chiunque si sarebbe scordato. Chiunque, ma non lei. «Non credo sia una partecipazione negoziabile.» concluse in un sorriso mesto, portandosi una mano alla tempia sinistra. Iris aveva ricambiato il suo sguardo e una visione della sorellina immersa in una lezione di Pozioni fu sufficiente per spingerla delicatamente fuori dalla calca. La rispedì educatamente nei sotterranei, immaginando che White avrebbe gradito la sua puntualità a dispetto del largo anticipo sulla tabella di marcia.

«Masterclass di Difesa Contro le Arti Oscure.» recitò. Il suo odio viscerale per quell’uomo era ben lungi dall’essere sopito e una parte di lei escluse a priori l’intenzione di sentire che cos’avesse da dire a riguardo. L’altra parte, quella ancora poco convinta delle ragioni dell’Esercito del Mezzogiorno, premeva per assistere alla presentazione del progetto. Quale sarebbe stato l’argomento? Creature misteriose? Attività di Difesa avanzata? Il suo cervello continuò a rifletterci per tutto il corso della mattinata, finché Channing non la richiamò all’ordine durante l’esercitazione del Verto Lentus. Da che fosse arrivata ad Hogwarts non aveva mai perso occasione per cimentarsi in nuovi progetti: il corso extracurricolare di Barrow, il corso di Alchimia… che cosa le avrebbe impedito di partecipare alla Masterclass? Midnight poteva essere anche un damerino antipatico, ma era pur sempre un suo docente e ciò che avrebbe potuto apprendere in quel corso decisamente elitario le sarebbe stato utile in futuro. Si era convinta, insomma, di potersi tenere in equilibrio tra tutti i corsi, gli impegni da Prefetto, il lavoro come Garzona e persino i deliri da Legilimens in erba. *Che sarà mai un impegno in più?* pensò, pronta a iscriversi con la sua piuma ricaricabile in mano.
Se ne stava lì in piedi davanti alla bacheca come uno stoccafisso, la punta della piuma sospesa a mezz’aria, con gli occhi puntati sulla lista di nomi già presenti. Amber, Eloise, Black e la Milford. Erano solo alcuni dei coraggiosi che avevano scelto di aspirare a quell’insegnamento extracurriculare e per la prima volta in vita sua, Thalia sentì di non essere all’altezza. Non poteva resistere di fronte a Midnight, con quel suo vizio di scrutare i volti dei suoi allievi come se dovesse spogliarli di ogni segreto; non avrebbe saputo reggere il confronto con la diligente Amber o il perfezionista William. Non sarebbe nemmeno riuscita a chiedere dell’inchiostro a Megan - che per inciso la odiava a morte - senza avere il timore di sfigurare in una qualunque delle casistiche possibili.

«Non dirmi che ci vuoi andare.»
Trasalì, lasciandosi sfuggire la piuma dalle mani, che cadde a terra in un tonfo silenzioso macchiando il marmo di nere goccioline di inchiostro. La testolina argentea di Nieve riemerse poco dopo, porgendole la piuma con l’espressione più furba che fosse riuscita a trovare. *Rigos, per l’amor del cielo. Non ti ci mettere pure tu.* «Sarebbe un peccato spiare il nemico dalla prima linea?» chiese sardonica, lo sguardo stanco e le occhiaie ben visibili, picchiettando il nome del docente con la piuma. «Non ci andresti certo per quello. Bugiarda.» sentenziò, il tono di chi la sa ben più lunga di quanto non voglia far credere «Segui praticamente ogni corso disponibile, tranne Divinazione anche se non so perché, hai un lavoro e sei Prefetto. Prima o poi esploderai.» A quel punto, Thalia si costrinse a sorridere senza grandi risultati, cominciando ad avviarsi verso la Sala Grande per il pranzo. «Hai ragione, posso farne a meno Rigos. Hai ragione.» *Devo.*
Nel guardarla dritta negli occhi verdi punteggiati di pagliuzze dorate, Nieve Rigos le aveva restituito - senza saperlo - l’immagine del loro secondo incontro ai Tre Manici di Scopa: aveva dimenticato, per un momento soltanto, che quell’estate aveva visto la nascita di un’Occlumante, di una Legilimens e di un Esercito. No, Nieve aveva ragione: Thalia non aveva proprio tempo per lezioni normali, figurarsi per quelle extra col Midnight.


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Hogwarts. Scozia.
Secondo trimestre, V° anno.
Segue: Stop


Non aveva la benché minima idea di dove fosse finito quel libro sui Berretti Rossi che la bibliotecaria le aveva permesso di portar via. Era sicura di averlo rimesso in borsa quella mattina ed ora che si trovava al cospetto della donna, col cipiglio più indisposto che chiunque avrebbe potuto immaginare, si risolse a sollevare il capo, implorando pietà e clemenza con un’espressione davvero dispiaciuta in volto.
«Mi creda. Lo avevo qui dentro. Son sicura.»
«Potrei quasi crederle, signorina Moran.»
«Effettivamente potreb--»
Lo sguardo che la donnetta magra e nervosa le riservò bastò a farle interrompere la frase. Con un po’ di buon senso, avrebbe potuto appellare il libro e quello sarebbe arrivato dritto da lei - col rischio di falciare qualche testa nella corsa lungo i corridoi. Avrebbe potuto, certamente, ma non l’avrebbe fatto. In un certo senso, essere ligia alle regole l’aveva portata ad avere una discreta conoscenza degli elogi di funzionari scolastici ed insegnanti in generale, ma mai in tutti quegli anni aveva ricevuto una strigliata. Ebbene, a diciotto anni suonati, forse era finalmente giunto il momento di dimostrare che anche lei, Thalia Moran, poteva commettere errori. Non fosse stato per la convinzione ferrea di non aver la responsabilità di quella specifica occorrenza, Thalia avrebbe reagito con nonchalance, provando ad infondere un po’ di comprensione in quella donna rigida come uno stoccafisso.
«Oh, eccoti qui!» incredibilmente, Thalia non avrebbe mai ammesso di essere stata tanto felice nell’udire la voce di Nieve Rigos. Di solito era lei ad attirare su di sé le attenzioni indesiderate, in gioco fatto di equilibri perfetti ed immutati. Le piaceva pensare - e su questo rifletteva molto spesso - che fossero l'una il paracadute dell'altra, il piano di riserva, il porto sicuro. Udendo la sua voce, ben distinta sopra il chiacchiericcio generale formatosi alle sue spalle, Thalia sospirò gioiosa. Presto l'avrebbe tirata fuori dai pasticci, ne era sicura. La biondina si fece largo, allora, tra gli studenti in fila per la restituzione di diversi tomi e, quando riuscì a raggiungerla, scoprì con orrore che il libro sparito era stato nelle sue mani per tutto il tempo.
«Te l’ho visto sfogliare a pranzo, ho pensato di darci un’occhiata! Pensa a quanta influenza hai su di me!» continuò, aumentando i decibel con estremo disappunto della bibliotecaria. Per tutta risposta, Thalia le sfilò il libro dalle mani e lo riconsegnò alla sua custode; dopodiché, prese sottobraccio la Grifondoro e la trascinò fuori, lontano da occhi indiscreti che potessero assistere al suo omicidio.

↟↡↟

«Sai, devo chiederti un favore.»
«Che tipo di favore?»
«Potrei essermi iscritta al Barnabus.»

Fu la frase perfetta per creare lo shock necessario a fermare le lunghe falcate della Tassorosso. Fu come se a bordo dell'Hogwarts express qualcuno avesse tirato il freno d'emergenza e la Grifondoro rovinò sulla Tassorosso senza potersi fermare in tempo. Thalia impiegò più del necessario a registrare l’informazione e ricordò con precisione le parole degli insegnanti che, in quei giorni, chiedevano agli studenti se qualcuno tra di loro avrebbe osato partecipare. Sembrava si trattasse di prove atte a saggiare la capacità dei partecipanti di adattarsi ai contesti più disparati, una versione più accademica e meno approssimativa degli eventi organizzati da Peverell nel suo Club privato. La inorridiva anche solo il pensiero di lasciare Nieve sola in una gara all'ultimo sangue. «Tu cosa?»
Ci aveva pensato anche lei, naturalmente. La serenità ritrovata con la piccola lezione extra di Atena McLinder sugli equinozi aveva risvegliato qualcosa in lei. Voglia di rimettersi in gioco, di emergere nuovamente e brillare di nuova luce. Tutte cose che - in quel periodo - le erano evidentemente mancate. Il suo impegno per la Casata era scemato piano piano e la sola cosa che riusciva a portare a termine discretamente bene erano le ronde serali, perlopiù in solitaria o con la Rigos. Ne passò in rassegna la figura e un brivido le attraversò il corpo come una scarica elettrica. Era la sua amica a preoccuparla, non il suo diretto e possibile coinvolgimento nella gara: non serviva essere un guaritore esperto per capire che Nieve stesse passando uno dei suoi periodi. Più pallida ed emaciata del solito, e perfino più magra. Prendendola per il braccio e trascinandola fuori dalla Biblioteca gremita le era sembrato di sollevare una piuma. Leggera ed incolore, Nieve Rigos le stava nascondendo qualcosa. Ma poteva forse biasimarla? Non aveva anche lei degli oscuri segreti di cui non le aveva fatto parola? E quella storia del Barnabus poi. Come le era venuto in mente? Che cosa doveva dimostrare al mondo? Ne aveva davvero bisogno?
«Se mi scelgono, cosa che non credo accada, mi devi aiutare.»
Era ovvio che l'avrebbero scelta: chiunque avrebbe riconosciuto i suoi punti di forza, ben oltre le sue debolezze, e soltanto lei - Nieve - non riusciva a rendersi conto di quanto fosse in gamba. Si limitò a rispondere con uno sguardo severo, così tipico delle loro interazioni da non sortire più alcun effetto sulla biondina. «Dico davvero. Tu ne sai una più del diavolo. Devi aiutarmi.» Poteva forse rifiutarsi?
«Farò quel che posso, ma accidenti a te e alle tue assurde idee.»

↟↡↟

La sera della proclamazione ebbe luogo come una cena qualunque, forse troppo normale considerate le circostanze in corso. Il suo arrosto di tacchino le sembrava insipido e i contorni senza alcun sapore. Faticava persino a decidersi di andarsene dalla Sala Grande e tutto perché, in fondo, aspettava la nomina dei quattro campioni come se ne andasse della sua esistenza. Che cosa poteva importarle del Barnabus? Aveva scelto di non partecipare nonostante la carica ricevuta dai compagni che, oltre ad Horus, incitavano anche lei a mettersi in gioco. Certo, non era la loro pelle quella che doveva essere sacrificata, ma poteva capire la ragione di quella specie di tifo: si ricadeva sempre nel solito cliché, quello in cui Thalia Moran poteva riuscire in ogni cosa solamente perché i suoi voti glielo permettevano. Possibile che nessuno vedesse altro oltre alle sue pagelle? Forse, dopotutto, aveva deciso di non prendere parte a quel progetto solo per ripicca nei confronti di uno stereotipo. E poi, se fosse davvero arrivata a gareggiare contro Nieve, come avrebbe potuto superare l'amicizia a favore dell'ambizione? Non avrebbe semplicemente potuto. Duellare per gioco come avevano fatto in passato poteva essere divertente, ma farlo sul serio? No, era impensabile. Sollevò lo sguardo sulla tavolata dei Grifondoro e la trovò immediatamente: come si poteva ignorare una cascata di capelli argentei nel vano tentativo di nascondersi dietro una copia stropicciata del Cavillo? Sorrise, forse per la prima volta, e tornò a concentrarsi sul proprio pasto. Forse, dopotutto, sarebbero state risparmiate entrambe dal tedio della gara e avrebbero commentato insieme le prove degli altri studenti come avevano fatto per il Quidditch o in altre centomila occasioni. Sì, poteva non essere scelta. Stava per addentare il terzo boccone di arrosto quando il Preside si alzò con aria solenne, avanzando in modo che tutti potessero udirlo distintamente. *Per la miseria. Ci siamo.* Il tintinnio di posate accompagnò i suoi ultimi passi e niente avrebbe potuto prepararla a quanto sarebbe seguito. Fu come se Peverell, improvvisamente, fosse stato lontano mille miglia da lei e la sua voce le giungesse da una distanza siderale. Il primo nome aveva appena lasciato le labbra del vecchio docente e un peso enorme era caduto sul suo stomaco già in subbuglio. Lo sentì attorcigliarsi, mentre il nome di Horus seguiva quello di Nieve e la sua Casa esplodeva in grida di giubilo. Meccanicamente, si alzò e applaudì, certa che il suo ex Caposcuola non avrebbe avuto alcun problema con le prove del Barnabus. E allora la vide: Nieve era in piedi, sorrideva. Perché sorrideva? Fino al giorno prima aveva sperato di non essere scelta, provando persino a scassinare la cassetta dorata in cui il suo nome era stato inserito con un foglietto di pergamena... ed ora sorrideva? Senza dire una parola, Thalia la seguì, mentre usciva dalla Sala Grande, e la fermò sulle scale - le stesse in cui si erano sedute e confrontate a Natale. «Lo farò. Ti aiuterò.» Nieve sorrise più raggiante che mai. «Ma se ti azzardi a morire, ti resuscito e ti uccido con le mie mani, Rigos.»

↟↡↟

Il fatto che in tutti quei mesi Nieve non avesse perso un arto nel superamento della prima prova e che la seconda fosse stata tecnicamente perfetta, al punto da suscitare un orgoglio smisurato nella sua guru accademica, era un risultato ben più che positivo. Non che avesse dubbi sulle capacità dell’amica, ma Nieve aveva quel brutto vizio di credersi insufficiente, mai abbastanza, decisamente poco. E a nulla valevano i suoi tentativi di risollevarle l’umore e le speranze: Nieve trovava sempre il modo di affossare Nieve.
«Black mi ucciderà.»
«Non lo farà.»
«Ti dico di sì.»
«E invece no. Posso finire di leggere?»
«Tu non sai com’è.»
A quel punto, gli occhi grigi si sollevarono dalla copia della Gazzetta del Profeta, piegando il bordo delle pagine verso il petto e squadrando la Grifondoro da capo a piedi. «Guarda che sono io quella che ha quasi strangolato con un manichino. Non eri tu.»
«E allora lo vedi che mi ammazza?»
Un sospiro e la copia del Profeta accantonata sancirono una breve pausa in quella stupida querelle. «Seguimi, Rigos. E’ ora di finirla con l’ansia da prestazione.»

