Compass

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 29/6/2019, 17:02
Avatar

Group:
Mago
Posts:
5,051

Status:


Con 38 di febbre e l'incapacità di rileggere l'intero post, mi butto nel contest.


Mya J. Lockhart
« Norvegia - Tenuta dei Walsch - settembre di tre anni prima»

Sette vie a Cernunnos

Con i palmi giunti e gli occhi persi nell'oscurità, meditava.
Era sola nella grande stanza allestita appositamento per lei. Tutt'intorno l'odore di incenso permeava l'aria, impregnando con le sue note agrumate il tessuto di ogni cuscino, ogni tenda e ogni telo che, ridiscendendo dal soffitto, disegnava attorno alla sua figura un piccolo santuario d'organza bianca. La grande camera che la ospitava aveva il soffitto stondato, come una piccola cupola di assi longeve. Ogni tanto un sospiro del vento all'esterno si trasformava in un delicato scricchiolìo del legno, come denti su un pane di giorni. Ma nulla poteva scuotere la sua concentrazione.
La camera era stata liberata di ogni mobilio, ogni oggetto che potesse rappresentare motivo di distrazione o influenzare i movimenti del suo umore. Erano state lasciate solamente molte candele, distribuite lungo tutta la stanza senza un ordine preciso ma che mantenevano comunque un equilibrio in ogni lato. Inizialmente quell'assoluto silenzio l'aveva posta in una condizione mentale agitata,a tratti nervosa. Trovava difficile placare i pensieri quando quel silenzio roboava nella sua mente come un tornado in tempesta, gonfio di frammenti e detriti che aveva raccolto lungo la via. Nel silenzio non aveva mai trovato la pace, il silenzio non gridava, ma bisbigliava. O faceva eco alla sua coscienza, che lo sfruttava per veicolare tutti quei pensieri che solitamente la mente teneva sotto chiave. Il silenzio era un luogo ostile per Mya.
Durante le prime ore chiusa in solitaria nella stanza aveva seriamente pensato ad una possibile resa, ma contro ogni aspettativa il suo corpo reagì a quel silenzio in una maniera nuova, quasi sperimentale. Dal silenzio di un mondo privo di stimoli sensoriali iniziò a percepire qualcosa di diverso. Ad occhi chiusi osservò il principio di una nuova realtà, una realtà che aveva assaporato fino a quel momento solo superficialmente durante le sedute di ascensione degli ultimi mesi.
Erano sensazioni reali per quanto intangibili, poteva sentire ogni cosa attorno a sé con una percezione unica, quasi empatica.
I fasci di tessuto che la circondavano ora possedevano un odore, ma non era il loro ne era certa. Erano stati lavati e sterilizzati prima dell'inizio della cerimonia, in maniera che fossero puri e incontamininati. L'odore che Mya respirava dava forma a quelle colonne di morbida e soffice tela, ne disegnava una trama che nessuno avrebbe mai potuto osservare ad occhio nudo. Eppure nitida si focalizzava nel suo immaginario. Quell'odore che percepiva sembrava tingere di scuro il candore della stoffa, aveva una nota mortifera, acre. Non l'aveva riconosciuta subito poiché mitigata dall'odore dell'incenso, ma nella tramatura dell'organza si era impressa una traccia di fumo.
Anche le candele iniziavano ad affacciarsi in quel mondo che era stato buio fino a quel momento. L'odore della cera era anch'esso molto neutro per cui non rappresentava un buon bersaglio da individuare, al contario dell'aroma prodotto dallo stoppino in fiamme. Ma ciò su cui Mya si ritrovò a focalizzarsi fu null'altro che la cera liquida, quella che ormai bruciata passionevolmente dal fuoco se ne scivolava lungo il corpo della candela, pronta ad essiccarsi al suolo. Alcuni rivoli nelle candele più alte si fermavano a metà strada, ma quelle che avevano baciato il fuoco più da vicino scivolavano grondanti verso il pavimento. E quando lo sfioravano ecco che il contrasto fra le due parti creava un suono, un odore, un legame. Un odore nuovo che nasceva come eredità di entrambi, né l'uno né l'altro. La grande stanza vuota avvolta nel buio dei suoi occhi aveva quindi cominciato a riempirsi di tanti aloni di luce rossastra che danzavano tutti attorno, come fuochi fatui. Ma non erano composti di materia, bensì di spirito. La ragazza si ritròvò ben presto in un luogo ben pieno di stimoli e rumori, lontano dal ricordo di quel silenzio assordante che l'aveva quasi soffocata poco prima.
Quanto tempo era trascorso? Un paio di minuti, o un'ora? E dall'inizio del rituale forse un giorno? La sua mente n quella dimensione avvertiva familiarità, calma, non v'era nulla che in quel momento potesse trascinarla fuori da quella bolla di contemplazione. Poteva udire senza sentire, e osservare senza guardare, era in armonia e si lasciava dondolare fra il confine materiale e quello etereo.
Per poi andare giù.


D'improvviso, senza alcun segnale preventivo, andò giù. Senza avere il tempo di capire se fosse ancora seduta sul pavimento della grande stanza o meno. Andò giù, di schiena, come se le assi di legno avessero improvvisamente ceduto sotto il suo peso e lei stesse precipitando. Il corpo teso in attesa di un impatto col suolo che non arrivò mai. Non stava cadendo per la gravità, quelle cadute erano veloci, per quanto l'adrenalina in corpo tendeva a dilatare la sensazione stessa del tempo. Si cadeva per gravità con un peso legato attorno al petto e alla gola, come un macigno che accompagnava verso il più profondo degli abissi. Ma non in quel caso, non era gravità. Cadeva come nei sogni, come sospinta da una corrente che la sorreggeva sulle spalle e un'altra che la spingeva sul petto. Era stordita, anche se non v'era nulla di doloroso, eppure cadeva senza fine. Provò a muovere le braccia per scoprire se le avesse ancora attaccate al proprio busto, queste c'erano ma recepivano gli stimoli con estrema lentezza. Le vedeva ai lati del suo corpo che ondeggiavano senza resistenza come perse in una vasca d'acqua salata.
Tutt'intorno il nulla, tutti gli stimoli che fino a quel momento avevano dato forma alla realtà, ora sembravano essere stati inglobati da quella dimensione che percepiva colma di luce assoluta. Era stordita, e inebetita, e in un certo qual modo forse anche stanca, così si lasciò cadere ancora e ancora, sempre ad occhi chiusi, senza cercare di opporsi.
- Tutta questa strada per un pisolino? - la interrogò sarcasticamente una voce, che proveniva da distanza ma anche da vicino. Era ovunque, o nella sua testa. Mya aprì gli occhi, ma non sulla realtà della stanza, bensì in quella dimensione onirica nella quale era ascesa. Quella voce più di tutto la trascinò fuori dal torpore e la ragazza provò a dimenarsi nell'aria, cercando di ruotare il corpo per poter veder. Il cuore si era stretto togliendole in parte l'ossigeno, mentre gli occhi le si riempirono di lacrime vere, calde, umide, inopportune. Le sentì staccarsi dal suo viso e cadere nell'oblio di quel mondo senza fine, mentre le iridi vagavano su quella sterminata eternità. Quella voce, quella bellissima voce di cui pensava di aver dimenticato ogni sfumatura, l'aveva sorpresa ancor prima di iniziare a cercarla. Era vivo, aveva avuto ragione per tutti quegli anni, Lui era vivo.
- Ti ho ritrovato finalmente – disse senza riuscire a nascondere una certa commozione. Aveva preso ad agitare le braccia, cercando di nuotare in quel mare di nulla, ruotando la testa a destra e sinistra, cercando la fonte della voce. Ma questa faceva eco in ogni dove, sembrava non voler farsi trovare.
- Ritrovato? Ero io in realtà che...che...ti prego ricomponi un briciolo della tua dignità. - disse l'eco alla ragazza che si agitava come un invertebrato nell'aere -Ti trovi comunque in luogo ancestrale -
Mya avvertì una sensazione simile alla stizza data da un rimprovero non meritato, ma quel luogo mitigava persino i sentimenti più controversi per cui l'unica risposta che si sentì di dare fu un innocente – non ho idea di come si stia al mondo in questo mondo.-
La voce sospirò, tra il deluso e lo sfinito, e il suo eco prese metaforicamente a schiaffi la giovane visitatrice. Uno spirito poteva davvero provare quel tipo di sentimenti? O aveva finito per assomigliarle negli anni trascorsi assieme? - Questa dimensione si trova all'interno del tuo spirito, è un santuario inviolabile ma tutto qui dentro ti appartiene. Puoi dare forma alla realtà, ma continui ad annegare in questo bianco mare di nulla. È ancora rimpianto? Delusione? O sei semplicemente una vigliacca che fugge? -
A quelle parole Mya non riuscì più a nascondere un briciolo di rabbia nascente, se questo era realmente il suo spazio aereo poteva gestire anche quel sentimento? Meglio iniziare da qualcosa di più materiale. Si concentrò sulla porzione di spazio che c'era fra le sue mani, visualizzò nella sua mente una serie di pietre che raggruppate fra loro dipingevano un sentiero, e questo comparve come una piccola isola che galleggiava sul nulla. Si avvicinò a vi salì sopra con le ginocchia, per poi spingersi sui talloni e riguadagnare la postura eretta. Era così stabile da sembrare reale, lo era. - Non sto fuggendo, o non sarei qui – rispose, ruotando sui suoi piedi con lentezza, sempre cercando quel vecchio amico dalla lingua tagliante. - E invece fuggi, e per quello sei qui. Pensi di poter mentire proprio a me? È questo il motivo per cui non riesci a ristabilire Equilibrio -
Un bagliore dorato si accesse verso sud, come un richiamo e Mya decise di raggiungerlo proseguendo lunga la strada che si stava creando ai suoi piedi, passo dopo passo. Poco più avanti sulla destra il terreno si allargò, mostrando una piccola radura raccolta fra le siepi e un piccolo cerchio di pietre. C'era anche il piccolo catasto di braci e la fiala d'acqua. Tutto così nitido, da sembrare ancora più reale del ricordo stesso. Erano passati anni eppure quella memoria persisteva vivida, come una torre eretta nel mezzo del mare. Potevano alzarsi le onde, e il cielo adirarsi, la schiuma prorompere sulla pietra e le correnti subacque minarne le fondamenta. Ma quella torre, quella memoria, giammai sarebbe scomparsa dalla linea dell'orizzonte.
Continuò ad avanzare verso Ephes mentre il sentiero iniziava a fiorire di ricordi, i primi più delicati (avevano anche un profumo più gradevole e appagante) la accompagnarono attraverso gli anni che aveva trascorso dopo la sua seconda rinascita. Una parte al lato del sentiero si fece scosceso, come la scogliera che da Hogwarts affacciava sul lago, ma non faceva paura. Poco più avanti il sentiero passava attraverso due colonne di mattoni, incastrate a loro volta in un muro che svaniva poco dopo. Era superfluo, un contorno che non contava, ciò che era importante si trovava oltre le colonne. Si addentrò così in un giardino che conosceva molto bene, al suo centro sorgeva un grosso ciliegio in fiore e ai suoi piedi se ne stava rannicchiato un ragazzino esile. Era di spalle, e un nugolo di capelli rossicci gli copriva la testa fino alla schiena. Provò un moto di tenerezza e il forte desiderio di raggiungerlo, di spuntare oltre la sua spalla con sorpresa e tirargli uno sbuffetto in testa, ammonendolo dei cattivi pensieri.
- Se lasci il sentiero e ti perdi in un ricordo avrò avuto ragione io – la richiamò lo spirito. Mya osservò per un'ultima volta quelle spalle così fragili che aveva poi visto farsi forti, e si sentì travolta dal pensiero di aver avuto la possibilità di alleggerire quel carico ma non averlo fatto. Per paura? O forse più per egoismo? Strinse i pugni fino alle unghie, ma non avvertì dolore. Senza un corpo non meritava neppure il rimorso? A quel pensiero parte del sentiero sotto i suoi piedi iniziò a sgretolarsi, così la ragazza proseguì prima di perdere l'equilibrio e tornare a cadere nuovamente verso il nulla. Più avanti, ai lati del viottolo, spuntarono tre grandi anelli di ferro scuro sorretti da un'asta che svaniva poco più in basso del sentiero. Quante pluffe ci aveva fatto passare attraverso? Un sibilo improvviso le ronzò nel timpano sinistro e il corpo reagì istintivamente accovacciandosi sulle ginocchia. Un bolide la sfiorò proseguendo poi la sua corsa folle e svanendo anch'esso poco più in là. Avvertì il fruscio prodotto dalle ali del boccino ancor prima di vederlo, ma per una volta ne osservò solo il volo isterico e libero, senza cercare spasmodicamente di catturarlo. Il boccino le restò intorno per una ventina di passi, prima di decidere che era tempo di andare più in alto, oltre le nuvole, oltre i ricordi. Dopo alcuni passi l'odore delle memorie inizò a cambiare, non più quello gradevole e familiare dei luoghi che conosceva e amava, ma uno più aspro. Era odore di salsedine, e di sabbia, la stessa in cui la ragazza si ritrovò ad affondare i piedi senza accorgersene. Erano pochi i luoghi in cui si era trovata a disagio e il difficile era proprio dimenticarli. La vegetazione cambiava, sempreverdi ed arbusti si sostituirono con palme, liane e ibiscus a perdita d'occhio. Vide un falco prendere il volo da una sporgenza, con a bordo un minuscolo passeggero. Era stata la prima volta che aveva rivelato la sua vera natura a qualcuno, e per quanto negli anni si fosse ripetuta che quello fosse stato un errore gigantesco, nel profondo l'aveva trovato liberatorio.
- La strada è giusta, manca poco – forse reagendo al flusso dei suoi pensieri (ora meno instabile in quel tratto di percorso) la sabbia scivolò via lontano dai piedi rivelando una nuova strada mattonata, di aspetto più stabile e sicuro rispetto alla precedente. Era più ampia e più geometrica, e avanzava senza troppe flessuosità come in precedenza. Dava sicurezza, ma quella rigidità era quasi allarmante, creava in Mya un certo disagio. Rivide molti altri elementi, meno piacevoli degli anni che seguirono. Memorie di una esistenza quasi soffocata, aveva trovato vetri infranti sulla strada, e uno specchio oscuro, vicino al quale era passata senza voltarsi. Una mappa affissa su una parete evanescente, con tanti piccoli chiodini neri dai quali pendevano migliaia di fili rossi che come serpenti scivolavano sinuosi verso i suoi piedi. Un passato tanto a lungo ricercato, le aveva impedito di vivere il presente, e ne pagava ancora lo scotto con consapevolezza. I fili si ammassavano e annodavano attorno alle sue gambe pallide, ben presto non avrebbe più potuto muovere un solo passo. - Liberati, o avrò avuto ragione io - . Nuovamente lo spirito ci tenne a ribadire la sua determinazione. Tutta la questione sembrava stesse diventando una sfida a chi possedeva più pietre sul proprio piatto della bilancia. Mya allungò dunque una mano verso la parete con la mappa, e staccò uno dei chiodini dal quale sembravano partire più fili. Così tutta la matassa crollò senza resistenza, e i piccoli serpentelli di cotone scivolarono prima sul pavimento e poi giù nell'etere. Quel viaggio iniziava a diventare estenuante, i ricordi si stavano facendo via via più forti, più freddi e più dolorosi.
Ma la meta sembrava ormai prossima, la luce si era fatta più intensa e più calda, mancava poco e l'avrebbe raggiunto. Ma un ultimo doloroso passo andava ancora fatto, quello attraverso una rovinosa crepatura di un muro di cinta, un muro oltre il quale si era alzata in volo per l'ultima volta. Oltre il muro ancora nebbia eterea e un ultimo frammento che iniziava a germogliare diradando il bianco velo. Un imponente albero con radici erte che spuntavano dal terreno e si avvinghiavano al sentiero sul quale doveva passare, la corteccia che grondava lacrime di sangue là dove un corpo poco prima si era abbandonato, prossimo alla morte. Mya deglutì vistosamente distogliendo lo sguardo e proseguendo ora a passo più spedito, facendo attenzione a non inciampare nelle radici. La sua gola era in fiamme, morsa da un dolore che aveva creduto seppellito, ma che ancora aveva radici salde in lei. Un passo alla volta, un perdono alla volta, si disse.
Chiuse gli occhi mentre si lasciava alle spalle la grande chioma frusciante dell'albero e si avvicinò a quella che sembrava la fine del suo peregrinare.

Il sentiero andava infatti allargandosi, disegnando in pochi passi una sorta di grande spiazzo mattonato. Tutt'intorno iniziarono a far la loro comparsa una dozzina di pietre di taglio e dimensione diversa, che fluttuavano libere attorno alla piattaforma. Alcune erano unite fra loro come un architrave, e non le ci volle molto per ritrovare similarità fra quel luogo e Stonehenge. Dopo il pesante viaggio fra i ricordi quell'oasi neutrale le appariva come una salvezza.
Proseguì di altri tre passi prima di fermarsi al centro del cerchio, mentre la luce ambrata la raggiungeva dal lato opposto. Aveva il cuore che batteva come un forsennato nel petto, l'aspettativa, la speranza, la tristezza e la felicità tutte fuse assieme, per quell'incontro tanto a lungo desiderato. Ephes si avvicinò mostrando infine la sua forma all'interno dell'aura di luce. La sua figura non era imponente, come aveva sempre immaginato, bensì aveva quasi la sua stessa altezza e corporatura, seppur privo di forme femminee o virili. Il suo corpo irradiava luce d'ambra, che rendeva difficile osservarlo con chiarezza. Nel suo viso scorgeva lineamenti familiari ma non riusciva ad averne una definizione precisa, neppure coprendosi in parte gli occhi con una mano. Eppure il suo corpo sfrigolava producendo un suono che la ragazza conosceva benissimo. Il busto, gli arti, fino addirittura ai piedi, tutta la sua pelle era ricoperta da minuscole piume che si sollevavano ad ogni respiro lasciando fuoriuscire quella luce accecante alla quale Mya si stava pian piano abituando. Era bellissimo, una creatura di indescrivibile magnificienza, un connubio di elementi che catturava completamente la sua anima lasciandola senza parole.
Fortunatamente lo spirito era di tutt'altro avviso.
- Mi cercavi lontano, e nei luoghi errati. Ma io ero qui, ad attenderti...e per mia volontà – disse con la calma di colui che ha tutto il tempo e la pazienza dell'universo. Teneva le mani giunte davanti al corpo e una postura rilassata. La ragazza al contrario mostrava segni di squilibrio con ogni parte del corpo. I pugni stretti, le ginocchia leggermente piegate, un respiro decisamente irregolare, ondeggiava leggermente come se non riuscisse a stare ferma per un solo secondo.
- Perchè mi hai fatto questo allora, merito una spiegazione. Non ero più meritevole? Cernunnos mi ha rinnegata come figlia, è questo il motivo? - La voce si era fatta più decisa, spezzata a tratti da accenni di rabbia, si sentiva tradita e umiliata. E in parte anche colpevole, ma non capiva perchè.
- Non funziona così. Lode a Cernunnos, il suo potere ci ha uniti indissolubilmente per l'eternità. Siamo parti di una stessa anima, non possiamo rinnegarci a vicenda...ma è quello che hai iniziato a fare tu da molti anni ormai. Ma in una forma che mai mi sarei aspettato -
Mya era davvero disorientata dalle parole dello spirito. Lo aveva rinnegato? Non era possibile, quel dono era tutto ciò che di più importante aveva, quel dono aveva dato significato alla sua intera esistenza. Mai un solo momento aveva pensato di poter vivere fra gli essere umani senza. Era la sua isola sicura, fra le nuvole. Eppure lo aveva deluso a tal punto da negarle le ali per raggiungere quell'isola. Smise di rimuginare sulle cause della sua stessa rovina quando lo spirito allungando un braccio le chiese di osservare lo spazio che aveva attraversato fin dal suo risveglio. Riconobbe il sentiero prima di mattoni e poi di sassi, e tutte le isole temporali che aveva osservato da vicino. Ma quello di cui non si era resa conto avanzando spedita sul sentiero battuto, era che nel mare di nebbia vi erano una moltitudine di altre isole, con altrettanti ricordi forti della sua vita. Anche se distanti in moltissimi riconobbe accadimenti o persone importanti con le quali aveva condiviso momenti. In alcuni si sentiva persino ridere, in altri si ricordava con un sorriso, in altri con più amarezza, ma erano tutti vividi seppur fino ad un attimo prima di vederli li ricordava a malapena. Dubbiosa si rivolse allo spirito – - Sono sempre stati là? Perchè il sentiero non li ha attraversati? -
Lo spirito del gheppio sospirò, seppur conosceva quella ragazza nel profondo, l'ingenuità con la quale palesava i suoi pensieri era quasi irritante. - Guardali più attentamente, non noti differenze fra i ricordi che hai attraversato e quelli che hai ignorato? -
La ragazza dunque si concentrò maggiormente, passando con gli occhi da un'isola all'altra.
- C'è qualcosa sotto i ricordi del sentiero – per osservare meglio il quadro nella sua interezza Mya iniziò a camminare verso il principio di sentiero dal quale era arrivata. Strinse gli occhi e cercò di mettere a fuoco quell'immagine sfocata che via via si faceva più definita. Sotto ogni ricordo nascevano delle radici, che protendendosi poi nell'aria si tendevano fino alla piattaforma sulla quale si trovava, aggrappandosi alla sua base. Non riusciva dunque a vederne l'origine o l'arrivo, per cui si voltò verso lo spirito. - Sono...radici? -
- Seguimi – si limitò a risponderle Ephes, voltandole le spalle e dirigendosi verso quella che sembrava un'apertura nel terreno di mattoni. Raggiungendolo velocemente Mya scorse delle scale e senza pensarci troppo lo seguì all'interno.


Le scale portavano ad una stanza sotto la grande piattaforma, di dimensioni più contenute, meno luminosa e con un solo elemento ad occuparne il centro. Sembrava un altare di pietra, o quello che sarebbe stato se non fosse completamente avvolto dalle radici, come un intreccio di liane. Tutte le radici che aveva visto partire dall'isole dei ricordi congiungevano infine sopra quell'altare, era spaventoso e affascinante al tempo stesso. Si sentì attratta da quel groviglio intenso, sicura che la risposta che lo spirito voleva mostrarle fosse lì. Il capolinea della sua ricerca, la risposta alle domande che per anni si era posta.
Prese a camminare tutt'intorno all'altare, sotto lo sguardo attento di Ephes, taceva consapevole che la verità andava ricercata e non ascoltata. Sfiorò le radici scoprendo sulla sua pelle quanto fossero carichi di memorie, ogni stelo indurito era un treno di ricordi che la travolgeva. Finchè non raggiunse il lato opposto dell'altare dove dal groviglio di radici spuntava una mano. Sussultò in principio, immaginando che chiunque si trovasse lì dentro fosse morto da tempo immemore soffocato da quella moltitudine di radici. Ma la sua pelle era candida, immacolata, i segni della morte e del tempo non sembravano aver avuto effetto su di essa. E dunque chiuque fosse quella persona era ancora viva? D'istintò tese il braccio per afferrarle il polso e controllare il battito, ma ancor prima di sfiorare la vena la ragazza lasciò cadere la mano inorridita. Attorno al polso di quell'essere c'era una lingua rossa di pelle ustionata, viva come se avesse bruciato un solo giorno prima. E allo stesso modo prese a bruciare in lei quella constatazione. Sollevò la manica sinistra della sua maglia e avvicinò i due polsi, identica cicatrice, identica dimensione.
- Sono io? - chiese ancora frastornata dalla rivelazione. - Sto...morendo? -
- È così – rispose ermetico il gheppio.
La ragazza si avvicinò nuovamente all'altare prendendo nuovamente la mano della sua controparte. Le sue dita era flessuose e morbide, non c'era segno di irrigidimento in lei, eppure stava morendo. - Come è accaduto? -
Lo spirito si avvicinò al limite della pedana, affacciandosi verso il mare dei ricordi. Ma preferì il silenzio. Mya d'altro canto si sentì tradita su ogni fronte, prima nella sua vita esterna e ora in quella dimensione astrale. Qualcosa era andato storto, e lo aveva avvertito da anni ormai, ma arrivare a quella conclusione la fece sentire terribilmente sola. Abbandonata anche da sè stessa. - Non puoi almeno degnarmi di una risposta? -
- Le risposte ci sono, ma è la domanda ad essere sbagliata -
- Come...- la ragazza strinse maggiormente le dita attorno a quelle spente del suo alter ego morente - ...come posso salvarla? -
Il gheppio fece schioccare indice e pollice fra loro, comunicando alla ragazza di aver centrato il bersaglio. Tutto il tempo in cui l'aveva attesa, tutto il percorso che le aveva lasciato intraprendere era stato unicamente per portarla a quella consapevolezza. Amava quell'essere umano e proprio per proteggerla si era negato a lei, per salvarla.
- L'Equilibrio – disse lo spirito, ancora con lo sguardo rivolto in avanti e le spalle verso Mya. - L'Equilibrio avrebbe dovuto mantenerci in armonia. E un tempo lo eravamo, ma poi il tuo corpo ha iniziato a trasformarsi più spesso, sempre più di frequente facevi appello a me. Ogni volta che qualcosa nella tua vita materiale ti schiacciava ri rifugiavi nelle ali che io potevo donarti. Inizialmente ho lasciato correre, e forse è stato questo il mio errore, ho giustificato i tuoi allontanamenti come una debolezza adolescenziale, che crescendo sarebbe stato diverso. Saresti diventata più forte, ma al contrario quella via di fuga ha avvelenato il tuo cuore, ha generato in te una dipendenza. Ne avevi bisogno per sopravvivere, o almeno era quello che la tua mente credeva. Dopo ogni trasformazione la tua persona svaniva un poco, cambiamenti irrilevanti, ma ti stavi spegnendo. Mentre io diventavo sempre più forte. Aveva il sentore di un sacrificio, ti stavi abbandonando, ti lasciavi cadere nell'oblio e lasciavi che fossi io a guidare il nostro corpo e il nostro cuore. Non c'era più equilibrio fra le nostre anime e sapevo che continuando così saresti svanita, e io avrei vissuto nella tua pelle. I miei pensieri, le mie scelte, le mie parole, e solamente i miei ricordi a riempire la tua testa. Non li vedi? Ancora ancorati alla tua anima, sono rimasti solo loro e qualche ricordo umano tra i più forti che hai vissuto, quelli che fortunatamente non sei riuscita ad abbandonare. Non ancora. A breve potrebbero spezzarsi, potrebbe essere tra un mese o un giorno, io non posso dirlo. Sono rimasto tutto il tempo qui ad osservare la distruzione che stavi portando, non avevo altro mezzo per fermarti... -
Decise di interrompere per un momento il suo racconto per voltarsi a guardare la reazione sul volto della ragazza. Era rigida, aveva gli occhi puntati al terreno, le labbra che tremavano come smosse dal desiderio di parlare, di dire qualcosa. Il suo corpo sussultava appena, ma non voleva cedere. Le parole di Ephes avevano rimesso insieme tanti di quei pezzi da risultare soffocanti, le verità che si era negata tanto a lungo ora trovavano il loro posto nel disastroso puzzle che a quanto pare era stata la sua vita. Era al bivio. Doveva decidere, capire perchè la sua psiche l'avesse condotta su un sentiero tanto oscuro da desiderare la morte. Perchè quella era la Realtà dei fatti, aveva cercato la morte dell'anima, rinnegando tutto ciò che era stata e ciò che aveva fatto. Le persone che aveva amato, anche chi aveva odiato, gli attimi di soffisfazione e quelli di delusione, la felicità e la rabbia, la solitudine e il senso di appartenenza. Tutto aveva sempre convissuto perfettamente in equilibrio nella sua anima, ma lei aveva preferito rinnegarlo, scegliendo la via più facile, quella senza sassi e rovi. Almeno fino a quel momento.
- Come posso salvarmi? -
Aveva cambiato il soggetto e questo fece avvertire ad Ephes un principio di rinascita. Quei pochi minuti che si era presa per pensare le avevano rivelato la verità che bramava, e quella di cui fondamentalmente aveva bisogno.
- Devi perdonarti – le rispose lo spirito indicando il groviglio di rovi che imprigionava il suo corpo inerme. - Uno ad uno, devi spezzare ogni catena che hai creato in questi anni. Ogni radice ti riporterà ad un preciso istante della tua vita, devi viverlo e accettarlo, doloroso o fallimentare che sia. Solo accettando ogni singolo attimo della tua vita potrai ristabilire quell'equilibrio che ci ha unito fin dal principio. Siamo in due o uno solo, per questo non posso amarti solamente io. -
A quelle parole Mya sentì scivolare fra le dita un oggetto freddo e pesante, e spostando di poco lo sguardo vide nel suo pugno uno stiletto affilato. Era il momento, per quanto impaurita potesse essere la sua anima in quel momento doveva farlo. La sentiva scalciare nel profondo, opporsi e dimenarsi a quella tortura che sentiva l'avrebbe uccisa.

Ma stai comunque morendo, si rispose. E afferrò la prima radice tranciandola di netto.

Nel frattempo nella stanza della Tenuta in cui meditava il corpo fisico, una candela si spense rilasciando nell'aria un leggero odore di bruciato. Poco dopo altre due la imitarono morendo sotto un soffio invisibile. Tre, quattro, venti, ventotto, trentacinque.
Ne rimase solo una impassibile davanti alle gambe incrociate della giovane, una fiamma rossa che danzava fiera nell'ombra quasi assoluta della stanza. Tremò alcune volte, resistendo a quel soffio deciso, finchè non si arrese e l'oscurità calò tutt'intorno.
Nel buio un tonfo. Il corpo della ragazza esausta crollò sulle assi scricchiolanti della camera, gli occhi ancora chiusi, il battito ridotto a un debole rintocco nella sua cassa toracica.
Sul suo viso un'espressione sfinita, ma al contempo un sorriso leggero nasceva.
Le catene si erano sciolte, l'equilibrio riaffiorava
.
code © psiche
 
Top
view post Posted on 21/7/2019, 21:22
Avatar

Group:
Mago
Posts:
5,051

Status:


Partecipa al contest di scrittura di Luglio
Note alla lettura : Parlato inglese - parlato norvegese
È un libro, stavolta non mi sono davvero regolata con il numero di pagine, chiedo scusa (e offro riconoscenza) a chi avrà il coraggio di leggerselo tutto


gif
The Moth don't care when he sees The Flame.

Norvegia - 2 anni prima


I.


DFoa7Xu
- Mi sono stufato di aspettare, vado a cercarla -
Bellamy era già scattato in piedi, come se quella seduta di pelle fosse divenuta la cosa più scomoda sulla quale fosse stato costretto a sedere per più di un'ora. Aveva i capelli arruffati dalla foga di dita smaniose e il viso contratto in una smorfia nervosa. Non aveva dato a Corinne neppure il tempo di rispondere che già la sua mano era corsa frenetica alla maniglia della porta, ma prima di riuscire a sfiorarla il corpo massiccio di Encke si era già frapposto fra lui e la sua meta.
- Rallenta campione, non spetta a te decidere. Torna al tuo posto -
- Prova a darmi un'altra volta un ordine e ti strappo un orecchio al prossimo plenilunio – ringhiò il giovane uomo avvicinandosi al viso del cugino, sollevando le labbra e scoprendo i denti affilati. Encke era un uomo d'indole pacata, e dalla pazienza pressocchè infinita, due doti che tenevano egregiamente a bada la sua mole imponente. E il suo cuginetto non faceva eccezione alcuna, nonostante fosse il prossimo in linea di successione alla guida del branco, le sue minacce non lo scomponevano affatto. Troppo avventato, e spesso guidato dai sentimenti più improvvisi, non mostrava ancora quel temperamento savio che i suoi predecessori avevano posseduto prima di lui. Ma gli anziani si erano pronunciati, dopo giorni di preghiera in comunione con il loro Dio Cernunnos, il nome di Bellamy era stato impresso dalla divinità sul grande albero rosso della tenuta. E poco importava cosa ognuno di loro pensasse, il filo genealogico dei Walsch era sacro e antico, e nessun componente del branco aveva mai messo in dubbio le scelte dell'Alto.
Ciò non toglieva che suo cugino era ancor lontano dal ruolo di comando, motivo in più per ammonirlo per la sbruffonaggine dimostrata poco prima. - Corinne vuole ancora parlarti, se osi di nuovo disonorarla con il tuo atteggiamento irriverente riporterò la cosa direttamente agli anziani. Quindi. Torna. A. Sedere -
Bellamy ringhiò nuovamente, questa volta in un tono più rauco e contenuto, frustrato ma obbediente. Corinne Walsch era l'Alpha, la guida che da cinquantotto anni guidava il branco, il rispetto e l'amore che mostrava verso di lei non aveva eguali. Lasciò andare un sospiro rilassando le spalle, poi con passo rassegnato e lento tornò verso la poltrona, sprofondando in essa e guardando con aria interrogativa sua nonna.
- Partirai prima del calare del sole Bell, non prima. Porta con te Abyss e Levine, iniziate le ricerche dalla locanda babbana dove è stata vista l'ultima volta. -
Gli occhi di Bellamy si fecero più neri e intensi del solito, mentre un ghigno soddisfatto tagliava in due il suo bel viso. Quel guinzaglio troppo corto tenuto al suo collo dalle rigide regole del branco, e dalla gerarchia cui doveva sottostare lo avevano sempre irritato.
Si tirò su con le spalle, senza però alzarsi. Si sporse in avanti ricercando le mani dell'anziana donna, sospeso in quell'infimo spazio che li divideva. - La troverò. -
La donna non dubitava di quelle parole, Bellamy era il più capace fra i suoi cacciatori e quello dal cuore più forte. Non lasciava mai nessuno indietro, mai nessuno fuori dalle decisioni e dalle scelte, proteggeva il branco prima di sé stesso. Anche se per quella ragazza aveva mostrato un atteggiamento differente, era facile alla perdita di controllo e la lucidità quando si trattava di lei.
- Preparo la squadra, ti terrò aggiornata – disse infine alzandosi e raggiungendo nuovamente la porta, trovandola ora sgombra e aperta. Encke si era spostato docilmente, ma il giovane lupo superandolo gli lanciò un deciso cenno di silenziosa vittoriosa.