↟↡↟

«Rigos, Black non è mica la Piovra Gigante, chiaro?» lo disse con una certa convinzione, ma sapeva che William Black poteva essere un avversario anche peggiore di così. Nieve la osservava in silenzio, curiosa di capire che uso avrebbero fatto di tre manichini ridotti alle dimensioni di portachiavi babbani nel bel mezzo di una zona isolata dei giardini della scuola, al limitare della Foresta Proibita. Forse avrebbe avuto anche il coraggio di chiederlo se, dopotutto, Thalia non fosse stata tanto determinata a portare a compimento il proprio ruolo. «Io non ho partecipato al Barnabus perché non mi serviva.» mentì, mentì spudoratamente e si permise di distogliere lo sguardo dall’amica affinché lei non cogliesse le sfumature di quell’affermazione. «Ora, la cosa fondamentale è fare affidamento su quello che sai. E non è poco.» così dicendo, ingrandì i tre manichini a grandezza naturale, dopo averli disposti a raggiera dinanzi Nieve. «Black è un po’ come il Mezzanotte.» borbottò divertita «E l’esame con lui è andato meglio a te che a me. Questo che cosa ti suggerisce?» Nieve sapeva quanto quella domanda fosse retorica: una volta che Thalia si fosse lanciata nei suoi monologhi sarebbe stato difficile fermarla.
«Che niente è impossibile. L’unica cosa a tuo sfavore è che quei due lavoreranno insieme. Ma tu hai dalla tua Peverell, giusto? E ti immagini mai che il nostro Ignotus ti lasci sola nel momento del bisogno?» Non appena quella frase fu pronunciata, un pensiero terribile le attraversò la mente. *Lui ci molla su due piedi praticamente sempre.* «Comunque.» si schiarì la voce, sistemando meglio il manichino centrale «Se li sorprendi entrambi il gioco è fatto.»
Sembrava facile a dirsi, ma sapeva di potersi fidare dell’istinto di Nieve. Quella ragazzina aveva superato prove ben peggiori e benché pensasse di non valere abbastanza, era stata scelta per portare onore alla sua Casa. Aveva fatto fuori Horus e Megan, per la miseria! Come poteva non cogliere l’evidenza dei fatti? Possibile che solo lei non vedesse quanta strada aveva fatto dal giorno in cui era arrivata ad Hogwarts la prima volta? Quell’atteggiamento l’avrebbe fatta infuriare in circostanze diverse, ma persino lei riusciva a cogliere l’insensatezza di una reazione tanto estrema. Nieve aveva bisogno di incoraggiamento e lei gliel’avrebbe fornito. Tutto ciò che doveva fare era darle uno scopo, anche esagerando, se necessario. «Ricordi quando ti dissi che tra me e Black non corre proprio buon sangue e ci sopportiamo per dovere?»
La biondina annuì e così Thalia proseguì. «Non ho mai avuto modo di dargli il benservito, ma sarò lieta di cederti l’onore...» - pausa - «Se mi prometti di fargli il culo a strisce.» *E se succedesse qualcosa anche a Midnight…* e per quanto fosse sentito, quel pensiero non trovò mai una vera e propria espressione verbale.


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William e Dorian, sappiate che siete amati. :flower:
 
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Appartamento di Martha D. Lynch | Mead St., Londra
Vacanze Estive, Agosto
Segue: Reckoning


Lo scatto della serratura aveva tradito il suo ingresso nell’appartamento di Mead Street. Il buio opprimeva lo spazio con la sua presenza, mentre una luce fioca proveniva dalle stanze al piano superiore. Non era difficile capire con chi stesse parlando Fiona, la sua voce acuta in netto contrasto con il tono brioso e pratico di Martha Lynch. Sospirando, si era chiusa la porta alle spalle e vi si era appoggiata con la schiena, sfinita.
«Signorina, non credere che mi sia passato inosservato il tuo beffarti delle regole di questa casa.»
Sobbalzando per averla sentita tanto vicina, aveva sollevato lo sguardo sulle scale intercettando così la figura agile di sua nonna scendere i gradini, che scricchiolavano fastidiosamente sotto il suo peso e al ritmo della sua marcia degna di un generale. «In cucina. Ora.»
L'aveva superata e, Thalia ne era certa, le aveva appena lanciato uno sguardo gelido, reso ancor più penetrante dal color grigio delle iridi. Martha Lynch era una strega esuberante: il suo sorriso accogliente riusciva a sciogliere persino il ghiaccio in cui talvolta restava imprigionato Connor, coi suoi modi da nobile decaduto, ma mai dimenticato. Ora, però, sua nonna l’aveva tacciata con quei modi che mai Thalia si era sentita rivolgere e che, per un solo istante, le avevano ricordato la figlia di quella donna: Leanne, sua madre. Era così abituata a sentirsi giudicata dalla persona che l'aveva portata in quel mondo, da non essersi mai sentita vulnerabile sotto gli sguardi altrui. Nessuno, come Leanne, sapeva farla sentire inadeguata. Eppure - aveva pensato - Martha l'aveva cresciuta e quell'attitudine doveva pur aver avuto un'origine. La risposta le era chiara, a differenza di molte altre, e con l'animo in subbuglio si era risolta a seguirla in silenzio.
Quando l'aveva finalmente raggiunta, varcando la soglia della cucina con quell’orribile carta da parati a fiori, aveva trovato la strega-giornalista seduta al lato corto del tavolo: le dita scarne intrecciate, la luce di un lampadario tremolante e le ombre a danzare tutt'intorno. Disarmante, il silenzio si era impadronito di una casa divenuta, stranamente, opprimente.
«Posso sapere, di grazia, dove sei stata per tutto il giorno?» aveva chiesto allora, addolcendo appena lo sguardo, ma cercando di non darlo troppo a vedere. Era un interrogatorio e sentiva di non sapere che cosa rispondere. Quando la risposta era affiorata, emergendo dopo un brevissimo silenzio, si era sentita sciocca. Era la verità, certo, ma non c'era tutto in quelle poche parole pronunciate con incertezza. Il substrato di segreti nel quale sguazzava da anni stava cominciando ad intaccare le fondamenta del suo rapporto con Martha, l'unica della famiglia a cui non aveva mai saputo dire una bugia.
In un solo giorno, gliene aveva raccontate almeno due. «Hyde Park, Diagon… ero fuori. Avevo bisogno di camminare.» aveva risposto, continuando a restare in piedi, senza avere il coraggio di sedersi per affrontare la prima ramanzina dopo secoli di assoluta compiacenza. Aveva stretto il bordo dello schienale di una sedia fino a che le nocche non erano diventate bianche e il silenzio era calato pesante al pari di una scure tra le due donne. «Fuori.» aveva fatto eco l'altra «Non è una risposta che mi soddisfa, spero tu lo sappia.» «Lo so.» aveva ammesso, rilassando le spalle e chinando il capo. Sul pavimento era rimasta qualche briciola di pane e nel lavello una spugna continuava a sfregare il sapone per piatti sui mestoli e sulle pentole. Aveva saltato il pranzo e anche la cena. La fame e l’appetito erano state risucchiate dal malumore e dal peso di ciò che Thalia sapeva bene di dover fare. Era giunto alla fine il momento tanto temuto, quello del confronto con la verità e con se stessa. La sua famiglia meritava di meglio di patetiche scuse, eppure l'idea di rivelare ogni cosa la intimoriva più della ragione stessa per cui era arrivata sino a quel punto. Il volto di Mike, poi, era rimbalzato nuovamente tra i suoi pensieri, come a voler dire "E io? Che cosa merito, io?". Dopo un pomeriggio trascorso a vagare senza meta, scoprendo angoli di Londra che non avrebbe immaginato esistere, era tornata con la mente al motivo per cui tutto quel periodo era stato così strano e caotico, disordinato e contrario alla sua vita di prima. Prima. Com'era? Ci aveva pensato tanto a lungo da stare male. La semplicità, l'inizio della scuola, la spensieratezza. Non aveva goduto di nulla con pienezza da quando Oliver Brior aveva sancito la fine di quella fase della sua vita. E c'era da aspettarselo - si era detta - perché puoi dimenticare uno schiaffo, forse, ma le parole... quelle no. Mai. Eppure non era stata colpa nemmeno di Oliver, giacché si era fatto portavoce di qualcosa di più grande e incomprensibile. Forse, dopotutto, aveva da fare ammenda su più fronti, senza esclusioni.
«Voglio che mi spieghi perché non hai pensato di avvertire. Tua sorella voleva uscire per cercarti e... per la miseria! Thalia Jane Moran, guardami quando ti parlo!» Martha aveva gridato, battendo con veemenza un pugno sul tavolo, e l'aveva riportata in quella cucina che odorava ancora di arrosto. Inspirava a fondo, provando con ogni fibra del proprio essere a mantenere la sua proverbiale calma, ma era evidente - persino a sua nipote - che Martha Lynch avesse completamente perso il controllo di sé. Una parte di lei riusciva a capire la sua pena, il fatto di non sapere dove fosse e di averla sentita rincasare poco prima della mezzanotte. Londra non era Cork - aveva proseguito - e sarebbe potuto accaderle di tutto. «Sei una strega adulta, capace di badare a te stessa. Questo lo so.» aveva sbottato, incrociando le braccia al petto e corrugando le sopracciglia «Ma questo non ti autorizza a far diventare pazza tua nonna. Ho già cresciuto una figlia con la convinzione di essere grande abbastanza per badare a se stessa. Non avevo idea di aver a che fare con la sua copia esatta.»
Quell’ammissione l'aveva costretta a guardare davvero negli occhi sua nonna. Era la prima volta, in diciotto anni, che la sentiva parlare di sua madre in quei termini, così come si parla di una persona tanto amata da aver saputo accettare ogni suo pregio e ciascun grande difetto. L'aveva colpita, soprattutto, per quella similitudine tanto sfacciata, sfuggita dalle labbra sottili dell’anziana strega con la naturalezza con cui si pronunciano le grandi verità. «Anche Leanne pensava di poter andare e venire a proprio piacimento, rincasando tardi senza dare spiegazioni, ma ho sempre saputo dove andasse e perché.» aveva aggiunto, con un sorriso malizioso a fior di labbra che nascondeva una nota amara, sconosciuta «E ora tu fai lo stesso. Non sai quante volte abbiamo affrontato questa conversazione. E lei era lì, esattamente dove sei tu ora. Sembra un deja-vù.»
Non aveva mai pensato che quella fosse la casa in cui sua madre aveva mosso i primi passi ed infranto le prime regole. Semplicemente, non riusciva a figurarsi Leanne come un’adolescente ribelle. Forse perché, dopotutto, non glielo aveva mai permesso e non si era mai davvero confidata con lei sul proprio passato. Aveva sempre pensato di essere diversa da lei, eppure, ogni giorno le dimostrava quanto invece avessero da condividere. L’unica differenza, probabilmente, era la ragione per cui Leanne restava sveglia fino a tardi e usciva di nascosto per tornare all’alba.
«Per l’amor del cielo, bambina mia, parla.» l'aveva supplicata allora, alzandosi svelta e raggiungendola in un baleno. Le dita fredde le avevano sfiorato con delicatezza il mento, sollevandolo cosicché potessero guardarsi dritte negli occhi. «E’ successa una cosa, oggi.» aveva concesso alla fine, spostandosi e sedendosi all’altro lato del tavolo. Martha aveva ripreso il suo posto in silenzio, pronta finalmente ad ascoltare. «Credo… credo di aver rovinato tutto.» aveva ammesso, la voce appena più roca. La mano di Martha aveva raggiunto la sua, accarezzandola con la dolcezza consueta di una nonna disposta ad ascoltare le pene dei suoi pargoli per raccoglierne il peso e alleggerirli un po’.

~

Aveva aspettato, seduta su una panchina ancora umida della pioggia del giorno prima. Muoveva nervosamente le gambe, osservando i Babbani in vena di tenersi in forma con le corse frenetiche del sabato mattina, riflettendo sul fatto che, almeno lei, non avesse nemmeno il tempo di pensare; ma, in fin dei conti, si era alla fine di agosto e a breve la vita sarebbe tornata quella di sempre. Era quella consapevolezza ad averla spinta ad accettare il suo invito, non fosse stato perché - dopotutto - sapeva di aver meritato la resa dei conti dopo mesi di latitanza. Era reduce dai propri errori, conscia di aver tirato una corda fragile sino a temere di vederla spezzarsi sotto al suo giogo. A nulla era servito il confronto con Nieve, tra i casolari di campagna in Italia: se avesse potuto, sarebbe rimasta laggiù, insieme alla sua amica, fuggendo da tutto e tutti, come se avesse potuto essere la vera soluzione ad ogni problema. I Moran però non fuggono dalle traversie, su questo Connor era sempre stato chiaro, e quella voce bassa e rassicurante aveva saputo raggiungerla sin lì, tra le colline toscane, vanificando gli effetti dei numerosi bicchieri di vino. Alla fine, Mike aveva chiesto udienza e non avrebbe accettato un diniego come risposta.
Lo aveva aspettato, incurante della fame incombente intorno a mezzogiorno, mentre Hyde Park andava svuotandosi dalle coppie che passeggiavano coi cani al guinzaglio, fedelmente al seguito, o alle nonne coi nipotini, pronti a sfrecciare inseguendosi a perdifiato.
Avrebbe dovuto capire. Avrebbe dovuto saperlo.
Aveva teso troppo la corda e quella aveva finito per spezzarsi tra le sue mani.
Quelle stesse mani che avevano accarezzato il suo viso, arruffato i capelli castani; nel vuoto davanti a sé era riuscita a ricostruirlo quel momento perfetto in cui, guardandolo negli occhi, il suo sorriso si apriva come non mai.
[ Percepì le dita di Mike tra i capelli vermigli, un contatto inaspettato quanto quel sorriso. Rimase in silenzio. Qualsiasi cosa avesse scelto di fare, non gliel'avrebbe impedito. Non avrebbe saputo come fare. Non avrebbe saputo dire nemmeno perché avrebbe dovuto fermarlo visto che, in gran segreto, aveva pensato ed immaginato quel momento – nelle ultime settimane – con una costanza invidiabile. ] ~ A Step Forward, Primo Piano
Aveva lasciato Hyde Park con la morte nel cuore, con la certezza di aver visto sgretolarsi tra le dita ciò che con tanta dedizione avevano costruito. E di chi era la colpa? Forse della sua incapacità di comunicare. Forse delle circostanze o, addirittura, del Destino. Il Fato o la Sorte, sue nemiche per natura, che erano riuscite negli anni a condizionare ogni suo passo; lei, che strenuamente si era opposta ad un disegno già tracciato da mano esperta, aveva finito per cedere alle insidie pendenti come burattini manovrati da sapienti mani invisibili. Qual era stata la sua colpa, in fondo? Ascoltare delle parole, parole tremende, e cercare con ogni forza di non darvi bado. E più aveva tentato di non assecondare la Dea capricciosa, quella le aveva lasciato dei promemoria sparsi nel castello. Le aveva messo sul cammino, perfino, un uomo con le sue stesse sventure.
Il fruscio del vento mite le aveva scompigliato i capelli, riportandola con la memoria alla Danza delle Ceneri. Abiti splendidi, coppie di ragazzi impegnati a ballare o chiacchierare. La fuga. Il litigio. Il silenzio. La menzogna.
Non era stata colpa di Aiden, non per come la vedeva lei. L’Auror era solo una pedina nelle mani del Fato e il suo unico peccato era stato quello di aver incrociato il suo cammino. Eppure, per quello che ne sapeva Mike, la sua lontananza e il suo essere schiva era frutto di qualcosa di inespresso e incomprensibile. Qualcosa che lo aveva spinto a chiederle di incontrarsi, per poi sparire. Come aveva pensato più volte, aveva tirato una corda assottigliata dal tempo e dall’uso troppo a lungo. Alla fine, si era spezzata. Un po’ come lei, del resto, integra nella superficie e frammentata al suo interno. Si sentiva come se avesse dovuto mantenere una facciata intatta, una parvenza di normalità, quand’anche così si era rivelato impossibile vivere limitandosi allora a sopravvivere.

~

«Bambina mia.»
Il sospiro di Martha aveva solleticato le lacrime che non osava versare, proprio lei che non era capace di piangere nemmeno per un ginocchio sbucciato. Da dove avesse tirato fuori tutta quella forza d’animo non riusciva proprio a spiegarselo, ma negli anni era arrivata a convincersi che fosse la sua debolezza travestita, dopo aver indossato una cotta di maglia e placche di metallo impossibili da trafiggere. Non era forza d’animo, dunque, quella che la tratteneva dall’esternare i propri sentimenti. Era il suo essere fragile a costringerla a non cedere: un nemico, in fondo, avrebbe saputo banchettare con quel miscuglio di rabbia e cuore infranto. E in fin dei conti… chi poteva biasimare, se non se stessa, per ciò che era accaduto?
«Questo Mike mi sembra un bravo ragazzo» aveva continuato sua nonna, il sorriso appena accennato «E che problemi insormontabili potrai mai dover affrontare, mmh? Forse ti potrebbe addirittura aiutare...»
Si sentiva minuscola di fronte a lei, così come sentiva di avere un fardello troppo pesante sulle spalle; non poteva reggerlo da sola, eppure doveva… anche se per un attimo sarebbe stato più semplice parlare apertamente e raccontare ogni cosa. «Non voglio che soffra.» aveva detto infine, la voce rotta dal groppo in gola che non sapeva di avere. Faceva quasi male mettere insieme i pezzi di ciò che era stato e ciò che sarebbe potuto essere se solo non si fosse lasciata trascinare nel gorgo di fatti ed emozioni che quelle parole avevano introdotto senza indicazioni chiare nella sua vita.

«Sei proprio come tua madre. Preferisci il silenzio alle parole e mostri l’amore solo con i fatti. Preferisci lasciarlo andare piuttosto di convincerti che, forse, potrebbe anche scegliere di restare.»

Quando Martha si era alzata per andare a dormire, le aveva dato un bacio sulla fronte ed era sgusciata via, nel silenzio di una casa addormentata e serena. Lo scricchiolio dei gradini l’aveva accompagnata al piano di sopra e lei, finalmente, era rimasta sola.
Lo sguardo fisso al tavolo, le membra stanche per la tensione nervosa e le dita impegnate a giocare con uno degli anelli gemelli. Aveva lasciato quello della Rigos a ruzzolare sul tavolo, finché quello non aveva smesso di rotolare tintinnando furiosamente e fermandosi di colpo. L’altro, invece, se ne stava ancora sull’anulare. L'aveva guardato con uno sgomento crescente, sentendo il senso di colpa farsi sempre più ingombrante, meno gestibile. Più dirompente. Lo sentiva crescere, premerle il petto e stringerle il cuore, ma sapeva, nel profondo, di essersi meritata ogni stilettata. Ogni delusione. Ogni dolore.
Le labbra avevano allora sfiorato il metallo freddo, appannando la superficie col respiro caldo. Voleva sentire la sua voce ancora una volta, ma sapeva di non meritarlo. Era consapevole di aver giocato col fuoco e di essersi bruciata più gravemente di quanto non avrebbe creduto possibile.

«Ci sei?»

Il silenzio aveva accolto quella domanda e trattenuto la risposta come un’anima egoista e arrabbiata, un'amante gelosa del lento scorrere del tempo sotto il suo potere. Ripeté quella domanda una seconda e poi una terza volta, finché la ragione non ebbe sgomitato dolorosamente per surclassare il sentimento. Era possibile che fosse davvero finita? Possibile che avesse perso, con l’intento di proteggere, l’unica persona che avrebbe davvero desiderato accanto per affrontare ogni cosa?
Non aveva potuto fare a meno di maledirsi, la cocente delusione alle stelle e l’incapacità di crederlo possibile per davvero. E se la verità danzava dinanzi a lei come la fiamma tremula di una candela, il vuoto che sentì crescere dentro di sé al principio della realizzazione fu enorme. Aveva perso Mike.
Ed era soltanto colpa sua.

~

Il respiro quieto di Fiona era un balsamo per la rabbia che sentiva di provare. Cresceva e diminuiva, mano a mano che le immagini di giorni trascorsi insieme s’inseguivano nel buio che i suoi occhi non vedevano. Era tutto lì, compreso il momento in cui l’aveva visto smarrito e preoccupato per la sua assenza; era lì, quando la sua razionalità aveva prevalso sui sentimenti e la verità aveva lasciato il posto all’omissione.
Quante volte gli aveva mentito? Quante volte aveva scelto consapevolmente di non rivelargli quanto le stesse accadendo? L’unica cosa che aveva saputo affidargli era stata la paura di saperla in grado di sbirciare nella sua mente. La prima crepa, se di una piccola breccia si poteva parlare, era stata proprio quella.
[ Smarrito in quella che considerava una delle sue più intime certezze, Mike avrebbe subito provato a liberarsi da quello scomodo e forte contatto con la sua mano, restio a lasciar scoperto ciò che albergava nel profondo del suo animo.
Nonostante la pressoché totale assenza di segreti e la completa dedizione per Thalia, un’intensa reazione emotiva di spavento accompagnò quel momento sin quando non giunse una prima e inziale rassicurazione; dopotutto, l’idea che la Tassorosso fosse in grado di intrufolarsi tra le sue emozioni e i suoi ricordi era un qualcosa che Mike non era disposto ad accettare, non in quel primo momento. ] ~ Atto I, Scena I, Quinto piano
Sospirando a fondo, emerse dal ricordo del loro incontro e della rivelazione. Scostò in fretta le coperte e sedette irrequieta nel buio della camera da letto. La testa fra le mani aveva cominciato a tormentarla, le tempie pulsavano e l’angoscia cresceva. Lo aveva tradito senza averlo fatto davvero e la paura che aveva visto comparire in quegli occhi l’avrebbe accompagnata per il resto dei suoi giorni. “Nessun segreto” si erano detti. Eppure, lei possedeva soltanto quelli.
Mike non aveva risposto e l’anello non aveva comunque lasciato l’anulare. Era il suo posto. Lo era stato per un tempo interminabile e sereno. O almeno questo era quello che soleva raccontarsi quando pensava a lui.
Si alzò e lo fece svelta, i passi dei piedi nudi attutiti dalla moquette. Si era fatta largo tra le pile di vestiti della sorella, trovando infine un taccuino, una piuma e dell’inchiostro, ma anche la bacchetta. Non poteva tenersi tutto dentro. Non poteva e basta. Percorse il corridoio stretto e le scale ripide in religioso silenzio, come una ladra in casa d’altri, e tornò in cucina, accolta dalle mattonelle gelide e ruvide.
Cominciò a scrivere tutto, continuando ad omettere tutto, a parte lo stretto necessario. Non sarebbe stato facile continuare le proprie esistenze in parallelo, con quelle scale a cui piaceva cambiare e con i pranzi e le cene nello stesso luogo. Le ronde, poi, sarebbero state una vera spina nel fianco.
Eppure, non era lei a non sentire più nulla. Lui era ancora lì, da qualche parte.
L’anello però non mentiva. La magia non conosceva menzogna.
Scrisse a lungo e cancellò con vigore quelle righe d’inchiostro troppo complicate, poco spontanee. La sua calligrafia ordinata riempì uno, due, persino tre fogli. E quando tutta la verità fu giunta finalmente a galla, fu il turno del legnetto di salice. I fogli stretti in una mano, la bacchetta nell’altra.
«Ardesco
Le fiammelle vibrarono nel focolare di pietra e restò ammaliata dal gioco di luci ed ombre, finché il suo Elemento non l’ebbe richiamata all’ordine con l’istinto di porre fine al contrasto tanto evidente. Vi gettò i fogli appallottolati e li guardò divenire cenere. Scrivere tutto non aveva avuto altro senso se non quello di realizzare la portata della sua perdita.
Per una donna che non aveva mai incontrato e una vita che non aveva mai davvero vissuto, aveva finito per perdere ogni cosa dell'unica esistenza che avrebbe davvero percorso. Sul tavolo un quarto foglio giaceva scritto a metà, sulla busta ormai pronta era già riportato l’indirizzo del destinatario.
Pochi minuti più tardi, seduta sul davanzale dell’abbaino in soffitta, Thalia ammirò la bellezza di una Londra addormentata, il silenzio ottundente e Clio - la sua civetta - divenuta un puntino bianco nella notte oscura. Col senno di poi, forse, si sarebbe pentita per la scelta di quelle parole e, dopotutto, avrebbe potuto aspettare. Ma Martha aveva ragione: aspettare ancora, lasciare tutto in sospeso, non sarebbe servito a nessuno. Se aveva deciso di lasciarlo andare, doveva farlo e basta. Aveva tergiversato, così come sapeva fare lei sola, e alla fine quel temporeggiare l'aveva costretta a fare i conti con la propria incapacità di gestire un sentimento che non era svanito, ma era stato in parte sostituito. Non poteva permettere a Mike di restarle accanto, non quando lei - pur amandolo - non avrebbe potuto proteggerlo da se stessa. E se lei non fosse stata una minaccia sufficiente, lo sarebbe stata Cordelia - col suo veleno e la sua rabbia, pronta a sacrificare ogni cosa. Non poteva gettare Mike in una mischia a cui non apparteneva per amor suo e se solo fosse stata sincera, lui avrebbe capito. Invece, tesa nell'obiettivo di proteggersi e tutelare chi le stava accanto, aveva finito per isolarsi e nascondere i propri fardelli. Ora la minaccia era troppo grande per essere condivisa. Mike meritava di più di semplici omissioni e complicate bugie. Meritava di essere libero. Di essere felice.

L’indomani, dita frementi avrebbero aperto quella busta. Ne sarebbe uscito un gioiellino rotondo, del diametro di un dito. Un anello che Mike conosceva fin troppo bene ed era identico al suo. Un biglietto, con una frase, ne avrebbe motivato la presenza.

Non funziona più.


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Cork
Ultima settimana di Dicembre


Si era nel bel mezzo dell’inverno a Cork, le stradine lastricate del centro storico brulicanti di vita semplice e quanto mai lieta in quel periodo dell’anno. Il Natale era trascorso solamente da pochi giorni, le pance erano ancora piene e gli avanzi - per chi ne aveva lasciati - erano stati portati a coloro che non avevano avuto poi la grossa fortuna di godere di una tavola imbandita. Con le mani giunte a coppa davanti alle labbra infreddolite, soffiava il proprio respiro caldo alla ricerca di tepore per le dita intirizzite. Come al solito, aveva dimenticato i guanti. «Mai una volta che pensi a quello che fai, vero?» l’acidità di Leanne le scivolò addosso come acqua, mentre la donna procedeva spedita lungo la via principale. Rispose col silenzio, l’unica arma in grado di suscitare una vera reazione di resa nella strega, e la udì borbottare qualcosa di altrettanto offensivo - velato, ma non troppo, in puro stile Leanne Lynch. Chissà perché sua madre odiava tanto il Natale.
*Forse perché il nonno se ne è andato poco prima?* Non la reputava una risposta sufficiente, ma del resto con Leanne non esistevano logica e razionalità. Ragionava con la pancia - come diceva suo padre - da vera Grifondoro qual era stata.
Si fermarono allora in una specie di sala da tè, uno di quei posti che lei - poco avvezza a merletti e trine - avrebbe evitato come il Vaiolo del Drago. Era certa che sua madre avesse un piano, uno di quelli che a Thalia non sarebbero piaciuti affatto e la cui presenza poteva percepire nell’aria al pari di elettricità statica. Come da copione, le pareti del locale erano decorate con ghirlande infiocchettate, pungitopo e bacche rosse di agrifoglio, in vero stile natalizio; un alberello di Natale decorato sulle tinte del rosa e dell’argento - un vero schifo a parer suo - era proprio accanto a Leanne, mentre le teneva la porta aperta. Sua madre gli passò accanto con uno sguardo disgustato e tirò dritto per la propria strada, diretta all’ultimo tavolino disponibile in fondo all’unica grande stanza. Una volta seduta, Leanne le si parò davanti coi suoi modi marziali, esaminandola con cura mentre si svestiva del comune cappotto babbano e della sciarpa di lana morbida e bianca sferruzzata da Shyneid poco prima del suo ritorno da Hogwarts per le feste. Fingeva di non accorgersi del fatto che sua madre la stesse squadrando da capo a piedi, analizzando ogni suo gesto nella più completa e razionale serietà. Aveva in mente qualcosa, cercava di captare pensieri e sensazioni incrociando i suoi occhi che, ben addestrati, svicolavano in ogni direzione pur di non concedere a Leanne un vantaggio netto. Quando sedette, lo fece a capo chino, quasi in atteggiamento remissivo. Proprio in quel momento un cameriere, non più grande di lei, si presentò a prendere gli ordini; tuttavia, decisa e con quel tono passivo-aggressivo che non prevedeva repliche di sorta, Leanne ordinò due tazze di cioccolata calda, senza panna. «Pe-perfetto.» biascicò quello in risposta, scribacchiando il tutto sul suo taccuino. Con la coda dell’occhio, Thalia lo vide sussurrare qualcosa in tono concitato ad una collega più matura e passargli - provando a non farsi vedere - la comanda. «Spaventi persino i camerieri.» mormorò divertita, concedendosi il lusso - ed in parte il rischio - di guardare sua madre dritta negli occhi. Del colore della terra, una calda sfumatura di marrone, le sue iridi non avevano smesso di esaminarla, ma chissà perché Thalia non se ne sentiva affatto minacciata. Leanne era calma, lo percepiva dalla rilassatezza delle spalle, sebbene le braccia poggiassero sul tavolino coi gomiti e le mani fossero giunte, con le dita intrecciate, sotto al mento. La linea delle labbra sottili era severa, immobile come una statua di marmo. Se non avesse visto il petto alzarsi ed abbassarsi lentamente, avrebbe pensato che fosse stata pietrificata sul posto. «Caposcuola.» disse soltanto e il tremito finale la tradì, confessando la prima nota d’orgoglio in diciotto maledettissimi anni. Per la sua nomina a Prefetto, Leanne non aveva nemmeno inarcato un sopracciglio. Del resto, Prefetti ce n’erano stati tanti. In quel caso, era soltanto uno dei molti. Per le sue figlie aveva sempre desiderato il meglio e per quanto Thalia fosse tesa allo scopo di compiacerla, Leanne non sembrava mai soddisfatta. Non davvero. Non fino in fondo. «E’ un grado che io non ho mai ottenuto. Dovresti essere fiera di te.» proseguì, prendendo il suo silenzio come un tacito assenso alla prosecuzione del discorso. Dal canto suo, Thalia sapeva dove sua madre sarebbe voluta arrivare. Prima Caposcuola e poi, magari, capo di qualche Ufficio al Ministero. Era un progetto ambizioso, solo ed esclusivamente di Leanne, che l’avrebbe voluta al suo fianco all’Ufficio per la Cooperazione Magica Internazionale. Erano anni che insisteva a raccontarle le sue riunioni, i suoi viaggi, le persone che aveva conosciuto. E ogni volta, per tutta risposta, rimaneva in silenzio con la consapevolezza che mai nella vita avrebbe accettato il ruolo di colei che aveva rinunciato alla famiglia per inseguire i propri obiettivi di carriera. Se i sentimenti avevano davvero avuto valore per lei, Leanne non l’aveva mai dimostrato. «Non è ancora certo, mamma.» rispose asciutta, facendo spazio alla cameriera - la stessa intravista poco prima - col suo vassoio e le due tazze di cioccolata. «Se mi hai parlato di voci di corridoio, vorrà dire che sono voci certe. Non si parla di cose che non si sanno o senza cognizione di causa. Non ti ho insegnato proprio nulla?» *Perché, dove sei stata?* gliel’avrebbe detto, ma si era morsa la lingua per evitare una scenata in piena regola tra una folla di sconosciuti babbani. Perché, poi, portarla lì? Fortebraccio era proprio a portata di Smaterializzazione - o quasi. «In questi giorni dovresti aver incontrato la tua insegnante per il colloquio di orientamento, non è vero?» fiera e impassibile, Leanne si diresse al nocciolo della questione con una determinazione pari ad un missile di precisione. Punto per lei.