II.


Era quasi ora di cena quando tre lupi si affacciarono cauti fra la boscaglia che circondava il Bjørnehi .
Il sole era calato verso l'orizzonte, senza mai andarsene davvero, come era solito fare in quei lunghi mesi solari. Le luci all'interno della locanda erano comunque accese, e un deciso movimento si animava davanti alle finestre in un continuo passaggio di corpi. Attraverso la vecchia struttura in legno fuorisciva il brusio di un violino allegro e di voci ubriache di canto, segno che all'interno doveva esserci più movimento del previsto. Il grande lupo nero piegò leggermente il capo, inarcando la schiena e puntando gli artigli nel terreno, spingendo sulla terra indurita e i sassi. Nel brevissimo tempo di un solo respiro il suo corpo aveva già mutato aspetto, la pelliccia aveva lasciato il posto ad una pelle dalla carnagione brunita e un abbigliamento molto più umano. I lunghi capelli neri gli ricadevano arruffati sul viso, ma con un gesto veloce della mano Bellamy li riportò all'indietro. Il secondo lupo, dal manto rossiccio lo imitò, riprendendo la sua forma umana in un tempo più dilatato, accompagnato dal sonoro rumore di ossa che cedevano. Da sotto il manto fulvo fece capolino un uomo di qualche anno più grande di Bell, capelli rossicci tenuti molto corti e una spolverata di lentiggini evidentissime sparse tutte attorno a due occhi verdi e un naso aquilino. Levine era entrato nel branco da pochi anni, prima dei quali era stato un omega solitario sopravvissuto alla vita riportandone danni ingenti, del quale ancora pagava lo scotto. Stava guarendo, ma il suo corpo reagiva ancora a quel modo dopo ogni trasformazione.
- Sicuro di farcela ? – gli domandò il giovane, ricevendo in tutta risposta un deciso scrocchio del collo e un cenno del viso, in direzione della grande casa. Qualcuno infatti era uscito, con un grosso sigaro fra i denti e un velo di fumo che lo accompagnò finchè non richiuse il portone. I tre arretrarono di qualche passo nella boscaglia, finchè Bellamy non fece cenno al terzo lupo di restare in silenzio, in attesa e a guardia del perimetro. In quei boschi vigeva il divieto assoluto di caccia, per cui non si preoccupò eccessivamente dell'incolumità di Abyss, che seppur giovanissima conosceva alla perfezione quei luoghi. Oltretutto da diversi decenni erano circolate fra i babbani diverse storie e leggende sulle Bestie Sacre del bosco, e nessuno aveva mai azzardato neppure l'idea di inimicarsi gli Spiriti.
A quel punto Bellamy e Levine uscirono dal folto, scrollandosi briciole di terreno dagli abiti e avvicinando l'uomo col sigaro. - Sento cantare Lev, la birra di questo posto deve essere ottima* – disse il giovane, con un colpetto sulla spalla rigida del compagno e facendo un cenno di complicità al fumatore, che in tutta risposta si aprì in un sorriso sotto il folto baffone grigio. - Puoi dirlo giovanotto, non c'è birra migliore da qui a Narvik, parola mia. Stasera poi un forestiero sta pagando un giro a tutti, vi consiglio di approfittarne* -

III.



miniatura_ballo_0


All'interno il Bjørnehi si presentava come una casa dal tetto alto, costruito su un'impalcatura ben sostenuta di travi e assi di rovere. C'era un fortissimo odore di fumo che trasudava dalle pareti, annerite da anni di affumicatura, causata dal grosso camino che ardeva per giorni senza mai spegnersi. Tutt'intorno sul limitare delle pareti si stagliavano grossi quadri di scene di caccia, probabilmente memorie di tempi antichi ben lungi dal tornare. Al centro della stanza i visitatori avevano unito gran parte dei tavoli, riunendosi in un circolo goliardico di risate e urla, dopo ogni pinta buttata giù. Stava avvenendo qualche stupido e insulso gioco al suo interno, ma Bellamy sembrò approfittare di quell'attenzione concentrata altrove per affiancarsi al bancone. Il barista era un tipo lungo, estremamente magro al limite della fragilità, aveva i capelli raccolti in un codino finissimo al punto tale che, in un primo momento, gli fosse sembrato pelato. Il giovane ordinò due birre per rompere il ghiaccio, tanto più che a quanto si diceva fossero già pagate, gli sembrò scortese rifiutare. Dopo alcune chiacchiere di routine con il barista, Bellamy sfilò dalla tasca del suo giubbotto di jeans un cellulare e dopo una breve ricerca lo rivolse verso l'esile uomo. - Stiamo cercando questa ragazza, sappiamo che ha alloggiato qui qualche sera fa, ma da allora non abbiamo più sue notizie* -
Il barista allora si avvicinò maggiormente allo schermo del telefono, cercando di mettere a fuoco l'immagine mostratagli e quasi incrociando gli occhi nel tentativo. Parve metterci più di qualche secondo per far arrivare il segnale di immagine dall'occhio al cervello. Dopo averlo elaborato si risollevò con fare sorpreso e convinto, mentre continuava a pulire un bicchiere fin troppo lucido. - Oh certo, ma certo* - rispose, alleggerendo con due sole parole il cuore appesantito del lupo, una conferma che dava inizio alla sua ricerca. Ora doveva solo fare qualche altra domanda per capire se la ragazza avesse parlato con qualcuno di possibili mete, se avesse lasciato qualche indizio, poteva chiedere di ispezionare la sua stanza per trovare tracce olfattive da seguire. Ma prima ancora di porre la prima delle sue infinite domande, il barista stese un braccio quasi sfiorandogli il naso e indicando qualcosa alle sue spalle, al centro della stanza.
- È proprio lì, che Odino la benedica, in una sola serata ha risollevato le sorti di questa vecchia baracca* – l'oste era compiaciuto, Bellamy al contrario aveva la mandibola spalancata e il cervello incapace di elaborare ciò che stava vedendo.
Al centro esatto del mucchio di bestioni nordici e barbuti se ne stava Mya, in piedi sul tavolo mentre cercava di tenere in equilibrio sulla fronte tre bicchierini di rhum. - Dieci secondi dieci secondi* - gridavano in coro gli ospiti, battendo le grosse mani a tempo.

IV.


C'era voluto l'aiuto di Levine per riuscire a tirar giù dal tavolo quella ragazza, ma l'ostacolo più grande era stato farsi largo fra quei corpi voluminosi e unti, decisi a godersi lo spettacolo fino all'ultimo. A dieci secondi di sfida Mya non c'era arrivata, al quinto secondo il reflusso dell'ultimo shot le aveva fatto perdere l'equilibrio e i bicchierini erano volati in tutte le direzioni, rimbalzando su spalle corpulente, teste bitorzolute e nel peggiore delle sfortune direttamente a terra. - Te li ripago tutti Stein!* - gridò la ragazza con un tono di voce sbilenco e stonato, decisamente ubriaca oltre ogni limite di decenza e controllo. Dall'altra parte della stanza rispose il barista, pignolo ma sereno – mi chiamo Svein, e non deve preoccuparsi signorina* -
A quel punto Bellamy riuscì ad afferrare il braccio di Mya, che finalmente si accorse della sua presenza sussultando per la sorpresa, o il fastidio. Provò a strattonare il braccio per farsi lasciare dal ragazzo, ma il movimento fu talmente scoordinato da farla scivolare sulle gambe, finendo col sedere sul legno duro del tavolo. Tentando nuovamente la fuga, si spinse con i piedi, calciando i gomiti di alcuni poveri ospiti che già avevano preso le sue difese vedendola inerme e costretta in quella presa indesiderata. Uno dei presenti, più ubriaco degli altri (ed era difficile stabilire una simile graduatoria considerato i fiumi di birra che erano scivolati fra gole e baffi in tutto il locale) afferrò con forza il braccio del ragazzo, intimandogli di lasciarla andare. In tutta risposta Bellamy, preso dall'ira più incontrollabile, gli assestò una capocciata proprio sul naso, rompendoglielo sonoramente. Dal coro di uomini si alzò un “ooohhh” di sorpresa misto a febbricitante attesa di una possibile rissa, ma prima che questo potesse accadere Levine si intromise guardando il suo capo e chiedendogli tacitamente di ripiegare prima che finisse davvero male. Il giovane si pulì la fronte dal sangue rimastogli nel colpo, e guardando l'energumeno gli rispose con secca decisione – è mia sorella, e questa storia finisce ora. Godetevi l'ultimo giro* -
Detto ciò afferrò la ragazza di peso, portandosela in spalla e allontanandosi dal centro del bar. La grande cerchia di uomini si aprì come una porta al suo passaggio, forse intimoriti dalla forza e la violenza che quel giovanotto aveva dimostrato poco prima.
Mya ciondolava, e sbatteva, sulla schiena del lupo in movimento. - Bell. Sto per vomitare. - ma nemmeno il tempo di dirlo che già lo stomaco si erano rovesciato sul pavimento, sugli abiti del ragazzo e sulle mani di lei, nell'atto sciocco di provare a frenarsi. Era chiaro che in quelle condizioni non potevano rientrare, e neppure sentiva di voler fare una simile figura con il branco, Mya era stata posta sotto la sua supervisione e quella era una sua responsabilità diretta. Si avvicinò dunque al bancone, scusandosi con l'oste e chiedendo il numero della stanza da lei prenotata. Dopo una doccia e un sonno riparatore avrebbero ripreso il cammino, non c'era altra scelta. Lasciò diverse corone sul bancone per ripagare del disturbo e, prese le chiavi fornitegli dall'uomo, si avviò nel corridoio.
- Signor Stein...Sfein...Svein, glieli ripago davvero. Domaaani vado da Ikea e ne compro uuuna scatola intera* – disse la ragazza allargando le braccia e simulando l'entità della scatola appena citata. Dopodichè si abbandonò sulla schiena del compagno, respirando a contatto con il tessuto del suo giacchetto che sapeva di rhum, alcol e altre cose. Poi, come presa da una realizzazione improvvisa girò il voltò, ancora sottosopra – Bell! -
- Che c'è ora? -
- Ma noi non siamo fratelli – disse con la soddisfazione di chi ha appena fatto una deduzione pazzeschissimamente arguta. - Oppure lo siamo? -
- Chiudi quella maledetta bocca Mya – ringhiò cupo il lupo.
- Certo se lo foossimoo sarebbe davvero straano, voglio dire dopo... -
* Silencio* enunciò mentalmente il ragazzo stringendo la bacchetta nella tasca dei pantaloni, per mettere fine a quell'intermezzo, già di per sé imbarazzante.
Per tutta risposta Mya continuò a parlare, pur non emettendo alcun suono, senza nemmeno accorgersene evidentemente.

/-----/



Un'ora dopo la ragazza ronfava beatamente nel suo letto, abbracciata al suo cuscino come un suicida marino al suo masso. Bellamy la osservò un'ultima volta prima di uscire dalla stanza richiudendo la porta alle spalle. Tutto il clamore al piano terra era andato affievolendosi, segno che gli allegri ubriachi avevano finalmente imboccato la strada del rientro verso le loro dimore. Il giovane scese le scale scricchiolanti cercando di fare meno rumore possibile, nel timore di risvegliare quel cataclisma etilico con le gambe. Arrivato nel grande salone della taverna il ragazzo aveva notato da subito la figura dell'oste intento a rigirare gli sgabelli sottosopra e posizionandoli sui tavoli, per poter pulire i pavimenti prima della chiusura. Il suo compagno Levine era invece poggiato di schiena al bancone, con i gomiti puntellati sul legno e la testa lasciata andare all'indietro verso le spalle, come se stesse osservando qualcosa di estremamente interessante sul soffitto.
- Ehi... - lo richiamò il giovane lupo.
- Ehi – rispose l'altro, lasciando trapelare una certa apatia mista a stanchezza.
- Abyss? -
- È tornata a casa. Le ho lasciato detto quanto mi avevi comunicato, sarà già da Corinne in questo momento -
Bellamy rispose con un sospiro di sollievo. Quella “caccia” era durata meno di quel che si era aspettato, ma allo stesso modo lo aveva sfinito. Si passò una mano sugli occhi stanchi, e poi a scendere sugli zigomi fino alla mascella. Nonostante la stanchezza non sarebbe riuscito a prender sonno, tutta quella situazione era assurda, Mya era irriconoscibile in quello stato, e i suoi atteggiamenti totalmente fuorvianti. Cosa era accaduto in quei tre giorni di lontananza a ridurla in quello stato di follia? L'aveva vista spesso bere, ma mai al punto da non ricordare con quale arto si camminava e con quale si sollevava un bicchiere. Era stata a dir poco imbarazzante. Ma la conosceva abbastanza bene da percepire una nota ben più che stonata in quel quadro di euforia e ilarità. Attese che l'oste terminasse il suo giro di riordino del locale, poi gli fece cenno di raggiungerli. Presero posto sugli alti sgabelli del bancone, con un bicchiere d'acqua a lenire le conseguenze di quella serata.
- Mi scuso a nome di mia sorella, per il disturbo che vi ha arrecato* -
- Non dovete, a gestire una taverna, di scene come queste se ne vedono ogni giorno*. - rispose goliardico - Anche se ammetto che erano anni che non capitava, il Bjørnehi non ha passato anni floridi* – ammise con una nota di forte rammarico. Con l'apertura dei pub nei paesini più grandi, più moderni di una bettola di campagna, molti giovani del luogo avevano preferito salire in sella ad una moto e fare diversi km solo per bere la stessa identica brodaglia, solamente in un luogo più “chic”.
Il lupo si limitò a sorseggiare la sua acqua, sperando che l'oste non avesse l'intenzione di sciorinare tutta la storia della taverna dai suoi albori fino al tempo attuale.
- Ha detto che Mya...che mia sorella* – corresse all'istante il tiro, deciso a mantenere quell'improbabile messinscena – ha risollevato le sorti di questo posto, cosa intendeva? Non voglio farla sentire sotto pressione per le mie domande, vorrei solo capire cosa le è accaduto in questi giorni di assenza* - Si spostò di peso sullo sgabello, ruotando il corpo e osservando ora il suo interlocutore. Aveva bisogno di risposte, ma anche di sincerità. L'uomo si rigirava il bicchiere fra le mani, senza tuttavia berlo, quasi quell'acqua fosse qualcosa di prezioso. Ma alla domanda del ragazzo si rianimò, destato dai suoi pensieri foschi.
- Quella ragazza ha pernottato qui una sola notte, come tanti forestieri prima di lei. È stata discreta e sulle sue, ha richiesto un pasto in camera e al mattino è partita con le prime luci dell'alba. Non pensavo l'avrei rivista sinceramente, invece ieri sera si è ripresentata sull'uscio. Aveva un aspetto diverso, sembrava estremamente su di giri e allegra, ha ordinato la cena e si è seduta ad un tavolo, essendo una delle poche anime presenti mi sono intrattenuto in sua compagnia e abbiamo chiacchierato del più e del meno. Mi ha chiesto la storia del Bjørnehi e mi sono fatto prendere la mano, abbiamo parlato per ore* -
Ogni singola parola pronunciata dall'uomo gli arrivava come un cazzotto dritto sul naso, descrivendo l'atteggiamento di una perfetta sconosciuta. Quella scorbutica nanerottola che sorrideva e chiacchierava amabilmente con uno sconosciuto, condividendo il suo spazio vitale? Follia, o forse era finito in un altro universo. O una candid camera. Ma negli occhi dell'oste Bellamy non riuscì a scorgere neppure l'ombra di una menzogna, quell'esile uomo tutto ossa e cordialità stava dicendo il vero, per quanto assurdo suonasse al suo orecchio. Il ragazzo gli fece un cenno di interesse, chiedendogli tacitamente di continuare il suo racconto.
- Questa mattina è scesa per la colazione in tarda mattinata, ma non deve essere riuscita a dormire bene perché aveva grosse e pesanti macchie scure sotto gli occhi. Eppure si è comportata esattamente come ieri sera, euforica e pimpante, mentre sgranocchiava un fagottino al miele mi ha detto che sentiva il dovere morale di aiutarmi, immagino per la storia raccontatale la sera prima. Le ho detto che non importava, che la locanda sarebbe sopravvissuta in un modo o nell'altro, e che apprezzavo il suo interessamento. Ma non deve avermi dato ascolto, perché dopo essere sparita per circa cinque ore è tornata questo pomeriggio con un seguito di clienti assetati. Non ho davvero idea di dove sia andata a pescarli, ma vedere il locale così affollato mi ha riempito di gioia. Le mie ossa hanno gioito un po' meno, non ero più abituato a tutto questo movimento ah ah ah* – si lasciò andare ad una sana risata, che trattenne poco dopo nel timore di svegliare gli ospiti.
Una storia di per sé assurda, che lo diveniva ancor di più con quella seconda metà del racconto. Mya che mostrava un'empatia mai dichiarata e che si impegnava per risolvere i problemi altrui? Le parole Assurdo e Impossibile assumevano un significato del tutto nuovo.
Nel mentre che elaborava i dati fornitigli dal gestore il suo orecchio, sempre in allerta, captò un rumore proveniente dalla stanza al piano di sopra, dove la ragazza stava dormendo. Un tonfo sordo seguito da un tintinnio sul legno, alcuni passi e poi di nuovo il nulla. Bellamy senza pensarci troppo era scattato sulle scale congedandosi dall'oste e facendo cenno a Levine di seguirlo al piano superiore. Con circospezione aveva aperto la porta, bacchetta alla mano per ogni evenienza, ma aveva solo intravisto la figura della ragazza nella penombra, avvolta nella coperta come un baco da seta. Per sicurezza perlustrò la stanza, inciampando maldestramente su un fagotto marrone sul pavimento. Era lo zaino di Mya, che per qualche strano motivo doveva essere caduto dalla poltroncina provocando quel tonfo avvertito poco prima. Lo raccolse e lo adagiò nuovamente sulla seduta. Era inutile allarmarsi o porsi domande delle quali al momento non poteva avere risposte. Tornò in corridoio per avvisare Levine e per consigliargli di andare a riposare, lui sarebbe rimasto di guardia. Dopotutto quella ragazza era sotto la sua responsabilità.