Il colloquio con la McLinder si era svolto in una giornata di metà novembre, sotto il tiepido sole che aveva rischiarato i loro passi verso Hogsmeade. Tralasciò quel dettaglio, Leanne non aveva bisogno di sapere della passeggiata, ma solo di quanto la sua Capocasa le avesse consigliato. Il che, a conti fatti, non era poi molto. «Dovrei recuperare un po’ di Divinazione, secondo lei...» lasciò che quella frase si depositasse tra loro, come una foglia sospinta dal vento autunnale, mentre le labbra incontravano il primo sorso di cioccolata. Era insopportabilmente dolce - una qualità che non sempre le andava a genio, ma che in quel caso accolse come una benedizione. C’era bisogno di contrastare la tragedia in arrivo con una nota vagamente dolciastra. Leanne taceva e tutto intorno a loro sembrava esser stato inghiottito dal medesimo silenzio. Sembrava che tutti in quel locale aspettassero un suo intervento; quello, purtroppo, non arrivò. Appoggiando la tazza e sfregando i polpastrelli tra loro per dissipare il calore, chinò il capo ancora una volta, mentre la voce cominciava a stento ad uscire con la propria disarmante verità. «Non mi ha detto chiaramente se pensa che sarei portata o meno per un’occupazione specifica...» cercare le parole per indorare la pillola non era mai stato tanto difficile «...ma mi sembrava positiva nel constatare che non dovrei aver alcun problema con una certa mansione.» Le sopracciglia castane s’inarcarono con quella che doveva essere sorpresa, ma le rughe d’espressione sulla fronte indicavano disappunto. Thalia la conosceva troppo bene per non sapere che l’avrebbe incalzata presto con una domanda altrettanto retorica. «Una certa mansione? Non vorrai continuare a lavorare in quello sciocco negozio per il resto dei tuoi giorni.» A quel punto, furono i suoi occhi a fulminare l’altra e la risposta le uscì più asciutta di quanto non avrebbe voluto. «Non mi sembra di averti mai chiesto mezzo Zellino da quando lavoro lì. Quindi… non è così sciocco.» Bevvero entrambe in silenzio, evitando di guardarsi direttamente. Eppure, sapeva che lo sguardo di sua madre non l’aveva abbandonata per un solo momento. Così, decise di sferrare l’attacco - con buona pace di colui che avrebbe sentito le orecchie fischiare a poche miglia da lì. «Connor dice che sono diventata una discreta Occlumante.» *Per questo, se anche ci provassi, non caveresti un ragno dal buco* Usò discrezione, chinandosi e fissando la madre negli occhi, sussurrando quelle poche e semplici parole. Ciò bastò per colorare le gote di Leanne - invero più spigolose di quanto ricordasse - di una tonalità accesa di collera. Nominare suo nonno era perfetto per ottenere un po’ di vantaggio su di lei. Sarebbe rimasta zitta abbastanza a lungo, ammutolita dal disappunto, quel che tanto che le fosse bastato per proseguire in pace il proprio resoconto. «Probabilmente non farò l’Auror come lui. Forse punterò al Tribunale… o al San Mungo magari. Potrei persino tentare di entrare al Profeta. In fondo, che ti piaccia o no, io posso scegliere.» a quel punto curvò le labbra in un sorriso malizioso. Alla parola “Profeta”, infatti, le labbra stirate di Leanne erano state percorse da un fremito. Odiava il Redattore del giornale e odiava l’accozzaglia di falsità distorte che quello si ostinava a pubblicare. *Fedele al Ministero fino alla morte* pensò, distogliendo lo sguardo e osservandosi attorno. Sembrava una ragazza qualunque in compagnia della madre, col mento appoggiato sul palmo della mano e lo sguardo rivolto alle decorazioni tutt’intorno. Quando un anelito d’aria gelida spirò dalla porta spalancata, Thalia percepì le stretta di Leanne sul polso e fu costretta a voltarsi sentendo l’appoggio mancare del tutto. «Pensi di essere divertente? Lascia che te lo dica. Non lo sei.» la lasciò andare, accorgendosi d’aver stretto troppo, e rimase in silenzio a contemplare la forza con cui le sue dita affusolate - così simili a quelle della figlia - avevano impresso la sua frustrazione «Godi di benefici che io non ho mai avuto.» disse e, nel farlo, sospirò come a volersi togliere un peso «Sei figlia di un uomo che ha inseguito i suoi sogni. Nipote di un uomo che ha fatto di tutto per mettermi i bastoni tra le ruote. E poi ci sono io, che vi ho sacrificate» - il riferimento a lei, Fiona ed Iris non era mai stato tanto chiaro - «Per far sì che la mia posizione non potesse recarvi danno.» Trattenne il respiro e Thalia con lei, mentre massaggiava il polso per uno stupido riflesso. Ricordava una stretta simile. In un altro luogo e tempo. Da parte di qualcuno che non aveva più rivisto. Ed era strano associare quella situazione a Leanne e a quell’incontro ricercato con tanta veemenza nei giorni scorsi. Chiamarlo “ricatto” non faceva onore alla donna che le sedeva di fronte. «Lavorare per il Profeta è fuori discussione e non è negoziabile. E il San Mungo… hai stomaco, ma non così tanto quanto te ne servirebbe.» Thalia si aspettava sorridesse compiaciuta, ma in qualche strano e assurdo modo, Leanne trovava sempre il mezzo più veloce e impensabile per prenderla in contropiede. Un’altra tecnica appresa sul campo, o almeno questo avrebbe dovuto presumere. «Il Ministero è il tuo posto. Lo è sempre stato. E non c’è nulla di male nel corpo degli Auror» - il fremito all’angolo delle labbra tornò a dimostrare il contrario, ma lei non vi fece caso «Ma c’è un modo per ottenere quello che si desidera senza rischiare l’osso del collo. E vorrei che lo capissi.» «Dovresti dirlo a Fiona. E’ lei che è convinta di voler entrare al Quartier Generale. Io…» s’interruppe, mordendosi il labbro indecisa. Perché non dirle che aveva deciso? Perché tacerle ciò a cui aveva pensato e ripensato a lungo e che la McLinder non aveva reso del tutto impossibile? «Credo di voler tentare un’altra strada.» *Lo sai, non lo credi e basta* «Ma non è la tua, mamma. Non voglio lavorare nel tuo ufficio.» avrebbe voluto aggiungere un “mi dispiace”, a chiosa di quella che doveva apparirle una rappresaglia senza motivo. Eppure, era davvero mortificata di aver contribuito alla formazione di quell’espressione sul suo viso, la linea decisa della mandibola quasi meno marcata, e una sorta di pallore uniforme. Solo quando Leanne ricambiò il suo sguardo Thalia capì che attendeva il verdetto. «Forse farò domanda per il Wizengamot, magari come tirocinante… non lo so.» mormorò a bassa voce, percependo del movimento alle spalle «Ma voglio entrare nell’Ufficio Misteri. Credo che la mia strada sia… quella.»

Leanne non aveva mai approvato il suo sogno infantile di diventare Auror: erano cresciuti tutti - Desmond, lei e le sue sorelle, persino Matthew - con le storie rocambolesche di Connor, tutti acciambellati come teneri gattini davanti al caminetto della biblioteca, ammaliati dalla voce vivace, e talvolta lugubre, del vecchio mago. Solo Fiona aveva mantenuto vivo il sogno, tutti gli altri avevano deciso di intraprendere un’altra strada. Suo padre avrebbe voluto vederla giocare a Quidditch, zia Ellen sarebbe stata felice di mettere una buona parola per lei al San Mungo. Chiunque avrebbe accettato di buon grado di consigliarla sul modo migliore di gestire il proprio futuro, ma non Leanne. Non che le mancasse la spinta di essere una buona madre - almeno in quell’occasione -, ma aveva delle idee precise che non tolleravano cambi di registro. Quasi s’immaginava sua madre a tenerle al caldo una sedia e una scrivania accanto alla sua al Quinto Livello. Eppure, per quanto lo desiderasse, tutto ciò non sarebbe mai avvenuto. Percepì allora, seguendo il caleidoscopio di emozioni sul suo volto, il processo in atto nella mente della madre: stava cercando di combattere l’ostinazione, di apprezzare l’unica vera decisione che sua figlia - quella su cui segretamente riponeva ogni speranza - fosse stata in grado di prendere in quegli anni. Poi, come realizzando un qualcosa d’improvviso e impensabile, strabuzzò gli occhi e nominò l’unica persona a cui Thalia non aveva pensato.
«Drake Montgomery. Ti ha convinta lui?»
«Non lo vedo dalla scorsa estate, mamma, non credo proprio che c’entri qualcosa con la mia idea di entrare tu-sai-dove.» inarcò le sopracciglia con eloquenza, indicandole impercettibilmente la coppia babbana seduta da poco al tavolino accanto. Le loro cioccolate non erano che a metà, ma Leanne prese la decisione repentina di lasciare il locale lasciando a lei l’onere di pagare coi pochi spiccioli che Desmond le aveva regalato. Odiava il denaro Babbano, preferiva Galeoni, Falci e Zellini. “Come ricordo di questa piccola avventura” le aveva detto, lasciando i pochi euro a tintinnare nel suo palmo dopo una scorribanda - non del tutto alcolica - in un pub babbano poco lontano. Dopo aver pagato ed essersi scusata col cameriere con un sorriso timido che non le apparteneva, Thalia uscì e trovò sua madre impegnata a fissare il cielo grigio, mentre qualche fiocco di neve scendeva e s’impigliava tra le ciglia. «Quel Drake non mi è mai piaciuto.» aveva rotto il silenzio dopo qualche metro, evitando di guardarla, stavolta. Non voleva incappare per errore in ricordi che riguadavano quello che era stato uno scavezzacollo e la sua figlia maggiore «Sempre a trotterellare dietro a Desmond, come un Crup addestrato.» concluse, facendo spallucce sotto il suo sguardo incendiario. Non era di Drake che voleva parlare, ma di certo non le faceva onore parlare di lui in quel modo. Voleva sapere che cosa pensasse di quella scelta - capendo solo in quel momento quanto fosse importante per lei la sua approvazione. Aveva vissuto per anni nella convinzione che sua madre non avrebbe saputo ascoltare o capire, che nella sua testardaggine - che poi era la sua - Leanne si sarebbe ostinata ad insistere con le proprie idee. Invece, aveva taciuto. Contro ogni pronostico. Contro ogni buon senso. Si aspettava che sbraitasse, che agitasse le braccia come la pazza del villaggio e che maledisse il povero Drake - per chissà quale motivo, poi - per aver traviato la sua mente confusa sul futuro. «Se scegli tu-sai-cosa...» parlò allora, fermandosi a metà del viale pedonale che risaliva la collina, le mani in tasca e il vento contrario a scompigliarle i capelli davanti agli occhi. «Allora va bene. Va bene che tu scelga il tribunale. Va bene tutto quanto.» *Sul serio?* Le labbra sottili di Leanne si curvarono in una lieve smorfia divertita, così innaturale sul suo volto da farla apparire del tutto diversa. Fu come se, all’improvviso, il sole avesse illuminato quella giornata attraverso uno spiraglio di nuvole violacee e minacciose di pioggia. Leanne, del resto, sorrideva di rado e scoprirla in quella veste le faceva bene al cuore. Le sorrise di rimando, immaginando che - dopotutto - anche il suo giudizio, di tanto in tanto, potesse essere sbagliato.


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I frammenti da qui in avanti costituiscono un ciclo a se stante, che corre tuttavia parallelo ai fatti narrati sino ad ora. Drake è un PNG nato molto molto tempo fa, un personaggio che ha avuto (ed avrà) un peso nella vita di Thalia.