V.


miniatura_ballo_0

Al risveglio Mya si rigirò nel letto due volte, infastidita eccessivamente dalla luce del sole che filtrava dalla finestra già dalle quattro del mattino. Afferrato il cuscino se lo portò sopra il viso e in quell'oscurità artificiale si sentì annegare. Come al risveglio da un incubo terribile, al di fuori del quale si cerca di rimettere a posto i pezzi con lucidità, accettando l'ineluttabile verità che per quanto orribile e sofferta quella realtà fosse, sarebbe già svanita dopo il primo sbadiglio. Ma quella mattina i contorni dell'incubo che aveva vissuto non svanivano, per quanto ricercasse nella realtà elementi che l'aiutassero a disperdere quel dolore nel petto e quel senso di soffocante afflizione non vi riusciva. Più ricomponeva la sua vita, più quegli elementi caratterizzanti dell'incubo vi si incastravano alla perfezione, rappresentandola in pieno. L'incubo non esisteva, perché era la Realtà. E non poteva svegliarsi da quella verità, né fuggire in un nuovo sogno. Era chiusa in un pozzo sigillato, all'interno del quale continuava a filtrare acqua dalle pareti umide, a poco a poco l'acqua si sarebbe sostituita all'ossigeno e nei suoi polmoni non ci sarebbe stato altro. Stava annegando in un mare denso e putrido, generato dai suoi stessi sentimenti. Il dolore aveva la forma di un legaccio di corda stretto attorno alla gola, l'odio si presentava come una corona di spine avvinta attorno alla testa e spinta fin dentro il cranio, la frustrazione si trasformava in catene infuocate che le tenevano legati i polsi. La rabbia era simile ad un ruvido sasso incastrato nella trachea, la vergogna era sabbia e pietrisco negli occhi, il senso di colpa le sue stesse mani che tiravano la corda che la condannava a morte per soffocamento. Ma la morte non sopraggiungeva mai, come se non ne fosse degna, e meritasse invece quel supplizio eterno. Incapace di reprimerlo ancora, un gridò uscì dalla sua gola infiammata dal pianto soffocato, e bloccato in parte dal cotone e dalle piume del cuscino.
Bellamy, che fino a quel momento era rimasto in dormiveglia seduto a terra con le spalle contro il bordo del letto, si alzò di scatto sfiorandole la mano ancora stretta sulla federa. - Ehi ehi, svegliati, è solo un incubo, passerà...io sono qui – guidata, controvoglia, da quella voce la ragazza parve calmarsi, lasciando scivolare le sue dita fra quelle del compagno, senza tuttavia togliere il cuscino dal viso. Non voleva mostrargli la profondità di quel pozzo oscuro. “Solo un incubo” lo aveva definito, sarebbe stato bello credere alle sue parole, alla sua voce.
- Ora va meglio – mentì sollevandosi sul letto e abbandonando la sua mente con lentezza, ancora abbracciata al cuscino. Afferrò qualcosa fra le pieghe delle lenzuola e si alzò spostandosi nella stanza – vado un momento in bagno, tu cerca di riposare in una posizione meno strana – gli disse indicando il letto, abbastanza grande per ospitarli entrambi. Anche se dubitava che avrebbe ripreso facilmente sonno.
Accese la luce nella piccola toilette e richiuse la porta alle sue spalle.

VI.


Un dolore fastidioso al braccio destro riportò Bellamy alla realtà, svegliandolo dal sonno profondo in cui era crollato solo qualche ora prima. Se ne stava a pancia sotto disteso sul letto, con il braccio incriminato che penzolava giù dal bordo sfiorando il pavimento. Aveva perso la sensibilità delle dita, al punto da non sentire neppure il tocco del legno. Gli parve di avere un moncherino al posto della zampa. Si risollevò stordito, sfruttando il braccio ancora sano e accorgendosi con un ritardo di troppo che Mya non era più nel suo letto. Di scatto si alzò, improvvisamente sveglio ma ben lungi dall'essere lucido, si fiondò nel bagno senza trovare traccia della ragazza. Il suo zaino era sparito, così come tutte le sue cose. Un terrore miscelato con cura alla rabbia lo invase, trascinandolo in pochi secondi fuori dalla stanza e giù dalle scale, talmente veloce da rischiare di arrivare al piano terra rotolando sulla sua colonna vertebrale.
Nella stanza al piano di sotto l'aria era satura dell'odore di mirtilli, di pastafrolla appena sfornata e di miele e grano. Risate leggere riempivano l'aria, accompagnando un chiacchiericcio divertito e animato. Seduti attorno ad un tavolo tondo se ne stavano Mya, Levine e altri due commensali sopraggiunti nella notte. L'oste versava loro del buon latte di capra nei grossi bicchieri e riforniva le caraffe di caffè e spremuta di melograno, partecipando al loro dibattito. Levine fu il primo ad accorgersi della sua presenza, preoccupato in un primo momento dallo sguardo ansioso del capo, capendo un secondo dopo il motivo della sua preoccupazione. Gli fece cenno di avvicinarsi, spostandosi lateralmente sulla lunga panca e lasciandogli posto sulla seduta. Bellamy si voltò un momento verso le scale dalle quali era corso giù, più per nascondere il viso che per reale interesse. Si strofinò maldestramente gli occhi, risistemandosi i capelli perennemente arruffati e li raggiunse sedendosi fra il suo sottoposto e la ragazza. Le lanciò uno sguardo duro, a tratti silenziosamente furioso, ma in tutta risposta Mya ricambiò con stupore, inclinando la testa. - Che c'è? Vuoi il mio strudel? - gli chiese porgendogli il profumato fagottino ad un soffio dalle labbra. - Ovviamente no – si rispose da sola, e con voracità affondò i denti e le labbra sulla sfoglia croccante. Sorrideva, e sembrava serena come mai l'aveva vista in due anni in cui la conosceva. Sorrideva, e quel sorriso inquietava e preoccupava il lupo. Come poteva non avere ribrezzo e vergogna per l'imbarazzante sequela di momenti accaduti la sera precedente? Che non li ricordasse?

VII.


I due lupi si erano già incamminati lungo il sentiero, lasciando Mya nei pressi della locanda per gli ultimi saluti e un ringraziamento fin troppo sentito all'oste. Anche se a distanza Bellamy riuscì ad ascoltare con estrema chiarezza le loro voci. Il gestore la ringraziava per il giorno precedente, invitandola a tornare quando voleva, la porta del Bjørnehi era sempre aperta per lei. La ragazza strinse con vigore le mani dell'uomo, augurandogli il meglio. Quegli atteggiamenti facevano rabbrividire Bellamy ogni secondo di più. Era lei, eppure non era affatto lei.


miniatura_ballo_0
Poi la ragazza li raggiunse seguendo i due lungo la strada asfaltata, avrebbero proseguito ancora per qualche centinaio di metri prima di inoltrarsi nel fondo del bosco per non destare sospetti.

miniatura_ballo_0

Levine fu il primo a riprendere la forma animale, precedendoli lungo la strada del ritorno. Mya con un incantesimo ridusse le dimensioni del suo zaino, così da poterlo trasportare meglio durante la mutazione, ma il lupo nero la fermò afferrandola con delicatezza per il braccio.
- Non stavolta, non sei ancora pronta -
Mya in tutta risposta si lasciò andare ad una risata cristallina, cogliendo alla sprovvista il giovane, che al contrario si era preparato ad una delle sue solite piazzate spavalde. - Se non ora, quando? Dai Bell mi sento alla grande, magari è proprio di questo che ho bisogno per concludere il mio ciclo. Ci sono vicinissima, lo sai. O hai solamente paura ch'io arrivi prima di te alla tenuta? Perché sai tecnicamente è così che andrebbe – allargando le braccia simulò un volo, ruotando su sé stessa. Di nuovo quell'atteggiamento da brivido, spavalda sì ma circondata da un'euforia che a Bell era sconosciuta, se indossata da lei.
- Se non ti schianti prima al suolo – gli rispose sarcastico, sequestrando il suo zaino minuscolo e precedendola sul selciato del bosco.
- In quel caso avrai l'onore di raccogliere le mie spoglie, dicono che lo stufato di falco sia delizioso. Ne hai mai mangiato uno? - chiese come una bimba curiosa, seguendo il compagno nel fitto del bosco.
- Ma cosa hai bevuto di tanto letale da scioglierti la lingua? - ribatté il lupo irritato, spingendo con forza ogni passo sul terreno. I suoi stivali lasciavano impronte nette ed evidenti, all'interno delle quali Mya saltellava, presa in uno stupido gioco in solitaria. Le impronte grandi di Bell erano facili da seguire, un passo sicuro su cui avanzare, nessun imprevisto che la sua suola non avesse già saggiato.
- E sì, ne ho mangiati diversi, anche crudi se quella è la prossima domanda. La vostra carne è sopravvalutata a mio parere, siete stoppacciosi, e pieni di fastidiosissime e minuscole ossa. Ho soddisfatto la tua curiosità? -
La ragazza non rispose, troppo presa nella sua avanzata di pedata in pedata, o catturata da chissà quali pensieri. Continuava a saltellare, con quel sorriso scemo piazzato in faccia. Bell si scoprì oltremodo frustrato da quella felicità immotivata che la ragazza irradiava, felicità di cui lui non percepiva l'origine, e ancor più difficile da ammettere di cui non faceva evidentemente parte. Qualcosa era accaduto a Mya, qualcosa che le aveva cambiato la vita, in un modo in cui loro non erano riusciti a fare in due anni. Da quando era arrivata alla tenuta, distrutta e disperatamente aggrappata a quell'ultimo frammento di speranza, i Walsch si erano presi cura di lei, l'avevano accolta nel branco e l'avevano guarita. Prima superficialmente, poi avevano iniziato a curare il suo animo e il suo spirito, ma il passo più grande che le avevano visto fare era stato riconquistare il suo orgoglio e le sue ali, ma mai la felicità. Forse perchè si sentiva straniera, e lontana da casa, ma mai un sorriso tanto sereno era comparso sul suo viso.
In silenzio proseguirono il resto del percorso, accompagnati solo dal mugulare di Mya che con delicatezza solfeggiava musiche antiche, fra le labbra leggermente dischiuse.

VIII.


- Ho trovato questa fra le sue cose – ringhiò il giovane quasi sbattendo la piccola fiala di vetro sul tavolo della nonna, sotto il suo sguardo sorpreso. L'anziana donna allungò le dita ossute e, fra un tremore e l'altro, avvicinò la fiala al viso. Con non poca fatica strappò via il tappo in sughero e lo lasciò cadere sul pianale in legno, annusandone l'essenza.
Nel frattempo un grosso schianto si infranse sulla porta della stanza, accompagnato da una voce rabbiosa – Bell! Restituiscimela! È mia, questa cosa non ti riguarda, non hai alcun diritto di scegliere per me! Bellamy! Esci subito ! - E giù di pugni furiosi sul legno massello.
Oltre la porta la voce di Mya arrivava ovattata, ma si percepiva chiaramente tutta la sua rabbia, al punto che l'anziana donna con un cenno indicò ad Encke di occuparsene. Il nerboruto uomo non se lo fece ripetere una seconda volta e, presa la strada della porta, la attraversò afferrando la nanerottola prima che riuscisse ad infilarsi nella stanza.
Seguì un acceso diverbio fra i due e i rumori di una decisa colluttazione. Encke doveva aver guadagnato una sonora capocciata sotto al mento mentre cercava di bloccare i movimenti della ragazzina. L'anziana donna riprese ad osservare il liquido ambrato che fluttuava all'interno dell'ampolla, le era bastato sfiorarne una goccia con la lingua per saggiarne la consistenza e la reale entità.
- È Felix Felicis, senza ombra di dubbio – una sola goccia era bastata alla donna per farle provare la sensazione di avere circa un ventennio in meno, con il desiderio appena controllabile di scattare fuori e correre a perdifiato con le zampe nella valle. Ma era abbastanza tenace e matura, da saper gestire quell'effetto della pozione.
- Una pozione della buona sorte? Perché mai avrebbe dovuto … - chiese interrogativo il giovane in direzione della nonna. Per quanto assurdo fosse da credere che la ragazza avesse volontariamente ingurgitato quella pozione, perlomeno questo spiegava tutti i suoi atteggiamenti dell'ultima settimana. In piedi fin dal primo mattino, aiutava nel preparare la colazione per tutto il branco, meditava per ore e si allenava senza mai stancarsi, e senza alcuna lamentela. Condivideva i suoi pensieri con gli altri lupi e si lasciava anche travolgere dall'ilarità generale, dalle storie e dalle opinioni. Aveva persino ottenuto un nuovo record di trasformazione, riuscendo a mantenere la mutazione per quasi un'ora senza ripercussioni. Ma quell'intruglio magico poteva davvero avergli dato quella nuova identità? E se l'aveva fatto, a quale scopo? A Bellamy sembrava un'enorme follia, una menzogna depravata, perché quella che batteva con furia i pugni sulla porta e scalciava e si dimenava rabbiosa nel corridoio, quella era la vera Mya.
- È una pozione rara da trovare, e ancor più da creare, dubito sia stata opera sua, qualcuno deve avergliela procurata mentre era fuori. In quanto al perché lo abbia fatto, non so darti una risposta mio piccolo Bell, molti cercano un'occasione in essa, un riscatto, altri la felicità. -
Il giovane prese la fiala che l'anziana gli porgeva, studiandola anche lui più nel dettaglio e notando nuovi inquietanti particolari. La boccetta era ancora mezza piena, di almeno due dita di siero, mentre il tappo in sughero sembrava avere una certa lentezza nella presa segno che era stato aperto più e più volte. Espresse quel pensiero alla donna. - Non è una pozione che viene presa tutta d'un sorso? Il suo effetto dura per un giorno solitamente, ma lei ne giova da più di una settimana, come è possibile? -
- Deve averla diluita nelle bevande, o presa in piccole dosi. Il suo effetto sarà stato sicuramente ridotto, ma deve averle permesso di conservarla più a lungo – le rispose la saggia donna, nei cui occhi si era presentata l'ombra di un rammarico, una tristezza delicata e gentile, causata da quella forte empatia che le permetteva di guardare il mondo attraverso il cuore altrui. E le motivazioni di quel giovane cuore piumato, per quanto le fossero sconosciute, la ferivano come se il dolore e la sofferenza fossero suoi.
- Può averne sviluppato una dipendenza? - chiese il nipote, ora più calmo ma ugualmente preoccupato per quella situazione che non sapeva come gestire. - È probabile, questo giustificherebbe i suoi picchi di furia improvvisi, deve essersi assuefatta alla sensazione che la pozione genera nella sua mente -
Come possiamo combattere la dipendenza? La leghiamo finché non smaltisce l'ultima stilla di pozione? -
L'anziana donna proruppe in una mesta risata, smorzata solo dalle sue limitate capacità respiratorie. Diede un colpo di tosse e tornò a guardare con dolcezza il nipote, ancor troppo giovane ed inesperto per portare quel gravoso peso sulle spalle. Sperava di non raggiungere le beate terre di Cernunnos prima di averlo visto crescere, compiendo il suo destino, lungo il sentiero che gli Dei gli avevano preparato. - No, mio piccolo Bell, un cuore non si cura stringendolo a morte -
- Il cuore? -
La donna fece cenno al giovane di avvicinarsi, prendendo posto sul bracciolo della sua vecchia poltrona, come quando era più piccolo e lei gli raccontava qualche storia interessante.
- Il cuore di quella ragazza è lacerato Bell, lo abbiamo medicato come e meglio potevamo, ma sta ancora soffrendo, sta ancora combattendo. Qualsiasi cosa sia successa mentre era via deve aver riaperto quelle blande cuciture, e strappato via quel poco di sollievo che a fatica aveva riguadagnato. Ora ti prego, va da lei e poi portala qui da me, ho bisogno di parlarle. -
L'anziana fece cenno al giovane di lasciare la fiala al centro del tavolo, prima di andare.

IX.


Encke borbottò qualcosa a Bellamy prima di sbattere con forza la porta ed estraniare entrambi da quella conversazione. Mya era agitata, si muoveva a scatti nella stanza, avanzava cambiando diverse volte direzione, senza il coraggio di guardare direttamente negli occhi Corinne. Si sentiva osservata, giudicata, trovata fallace. La vergogna la vestiva dalla testa ai piedi, e di fronte a quegli occhi velati dalla cecità si sentiva nuda, senza riparo.
Riconobbe il profilo della fiala sul tavolo e d'istinto ci si lanciò, senza pensarci due volte stringendola fra le mani giunte. L'anziana donna non fece nulla per fermarla, continuando ad osservarla con estrema calma. Quegli occhi ciechi e vuoti la seguivano ovunque, non importava quanti movimenti e spostamenti facesse, Corinne la Vedeva. - Ti prego, prendi posto – la invitò con quel suo solito tono pacato, ma deciso.
Mya, con le dita ancora strette attorno al vetro della fiala, si sedette sulla poltrona con lo sguardo basso ad osservare le sue stesse gambe. Provava un disagio senza pari, causato anche da quella reazione improvvisa che aveva avuto alla vista del suo tesoro. L'effetto della precedente dose era ormai agli sgoccioli e attraverso le pieghe di quella realtà distorta iniziava ad avvertire l'arrivo dei mostri, che subdoli scivolavano nei pertugi della sua razionalità. Doveva prenderla, altre due gocce, solo altre due gocce sulla lingua e avrebbe superato la sera. I mostri sarebbero tornati nell'oblio della coscienza assopita. Solo due gocce. Le mani tremanti corsero al tappo, che si svitò con un sonoro “pop”.
- Posso sentirli arrivare – disse d'un tratto l'anziana cogliendo alla sprovvista Mya, che rimase con la boccetta a due soffi dalle labbra. Non c'era nessun altro nella stanza a cui potesse essere riferita tale frase, eppure quelle poche parole le erano così familiari. - Non posso vederli questo è certo, ma immagino siano abbastanza vicini, se senti il bisogno di fuggire con così tanta fretta da non potermi concedere un minuto di più -
Quelle parole giunsero come una coltellata nel petto, provava una profondo rispetto verso Corinne anche se la sua forte empatia spesso la spaventava, incapace di nasconderle anche il più piccolo dei turbamenti. - Qui sei al sicuro, non possono farti nulla -
A quelle parole gli occhi di Mya si velarono di dolore, trasformando la paura in rivoli d'acqua salata, inarrestabili. Era chiaro a Corinne che quella ragazza stava fuggendo da un nemico invincibile, o che almeno lei riteneva tale, al punto da preferire l'oblio ad una reale resa dei conti. - Menti – si permise, con tono estremamente oltraggioso e una punta di acida rivalsa, di cui si sarebbe pentita in seguito.
- Può darsi...ma non hai negato il fatto che stai fuggendo, e ne sei consapevole mia piccola piuma. Quel siero finirà prima o poi, e di te cosa rimarrà, questo sai dirmelo? -
Le mani della ragazza tremavano, seppur strette alla fiala come fosse la sua unica via d'uscita da una situazione di impellente pericolo. Il suo cuore aveva iniziato a battere più forte, i mostri graffiavano sulle pareti della falsa realtà in cui li aveva relegati, pronti a sfondare le porte al primo cedimento. Tremava di dolore, e paura, l'orgoglio ormai non le apparteneva più, aveva solo bisogno di allontanare quell'orrore dalla sua testa. Eppure non riusciva a muovere le mani, la fiala era immobile a mezz'aria, il suo profumo spinto nelle narici la inebetiva richiamandola ad un gesto primordiale, necessario. Solo un sorso e tutto sarebbe svanito. Per quanto? Un giorno? Una settimana? Stupidamente aveva cullato l'idea di poter lenire quel dolore diluendolo nel tempo, così che al risveglio dalla pozione avrebbe ritrovato un mondo meno pesante, con più risposte e meno sofferenza. Ma come poteva avere la certezza che i sentimenti funzionassero esattamente a quel modo?
- Da qualsiasi cosa tu stia cercando riparo dovrai fronteggiarlo prima o poi o esso ti accompagnerà ogni giorno della tua vita, come una macchia nera che non puoi lavare via. Non è chiudendo gli occhi che lo vedrai scomparire piccola mia- Di nuovo quella sensazione di essere trasparente agli occhi di Corinne, chiara e limpida come acqua oltre la quale non poter nascondere alcun relitto. Quelle parole furono l'ultimo colpo, assestato contro quelle fragili pareti, che crollarono in un solo momento sotto la spinta dei demoni.
- Fa male Corinne – esplose in un pianto la ragazza, crollando sulle sue gambe e portandosi le mani al viso per contenere quel fiume di dolore pronto a strabordare oltre gli argini. - Non riesco a fronteggiarlo, non riesco a conviverci, è buio e soffocante. Non vedo più il cielo Corinne, non lo vedo più -
La donna guidata da quella richiesta d'aiuto, si alzò e raggiunse la ragazza abbassandosi a fatica sulle sue vecchie gambe. Non la toccò né sfiorò rispettando quel momento sacro di intima sofferenza. - Il cielo è ancora al suo posto piccola mia, anche se ti sembra offuscato e irraggiungibile, non ti può essere negato. Sono solo nuvole, e tempesta, ma se non ci passerai attraverso non potrai scoprire il sole che attende al di sopra. - le parole dell'anziana accarezzavano la sua anima, allo stesso modo in cui avrebbero fatto le mani se solo la donna si fosse sporta di poco più avanti. Mya rannicchiata sulla sua piccola figura, continuava ad asciugare le lacrime che imperterrite marcavano le sue guance, brucianti. - Volaci attraverso mio giovane falco, e narrami ciò che vedi -
In quel momento Mya percepì una tensione diversa calare sull'intera stanza, una forza magnetica ascensionale che bloccava l'aria e il tempo. Corinne era Corinne, ma al contempo sembrava qualcos'altro, come un'immagine eterea o sovrapposta fra due piani dimensionali. Emanava la stessa sensazione avvolgente e familiare che aveva percepito durante il rituale d' ascensione nella dimensione spirituale, o ancor prima indietro negli anni quando aveva conosciuto Ephes, la sua guida. L'anziana donna le prese allora una mano avvolgendola fra le sue, calde e delicate, così esili e fragili. La ragazza tirò su col naso, cercando di calmarsi ma l'aria nei polmoni entrava a fasi irregolari e fra un respiro e l'altro le pareva di soffocare. Chiuse gli occhi cercando di condensare quel turbine di sensazioni in parole.
- Fra le nubi scure rivedo i loro volti, sono freddi come il marmo e i loro occhi sono chiusi. Non possono vedermi, e anche se li tocco non si accorgono di me. Sento stridere del ferro sulla pietra, e un rumore di catene che ciondolano. Ombre oscure si avvicinano ai loro corpi inerti, inveiscono su di loro senza ch'io possa fare nulla. La loro pelle si fa scura sotto i colpi inferti, sangue nero esce dalla pelle straziata, il corpo si scheggia, si spezza, si rompe. Il rumore della morte mi arriva ovattata, come la mia stessa voce che grida, vorrei muovermi ma il rumore di catene che avverto è ai miei piedi. Le catene mi avvolgono le caviglie e credo di non poter far nulla se non guardare. Guardo la morte, ma il dolore è il mio. Loro sono andati, non mi guardano, né mi giudicano, né possono incolparmi. Ma io lo vorrei. Provo dolore perché mi dico che avrei potuto salvarli se solo non avessi avuto i piedi legati, ma guardo in basso e mi accorgo che le catene sono sciolte, lo sono sempre state. Eppure non mi muovo, ancora e ancora, rivedo la loro morte e resto immobile -
Le lacrime erano tornate a inondare i suoi occhi, che ora fissavano il soffitto della stanza, come in uno stato di trance. Quel dolore rivissuto attraverso le parole fu straziante per il suo giovane corpo indebolito, il cuore pompava ad una velocità inusuale, il sistema nervoso era andato fuori controllo. Si sentiva prossima allo svenimento, se solo Corinne non la tenesse ancora vigile con il suo tocco gentile. La verità che Mya cercava era vicina, e per quanto dura potesse essere doveva arrivare ad una realizzazione completa.
- Cos'è dunque che cerca il tuo cuore? - le chiese stringendo di poco la sua mano.
- Perdono – uscì flebile dalle sue labbra massacrate dal pianto e dalla morsa nervosa dei suoi denti. Era la prima cosa che le era venuta alla mente, chiedere perdono per gli errori commessi, per le mani che non aveva allungato in soccorso, per le parole che aveva taciuto e che avrebbero potuto fare la differenza nella vita altrui. E nella sua. Supplicare quel perdono per l'odio che aveva coltivato, egoisticamente, senza mai cercare la vera risposta. Chiedere perdono per la sua stessa esistenza, cancerogena e letale per chiunque avesse incontrato sulla sua strada. Ma c'era davvero perdono per una vita spesa tanto male e nell'errore più assoluto? - È davvero questo che desideri? Il perdono non puoi averlo da coloro che riposano fra le braccia degli Dei, né chiederlo a coloro che ancora camminano su questa Terra. Il perdono è un atto divino e nessun essere umano può fartene dono se non con un gesto di presunzione e superbia. Tu sola puoi perdonare te stessa, e v'è un solo modo -
La ragazza riuscì a riprendere il controllo del suo cuore, e dei suoi respiri, rallentando la frenetica corsa del suo petto. Chiuse gli occhi, assorbendo la voce di Corinne e facendola sua, mentre la mente adombrata faceva luce su quel piccolo vaso di rame, sigillato, all'interno del quale era nascosto il suo desiderio più profondo. Tremava, ma reciprocò il gesto dell'anziana e strinse le sue dita con un cuore terrorizzato, ma più consapevole.
- Cos'è dunque che cerca il tuo cuore? - chiese per la seconda volta la donna, aspettando la risposta che ormai sapeva essere giunta.
- Redenzione – rispose la ragazza, con gli occhi chiusi e le spalle smosse dai sussulti del pianto liberatorio. Quella consapevolezza faceva male, ma non come una lama sulla pelle, era più simile al dolore provocato da una panacea su una ferita aperta. Un dolore necessario affinchè tutti quei sentimenti strappati cicatrizzassero, mostrandole solamente il ricordo di ciò che avevano significato.
- Apri gli occhi – le disse con dolcezza la donna, sfiorandole una guancia per rapire una lacrima – e dimmi cosa vedi -
Mya seguì quel comando, quasi a fatica tra il bruciore della pelle irritata dal sale e le ciglia imperlate di lacrime. Ma una luce abbagliante la colpì, quasi costringendola a richiuderli. Oltre le nuvole oscure c'era davvero il sole più mite e gentile che avesse potuto immaginare.

X.


Bellamy l'aveva raggiunta quasi di fretta, con le mani infilate nel giacchetto e il colletto alto per ripararsi dal vento che spirava sulla ripida scogliera. - Lo fai davvero? - le chiese con tono fintamente dubbioso, e sarcastico.
- Regalo un giorno di felicità ai pesci, sono una persona caritatevole non trovi? - l'ampolla con la pozione dell'illusione chiamata felicità era ancora fra le sue dita, come se in realtà ne temesse il distacco. Era stato bello dimenticare, dimenticare gli errori commessi, dimenticare di aver avuto un passato, niente da rimproverarsi. Ma senza quel passato di lei cosa restava? Una persona che avrebbe continuato a commettere gli stessi errori, momento dopo momento, in un ciclo eterno di perdizione e fallimenti. Stappò la fiala e stendendo il braccio oltre il dirupo lasciò scivolare via il liquido ambrato, che precipitò verso il basso accompagnato dal vento.
Non aveva idea se la felicità esistesse realmente, e se vi fosse il modo di gustarla senza che questa creasse una problematica dipendenza. Ma se avesse voluto darsi questa possibilità, prima o poi, in qualche misterioso modo, il mondo forse l'avrebbe sorpresa.


Happiness is an allegory


CITAZIONE
Ho voluto sfruttare il potere della pozione in un modo diverso, più affine al comportamento del mio pg. In questo caso un forte crollo emotivo, dato dalla morte di una persona davvero importante, che non ha saputo metabolizzare. In questo caso la pozione le offre nuove prospettive, la motiva a seguire con più costanza e dedizione i progetti messi in atto, la rende volenterosa ed energica (e poichè silenziosamente si incolpa di molte cose, cerca di impegnarsi per il prossimo). L'effetto è dunque quello di dissociarla dalla realtà effettiva e dal dolore che non riesce ad affrontare, focalizzandosi su un presente più costruttivo, ma ne perde il controllo e genera una sorta di dipendenza.
Spero che tuttavia sia rimasto entro le linee guida del contest.
 
Top
view post Posted on 26/3/2020, 14:48
Avatar

Group:
Mago
Posts:
5,051

Status:


Partecipa al contest di Marzo.
Tema: Pazzia
Titolo: Cuore di cera
.