Londra
Thalia: 18 anni
Drake: 25 anni


«Buona serata, e torni presto a trovarci.» un sorriso, il solito di circostanza, e un’ultima corsa a voltare il cartellino del negozio sulla parola “CHIUSO”. Era un sabato sera uggioso di fine febbraio, con tutta l’aria di non voler migliorare prima del mattino successivo. A testa china, aggiornava l’inventario con le vendite della giornata, contando gli zellini impilati in colonne perfette sul bancone di vetro. *Ancora un paio di minuti e poi sarò libera.* Non vedeva l’ora di spegnere le luci e andarsene, immaginando la cena in Sala Grande e il tepore della lunga stanza affollata.
Lo scampanellio della porta e il ruggito di un tuono la distolsero dalla sua occupazione principale, senza tuttavia sollevare il capo. Accadeva spesso che i clienti ritardatari ignorassero il cartellino appeso al vetro e lei aveva semplicemente dimenticato di chiudere a chiave l’uscio. «Siamo chiusi, mi spiace...» biascicò, riportando la cifra sul libro mastro. Si mordicchiava il labbro inferiore, l’espressione concentrata sui numeri più che alle parole dello sconosciuto. «Ma davvero?»
Le bastò una parola per sollevare il capo di scatto e trovarsi faccia a faccia con Montgomery. Se la sua lontananza dal Maniero aveva portato qualcosa di buono, era stato quello di mettere una distanza considerevole tra lei e Drake. «Ciao Jean.»
Erano trascorsi pochi mesi dalla loro scampagnata al lago Blarney, un viaggetto tutt’altro che quieto considerato il loro incontro con una manciata di Berretti Rossi e l’intervento provvidenziale di Drake aveva salvato lei e Desmond da uno spiacevole incidente. Allargò le braccia sul bancone, abbandonando piuma, inchiostro e pergamena, puntellandosi e stringendo i bordi di legno.
«Che sei venuto a fare?» il tono di voce tradiva un certo nervosismo, frutto di anni e anni di antipatia elargita a stento. Aveva dovuto essere gentile con lui, condividere il suo cibo e i suoi affetti con quel povero cucciolo abbandonato. Fiona lo adorava e qualcosa le diceva che avesse una cotta per lui da tempo immemore. Certo, in un assurdo e strano modo poteva capirla: fermandosi all’aspetto fisico, Drake era davvero attraente. Poi, quando apriva bocca, le braccia letteralmente le cadevano a terra, completamente senza vita. Non sapeva dire se fosse per l’accento marcato del sud-est di Londra o se per il fatto che, volente o nolente, lo conosceva fin troppo bene e sapeva esattamente che non avrebbe fatto nulla senza aver mirato prima a qualcosa in cambio.
«Des mi ha detto che lavoravi come Garzona… ma non ci credevo. Dovevo vedere coi miei occhi.» ridacchiò, girando su se stesso e ammirando l’interno di Zarathustra. «Non tutti possono permettersi di lavorare al Ministero con una posizione di prestigio.» *Che ti sei guadagnato solo in parte.* Anche in quell’occasione, Drake sorrise.
«Hai finito, giusto?» Annuì.
«Bene, allora spicciati che dobbiamo andare in un posto. Prenditi quello che ti serve.» incrociò le braccia al petto, con tutta l’intenzione di non muoversi d’un millimetro finché la sua richiesta non fosse stata accolta. Trattenne a stento un’imprecazione e scivolò tra le cortine che la separavano dal retrobottega. Che diamine ci faceva lì? Perché non era al Ministero a perorare cause perse? Uscendo dal negozio impiegò un tempo infinito per sigillare l’accesso e per qualche minuto camminarono verso il centro della città nel completo silenzio. Pioveva ancora, ma Drake si era rifiutato di comportarsi da mago in un quartiere per lo più babbano. Così, aveva aperto un orrendo ombrello verde - che forse sarebbe stato visibile da distanze siderali - e l’aveva costretta a cingergli il braccio col proprio, affinché non si bagnasse. «Connor non vorrebbe diventassi un pulcino infreddolito, ti pare?»
Fu stringendo le dita intorno al braccio che si rese conto di che cosa indossasse. «E’ la solita giacca?» chiese inutilmente. Certo che lo era. L’aveva impressa a fuoco nella memoria da ben cinque anni. Non avrebbe dimenticato lo sguardo indignato della signora Callahan - una lontanissima parente - quando Drake era entrato in casa quella sera. «Ovviamente. Mi porta fortuna di solito.» «Te ne serviva oggi?» lo trattenne d’istinto, senza una reale motivazione, con l’unico scopo di farlo voltare. Voleva una risposta, anche solo per capire dove stessero andando con tanta segretezza.
«Me ne serve sempre, Jean. Specialmente stasera.»
Non chiese nient’altro, non osò farlo. Con Drake non esistevano il bianco o il nero: viveva perennemente in una zona grigia tanto infida quanto la nebbia della città nella quale erano piombati svoltando l’angolo. Montgomery chiuse l’ombrello e se ne sbarazzò con gesto lesto, buttandolo tra i rifiuti ammassati ai piedi di un cassonetto in un vicolo.
«Ma che fai?»
«Oh, non era mio. L’ho trovato lungo la strada, l’ho riparato e l’ho usato. Ora non serve più.» e così dicendo aveva proseguito, le mani nelle tasche di un paio di jeans e il passo baldanzoso che gli era consueto. Lo osservava camminare solitario, solo a un metro da lei, e non lo riconosceva. Non era avvezza a quel genere di comportamenti e cinque anni trascorsi lontano da lui avevano aumentato la distanza tra loro in un modo strano e totalmente assurdo. Era come se non lo conoscesse o se non fossero cresciuti insieme. Certo, persino quella era un’esagerazione. Per crescere insieme a qualcuno non bastava condividere un tetto, un pasto caldo ed essere vittima dei reciproci scherzi.
In questo, Desmond aveva avuto gran voce in capitolo e sempre ne avrebbe avuta.
«Des lo sa che sei qui?» A quella domanda, Drake arrestò il passo. Fece dietrofront e rimase immobile a guardarla, dandole l’impressione che la stesse vedendo - non semplicemente guardando - per la prima volta. «Non deve sapere tutto.» e abbozzò un sorriso sghembo «Che c’è? Hai paura di scoprire dove ti porterò? Des dice che te la cavi bene sotto pressione.» e camminò per un po’ all’indietro con un’espressione sorniona dipinta in volto, prima di riprendere il verso giusto e il passo cadenzato. Quando raggiunsero un quartiere residenziale distinto, con edifici in pietra bianca e tutti uguali tra loro, sembrò indeciso a quale porta avvicinarsi. Non capì che cosa volesse da lei finché non lo vide risalire di corsa una rampa di scale facendole cenno con la mano d’avvicinarsi. Quando lo raggiunse, il sorriso gli sparì dal volto. La mano stretta al pomello della porta, indugiava. «So che non ti fidi di me.» il sopracciglio inarcato di lei lo fece sorridere, ma proseguì con il tono serio e compassato «Devo molto alla tua famiglia. Connor… è stato come avere un padre. Lo capisci?» Lo capiva. Suo nonno aveva molti difetti, primo tra tutti l’idea di possedere la conoscenza del mondo e delle sue leggi, ma tra i suoi pregi non mancava certo l’accoglienza. Ed era per questo che più il tempo passava e più la nostalgia del maniero e dei suoi abitanti la logorava piano piano dall’interno. Quando Drake parlò, interrompendo il flusso dei suoi pensieri, lo fece portando alla luce il suo sorriso sghembo, quasi malandrino «Tua madre mi ha chiesto se ti avessi convinta io a scegliere il Wizengamot. L’ho fatto?» «Non direi.» Sospirò di sollievo e aggiunse «Meno male. Non avrebbe sopportato l’idea che ti avessi plagiata fino a questo punto.»

Quando la porta si spalancò rivelò l’interno di un corridoio lungo e stretto, pareti bianche e una rampa di scale lucide e nere illuminate a malapena dai lampioni pubblici sulla via. Drake le fece strada, ma non accese la luce e Thalia non se ne chiese il motivo. Quella sera era tutto così strano da non dover pensare troppo all’assurdità di quanto stesse vivendo. Non sapere dove fosse, di norma, l’avrebbe indotta a tenere un profilo basso, guardingo quasi; eppure, la sola presenza di Drake la rendeva calma. Che cosa poteva accadere di male se lui era con lei? *Assolutamente nulla.*
Sarcasmo, anche in quel momento.
«Fai piano e seguimi.» perentorio le chiuse la porta alle spalle, levandosi la giacca e appendendola al corrimano. Fu allora che udì un lamento, smorzato da una porta chiusa, provenire dal piano superiore. Drake non ci fece caso e, per quanto turbata e col desiderio di andare a sbirciare senza ritegno, scivolò nel buio corridoio, finché non lo trovò in cucina - finalmente con una luce accesa. Indossava un maglione bianco, piuttosto semplice, e si stava versando un bicchiere di vino. La bottiglia aperta era sul bancone e un secondo calice attendeva di essere riempito. «Su una cosa Maghi e Babbani concordano: l’età per bere è 21 anni. Quindi tu non puoi e purtroppo non ho nemmeno del succo di zucca da offrirti.» e senza staccarle gli occhi di dosso, bevve il primo sorso assaporando ogni singola goccia. Pareva godersi ogni singolo attimo di quella piccola tortura. Si limitò a guardarlo, le braccia conserte al petto e il mantello di traverso. Più lo guardava e più aveva voglia di strozzarlo. Perché portarla in quella casa? Chi c’era al piano di sopra? «...ma non credo sia questione di potere.» disse e cominciò a riempire il secondo calice come aveva fatto col primo «E’ questione di volere.»
Aveva concluso la sua arringa come avrebbe fatto in un tribunale, implorando un'immaginaria giuria di considerare tutti i fatti e le infinite possibilità. V’era il ragionevole dubbio, mentre lo osservava spingere verso di lei il calice, che volesse azzardare ad una mossa simile. Eppure, dove voleva arrivare?
«Di chi è questa casa?» chiese, il tono falsamente svogliato. Il marmo freddo aveva cominciato ad assorbire il calore delle sue mani e da quello si originò la forza per altre domande «Chi c’è di sopra?» e l’ultima, quella fondamentale «Che ci faccio qui, Drake?»
«Questa casa è mia.» enumerò le risposte con le dita, divertendosi più di quanto avrebbe voluto dare a vedere «Mia madre è al piano di sopra e sì, c’è un motivo se sei qui. Siediti e te lo spiego.» indicò due sgabelli e ne prese uno per sé. La guardava e nel percepire i suoi occhi su di sé, Thalia pregò perché una lampadina si fulminasse all’improvviso. Il silenzio calato era assordante, rotto solamente dal ronzio della serpentina di un frigorifero e dal passaggio dell’acqua nelle tubature degli appartamenti vicini. Drake taceva, ma non la fissava più; gli occhi marroni vagavano all’inseguimento delle bollicine nel bicchiere, ammassate sulla parete curva del vetro. «E’ un po’ che non vado al Maniero.» mormorò alla fine e sembrò che gli fosse servita una forza immensa per pronunciare quelle parole «Connor sta bene?»
«Certo. Lo sai che non lo piega nulla.» inspirò a fondo, prima di esalare nuovamente una domanda indiscreta «Perché si lamenta?»
Gli occhi si rivolsero al soffitto e quelli di lui fecero lo stesso. «Mia madre non sta bene. E’ malata… una di quelle cose babbane che hanno a che fare con la memoria.»
Improvvisamente, sentiva di non aver più nulla da dire. S’era dipinta sul volto di Drake l’espressione addolorata di chi non sappia che cosa fare per risolvere un problema; doveva apparirgli chiaro il fatto che qualcosa, nella figura di Patricia Montgomery, si fosse infine rotto irrimediabilmente. E lui, unico figlio di quella donna ancora così giovane, non poteva farci assolutamente nulla. «Mi… mi dispiace. Davvero.»
«Ho bisogno di chiederti un favore, Jean.» mormorò, ma nel farlo non la guardò mai in viso. Nemmeno una volta. Drake era abituato a raggiungere i suoi obiettivi in maniera maniacale: si diceva fosse un Avvomago di tutto rispetto, un genio indiscusso dentro e fuori il Wizengamot. Ed era giovanissimo, rispetto ai colleghi, ragion per cui viveva l’idillio e il prestigio d’esser il migliore del suo campo senza poterne godere davvero.
«Che genere di favore?»
«Connor mi ha rivelato alcune cose su di te.» inspirò e raccolse il coraggio a piene mani per dire ciò che sapeva l’avrebbe fatta infuriare. «Mia madre mi sta dimenticando. E credo sia perché… perché le ricordo l’uomo che le ha spezzato il cuore.» rise, affondando il viso tra le mani. La sua voce gli giunse allora ovattata, ma quando parlò e le disse ciò che doveva dirle, Thalia rabbrividì.
«Non lo farò, Drake.» rispose, scattando in piedi «Non posso insinuarmi nella sua testa e strapparle qualche ricordo per te.»
«Non lo faresti a prescindere o solo perché te lo sto chiedendo io? Sappi che lo farei da me se potessi.» si alzò e la fronteggiò apertamente, gli occhi fissi nei suoi e la linea severa delle labbra sottili. «Non lo farei perché è sbagliato.» la risposta giunse a denti stretti e lui incassò il colpo senza batter ciglio «E che cos’è giusto, Jean? E’ giusto che muoia dimenticandomi? Non sapendo chi è o che cosa ne è stato della sua vita? Se tu potessi...» «Non voglio, Drake. E sono offesa per il solo fatto che tu me l’abbia chiesto.» aveva alzato il tono di voce e Patricia si era lamentata ancor di più. Trattenne il respiro fino a che il suono della sua voce non si attutì e senza motivo gli occhi le si riempirono di lacrime. «Come puoi pensare che farei mai una cosa simile? Solo perché ne sono in grado… non significa che voglia farlo.»
Aveva avuto ragione nel pensare che fosse stata tutta una messinscena: il negozio, la passeggiata, l’invito in casa sua. Voleva solamente sfruttare la Legilimens che era.
«Non è stato Connor a dirtelo. L’hai scoperto da solo. Al Ministero.» la rivelazione le impedì di versare ulteriori lacrime e fu con incredulità che lo guardò da lì in avanti. Drake non disse una parola a riguardo, ma concentrò la sua apologia esclusivamente su se stesso.
«Hai ragione, non avrei dovuto chiedertelo.»
«No, non avresti dovuto.» raccolse il mantello, scivolato sul pavimento, e si avviò al buio all’uscita. Quand’ebbe raggiunto la soglia, il lamento di Patricia Montgomery l’accompagnò, mentre lo sguardo restava ancorato alla giacca di pelle appesa al corrimano. Dopo essersi Smaterializzata, facendo ritorno al Castello, maledì con tutta se stessa il giorno in cui Drake Montgomery era entrato nella sua vita. Erano trascorsi dieci anni.


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I frammenti da qui in avanti costituiscono un ciclo a se stante, che corre tuttavia parallelo ai fatti narrati sino ad ora. Drake è un PNG nato molto molto tempo fa, un personaggio che ha avuto (ed avrà) un peso nella vita di Thalia.


Cork, Irlanda
Dieci anni prima del loro incontro presso Zarathustra.