[Non c'è maggiore imprudenza di una prudenza distruttrice]




Inis Mor | estate di 15 anni prima
Una frenesia costante di passi agita il silenzio dello studio, coprendo con il suo calpestio perfino l'assordante rintocco della vecchia pendola. Piedi agitati si muovono nel grande ambiente, senza un percorso definito, evitando l'ingombro della poltrona di pelle nera da un lato, o una pila di libri posta a terra sull'altro. Sono i piedi di una donna sull'orlo di una ritrovata crisi di panico. Erano anni ormai che gli attacchi crudeli di quel malessere mentale erano andati affievolendosi, lasciandola libera di respirare quel ritrovato odore di vita, di una sottile quanto delicata felicità. Per anni aveva creduto di non meritarla affatto, di non essere la destinataria di un simile dono, aveva combattuto quasi ostinatamente affinchè non le spettasse. L'aveva rifiutata, allontanata, rinnegata, perchè anche solo il pensiero di accettarla nella sua vita assumeva il peso di un senso di colpa ancora maggiore. Tutto quello che era accaduto negli anni passati aveva continuato a gravarle sul cuore con una tale determinazione che neppure l'amore incondizionato della prima maternità l'aveva salvata. Chiusa mentalmente in quel limbo di rimorso, costringeva la sua stessa mente a rivivere gli eventi, con la stessa intensità dell'attimo in cui li aveva immortalati. E tutto il dolore, la frustrazione, il senso di impotenza, divenivano le acque torbide nel quale il suo equilibrio affogava in ogni minuto di quell'esistenza.
Poi era arrivata quella bambina, così piccola e rumorosa fin dai suoi primi mesi di vita. Era un essere puro, a cui lei aveva dato la vita, e che non portava sul corpo alcun segno del suo fallimento. Era immacolata, vivace e forte, era quel segno che aveva atteso per tanto tempo. La sua rinascita, il suo perdono. Per questo aveva deciso di darle un nome antico, Mry, "beloved", poi translato in un nome più moderno. L'avrebbe amata e protetta come la più preziosa delle luci, nel folto bosco che era ormai la sua mente.
Ma una luce può anche accecare, o persino bruciare, se non la si conosce abbastanza da mantenere la giusta distanza. Ed è quello che sta accadendo in quel momento, in casa Lockhart. O perlomeno nella mente provata di Eve Mor. - Ora cerca di calmarti, e respira Eve - la voce ferma ma gentile del marito la segue per la stanza, sfiorandola appena con le dita quando gli passa al fianco. Non vuole interrompere bruscamente quei suoi movimenti, né intromettersi in quel fragile costrutto che sembra diventata ormai l'anima della donna. Aveva davvero creduto di averla avuta nuovamente al suo fianco, dolce e determinata come era stata in gioventù, prima che la vita le strappasse con crudeltà quell'innocenza e quella capacità innata di amare il mondo. Eppure eccola là di nuovo fragile, pronta a crollare sotto il peso di errori che sente ancora suoi, ancora vivi e presenti. Con un ultimo gesto, forse più egoista e deciso, sfiora il viso della moglie, premendo con appena più forza affinché lei si volti a guardarlo interrompendo la sua caotica traiettoria. - Respira, Eve - le ripete, non perdendo di vista quegli occhi che sembrano aver perduto la lucentezza dell'acqua limpida, trasformandosi in abissi profondi. La donna restituisce lo sguardo, quasi frustrata dal fatto di non trovare negli occhi del marito la stessa preoccupazione che la attanaglia. - Lo hai visto anche tu, come fai ad essere tanto tranquillo - Scivola via dalla mano di Aiden e riprende a camminare, adesso raccogliendo oggetti e sistemandoli in posti differenti, quasi più per tenere impegnate le mani che per reale necessità d'ordine. L'uomo si passa una mano sul viso, esausto in principio dalla discussione che sente nascere e che lui, solo lui, sa di poter contenere. - So cosa ho visto. Nostra figlia ha manifestato il dono, e questo dovrebbe bastarci per essere felici -
D'un tratto Eve si ferma, con un tagliacarte ed un sigaro fra le mani, come se le parole di Aiden l'avessero raggiunta al pari di una coltellata. È forse la superficialità con cui lui osserva la faccenda ad infastidirla oltremodo? O il fatto che la sta giudicando come una persona instabile, incapace di osservare con razionalità una questione? - Sai che ho pregato gli Dei ogni notte per questo dono - gli risponde leggermente risentita, poggiando il sigaro all'interno di una scatola d'avorio dai bordi di ebano. - ma non "quella" magia Aiden, lo hai visto quello scoppio brutale, e al contempo così controllato. Non è naturale un simile battesimo, io facevo levitare petali di fiore e tu...tu facevi suonare i tasti del pianoforte. Quella magia è...perversa, troppo simile a...alla Sua - quell'ultima parola le esce dalle labbra quasi con terrore, un brivido le fa tremare le mani lasciando che il tagliacarte cada sul tappeto dello studio. Il marito le si avvicina, senza fretta, si abbassa per raccogliere il cimelio e lo ripone sul terzo ripiano della libreria. - Ho visto solo una bambina con un grande potenziale Eve, e vorrei che lo vedessi anche tu. So a cosa stai pensando, ma lui non ha nulla a che fare con questa storia, men che meno con nostra figlia. Ma mi rendo conto che il suo ricordo è ancora troppo presente nella tua vita e non so se sarò mai in grado di compensare tutto ciò che ti ha tolto ... -
- Che ci ha tolto - le risponde lei, ora più tranquilla. La mano destra corre ad accarezzare il viso dell'uomo che ama, un fascio di rughe colme di tristezza gli increspa il bel viso. È stata lei a fargli questo? Continua a torturarlo nel dolore di un passato che non svanisce mai in lontananza, perchè lei sembra incapace di lasciarlo andare. Aiden afferra nella sua mano le dita esili della moglie e se le porta alla bocca, baciandole con intensità quasi dolorosa.- È lontano Eve, non potrà più farti del male, né a te né ai nostri figli. Ciò che stai provando è la riprova che devi lasciarlo andare, ora e per sempre. Non ti sto chiedendo di perdonarlo, ma devi allontanarlo. O rischierai di perdere lei, se lascerai vincere le tue paure. - La donna chiude gli occhi e delle tiepide lacrime scendono sulle sue gote chiare. Aiden ha ragione, l'ha sempre avuta. Il faro fermo nel suo mare in tempesta. Per quanto quella rivelazione l'abbia terrorizzata sa che deve imparare a razionalizzarla, ad osservarla con occhi puri e con un cuore pronto a colmare ogni perplessità che quel turbine di figlia manifesterà da quel giorno in avanti. Se anche quella magia primordiale trovasse modo di svilupparsi in lei, il suo compito di madre sarebbe quello di incanalarla nel sentiero dei giusti. Un fuoco che scalda, un fuoco che salva, che non compromette e che non consuma. Questo dovrà essere, per non dover più solcare un sentiero di cenere.
Infine solleva gli occhi, incrociando nuovamente le iridi ametista del compagno. - Devi promettermi una sola cosa. Lei non dovrà mai sapere nulla, di tutto quello che è accaduto. Mai. - Quella proposta sembra prendere in contropiede l'uomo, che si discosta appena per guardare meglio in volto la moglie e coglierne le intenzioni. Sembra estremamente decisa su quel punto, e impossibile da contraddire. - Con quell'indole curiosa che si ritrova non sarà facile. Sei davvero disposta a prepararle un piatto di bugie delle quali si sfamerà? - Lo sguardo risoluto con cui la moglie gli risponde basta a cancellare da lui il ricordo di quella debolezza che l'aveva quasi risucchiata nel buio qualche minuto prima. Una menzogna eterna in cambio di un futuro sereno. Continua a sembrargli un peso eccessivamente squilibrato sui piatti della bilancia, un peso che un giorno o l'altro si sarebbe spostato senza controllo fino a ribaltarsi. Eppure Eve ne ha bisogno per sopravvivere a quell'ombra che continua a braccarla, nel buio dei suoi timori più intimi. Anche se è lontano, anche se ormai inoffensivo e letargico, continua a ferirla.






...sul sentiero di cenere



Prigione di Azkaban | isolamento soggetti elementali

Con le unghie gratta la parete, ma non ha più unghie ahimè ahimè. Le ha consumate da anni ormai ahimè ahimè. Oppure gli sono state strappate?
Non ricorda. E il suo volto? Ne ha uno, sa di averlo, con un naso aquilino e un mento pronunciato oh si. Lo vede solo nell'ora miserevole di luce ahimè quando la luna bianca gli fa visita dall'unico pertugio scavato in quelle pareti nere. È il suo unico amico, quell'ombra smagrita e curva che si disegna sulla parete della grotta. Ma non è pietra, la pietra è amica. La terra non lo è, e loro lo sanno, maledetti inutili perdenti. Lo sanno, o lo temono oh si questo è plausibile. Hanno paura del fuoco, come scimmie che non si evolvono. Scimmie, eppure lo tengono in quella gabbia brulla e sporca. Il mondo è ignobilmente capovolto? Potere ai deboli e i potenti nei circhi? Anzi no, nel tartaro come i titani oh sì. Un titano nel cuore di terra del mondo, imprigionato con sè stesso e fuori da sè stesso. Che viltà quella ruberia ahimè. Il potere gli è stato negato, un letto di terra incantato gli hanno lasciato. Terra dura, terra imperitura che mai si consuma, che spregevole fato gli è stato concesso.
L'uomo, o l'ombra di ciò che ne è rimasto, vaga con passo trascinato lungo il perimetro della cella, il respiro che esce roco dalla sua gola arsa. Ha labbra consumate, al pari della sua anima, prosciugata di ogni stilla di rinfrescante umanità. Il suo verbo è perlopiù versi e parole ripetute di continuo, inframmezzate da un coro di risa che sembrano amplificarsi in quella stanza tetra e bassa. Ma di quella solitudine egli non sembra avvedersi, covando dentro tutto il rancore che gli basta per tenersi ancora aggrappato a quell'esistenza. Ha peccato di bramosia, questa l'accusa dell'ultima coscienza udita. Desiderio e peccato si erano mescolati con facilità in quell'animo avido e invidioso, un'amalgama perfetta di corruzione e superamento di ogni barriera. Perchè mai avrebbe dovuto rinunciarvi? Ignorare ciò che gli altri ignorano e vivere di inettitudine e accontentamento. Quale che era stato il prezzo da pagare, lui per certo l'aveva pagato.
L'uomo curvo si arresta, il mento alto, si guarda attorno quasi con smarrimento. La lucidità torna per un momento a governare i suoi pensieri. Non riconosce la stanza in cui si trova, ma il buio lo fa sentire stranamente a suo agio. Nell'oscurità scorge il profilo del letto e del muro di fondo, ma non è quello della sua stanza a Inistioge, c'è odore di putridume, di piscio secco e di carne morta. Non c'è nemmeno quello stomachevole aroma di crostata, e questo almeno lo rincuora. Dove si trova? E perchè ogni passo che compie è così pesante? Trascina il peso del corpo sulla gamba sinistra, la destra non sembra molto collaborativa, duole quando entra in contatto col suolo. Il terreno si muove sotto i piedi, che ha scoperto essere nudi, è indurito ma si sbriciola al suo passaggio. Non ricorda come è finito in quel luogo, c'è molta nebbia nella sua testa.
L'ossessione sì, l'ossessione e la brama ancora bruciano, quello lo ricorda. Decide di seguirla, come una scia odorosa, capace di riportarlo alla verità. La segue, docile, si fida di quel sentimento, è puro, crudele, intenso. È vivo, come la sofferenza sotto la quale sente piegato il suo corpo. I ricordi si riallacciano, come ramificazioni spoglie di un albero senza linfa, disegnano un dedalo di morte. Eccola la memoria che si riaccende.

Quella scoperta, quella conoscenza, quel dominio. Era stato per troppo tempo nel sentiero dell'oscurità, del mediocre essere che nega sè stesso, in cambio di una patetica sequela di eventi inconcludenti. Ma aveva trovato la luce, il sentiero verso la grandezza, c'era arrivato vicino, terribilmente.
Miti li chiamano.
Miti li denigrano.
Ma la storia è là, è là, così stupidamente evoluta in una favola per mocciosi. È là. Solo lui ha visto la verità negata, ha cercato di mostrarla anche a *****. A modo suo lo ama, di un amore perverso e malato certo, sul baratro dell'ossessione. Ma ***** non lo comprende, lo addita a folle come tutto il resto del mondo. La grandezza di cui lo ha vestito cade a terra come fanghiglia inconsistente, rivelando tutta la miserevole esistenza dell'uomo che ha creduto amico e pari.

Quella delusione monta nuovamente nell'uomo curvo, le braccia hanno spasmi e il collo si curva in maniera innaturale. Si prende la testa fra le dita ossute, quasi conficcandosi i polpastrelli fra le rughe della fronte. Si ferisce gli incavi sotto le sopracciglia spingendo con più forza, se avesse ancora unghie probabilmente sarebbe ad un passo dal lesionarsi le cornee. Gli occhi sì, gli occhi. Glieli aveva quasi cavati oh si a quell'uomo dispotico che era stato amico, o preda, o perverso desio. Gli occhi del male, o dell'oscuro potere, gli occhi del divino e crudele Balor. Ma nessuno aveva creduto. Tutti avevano meritato la morte in quella casa.
Ora mille occhi lo circondano, scavati con forza sulle pareti della cella. Finchè ha avuto unghie per incidere, e fiato per riderne, di quella riproduzione tanto imperfetta eppure tanto valida, presente. Ma deve continuare a scrivere, le rune, i riti, le gesta. Tutto, tutto! Prima che la nebbia porti via quel che resta delle sue memorie. Tutto si logora ahimè, non ricorda neppure più il suo nome, o il nome della sua ombra. Ha bisogno di un nome, tutti ne hanno bisogno. È prigioniero ahimè e nessuno lo ricorda. Ma gli occhi, quegli occhi sì, vuole cavarli via da quelle orbite ingrate, cuocerli e poi magari mangiarli. Ma poi no, no, non può, li terrebbe più vicini sì, quasi sotto chiave. Quelle bellissime gemme viola, dove sono? Dove sono? Gira per la stanza buia e non li vede più, accende il fuoco sulle sue mani consumate e li osserva come geroglifici impressi sulla terra verticale. Tanti occhi, tanti cerchi, tanti simboli. Ma poi la terra finisce, non c'è più spazio ahimè. E non ci sono più unghie ahimè. C'è la carne però oh si oh si, e c'è il fuoco, quello non possono toglierlo a lui. Non a lui. Un dito come tizzone ardente e pelle come carta. Urla e gemiti e sghignazzi corrono tra le pareti, come anime pietose in cerca di fuga da quella fossa di follia eterna. Ma fuga non ce n'è, e neppure carità. Solo un rigurgito. "Verrà"


 
Top
view post Posted on 28/6/2020, 11:24
Avatar

Group:
Mago
Posts:
5,051

Status:


Mya J. Lockhart
« Norvegia - Fine giugno di 2 anni prima »

Il falco, il vecchio e il mare


Quella sera si avvicinava, silente e discreta, come un'ombra in lontananza che rifugge l'attenzione. Uno sbiadito eco, ben lontano dal netto tratto di un pittore surrealista. Un'ombra appena accennata, i contorni tenui, la forma in trasparenza. Poteva essere percepita solamente da chi, con occhio vigile e quasi inopportuno, fissava quell'orizzonte di luce eterna. Due occhi viola si concedevano quel capriccio da diverse sere ormai, quasi quel limbo d'aria fra il Cielo e l'Oceano rappresentasse per il suo cuore solitario una forma incomprensibile di compiacimento. La stanchezza del giorno non era mai abbastanza da privarla di quel singolo momento. La vita del branco non era nella sua natura, e per quanto fondamentale fosse per lei in quel momento, avvertiva troppo spesso una non troppo sottile forma di asfissia. Così se ne fuggiva via, appena consumato il pasto serale, tra il clangore delle scodelle che venivano raccolte e il vociare dei più giovani che iniziavano le baruffe ai danni degli adulti. Erano chiassosi, spesso irruenti e incapaci di gestire le distanze interpersonali, come era insito della loro specie, ma nonostante tutto i Walsch erano una bella famiglia. Non la sua per certo. E nonostante l'affetto e la devozione che nutriva nei confronti dell'intero branco, quel dato era innegabile. Così cercava nuovamente sè stessa, ogni sera, quasi temesse in cuor suo di vedersi svanire prima dell'alba. O di lasciar svanire qualcosa di fondamentale, di mai dimenticato, cercava la sua ancora nel silenzio.
Le scogliere della Norvegia avevano il potere nostalgico di riportarla ad Inis Mor, non certo per similarità di paesaggio ma perchè entrambe affacciavano sul fianco notturno del giorno, là dove il sole si assopiva sopra la cresta del mare. L'odore trasportato dal vento aveva lo stesso carico di salinità della sua terra, seppur in esso era facile distinguere l'accenno acre della vegetazione circostante. Con gli occhi chiusi, baciata dal bruciante chiarore rossastro del sole sulle palpebre, attendeva il sopraggiungere del buio. Un rituale infantile che spesso in passato aveva compiuto, e che ora ripeteva come inconscia memoria del corpo. Quel gradiente percettivo, che accompagnava il furore del rosso verso la mitezza del giallo, scivolando poi verso il nulla di un blu sempre più denso. Ma nonostante i minuti interminabili trascorsi nascosta dietro le sue stesse palpebre, quel senso di sollievo e liberazione non l'accoglieva mai, poiché a quella latitudine, aveva scoperto, la notte era un'amante sfuggente.
Riaprendo gli occhi tornava a lasciarsi ferire dalla luce ambrata del sole, chino sull'orizzonte come un vecchio stanco cui non era concesso riposo. Ad un passo dall'oblio scivolava come una macchia d'olio sulla superficie dell'acqua, con lentezza e silente spasimo. Sembravano due amanti, il Sole e l'Oceano, due entità che si erano desiderate per l'intero giorno, ricercando il calore dell'uno e il refrigerio dell'altro. Eppure non parevano destinate a sfiorarsi, semplicemente camminavano assieme per quel breve tratto di esistenza che era stato loro concesso. Non le fu difficile rivedere in quell'orizzonte maledetto lo stesso destino che era stato serbato per lei ed Horus, e la comprensione di quel momento scemò in una più sorda malinconia. Raccolse una manciata di terra nel palmo della mano destra, era fredda e composta per lo più di pietrisco finissimo. La portò più vicino al viso, soffiandoci sopra con decisione e affidando quel ricordo al vento perchè lo riportasse a casa. Non provava rimorso per la scelta compiuta, né pentimento, e forse il silenzio costante che avvertiva da quel bracciale magico stretto al polso le aveva permesso di proseguire avanti con maggiore facilità.