Thalia: 8 anni
Drake: 15 anni


Il suo primo ricordo di Drake Montgomery risaliva all’infanzia: una giornata di luglio terribilmente calda, un gelato gocciolante dalle mani del cugino in fremente attesa dinanzi alla stazione dei treni di Cork e troppa, davvero troppa gente tutt’intorno. Era arrivato da Dublino, ma viveva a Londra. Il suo accento del sud-est londinese (l’avrebbe riconosciuto soltanto anni più tardi) era così odioso da farle arricciare il naso ogni qualvolta quello aprisse bocca, che fosse per un complimento sulla cucina di Shyneid o per uno sciocco commento sul paesaggio. Continuava a ciarlare di tutto e di niente e, per quel poco che ebbe a che fare con lui quell’estate, Thalia sarebbe stata ben contenta di ammutolirlo con un incantesimo. Certo: questo se avesse avuto a disposizione una bacchetta e l’adeguata preparazione magica per usarla. Era un ragazzo alto e dinoccolato per la sua età, dalla pelle olivastra e i capelli corvini. Non era certa del perché, ma il sorriso che le aveva rivolto quel giorno, le aveva lasciato intendere che non sarebbe rimasto con loro soltanto per quell’estate.
E i fatti, nemmeno a dirlo, le diedero ragione su tutta la linea.
Connor lo aveva definito il galoppino di Desmond, suo amico per la pelle e fratello mancato, la stessa definizione che Leanne avrebbe dato di lui qualche anno più tardi. Per lui, Drake avrebbe fatto qualunque cosa e le conversazioni origliate in gran segreto, che i due amici scambiavano nel solarium, si rivelarono sempre foriere di interessanti informazioni. Pareva che l’ospite avesse messo una buona parola per Desmond con la ragazza che gli piaceva e, per ottenere il giusto scopo, avesse approfittato della questione per uscire con l’amica di lei, una certa Elaine. Crescendo, Thalia avrebbe imparato che la parlantina di Drake Montgomery non sarebbe servita solamente ad ottenere privilegi e favori per gli amici di lunga data, ma che - in sostanza - egli ne avrebbe fatto sfoggio per ottenere qualcosa anche per se stesso. Accorto e misurato, Drake non sembrava provenire da un quartiere povero, ma suo nonno le spiegò che l’amicizia di Desmond e Drake era nata da una comune origine: entrambi erano cresciuti senza padre, figli di madri lavoratrici e che Desmond, suo cugino, fosse stato ben più fortunato del suo amico del cuore. «Vive in un piccolo appartamento. Sua madre non ha idea di che cosa sia la magia e sospetto che il padre, un poco di buono... beh. Non si è comportato bene. Vorrei solo che capisse che non tutti gli uomini sono vigliacchi come lo è stato lui.» fu pronunciando quelle parole che la guardò con un sorriso di scuse; talvolta dimenticava che sua nipote avesse soltanto otto anni e che, in fin dei conti, ignorasse la maggior parte delle interazioni tra un essere umano e l’altro, non sapendo affatto ciò che le aveva cagionate in prima istanza. Era in momenti come quello, di solito, che la bambina faceva spallucce e si limitava proseguire con la sua esistenza pacifica. Aveva ben altre gatte da pelare, insomma: praticare escapismo da soffitte buie e piene di ragnatele, escogitare agguati al cugino e al suo compare di malefatte e sfuggire da Fiona, la qual cosa era quanto più di stressante vi fosse nella sua infanzia. Rimirava il desiderio di trovarsi ad Hogwarts come si guarderebbe ad un obiettivo irraggiungibile, un oggetto costosissimo o al cibo preferito che speri di trovar nel piatto inaspettatamente per cena. Insomma, anelava all’indipendenza e tutti - persino Drake - si frapponevano tra lei e il suo sogno nel cassetto.
Col passare dei giorni, la piccina era andata facendosi l’idea che il loro ospite fosse strano, ma non più di quanto lo fossero tutti gli altri. Era evidente che nascondesse qualcosa, uno stato d’animo - quasi - di cui si vergognasse; rideva sempre e molto sguaiatamente per ogni cosa, ma soprattutto pareva desiderare sempre di più qualcosa di altrimenti inarrivabile. Che si trattasse di una porzione doppia di arrosto e contorni o di ascoltare una storia in più su Auror e inseguimenti a Maghi Oscuri poco importava: a Drake interessava solamente di essere sazio di ogni cosa più di quanto non fosse mai stato prima d’allora.
Thalia lo aveva osservato a lungo nei pomeriggi che i due amici trascorrevano insieme, riuniti nel solarium a sera tarda, con le cicale a frinire nell’ombra e una falce di luna nel cielo. Covava per quel ragazzo di appena quindici anni l’interesse che si prova per le cose sconosciute e si vuol per forza trovare il modo di capire, anche se - col senno di poi - avrebbe imparato a proprie spese quanto forse sarebbe stato meglio rimanere immersa nella propria ignoranza.
Connor si comportava con lui come il padre che era stato per Desmond, facendosi sostituire di tanto in tanto da Seamus; non era innaturale per lei scorgere i quattro nel giardino retrostante il maniero, imbracciando ciascuno un manico di scopa e una Pluffa vecchia di decenni - ad eccezione di Connor, naturalmente, eletto a giudice supremo di qualsiasi partita o bega in corso. Giocavano per ore, senza stancarsi mai, ma a lei non era concesso di volare - ordine perentorio di sua madre - e così a braccia conserte malediva la Sorte che l’aveva voluta femmina, di età inferiore alla loro e con una madre drasticamente invadente. In un certo qual modo, la presenza di Drake aveva reso Leanne più guardinga e restia all’accoglienza, qualcosa che persino suo padre aveva notato e per la quale avevano discusso e dibattuto per una nottata intera. Quel ragazzino non le piaceva proprio e sembrava studiare i Moran come se avesse desiderato diventare uno di loro.
«Io so che cosa significa provarci. E ti assicuro che non è per nulla facile.» andava dicendo la strega, scoccando al giovanotto lontano sguardi infuocati. Se Thalia aveva cominciato a nutrire una certa diffidenza nei confronti degli estranei, col senno di poi, aveva capito da chi avesse preso davvero quel tratto del proprio carattere.
Così, giorno dopo giorno, Drake s’innestava nella loro famiglia come un ramoscello d’una pianta diversa che avesse bisogno di cure e attenzioni, al pari d’un parassita che covasse la necessità d’un corpo da ospitare. Mangiava e viveva con loro una quotidianità rodata in anni ed anni di esercizio, adattandosi ad essa con un’abilità che a Thalia - anni dopo - sarebbe parsa quasi sospetta. Eppure, non poteva esimersi, nemmeno ad otto anni, dal pensare che fosse in fondo un bravo ragazzo, forse un po’ sopra le righe, ma spinto da buone intenzioni. Certo, lo pensava quasi sempre, e cominciò a farlo con minor favore quando anche lui - proprio come il cugino - cominciò a storpiare il suo secondo nome.

In quel momento era cominciata la sua crociata personale contro Drake Montgomery.


© Thalia | harrypotter.it

 
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Gli eventi descritti si collocano a circa un anno di distanza dal frammento ( x ) e a pochi giorni dagli eventi accaduti in questa quest ( Palpebre ).


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Ogni colpo è deciso, pelle e legno, come se la materialità e la sostanza delle cose fossero l’unico appiglio rimasto. Si aggrappa con forza al nero, a quel colore che sembra esserle diventato amico all’improvviso e che, ironico come sia cambiata la sua vita in pochi istanti, la circonda ovunque posi lo sguardo. L’oscurità la cerca, la trova e la reclama.
Sono gli occhi leggermente allungati, quasi a mandorla, che la scrutano da dietro una tenda bianca e restano immobili, stupiti di vederla.
Ha giurato di non tornare.
Eppure è lì.
Il cigolio dei cardini accompagna l’apertura dell’uscio che supera, incurante della persona - scalza e con i capelli arruffati - che aspetta un suo cenno.
Tace. L’unica cosa a cui riesce a pensare è che deve muoversi, non può restare ferma. Non può tornare a casa, non può affrontare la sua famiglia. Non adesso. Non in questo stato.
E’ turbata, si capisce dagli occhi arrossati, dai graffi rossi e leggeri sulle guance troppo bianche. Sembra malata, ma la verità è ben lontana da ciò che si può immaginare.
Il padrone di casa chiude la porta, in silenzio, rispettando quel codice di comportamento di cui ignora il linguaggio. Si spinge avanti per emulazione, percorrendo i passi di lei, sperando che questo possa dargli un indizio del perché, alla fine, Thalia Moran si trovi nella sua cucina.

Si appiglia al lavello, stringe i bordi di marmo, bianco come le sue nocche. E’ rigida, ma c’è un tremore di fondo che non svanisce e lui, incapace di azzardare una qualsiasi forma di dialogo, la osserva.
Quando si volta, lo trova seduto al bancone, in paziente attesa.
Lo scruta in tralice, tra il timoroso e l’arrabbiato, come se Drake Montgomery fosse la fonte dei suoi problemi e, allo stesso tempo, ne fosse la risposta. E’ rilassato, con le dita intrecciate sul piano di lavoro; lo sguardo risale gli avambracci scoperti, da lì le spalle.
Ora che lo guarda meglio, si sente una stupida. Si rende conto di essere piombata in casa sua senza preavviso.
Non sarebbe dovuta andare nemmeno lì.

Il fischio acuto della teiera la fa sobbalzare e l’istinto ha il sopravvento prima che possa pensare lucidamente a quello che sta facendo.
Mentre la lamiera sottile si contorce per l’implosione, Drake non muove un muscolo. Thalia, invece, ansima.
«Avevo capito che qualcosa non andava, ma… far esplodere gli oggetti era il mio passatempo, non il tuo.»
Le sfila la bacchetta dalle mani e solo in quel momento si accorge di essere stata l’artefice del suo stesso batticuore. E’ tesa come una corda di violino. La pace è un lusso di cui non gode.
Istintivamente e contro ogni logica, mette da parte qualsiasi ostilità possa aver nutrito nei suoi confronti. E’ un gesto meccanico quello che ignora la privazione della bacchetta e cerca un contatto diverso, più intimo. Ha bisogno di restare ancorata alla realtà, qualunque essa sia. Qualsiasi cosa, pur di sfuggire al buio che la circonda.
Così, anche la pelle olivastra, calda al contatto con la guancia fredda, diventa piacevole. Mette in salvo quella mente confusa, scegliendo - in un gioco perfetto di geometrie casuali - di appoggiare la testa, solo per un momento, nella piccola cavità tra clavicola e spalla.
Ha paura di cadere vittima di se stessa, più di quanto già non sia, e allora si aggrappa ancora di più, cingendogli la vita con le braccia tremanti.
Non importa quanto Drake sia odioso. Lui è il solo che possa capire quanto le è costato tutto questo. Ed è l’unico che possa proteggerla, solo temporaneamente, dai mostri del suo passato. Finalmente è al sicuro.
Ed è allora che l’oscurità l’avvolge completamente.

Un profumo speziato le solletica l’olfatto e lentamente la luce torna nel suo campo visivo.
Drake è seduto sul tavolino da salotto, con un piatto fumante di pollo al curry al fianco. Le porge un bicchiere d’acqua e le sorride incoraggiante. Lo guarda con diffidenza e si aspetta che lui semplicemente lasci perdere.
«Non è Veritaserum.» borbotta canzonatorio «Confido che tu mi dica quel che devo sapere senza coercizione.»
La scruta dalla sua posizione privilegiata, quella che potrebbe inchiodarla sul posto senza fatica, con o senza magia. La vede guardarsi attorno, un misto di paura e ansia negli occhi grigi. Qualcosa che non ha mai visto.
«Grazie
Si risolve a rispolverare le buone maniere, almeno in ultima battuta, ma il ritorno alle origini finisce lì.
«Sei arruffata, sporca e sembra che ti sia azzuffata con un cane randagio.»
Le passa una pezza umida sul viso, come si farebbe con un bambino inzaccherato di fango dalla testa ai piedi. Non è arrabbiato, semmai… curioso. Le sfiora le ginocchia con l’indice, lì dove le calze si sono strappate e la manica sgualcita, la cucitura sulla spalla allentata, è l’altro indizio che l’ha indotto ad elaborare una spiegazione facile e ben lontana dalla realtà.
«Hai dormito quasi tre ore sul mio divano.» aggiunge, con un'ombra di sorriso a far capolino, come se averle raccontato tutto il resto non fosse sufficiente a farla sentire peggio di quanto non stia «Avevi giurato di non tornare.»
«E tu che non mi avresti cercata. Pessima idea scrivere a Fiona.»
Incassano entrambi il colpo, ma il silenzio non dura che pochi istanti.
«Jean, lo sai che mi dispiace.»
«Mhmh.» mugugna e, nel farlo, scuote il capo in negazione assoluta.
Non gli crede. Non può e basta.
«Ho sbagliato. Non avrei dovuto, dovevo sapere che non avresti mai detto di sì. E’ stato…»
«L’ho fatto.»
Per un momento non è sicura di averlo detto e non è certa che lui abbia capito. La sua espressione è indecifrabile. Ha capito l’argomento, ma non coglie tutte le sfumature. Come potrebbe?
«Ho rispettato i miei princìpi solo con te.» sussurra e l’acqua nel bicchiere ribolle all’improvviso, alimentata dalle sue emozioni «E alla prima occasione ho fatto ciò che tu mi hai chiesto… per il mio tornaconto.»
Se ora le chiedesse di salire le scale e violare la mente di Patricia Montgomery gli direbbe di sì. Aprirebbe ogni porta e finestra sulla mente di quella donna, poiché ormai non c’è più ragione di tirarsi indietro. Ma Patricia è morta e non si torna al passato.
Ha tradito la sua morale e il suo sangue. Ha violato un patto con se stessa.
«Ho passato un giorno e una notte a smaterializzarmi tra Bath e qui.»
Non aveva uno Zellino. Tutti i suoi averi, quelli più sciocchi almeno, sono rimasti in quella casa maledetta. E arrivare a Londra con quel ritmo aveva prosciugato tutte le sue forze.
Drake si copre il volto con le mani, incredulo. Poi, le porge il piatto e si aspetta che lei vi si avventi con disperazione. Eppure, non è in grado di mangiare. Al solo pensiero del cibo, le si rivolta lo stomaco.
«Perché?»
«Cosa?»
«Perché adesso? A chi..?»
Fa troppo male. Ricordare le grida di Primrose, lo sguardo di Frances. Orrore e paura fuse insieme, mescolate alla bile che le risale la gola al pensiero di quanto abbia scoperto con un mezzo vile come quello.
«Non voglio parlarne.»

«Perché non sei dall’altra parte della città, da quella strampalata di tua nonna?»
«Perché capirebbe. Anche lei è una Legilimens. »
La notizia sembra scioccarlo e quasi quasi prova soddisfazione nel vederlo arrovellarsi di fronte ad un problema che, ora più che mai, assume i connotati di una faida famigliare. Se solo sapesse quanto è vicino alla verità, così tanto da toccarla!
«Quindi non puoi tornare nemmeno a Cork. Perché Connor ti farebbe il terzo grado senza nemmeno rendertene conto.»
Sta ragionando a voce alta e, per certi versi, deve ammettere quanto sia affascinante; in pochi istanti ha elaborato un numero esiguo di informazioni, mettendole insieme in un patchwork del tutto rispondente alla realtà. Lei non ci sarebbe riuscita altrettanto bene.
Per proteggere la sua famiglia, la sua vita è andata in pezzi.
«Quindi resterai qui, suppongo. Dubito che sfonderesti la porta di chiunque altro.»
Sì, scapperà come ha fatto il giorno prima. Come ha fatto con Mike, Aiden e da chiunque abbia cercato di capire il suo mondo. Fuggire è più facile.
Mentre si alza per portare il piatto intonso in cucina, la voce di lei - tremante - lo costringe a voltarsi.
«Non... Non sono più io.» ammette «Faccio cose che non dovrei fare, che non ho mai fatto! Non distinguo quasi più il torto e la ragione e…e…»
E cosa? Ammetterlo a voce alta fa più paura della paura stessa che le inframmezza la voce e le annebbia la vista.
«…e ho paura di non tornare più.»
Quando compie il tragitto a ritroso, Drake si inginocchia ai suoi piedi. Le ha preso le mani, un gesto che non si sarebbe mai permesso di fare prima d’ora.
«Imparerai.» mormora «Imparerai a conviverci. Perché non puoi ricominciare da capo, né cancellare quello che è successo. Devi solo trovare il coraggio di accettare di aver sbagliato.»
Sembra un controsenso sentirglielo dire - lui che calpesta qualsiasi cosa e chiunque -, ma qualcosa dentro di lei si muove nella direzione che lui le indica. E’ ben lungi dal dimenticare, forse non potrà mai, e non è questo il momento di dimenticare.
«Ti guarderai allo specchio e quello che vedrai ti infastidirà, al punto da voler scappare da te stessa. Fuori dalla tua stessa pelle. Ma non puoi. Sei la somma delle scelte che hai fatto e hai subito. Sei caduta, ti sei ferita e la cicatrice ti ricorderà sempre dove, come e perché hai sbagliato. Guardala ogni giorno e piano piano smetterai di vederla. Farà parte di te e non sarà nient’altro che pelle. Diversa, ma sempre tua.»
Sembra che sappia quel che dice, ma come? Sceglie di non fare domande, di fare sue le parole di Drake senza chiedersi per forza perché.
Quando il suo sguardo serio muta in un’espressione giocosa, la bolla esplode e tutto si riassesta sui termini consueti; gli occhi gli brillano di malizia e le labbra si schiudono in un sorrisetto divertito.
«E nel frattempo, mentre cerchi di scendere a patti con te stessa, puoi ricostruire la mia teiera. Mi serve.»

Cicatrice • Concorso a Tema • Dicembre 2021

 
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view post Posted on 29/7/2022, 15:53
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Prigione
Concorso a Tema • Luglio 2022


L’arrivo del mattino ha il sapore di un risveglio che non è soltanto quello del corpo. Si costringe ad aprire gli occhi, ma subito li richiude, infastidita com’è dalla luce del giorno. Stordita, dopo aver dormito così profondamente e a lungo da non rendersi nemmeno conto di dove si trovi, fatica ad avere un nuovo approccio col mondo reale, sapendo che sarà disturbata dall’alba che prepotente illumina la stanza attraverso le ampie vetrate.
Inspira a fondo, riempiendo i polmoni di tutta quell’aria di cui non aveva saputo di aver bisogno, raggiungendo il punto di dolore quando troppo ossigeno si accumula in uno spazio ristretto e l’apnea diviene insostenibile.

Schiude le palpebre ed espira lentamente, silenziosa, contemplando lo spazio che la circonda. Dietro di sé le fiamme nell’alveo del camino si sono tramutate in braci ormai fredde, il loro grigiore ben lontano dalla vividezza del fuoco ardente della sera prima.
Il tavolino al centro della stanza ospita ancora la bottiglia di whiskey e il suo bicchiere giace sul tappeto dove lei lo ha lasciato cadere. C’è silenzio ovunque, dentro e fuori quel corpo indolenzito, ma appagato, come se ogni sforzo fosse stato ampiamente ripagato.
La memoria riporta a galla immagini tutt’altro che confuse: nitida l’espressione di Lucas, chiare le sue intezioni che avevano sposato le proprie. Una sintonia che non credeva potessero sperimentare, non dopo essersi scoperti così diversi da come s’erano creduti fino a poco prima. Eppure, era stato così facile lasciarsi andare.
La ragione non aveva avuto potere su di lei, mentre l’istinto banchettava con la proposta di varcare un confine creduto impossibile da raggiungere. E, così, giunta l’alba di un nuovo giorno si conferma una certezza, nelle fattezze umane di un corpo steso accanto al suo.
Volta piano piano il capo e si trova faccia a faccia con un ragazzo come tanti, almeno nell’ora del riposo; i capelli biondi scompigliati sulla fronte, gli occhi chiusi e il respiro lento di chi ancora non abbia giovato abbastanza della notte appena trascorsa. Per la prima volta riesce ad osservare Lucas Scott senza il pericolo di essere scoperta. Lo guarda e abbraccia la sua figura così come la vede: rilassata, lontana dalla tensione che li aveva visti avversari di una lotta inutile. Non c’era senso in quello scontro e non ve n’era uno nell’incontro successivo.
Forse non avrebbero dovuto lasciarsi andare alle emozioni e alle sensazioni, ma persino in quel momento di quiete non poteva fare a meno di chiedersi se fosse davvero stato tutto così sbagliato. Fingere di non provare nulla o ignorare l’elefante nella stanza? Di confini, insieme, ne avevano superati alcuni.

La fiducia era stata costruita, demolita ed eretta nuovamente, disattesa ancora e ancora rinsaldata. Potevano davvero uscire vincitori in un gioco al massacro fatto di sentimenti? Poteva davvero credersi così forte da ignorare ciò che doveva essere fatto?
Se lo guardava, così com’erano e spogliati di tutto ad eccezione di una coperta, sembrava un essere umano come tanti; i suoi segreti, però, quelli inconfessati e messi da parte soltanto per un momento erano lì con loro, nello spazio che restava inoccupato, in una stanza senza tepore. E lei? Poteva dirsi innocente? Non aveva forse desiderato con ogni fibra del proprio essere di farsi trascinare in un uragano dal quale sapeva non sarebbe uscita incolume? Quante volte ancora avrebbe dovuto ricredersi e darsi della stupida per avergli concesso di insinuarsi nella sua vita?
Passando una mano sulla fronte liscia, trattiene il respiro mentre Lucas si muove piano accanto a lei.
Teme il momento del risveglio, delle domande che per forza saranno poste e di quante promesse saranno strette prima che entrambi si convincano che tutto sia stato solamente un sogno.

Era stato bello, intenso e non avrebbe rinnegato quella decisione per nulla al mondo, ma non sarebbe mai durata. Glielo aveva detto per dissuaderlo e disilludersi lei stessa, perché la spinta a restare lì, in quel momento, era forte quanto il bisogno di ignorare la verità: combattevano su fronti opposti, non sarebbero mai sopravvissuti alle conseguenze. Se lui avesse compiuto un passo falso - o se l’avesse commesso lei - tutto sarebbe finito comunque. Tanto valeva metterci una pietra sopra in quel preciso momento, strappare il cerotto prima che si attaccasse troppo alla carne e il dolore fosse doppio.
Non poteva sopportare di perdere qualcun altro per la mancanza di coraggio nel voler scrivere la parola “fine”. Lucas meritava di essere aiutato nel suo proposito - per quanto folle -, ma quella parentesi fisica e spirituale doveva chiudersi.

Doveva agire in quel modo per innumerevoli ragioni e, a dire il vero, per nessuna.
Scivolò fuori dalla loro nicchia di calore, afferrando alla rinfusa i propri abiti. Con dita tremanti si rivestì, combattendo l’impulso di guardarlo dormire beatamente, come un bambino ignaro della crudezza del mondo. La conoscevano entrambi quella sensazione, quella di essere figli di una divinità maldestra e capricciosa, ma nessuno dei due avrebbe voluto finirla lì.
Lei, però, doveva: doveva lasciare il passato alle spalle per poter andare avanti.

Che ne sarebbe stato di loro quando la loro bolla fosse scoppiata e la realtà li avesse investiti in pieno? Si sarebbero tenuti per mano combattendo per ciò che era giusto? Sarebbe riuscita a bilanciare le parti di lei che desideravano amore con quelle che inseguivano il rispetto della famiglia? E le sue ambizioni? Che ne sarebbe stato del suo futuro già programmato se lui fosse rimasto nella sua vita?
No, si disse abbottonando il cappotto con le lacrime agli occhi, non poteva permettersi di perdere tutto. Il Fato l'aveva in ogni caso sconfitta: avrebbe sempre lasciato alle spalle qualcosa di importante e l'unico modo per sopravvivere era quello di andare avanti con quella consapevolezza.
Fu con quella compagnia scomoda che scelse di andarsene senza dire una parola, senza un messaggio o una scusa. Era più semplice così. Lo sapeva anche lui, si convinceva, che non avrebbe mai funzionato.
Lo aveva illuso e si era convinta di poter sostenere il peso delle loro scelte, ma nel farlo si era stretta un cappio al collo e lo sentiva chiudersi, togliendole il respiro.
Forse aveva ragione sua madre quando le diceva che la vita era un mestiere per pochi, quando la rimproverava di essere troppo fragile e buona. Sarebbe stata lieta di raccontarle quanto si fosse sbagliata sul suo conto: non era una buona samaritana e non era una sprovveduta. Aveva ottenuto quello che voleva e aveva goduto dei frutti; ogni gesto e ogni pensiero l'avevano condotta lì e adesso che pensava di essere libera si scopriva in realtà vincolata ancora di più a ciò che aveva costruito da sola. Non era libera e non lo sarebbe stata mai: i suoi sentimenti erano la sua prigione.


• • •

Gli eventi descritti seguono immediatamente la role Alba (x)
e precedono di almeno quattro mesi la role di gruppo Euphoria.

 
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view post Posted on 2/10/2022, 13:25
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• • • S p e c t r a l • • •

La punta acuminata della piuma gratta la superficie ruvida della pergamena ingiallita lasciando tracce di nero definite in cerchietti, virgole e punti tremolanti. E’ la sua mano a non trattenere l’emozione, mentre le parole si riversano sul foglio nel silenzio di quella grande stanza solitaria e misteriosa.
E’ finalmente sola, lo percepisce dall’assenza di rumori nel corridoio, e sospira grata del silenzio che l’avvolge mentre tutti gli altri dormono quieti; solo adesso i pensieri fluiscono come un fiume in piena che non sopporti più alcun indirizzo o costrizione: ciò che ha vissuto deve essere raccontato, ma per farlo deve mettere ordine là dove il caos ha gettato scompiglio. Le era sembrato semplice, all’inizio, l’idea di accoccolarsi tra i cuscini morbidi e variopinti; perfetta la nicchia creata dalla magia del castello che la scherma dalla confusione al di là della grande porta di quercia.
Nessuno sa che si trova lì e, per certi versi, le piace che sia così. Non sopporta l’idea di fingere che nulla sia accaduto, che la vita continui nonostante la notizia stia per viaggiare di bocca in bocca, attraverso le congetture negli articoli dei quotidiani magici di mezzo Regno Unito e le domande di Auror e Ministero sconvolgano - ancora - il falso quieto vivere del castello. In quel momento è lei ad avere l’esclusiva del fatto, per quanto sfortunato, e spetta a lei fare chiarezza.
L’unica testimone, nel bene e nel male, con la consapevolezza di ciò che questo comporta.
Lo vede lì, nero su bianco, quel nome che ha tormentato il sonno delle due notti appena trascorse: Ethan Carter, Guardiacaccia della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, simpatizzante Mangiamorte e ammaliatore di Centauri.
Si ferma, non può continuare a scrivere, il ricordo di quel giorno indelebile come mai nient’altro prima.
Un lampo di luce verde accecante, un guizzo e un tonfo, il grido strozzato che non raggiungerà mai le corde vocali, lo smarrimento e il vuoto. Così, d’un tratto, Carter è diventato l’involucro vuoto di se stesso. Un corpo che non avrebbe mai più compiuto qualsiasi genere di azioni, uno spirito che mai avrebbe potuto ambire ad una gloria vana e che, soprattutto, non avrebbe più fatto del male a nessuno.
Può inorridire di fronte alla fine di una vita, è quasi costretta dalla propria morale, ma non può esimersi dal credere che una forma di giustizia - quasi divina - abbia posto fine anzitempo ad una tragica conclusione per altri.
Deglutisce e serra le palpebre, mentre un brivido le scende la nuca, le spalle e poi la schiena.
Quella presunta divinità, capace di decidere della vita e della morte, è in realtà ciò contro cui lotta fermamente e non si capacita di quel pensiero - l’averlo definito un’entità suprema - che ha attraversato la sua mente con una facilità disarmante. Il non riconoscere più il confine tra giusto e sbagliato la sta portando su un sentiero di grigiore e incertezza, lì dove il cinismo si conferma l’unica risposta chiara e la moralità resta sospesa.
Riprende a scrivere, provando a portare sulla carta quanto la sua memoria è capace di ricordare: ha provato a ricostruire nella sua immaginazione la figura femminile capace di porre un limite alla propria umanità, seguendo gli ordini ricevuti, ma non ci riesce. Di lei ricorda l’abito scuro e la voce tagliente di chi non abbia cuore di perder tempo in sciocchezze. Ed è così che giunge alla conclusione che non sia così importante darle un volto, perché in fondo che importa? Carter non esisterà più, non in questo mondo, e se tornasse in forma di spirito… beh. Non avrebbe senso. La vanagloria non è sufficiente ad ancorare l’anima alla terra sulla quale ha camminato in vita. Lui non era abbastanza forte.
Ma chi lo è?
Scostando i capelli dalla fronte lancia la piuma sul pavimento in un gesto di stizza e stringe la pergamena nel palmo, finché delle sue parole non resta che uno scarto inutile.

• • •

E' tardi quando l'aria fredda della notte le accarezza il volto. Resiste all'impulso di coprirsi le guance già arrossate, ma si stringe il mantello attorno al corpo e prosegue nella sua marcia silenziosa. Nemmeno la spilla che porta al petto la può proteggere dalle conseguenze che quell'azione - aggirarsi nel giardini dopo il coprifuoco - potrebbero portare. Dal suo ritorno ad Hogwarts, dopo l'omicidio di Carter, non è più tornata alla Capanna né si è avventurata alla ricerca di ciò che la sua mente comprende ed il cuore fatica ad accettare.
La morte è uno stadio della vita - suo nonno le ha spiegato in quel modo semplice l'atto del trapasso, come se si trattasse di salire o scendere una rampa di scale; niente scalpore né fatica, solo il naturale incedere del tempo. Carter, però, non era arrivato alla fine della sua corsa: qualcuno lo aveva fermato prima e questo, per lei, aveva cambiato tutto. Assistere alla morte di qualcuno, diceva Connor, è un rito di passaggio che ogni uomo deve affrontare e - già così - il prezzo le era sempre sembrato alto da pagare. Perché se la morte apriva nuove strade allo spirito, che ne restava di coloro che rimanevano indietro? Ha sempre immaginato di affrontare la morte di un parente, magari anziano, ma non di un completo sconosciuto; e se da un lato avrebbe preferito la seconda ipotesi alla prima, Thalia si è domandata spesso in quegli ultimi giorni che cosa ne sarebbe stato del Guardiacaccia se quel mattino fosse stato diverso, se le sue scelte lo avessero condotto in altre direzioni e chi fosse stato davvero prima di perdere la bussola.
A proposito di orientamento, immersa com'è nei suoi pensieri, non si è resa conto di aver intrapreso un percorso non tracciato che l'ha condotta proprio lì dove tutto è cominciato. Si ferma, lasciando che il mantello si gonfi al vento freddo dell'inverno e sospende ogni pensiero e giudizio nel riflettere su che cosa sarà di quella casupola adesso. Mai come in questo momento pensa che sia necessario mettere un punto su ciò che è stato e dare un'impronta nuova a quello che sarà. Nell'ultimo anno troppe cose sono cambiate e lei non è riuscita a mantenere il passo senza farsi cogliere da piccole ed intermittenti crisi di panico; ci ha messo un po' a capire che il suo sonno agitato, la mancanza di respiro e il battito cardiaco accelerato, la fronte madida di sudore freddo e la paura, costante, di non essere capace di far nulla sono sintomi di una vita che sta correndo troppo veloce su un binario dalla stabilità precaria.
Ricomincia a camminare, sola e stretta nel suo mantello, e pensa. Pensa a quella pelle scura e sottile, al corpo ossuto che quella ricopre e agli occhi vitrei; le asperità delle ali da pipistrello, gli zoccoli neri e duri... e la quiete che la sua vista, inaspettatamente, ha provocato. Si aggira nei giardini alla ricerca di una figura spettrale che giustifichi il vuoto che sente dentro, il prezzo pagato per un posto in prima fila che non ha voluto e ha dovuto tenere per forza. La vita di Carter per una forma di magia diversa, più complessa ed invisibile. Fino a due giorni prima.