Riportò lo sguardo sulla linea dell'orizzonte e li decise di lasciarlo per almeno un altro paio di ore, accompagnando come uno spettatore molesto quella lenta passeggiata che i norvegesi chiamavano notte. Ma era un confine talmente labile che aveva indotto la giovane ad interrogarsi su una moltitudine di assurdità cui la mente umana aveva dato forma e schema. La Terra aveva i suoi meccanismi e nella sua rotazione quotidiana non c'era premeditazione, era un semplice moto perpetuo e ripetuto, come una trottola che gira all'infinito sul baratro dell'esistenza. Ma in termini umani notte e giorno assumevano le connotazioni di un programma, di una regolamentazione ben definita di ciò che era normale, perchè ripetuto come il ciclo di cui tutti erano parte integrante. Il giorno era il motore della Vita, la notte al suo opposto diveniva un binario morto, la fine degli eventi e l'annichilimento di ogni rumore. E se in natura quella ricerca di sicurezza, di riparo dalle fauci dell'ignoto e oscuro era comprensibile, chi diceva che per l'essere umano dovesse essere la stessa cosa? Questo pensiero la faceva sentire stretta in uno schema prestabilito, dove qualcuno in passato aveva deciso che la notte fosse la fine del giorno e che senza il sole a rischiarare il sentiero nessun passo potesse essere fatto. E l'uomo timoroso lo aveva fatto, accettando quella regola come normalità senza porsi nessuna domanda personale, se a lui piacesse o meno la Notte, o se se ne sentisse realmente minacciato. Allo stesso modo avevano organizzato il tempo, sezionato le fasi solari, istruito al consueto e professato quel concetto di norma. La vita era divenuta dunque uno standard, un susseguirsi di azioni ripetute per abitudine. Ma chi diceva realmente che il giorno iniziasse nel chiarore di un'alba e non in quello delle stelle? La natura non aveva mai avuto bisogno di dare un nome ed un ordine alle cose, esistevano in rapporto gli uni agli altri, gli animali e le piante, le piante e l'atmosfera, l'atmosfera e gli astri stessi, distanti ma presenti. Al primo tepore dell'anno il germoglio si faceva avanti senza timidezza, sotto il caldo intenso maturavano i frutti, e al sopraggiungere del vento più rigido gli stormi partivano per un lungo viaggio. Allo stesso modo Mya aveva sempre percepito il mondo, seguendo di volta in volta quei richiami che sentiva provenire dal suo profondo. Così si era lasciata sedurre dal manto buio della notte fin dalla fanciullezza, quando fuggendo dalla piccola finestra della sua mansarda scivolava giù fino alla tettoia della veranda. La notte aveva la sua magia, oscura e misteriosa, ricopriva l'intero creato di un nuovo aspetto. Cambiava il volto di ogni cosa disegnandone un nuovo profilo, a volte più grottesco e arcigno, quasi volesse indurre al timore. Ma quella ragazzina non aveva mai avuto paura di entrare in un'ombra più grande della sua, e sapeva che solamente sotto il buio più intenso poteva scorgere la maestosità dell'universo. Le mancava la compagnia delle stelle, persa nei suoi pensieri in quella lunga estate nordica. La stagione era appena al suo principio e sarebbero trascorsi per certo altri due mesi prima di poter nuovamente tornare a veleggiare fra le spume verdi di un'aurora boreale. Due mesi a guardare il vecchio chino sul mare, innamorato e arrendevole, accompagnarsi a quella creatura tumultuosa che era l'Oceano. Dopo due ore circa la passeggiata pareva volgere al termine, il Sole si stava facendo forza e, accettando quella separazione, tornava a spingersi verso il cielo. Avrebbe voluto imitarlo, spingersi fuori da quell'involucro di carne troppo ingombrante e vestirsi di piume per riguadagnare il suo posto, ma non lo fece. Non ne era ancora in grado, e oltretutto la stanchezza del giorno aveva iniziato a scendere sui suoi occhi e le sue membra. Si lasciò andare con la testa sulle ginocchia raccolte, più vicine al petto, e chiuse gli occhi ascoltando il vento. Trasportato dalla brezza, in lontananza si percepivano voci indistinte e il suono di un liuto stonato. I nordici sapevano onorare quel tempo e Mya ne sorrise fra le pieghe stropicciate delle sue maniche, ritrovando in quella vitalità notturna l'essenza che sovvertiva ogni cosa. Notte e giorno cessavano di esistere, non v'era più un confine. La notte era viva, e lei ne godeva.


code © psiche
 
Top
view post Posted on 26/3/2023, 17:03
Avatar

Group:
Mago
Posts:
5,051

Status:


Concorso a tema: Marzo 2023

SOTTO LA RISACCA
« Londra - quartiere di Harrow - segue da "Nella tua scia" »


PERSINO IL MARE SEMBRA SENZA LIMITI, EPPURE CANTA SOLO QUANDO LI TROVA


Un raggio di luce cremisi mi ferì gli occhi, appena socchiusi al sopraggiungere del giorno.
Il mio corpo, rigido e dolente, si stava risvegliando a fatica, da una notte che ricordavo appena. Le gambe come appendici paralizzate formicolavano in fondo al mio corpo, segno che non dovevo essermi mossa molto nel sonno. Cercai di ruotare sul fianco sinistro per sciogliere quel torpore e per poco non caddi giù, da qualsiasi cosa mi avesse fatto da giaciglio per l’intera notte. Ne percepivo la durezza premere sulla spalla fino al bacino, e allungando una mano ne sfiorai il profilo sbozzato, delle assi di legno, lucide di vernice e di ammaccature. Gli occhi si stavano lentamente abituando alla luce così cercai di condurli verso il soffitto, che non era certo quello del mio dormitorio né tantomeno quello di casa mia.
Un grigio e freddo intonaco mi faceva da cielo, un cielo sporco a tratti di muffa, come fossero nuvole di pioggia. Sentii lo stomaco agitarsi, senza capire se fosse per il disgusto o per la vorace fame che sentivo aumentare nel mio corpo. Da quanto non mangiavo?
C’erano probabilmente domande più importanti alle quali trovare una risposta, ma il mio corpo decise che la priorità era saziare quel mostro assetato che si agitava nella mia gola arsa.
Aiutandomi con il braccio sinistro feci forza per tirare sù quel sacco pesante che era il mio corpo, e uno sbadiglio proruppe dal profondo, in cerca di ossigeno. Cibo, acqua, aria, erano già tre necessità da soddisfare, per un corpo che a malapena ricordava come essere al mondo. Allungandomi verso l’alto, e poi l’esterno, lasciai che nuovi dolori facessero capolino, dal collo fino alle scapole, e poi dalla cuffia della spalla fino ai lombi. Sentivo la pelle bruciare là dove il mio corpo aveva riposato nudo sulla panca di legno, evidenti chiazze rosse si dipingevano sulle mie braccia come il più atipico dei giaguari.
Il mondo vorticò invitandomi nuovamente all’oblio. Gli occhi si strinsero per cercare di sedare lo stordimento, ne approfittai per stropicciarli appena con le dita, ma al posto della pelle un tessuto ruvido grattò sulle palpebre. Sempre più confusa mi decisi ad aprirli del tutto per cercare di dare un senso a quel caotico turbine di informazioni sensoriali tutte sbagliate. Le mie mani erano avvolte blandamente in garze mediche, tutte scomposte e sciolte, un’estremità mi scivolava sulle ginocchia. Il raggio di luce che inizialmente mi aveva svegliato ora batteva sulle mie gambe, provenendo da una lunga finestra laterale posta sulla parte alta del muro di destra. Una luce troppo alta perché fosse l’alba, di sicuro era giorno inoltrato.
La stanza infine prese una forma. Mi trovavo in un ambiente molto ampio, senza muri o divisori, solo diverse colonne portanti ben distribuite in tutto lo spazio. I muri erano ricoperti da un mattonato sbiancato molto consumato, coperto in diversi punti da grandi manifesti logorati e da file di armadietti di alluminio color verde bottiglia. Un pavimento di assi di legno graffiato sfilava per tutta la lunghezza dell’area, interrotto solamente nel centro dalla presenza di un’area rialzata, delimitata da grosse corde di nylon bianco. Il ring di allenamento della mia palestra. Tutto iniziò nuovamente a riprendere il suo posto nel filare dei ricordi.
Ma restava il mio bisogno impellente di bere, così ancora barcollante mi alzai cercando di raggiungere l’area d’ingresso, dove sapevo essere un piccolo distributore automatico di bevande ed energetici babbani. Frugando nelle tasche afferrai un pugno di monete, e tra zellini e penny scelsi i secondi.
*Dov’è la mia bacchetta* mi ritrovai a pensare mentre sfilavo la bottiglietta d’acqua dal fondo della macchinetta. La trangugiai come fossi assetata da settimane, mentre tornavo verso la panca, e quelle che credo fossero le mie cose. Lo specchio sul fondo del muro mi restituì l’immagine di una ragazza in pantaloncini d’allenamento, canotta e una felpa di due taglie più grandi.


lyNQCGR
*Uno, due*
Controlla il respiro, bilancia il peso, ascolta il corpo.
*Uno. Due*
Fuori l’aria, sposta il baricentro, ruota il corpo.
*Uno. Due*
Riprendi il respiro, accompagna il colpo, affonda.
*Uno. Due*
«Vacci piano tigre tascabile» la voce di Mr Osman si intromise all’interno del mio mantra, ricercato e assoluto, ma cercai di non dargli troppo credito. Era sempre stato un uomo senza troppi filtri, poche parole ma dirette. Mr Osman si considerava un po’ il mio allenatore, anche se nessuno glielo aveva mai chiesto. Uomo di mezza età, originario del Cairo ed emigrato a Londra negli anni novanta, con in tasca solo un talento come pugile e tanta ambizione. Di pugni dalla vita ne aveva presi abbastanza da aver cambiato la forma del suo naso almeno tre volte, alla fine aveva aperto quella piccola palestra nel quartiere di Harrow, ed io per puro caso un giorno ci ero finita dentro.
Avevo troppa energia, e probabilmente troppa rabbia da gestire al tempo, così quel luogo lontano da Diagon Alley e dalla Londra fin troppo sociale mi era sembrato perfetto. Mr Osman mi lasciava allenare anche in orari particolari, quando potevo viaggiare da Hogwarts, senza fare troppe domande. Così avevo iniziato ad allenarmi al sacco, più per scaricare tensione che per reale necessità sportiva, ma in poco tempo il mio corpo si era abituato a quella routine, quasi più che col quidditch. Le gambe agili si erano rafforzate in breve tempo permettendomi di assestare calci più alti, più precisi, più potenti. Mi alzavo al mattino presto prima dell’inizio delle lezioni, per correre e aumentare la mia capacità respiratoria e la resistenza, e quando riuscivo, due volte a settimane mi smaterializzavo a Londra per allenarmi. Questa abitudine mi aveva permesso di imparare a gestire il mio temperamento, e quel senso di frustrazione che sempre più spesso mi aveva animato. Così la kickboxing era diventata la mia terapia.
E fino a quel giorno aveva funzionato.
*Uno. Due. Uno. Due*
Il ritmo aumentava, più il ricordo dell’evento accaduto quel pomeriggio si faceva nitido. Horus nel giardino. Horus e la sua sfacciata impudenza. Horus e le sue menzogne di merda. *Uno. Due. Uno. Due. Uno. Due. Ricorda il ritmo* ma più cercavo di concentrarmi sui movimenti e più la rabbia cresceva, si faceva incontrollabile, e la lasciavo vincere su ogni mio razionale pensiero. Ancora e ancora rivivevo quegli attimi, ne avvertivo la crudezza e bruciavo di sdegno. Mi sentivo svilita, forse anche umiliata, e non potevo farci nulla. Mi ero detta che avrei gestito il rancore, che lo avrei metabolizzato e trasformato in una fredda convivenza, ma anziché sciogliersi come neve era cresciuto in me come furia primordiale. La menzogna che non tolleravo, che non potevo tollerare, mi stava divorando il cuore e ne faceva il suo cieco guerriero. Colpo dopo colpo sentivo il corpo tremare, coi denti digrignati, ruggivo col fiato corto tutta la mia indignazione. Il cuoio dei guantoni strideva sul sacco, rimandandomi un suono aspro, come di dolore. Caricai un nuovo colpo, ma quando stavo per affondare sul sacco, Mr Osman con una leggera spinta lo spostò verso sinistra facendomelo mancare. Con l’appoggio ormai nullo, e la spinta ormai iniziata, il mio corpo cadde in avanti di faccia, protetto appena dal braccio guantato.
Tutto si fermò all’improvviso. Il treno dei miei pensieri arrestò la corsa, contro un muro.
«Perfetto, ora puoi riprendere fiato.» disse Mr Osman, come se avesse appena compiuto il gesto più magnanimo e gentile del mondo.
Mi rialzai di scatto, col naso arrossato per il colpo e lo sguardo a metà tra furente e stordito. L’uomo di tutta risposta mi allungò un asciugamano e una bottiglietta d’acqua, che presi di malavoglia con uno scatto stizzito. Mi spinsi sulle braccia e presi posto a terra con le gambe incrociate, il cotone a tamponarmi il collo e l’acqua a sedare quell’incendio interiore.
«Sa che non la pago per questo? Pago il suo sacco, non il suo tempo»
Mi odiai per quella acidità sfrontata e gratuita, ma il livore provato continuava a scorrere incessante nelle mie vene.
«È vero, ma se lo avessi rotto avresti dovuto pagarne due» ammise con una nota di ammonizione e rimprovero. Presi un nuovo sorso d’acqua e guardai il mio sacco, che ancora dondolava lieve, dopo la spinta ricevuta. Guardandolo più attentamente mi accorsi di una piccola lesione del cuoio, là dove il mio diretto sinistro arrivava sempre con precisione, colpo dopo colpo. Non sarebbe certo bastato quel principio di strappo a vederlo esplodere, ma quella lacerazione mi lasciò un momento di riflessione, che Mr Osman colse e rispettò.
Dopo qualche momento prese infine posto accanto a me, a terra, ad una distanza rispettosa.
«Sai come funziona l’adrenalina nel tuo corpo?» mi chiese poi, nel silenzio della stanza ormai vuota. Feci cenno di sì, mentre mandavo giù un sorso d’acqua. «Aumenta il battito cardiaco e restringe i vasi sanguigni, preparando il corpo ad un eventuale pericolo. Fuggi o attacca insomma.»
Mr Osman fece dondolare curiosamente la testa di qua e di là, come a dire che non era completamente d’accordo con quell’affermazione. «Tutto molto corretto, ma devi pensare più in grande. Anzi, più in profondo. L’adrenalina ti rende più forte, più resistente, ti permette di vedere meglio anche nel buio, e di ascoltare più definitamente, di correre più a lungo e di saltare più in alto. Ma non è magia, o un prodotto da acquistare, è tuo. Fa parte di te, quel potenziale c’è già nel tuo corpo. Mi segui?»
Feci cenno di sì, ma con ritrosia. Non capivo dove volesse andare a parare con quella paternale svirgolata, il mio unico bisogno al momento era l’allenamento. Lo sforzo fisico avrebbe fatto il resto, volevo combattere fino a non sentire più il mio stesso corpo. Aveva sempre funzionato, perchè avrei dovuto cambiare metodo?
«Ovviamente non puoi vivere di adrenalina o saresti stanca nel giro di un’ora. O morta» si lasciò sfuggire una risata sotto l’ingombrante baffo scuro. “ Però puoi imparare ad attingere ad essa, con più precisione. Ma devi farlo guidando con la testa, e non con il corpo, altrimenti finirai per usare quel potenziale come una bomba che esplode. Che può, sì essere letale per chi ti attacca, ma finire per ferire anche te.» Nel dirlo lanciò un’occhiata in tralice ai miei guantoni, dentro i quali iniziavo ad avvertire del torpore, che una volta svanito avrebbe di certo lasciato spazio ad un dolore più vivo. Ero davvero andata oltre, perdendo il controllo? La necessità di annegare quelle emozioni dolorose era davvero tanto forte da farmi rinnegare i miei stessi bisogni? Improvvisamente mi ritrovai come in balìa di un nuovo moto d’impeto, confusa e arrabbiata più di prima, per l’incapacità di capire come affrontare quella situazione. E ancor più demoralizzata dalla mia assoluta impossibilità nell’appoggiarmi al prossimo, o chiedere consiglio. Agivo di pancia, mi lasciavo naufragare in alto mare e poi combattevo le onde notturne, aspettando di veder arrivare l’alba. Pur di non afferrare una boa, un salvagente, una mano tesa.
Mr Osman era diverso da me, non viveva il supporto come una vulnerabilità, anzi mi stava sottilmente insegnando che era esattamente il contrario. L’uomo mi sorrise come se avesse avuto la capacità di leggere i miei pensieri in tumulto. Tornando in piedi, si sistemò con tranquillità i lembi inferiori della giacca e infine mi diede le spalle avviandosi verso la porta d’entrata.
«Puoi restare tutto il tempo che vuoi. Quando hai finito lascia pure le chiavi al chiosco di Chavez, qui a fianco, è un amico. Ciao»
Risoluto e asciutto mi mollò lì, seduta sul pavimento di una palestra vuota e silenziosa, confusa e incerta su tutto quello che era accaduto.