• • •

Si è data tanta pena per ritrovare se stessa negli occhi ciechi di un altro essere vivente, ma proprio quando ha deciso di tornare sui propri passi, ecco che da lontano una figura scura si muove tentativamente sul prato innevato davanti a lei. Sembra tutto più chiaro con la coltre candida a coprire ogni centimetro di quello spazio infinito: persino da quella distanza riconosce i tratti un Thestral, solitario proprio come lei, che si avventura oltre i confini della Foresta.
Trattiene il respiro, ma perfino quel movimento - serrare le labbra e stringersi i fianchi per non lasciare andare ossigeno e calore - fa voltare la creatura nella sua direzione. Se non conoscesse la vera ragione dietro quella visione, probabilmente, se ne sentirebbe lusingata.
Il cavallo alato non fa altro che restare lì, immobile come un cerbiatto impaurito, a fissarla con quei grandi occhi bianchi. Che cosa vedono davvero? pensa, mentre rilascia un alito di aria calda e inspira ancora, silenziosa più che può.
Non riesce a fare a meno di chiedersi che cosa ne sarà adesso di lei, se riuscirà a fingere che quanto ha vissuto quel mattino non sia niente di più e di meno di quello che - un domani - dovrà affrontare fuori da quelle mura ogni singolo giorno. A quanto sia stata stupida nel pensare che la lotta tra bene e male fosse un racconto epico fatto di emozionanti colpi di scena. Si rende conto di essere arrivata al capolinea, ma non sa ancora come scendere, e nel chiedersi quale sia la mossa giusta da compiere, il Thestral ricomincia la sua marcia allontanandosi quietamente. Forse la risposta è proprio questa: continuare a camminare, senza sosta e riposo, alla ricerca di una pace che non c'è.

Gli eventi si svolgono qualche giorno dopo rispetto la Quest di Fazione
An Arrow Leading To The Light/Dark.



© Thalia | harrypotter.it

 
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view post Posted on 30/9/2023, 21:07
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You can take the darkness out of the man, but you can't force him to step into the light.

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• • • L u i • • •

La voce di Drake Montgomery si trasforma lentamente da un richiamo a un mormorio, mentre riprendo consapevolezza del luogo in cui mi trovo. Asciugo il palmo umido sui pantaloni, stringo con l’altra mano la piccola coppa dorata e forgiata con l’iniziale capovolta del mio cognome. Guardo l’oggetto senza curiosità, poiché tutte le mie emozioni e percezioni dell’ambiente sono rivolte al messaggio che il mio ospite mi offre.

Lui è qui.

Non fatico a immaginare chi sia giunto, finalmente, a prelevarmi dal rifugio che mi sono costruita in queste settimane di vacanza. Tra due giorni salirò sull’Hogwarts Express per iniziare un nuovo anno scolastico e tornare a Cork - specialmente dopo Bath - non aveva senso.
Mio nonno doveva aver pensato la stessa cosa, altrimenti questo giorno sarebbe arrivato molto prima.
Non vedo Connor Finn Moran dall’estate scorsa, più di quanto mi piaccia ammettere in verità, e incamminandomi verso la casa ripenso con nostalgia ai momenti della mia vita in cui la mia esistenza aveva incrociato quella dei miei parenti più stretti, uniti sotto lo stesso tetto come un clan antico e unito dalla forza del sangue.

Drake è preoccupato, glielo leggo nelle linee della fronte aggrottata e nella posa rigida del corpo: tiene le mani nelle tasche dei jeans e le spalle strette lo fanno sembrare quasi curvo. Gli sorrido, per la prima volta da quando sono qui, e lo vorrei rassicurare a parole sul fatto che Connor non se la prenderà con lui per avermi accolta in casa sua; eppure, non riesco a formulare un pensiero che si traduca a voce e quindi taccio, limitandomi a sfiorargli il braccio in un gesto spontaneo che non ci è mai davvero appartenuto.

Quando varco la soglia del soggiorno, trovo la figura longilinea di Connor a darmi le spalle; è chino sulla collezione di minerali di Drake e ammira le sfaccettature di un’ametista particolarmente brillante. Colgo un rilassamente nelle sue spalle larghe e al contempo curve e comprendo di essere stata riconosciuta, forse dal passo non troppo leggero o dal respiro lievemente affannoso. Non mi sono ancora ripresa dall’esperienza, forse onirica, che mi ha lasciato molto su cui riflettere: chi sono davvero non me lo dirà certo una fantasia, ma mi accorgo che non è questo ciò di cui devo preoccuparmi. Ad impensierirmi dovrebbe essere il silenzio dell’uomo che mi ha praticamente cresciuta.
So per esperienza, in ogni caso, che Connor abbia bisogno dei suoi tempi ed annuisco quando Drake mi sussurra di spostarsi al piano superiore per garantire un po’ di privacy a me e all’anziano ex Auror. Apprezzo che quel ragazzo, un tempo ritenuto odioso, non mi abbia scaricata in mezzo alla strada quando ne avevo più bisogno e lo ammiro ancor di più per aver cercato di mantenere il mio segreto. Non era un mistero per nessuno, tantomeno per chi abbia un dono come quello di Connor Moran, il fatto che fossi qui.

«E’ straordinario il modo in cui il tempo e gli eventi trasformino la materia.»
La voce rauca e quasi velata di lui mi coglie di sorpresa dopo attimi apparentemente infiniti di silenzio. So dove vuole andare a parare, ma non voglio dargli la soddisfazione di sapere che ha ragione. Non sono più la bambina affascinata dalla magia o dalle avventure nei suoi racconti; mi sono costruita da sola - con un pessimo aiuto in ogni caso - una strada irta di ostacoli e scelte, un bivio dopo l’altro che mi ha indotta a cercare di trovare una forma nuova che si adattasse meglio a me. Ero convinta che non fosse il fine ad avermi cambiata, ma quello che era successo nel mezzo: era stato un viaggio, perlopiù in salita, ma ne ero quasi soddisfatta. Lo sarei stata di più se fossi riuscita a togliermi dalla testa le grida di disperazione di Primrose per ciò che le avevo inconsapevolmente fatto.
L’anziano mago, per il quale nonostante i modi e le idee provo un affetto viscerale, si accomoda sul divano di pelle bianca e mi osserva di sottecchi, proprio come faceva quando ero bambina e tornavo al maniero con le manine impiastricciate di terra e fango dopo un’estenuante lotta con i miei cugini. Col visino imbronciato per averle prese di santa ragione da Desmond e Drake, tornavo a casa alla ricerca di conforto e comprensione; speravo anche in una punizione per chi mi aveva ridotta in quel modo, già pronta com’ero a sorbire le invettive di mia madre, ma trovavo soltanto un sorriso divertito per i miei capelli inzaccherati e i pantaloncini strappati. Stavolta quel sorriso non c’è e l’espressione che mi viene rivolta mi risulta indecifrabile.
«Ho sempre pensato che saresti stata diversa.» comincia e non riesco a cogliere disappunto o rabbia, ma soltanto una constatazione. Del resto lo sto affrontando in piedi - e non seduta come so vorrebbe - conscia di sfidare le leggi non scritte del nostro rapporto. Non c’è traccia di sfida sul mio viso, ma solo una volontà di ascoltare ciò che abbia da dirmi e, eventualmente, chiedermi. Non è mai stato un uomo in grado di saltare alle conclusioni: in un litigio o sul lavoro desiderava sempre avere un quadro completo della situazione.
«Ti dirò che cosa è successo nelle scorse settimane e ti pregherei di colmare le mie lacune, per favore.»
Annuisco e deglutisco a fatica nello stesso momento, sapendo ancora prima che parli che cosa ascolterò: non sono prodezze le mie e non ne vado fiera, ma ho capito che non posso disfare ciò che ho creato e tantomeno lo vorrei. Se ho agito come ho fatto è perché non ho visto alternative.
«Ho ricevuto una lettera dalla signora Frances, la cuoca della nostra amata consanguinea di Bath.» inspira e mi guarda, mi penetra con quegli occhi di ghiaccio così simili ai miei e capisco che sta cercando di forzare la mia mente per la sensazione di pressione opprimente che percepisco addosso. Mi sento tradita, non lo nego, ma godo nel constatare la sua scoperta: sono un Occlumante migliore di quanto pensasse e ormai il suo gioco non ha valore; se ritentasse un approccio di quel genere mi opporrei ancor più strenuamente.
«Nella sua lettera mi racconta del tuo arrivo e della tua partenza improvvisa, raccomandandomi di trovarti e chiederti spiegazioni su quanto accaduto nella casa che ti ha ospitata seppur per così poco tempo. Non prima, però, di aver fatto visita a Primrose per poter scambiare due parole con lei.»
Frances. La donna che avevo pietrificato nella cucina del suo datore di lavoro, implorandola di lasciarmi scappare da quella casa. La donna che ho convinto con la forza a darmi un vantaggio affinché potessi avere le risposte di cui avevo bisogno nella speranza di aiutare la sua padrona. Mi aveva venduta, certo, ma lo aveva fatto secondo i miei termini e di questo, in parte, dovevo esserle grata.
«Così sono stato da loro per un giorno o due e ho trovato Prim molto cambiata. Si è chiusa in uno strano mutismo e il suo aspetto è di molto deteriorato. Frances mi ha confessato di avere un sospetto sulla ragione di questo decadimento improvviso, ma mi ha pregato con un certo sussiego di chiedere direttamente a te la motivazione. Quindi sono qui per sapere perché, per grazia divina e non, hai usato la legilimanzia su una donna così fragile. Voglio saperlo e non me ne andrò senza una risposta.»
Ho immaginato innumerevoli volte questo momento: per ogni notte trascorsa nella camera degli ospiti di Drake esiste un momento preciso in cui la mia mente ha partorito uno scenario diverso. Ho sempre saputo che sarebbe stato lui, Connor, a venire a cercarmi. Mia madre era troppo orgogliosa nei suoi confronti per pensare di avere una figlia problematica e mio padre aveva una visione di me fin troppo angelica per ritenermi così aggressiva e, volendo, stupida. Così, avevo iniziato ad immaginare i modi in cui avrei subito il primo vero interrogatorio della mia vita e a tante domande riuscivo solamente a rispondere in un modo.
«Cordelia.»
Pronuncio il nome della donna che ci ha messo una taglia sulla testa con estrema naturalezza, come se parlassi della vicina d’appartamento che lascia la posta accumulata sui gradini di casa per settimane intere. Lo vedo irrigidirsi e giurerei perfino che quelle pupille in netto contrasto con l’iride si sono leggermente dilatate per la paura. Mio nonno teme poche cose al mondo e sono sicura che il suo Molliccio non sia una donna dai capelli corvini; certo, questo prima che sapessi tutto ciò che Primrose mi aveva mostrato.
Sicura di avere una buona presa su di lui, comincio così il mio racconto: i miei incubi, la profezia che Oliver Brior ha pronunciato per tutta la nostra famiglia e definisco chiaramente la Spada di Damocle che minaccia il nostro collo bianco e purosangue. Gli racconto delle velate minacce ricevute, delle persone che ho incontrato da quando - a dodici anni - ho scoperto che su di me gravava il compito di proteggerli tutti.
Parlo con calma, insperata a dire il vero, e forse essermi preparata il discorso in tutto questo tempo mi è servito a non farmi prendere dal panico. Così, con una serenità che non sapevo di avere, gli racconto delle visioni sul passato in cui vedo Cordelia e la figlia che ha assassinato, le ricerche che la mente di Primrose mi ha concesso di terminare e le conclusioni che ne ho tratto.
«Lei vuole tutto e se non può averlo lei, non l’avrà nessuno.» concludo freddamente. Solo adesso mi siedo, perché la forza per raccontare la nostra storia e stata prosciugata dalla paura provata in tutti questi anni; ripenso a come - nella mia ricerca di informazioni - io abbia perso di vista me stessa e le persone che amo.
«Non mi aspetto che qualcuno capisca le mie motivazioni, ma ci ho pensato e ho fatto le mie scelte. Opinabili, ovviamente, ma le ho fatte pensando a voi. Perché…» mi fermo, la voce mi trema e un nodo si stringe alla gola; vorrei dirgli che non ho mai pianto per la frustrazione, ma mi sono sentita sola al mondo pur essendo letteralmente circondata da persone amate «Perché non potevo tornare a casa senza delle risposte. Le avresti volute e… ora le hai
Non mi aspetto che lui capisca o approvi, ma mi rendo conto che vorrei un minimo di riconoscimento per le ferite che mi sono procurata e che non possono essere viste ad occhio nudo. Ho dovuto lasciare andare le insicurezze, ho preso decisioni sbagliate e affrettate talvolta, il tutto fingendo d’essere una normale adolescente. Nessuno è riuscito a penetrare il muro che mi sono costruita attorno e sono delusa per questo, così come - in realtà - sono orgogliosa. Sì, perché al fine di cercare di capire perché la mia famiglia rischi così tanto ho capito molto di più chi sono e che cosa sono disposta a fare. Ho vinto le mie ritrosie, ho svelato una parte del mio essere strega che avrei ripudiato fino alla morte e ne ho colto la potenzialità. Non sono costretta ad essere questa persona, ma adesso… voglio esserlo.
Guardo mio nonno come la bambina che sono stata, in cerca di approvazione, e in qualche modo trovo ciò che cerco: mi osserva in silenzio e annuisce impercettibilmente, ma annuisce. Approva, dunque? Non è giunta la fine di questo viaggio, lo sappiamo entrambi, ma quando risponde - finalmente - mi priva di un peso che sono disposta a portare.
«Sei stata brava, anche se avventata.» mi rimprovera pur dandomi conforto e mi domando come ci riesca. Forse non voglio davvero saperlo.
«D’ora in avanti ci penso io.» prosegue solenne, intrecciando le dita nodose tra loro «Voglio che ti concentri sugli studi, che superi gli esami futuri in modo esemplare… non voglio che questo influenzi la tua vita più di quanto abbia già fatto.»
Si alza e lo fa per congedarsi, ma non voglio che finisca così. Non voglio tornare tra i banchi di scuola e comportarmi come una ragazza qualsiasi. Merito di essere resa partecipe di tutto, dalla A alla Z, e che gli piaccia oppure no continuerò a cercare un modo per essere presente alla fine di questa storia. Lo fronteggio alla pari, quindi, e nei miei occhi c’è la supplica immotivata a lasciarmi andare avanti come ho sempre fatto.
«Primrose si riprenderà, col tempo, ma voglio che tu non faccia nulla del genere. Mai più. Questa è la Legilimanzia che ti spaventava tanto da bambina e adesso che sei cresciuta non riesco a capire come sia possibile che…»
«…abbia deviato dal percorso?» finisco per lui in un mormorio che trova assenso da parte sua.
Mi abbraccia, appoggiando la testa sulla mia, e inspiro a pieni polmoni l’odore aspro del tabacco da pipa che si porta addosso da una vita; gli stringo le vesti e, finalmente, mi rilasso.


Gli eventi si svolgono dopo un paio di settimane rispetto la Quest di BG
Lei (x) e fanno ampio riferimento alla quest di BG Palpebre (x)

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