lyNQCGR

Avvertivo ancora il dolore crescente alle mani, ma seguendo il consiglio del vecchio uomo, decisi che sarebbe stato un buon combustibile per iniziare a lavorare su quel processo di guarigione interiore. Finii di bere dalla bottiglietta e la lanciai sulla panca, fra le mie cose, rimettendomi in piedi pronta a capire come potevo essere davvero, nel profondo.
«Fuggi o attacca, eh…»
Risistemai le garze sulle dita, e poi di nuovo dentro i guantoni. Presi di nuovo posto frontale al sacco di cuoio, i piedi in posizione, leggermente staccati da terra coi talloni. Decisi di iniziare dal respiro, che non riusciva ad essere del tutto regolare, per via delle leggere scariche dolorose che le nocche bruciate mi procuravano. Mi concentrai allora su quella pulsazione, lo stimolo come corrente elettrica correva lungo il sistema nervoso fino al midollo, e poi rapido fino alla corteccia cerebrale. Assestai un diretto al sacco e un nuovo carico sensoriale si spinse fino al talamo. Dolore, bruciore, arresto. Il cuore era ancora troppo irregolare perché potesse permettermi di lavorare sull’affinamento dell’adrenalina. Avevo bisogno di carburante per innescare la reazione, e l’episodio del giardino era ancora fresco e vivo nel mio animo tormentato, perché bastasse ad accendere la miccia.
Facevano male quei ricordi, quelle sensazioni, come il veleno di un cobra camminavano sotto pelle bruciando al passaggio. Non volevo ricordare eppure dovevo. La fiducia, la tenerezza, il conforto, la leggerezza, la menzogna, il tradimento, la vergogna, lo sdegno, la delusione. Come poteva un solo essere vivente provocare in me un tale turbine emotivo, che come un tornado senza controllo spazzava via le basi della ragione? Non poteva, e non doveva.
Feci scivolare quel peso emotivo dal cuore spingendolo all’indietro verso la spalla, raccolsi ogni stilla di quelle emozioni e le scaricai con un destro sul sacco. Sentivo che non era abbastanza, che non sarebbe stata quella dimostrazione di forza a liberarmi. Quindi spostai leggermente i piedi, uno più avanti dell’altro cercando una maggiore stabilità. Di nuovo cercai di attingere al comburente emotivo nel mio petto, e convogliai la forza su entrambe le braccia. Un doppio colpo questa volta, molto rapido. Ancora non abbastanza, così replicai con altre tre o quattro serie di doppi colpi. Il cuore pian piano prese ad accelerare, permettendomi di accedere all’adrenalina, che a quanto pare avevo sempre usato in maniera errata. Colpo dopo colpo, calcio dopo calcio, sentivo il mio corpo scaldarsi sapendo di aver finalmente avuto accesso a quella fase di potenziale aumentato.
Era il momento di affinare, di depurare, di pulire dalle scorie la mia essenza. I ricordi dolorosi avevano fatto il loro dovere, ma ora era tempo di ascoltare più in profondità. Mi tesi all’ascolto del mio cuore, isolando ogni altro stimolo. Ogni battito spingeva più sangue e più ossigeno verso i muscoli, irrorandoli e permettendo una resistenza e una forza superiore. Controllavo il respiro, controllavo il cuore, controllavo il corpo. Era incredibile come la sensazione al contatto con il sacco fosse drasticamente cambiata.
Inizialmente rappresentava dolore, e bisogno di un nuovo colpo che sostituisse quel dolore con un dolore nuovo, come un ciclo perpetuo di insoddisfazione. Ora invece ogni colpo era calibrato, e il contrasto con il cuoio rappresentava semplicemente il punto apice che segnalava al braccio un nuovo movimento, per ritrarsi al corpo, recuperare ossigeno e con il prossimo respiro spingersi nuovamente in avanti. Non era più dolore scaccia dolore, ma una giostra sistemica di recupero e affondo. Ero completamente rapita da quell’equilibrio tra mente e corpo, al punto che smisi di sentire dolore, e stanchezza.
Dovevo essere andata avanti per ore, fino al punto di svenire su quella panca scomoda sulla quale mi ero risvegliata qualche ora più tardi.


Dopo una doccia negli spogliatoi, tornai verso le mie cose, scorgendo il mio fantasma ancora preso nel suo esercizio al sacco. Ogni ricordo era tornato al suo posto, così come ogni emozione aveva ritrovato il suo giusto spazio. La rabbia provata la sera precedente era scemata in una nuova emozione, l’accettazione. Per non essere travolta dal moto incessante della risacca, avevo dovuto semplicemente farmi acqua.




 
Top
view post Posted on 29/11/2023, 14:01
Avatar

Group:
Mago
Posts:
5,051

Status:


La vita è un istante imperfetto.

Contest di novembre - Rituale


Non esisteva il silenzio dove Era nata.

09HTU3q


Una solitaria brughiera nel remoto nord della Scozia, un luogo aspro ma ricolmo di vita, delicata, leggera. Senza pretese né invadenza coesisteva. Un irriverente vento sospinto talvolta dal mare, e talvolta dai monti, giocava una partita al rimbalzo, trasportando tra le sue continue folate un carico di salsedine oramai mescolato al pungente e vivido odore di pino, e di selva.
Ogni spinta dell'aria soffiava tra gli intricati rami della bassa vegetazione, frusciando tra i verdi arbusti come una melodia intonata sommessamente. Cantava, e danzava, spingendosi sopra le ginestre in fiore, accompagnandosi al leggiadro ondeggiare delle eriche.
E nel mezzo della piana, come un complesso sistema capillare, un fiume e i suoi innumerevoli affluenti si snodava nella vegetazione, scorrendo quieto e placido verso terre meno arse, e verso ombre meno rare. Il fondale di fanghiglia e ciottoli si lasciava catturare dalle radici dei vari arbusti che dalle rive scivolavano al suo interno dal terreno, cercando ristoro e nutrimento.
Lui, il vecchio fiume, li lasciava fare e gorgogliante continuava il suo peregrinare.
Poi c'erano le tempeste, ospiti mai sgarbate, annunciavano il loro arrivo per ore, talvolta anche per giorni, prima di rompere gli indugi e inondare la piana di scrosciante pioggia. Nemmeno in quel momento di stasi c'era silenzio. Tutto si arrestava, annichilito sotto il suono costante e ripetuto del temporale, il buio nella brughiera si interrompeva all'arrivo di un lampo e la terra tremava sotto lo schiocco di un fulmine.
Delle tempeste ricordava il calore, non l'umidità. Non era sola, non lo era mai, ma nelle tempeste la vicinanza con le sue sorelle si faceva più stretta. L'odore della lana si impastava con quello aspro della polvere terrosa, dei respiri caldi e delle foglie di ginestrone ruminato.
Non c'era mai silenzio, Casa aveva il suono pieno della Vita.




Non c'era mai silenzio, nel luogo buio in cui era stata portata.

iuGifmc


Non aveva coscienza eppure sapeva con chiarezza di non essere più a casa, nella sua amata brughiera. Quel luogo aveva un odore ferroso, di ruggine, piombo e acciaio, e fumi soffocanti di catrami bruciati e fuliggini. Incessanti rumori sordi, e tonfi, e contraccolpi, sfrigolii metallici spezzavano l'aria senza posa. Il rumore assordante talvolta si fermava sostituito da scalpiccio di gomma sul cemento. Nella sua terra il pestare degli zoccoli sul terreno argilloso quasi non emetteva suono, ma questo incedere di passi era forte, costante, come un predatore che non aveva bisogno di celare la sua presenza. Passi e vociare di strane creature animavano quel luogo austero e sconosciuto, per ben poco tempo, prima di lasciare nuovamente partire quella giostra mostruosa di frastuono e trambusto.
Sopportò quel baccano per almeno tre settimane.




C'era talvolta silenzio nel luogo in cui era finita alcuni mesi dopo.

KipUbLb


Aveva viaggiato molto, in comode casse di legno fresco, dal cui odore poteva percepire note di una terra lontana, una terra molto umida e fertile, e generosa con le sue creature. Aveva sentito pungente l'odore di resina che gocciava all'esterno delle assi, insieme al profumo secco della paglia e di cuoio. E almeno in quel frangente il vociare assordante s'era quietato.
Infine aveva raggiunto una nuova meta, meno angusta e meno rumorosa della precedente, seppur buia più della prima. Era un negozietto nascosto tra i vicoli stretti di un quartiere londinese, abbracciato da una costante penombra e rischiarato solo da lampade ad olio posizionate sui tre muri vivi della stanza. La parete sul fondo, quella dove era stata alloggiata lei era priva di illuminazione perché lo zelante padrone della bottega diceva che la luce rovinava la qualità. Lei non aveva idea di cosa questo potesse significare, ma l'uomo lo ripeteva ad ogni nuovo avventore e così aveva assorbito l'informazione. A parte lo scampanellio della porta e la voce dell'uomo quell'ambiente era molto tranquillo, con un buon odore e un'aria sempre piacevole. Non c'era polvere su di lei, nonostante i mesi che aveva trascorso su quello scaffale ad ascoltare i racconti dell'uomo, racconti che parlavano di lei. O perlomeno di quello che era diventata.
Una pergamena pregiata, nata dalla pelle che un tempo, ormai lontano, aveva vestito il suo corpo. E che ora era tutto ciò che restava di lei, una nuova identità.
Aveva visto sfilare dallo scaffale centinaia di pergamene, arrotolate in un nastro di carta grezza e infine scambiate in cambio di diverse monete di metallo. Nuove pergamene arrivavano, ed uscivano dallo scaffale, di continuo, senza toccare mai a lei. E la cosa forse non le dispiaceva, quella calma placida era divenuta simile al momento in cui nella brughiera si affiancava al ruscello per bere, e in quel quieto vivere sentiva serenità. Il gioviale venditore la puliva sempre con la stessa cura, ripetendo, forse più a sé stesso che alla pergamena, quanto i tempi fossero cambiati. La carta di pino, abete ed eucalipto aveva finito per sostituire il materiale originale, trasformando le pergamene in un prodotto più etico e soprattutto economico e alla portata dei più. Sembrava dunque non esserci più utilità per lei, era stata dunque allontanata dalla brughiera per nulla?
O forse per accompagnare i giorni di quel vecchio essere vivente.




8UOI0WI


C'era silenzio nella grande sala in cui era stata portata alla fine del suo viaggio.
Era accaduto infine che una ragazzina, dal cipiglio sfrontato e curioso, aveva scelto lei fra tutte le pergamene. Mano alla sacchetta aveva consegnato al negoziante una sola moneta, ma dalla foggia più importante di quelle che avevano comprato le sue simili. E così aveva lasciato il vecchio e la bottega, affrontando il nuovo viaggio in una scomoda borsa di cuoio, dividendo lo spazio con diverse piume dall'odore opprimente, boccette di china fortunatamente ben sigillate e altri oggetti di legno e peltro. Un viaggio chiassoso e scomodo, finché non era stata distesa su un grosso tavolo di legno grezzo e aveva così potuto ammirare l'alta volta della stanza. L'ambiente sapeva prevalentemente di legno secco e stagionato, misto a quello più noto e familiare della carta impecorita. Una biblioteca. Di fronte a lei la stessa ragazzina intravista a malapena nel negozio. Non molto alta, se ne stava seduta in ginocchio su uno sgabello, e i suoi occhi baluginavano di uno strano colore violaceo. Aveva raccolto i lunghi capelli in una coda alta appena dietro la testa e si era sollevata le maniche della divisa fino al gomito, con una strana attenzione negli occhi. Sembrava incerta sul da farsi e al contempo estremamente decisa, il solito cipiglio agguerrito che le fece tremare un po' le fibre. Aveva arricciato il naso, inclinando la testa più volte da un lato all'altro come se soppesasse il da farsi e le sue conseguenze.

Troppo pulitadisse lapidaria prima di capovolgere la pergamena e tamponarla con un panno che precedente aveva intriso di acqua e terra bruciata. Poteva sentirne l'odore fumoso e l'umidità diffondersi lungo tutta la superficie. Aveva poi voltato il rotolo e aveva ripetuto il processo sul secondo lato. Con una bacchetta in legno ed una parola dal suono incomprensibile l'aveva poi asciugata, regalandole una piacevole sensazione di calore, sprigionando delicato quello stesso odore familiare che sentiva durante le tempeste.

Conclusa l'opera la giovane umana stava rimirando la sua opera non ancora convinta. Cosa volesse farne di lei era sinceramente un mistero, ma non provava paura, senza una coscienza ed un corpo era solo un eterea sensazione fluttuante, l'anima di ciò che era stata. La ragazzina era quindi scesa dal suo sgabello e aveva iniziato a rovistare nella borsa di cuoio estraendone il contenuto. Il peltro fece rumore sbattendo sul vetro delle boccette, un suono che l'aveva accompagnata per il lungo viaggio. Dal bordo rinforzato della borsa l'umana aveva infine sfilato le cinque piume dall'odore sgradevole e le aveva posizionate sul tavolo. Nel buio della sacca non vi aveva prestato attenzione ma le penne erano insolitamente anomale, sfrangiate lungo i bordi, quasi consumate, seppure il pennino fosse bianco immacolato, privo della prima inchiostrata.
Lei non ne capiva il motivo, ma stava per scoprirlo sulla sua pelle, letteralmente.

Ancora troppo perfetta aveva sentenziato, scrutando da vicino penne e pergamena. La luce nei suoi occhi, quasi feroce, tradiva però un sentimento più effimero e fuggevole. Una solitudine che parlava di una tristezza infinita, di un vuoto incolmabile che quel piccolo essere appena affacciato alla mondo, già sembrava aver sperimentato. Un antro oscuro nel quale nascondeva le paure più intime, e i desideri più profondi, sigillandoli dietro l'attitudine di una fiera indispettita.

Aveva preso nuovamente l'asticella di legno chiaro e puntandola verso la pergamena aveva scandito nuove parole incomprensibili. Al pronunciare di quell'incanto si era sentita tirare lungo i bordi, la pelle si asciugava e si strappava, piccole ferite si aprivano lungo tutti i lati, grandi abbastanza per essere visibili ma non abbastanza da comprometterla. Non provava dolore, né spavento, solo confusione per quell'atto quasi ignobile e irrispettoso. La sua pelle, la sua bella pelle, nutrita e abbeverata dalla terra e le acque della brughiera, passata con orrore per le presse e le fabbriche di una cittadina di provincia, piegata, alterata e umiliata, finiva la sua esistenza in maniera tanto insensata?
Infine l'incanto della ragazza si spense lasciandola lì, con le sue ferite indolori e le sue domande. Ma negli occhi della ragazzina c'era più di una risposta, c'era una verità che la pergamena ora poteva vedere chiaramente. Quello sguardo duro, contratto, quasi rabbioso era svanito come una inaspettata tempesta estiva. Niente più nubi, e rombi e scrosciare d'acqua, solo silenzio e tintinnio di gocce tra le foglie, con un sole che tranquillo si riaffacciava dalle nubi.
Lo sguardo dell'umana appariva pacificato, tradendo una sottile forma di inaspettata felicità. Non era soddisfazione per l'atto compiuto, era più una sensazione di comprensione, di vicinanza, di...familiarità. Era come se la ragazza stesse guardando in uno specchio più che in un pezzo di pergamena. E l'immagine che le restituiva bastava a rischiarare il buio con semplicità, anche se fosse stato per poco.

Sei come me ora
Imperfetta, macchiata, manchevole, incompleta.
E in quell'errore, gli occhi della bimba sembrarono osservare la bellezza più sincera, e questo bastò al cuore di pecora per sapere che il suo peregrinare era terminato, in un altro cuore.






Il rituale che Mya compie è un atto abitudinario che lei compie fin dalla fanciullezza, logorando e consumando oggetti nuovi, per vestirli di una esteriorità che lei riconosce, in cui si identifica e con la quale familiarizza.
 
Top
view post Posted on 29/12/2023, 16:16
Avatar

Group:
Mago
Posts:
5,051

Status:


a passage to nowhere

Contest di dicembre - Paranoia




wJkEU9B
Quello che vedi è un corpicino di spalle, alto poco meno di un metro. Indossa un giacchetto di lana di pecora dal colore grigio sbiadito, il cappuccio tirato sopra la testa ne nasconde l'identità. Tutt'intorno a voi sta piovendo, una pioggerella leggera ma costante, ma l'esserino sembra protetto da una mantellina trasparente perchè l'acqua scivola sul suo vestiario e va giù sul terreno. Il suolo fangoso ne assorbe l'umidità e ne fa nuovo materiale vischioso, melma nel quale affondano i suoi stivaletti verde scuro. Piccole orme la anticipano, disegnando il percorso che ha seguito fino a quel momento, ma hanno iniziato a riempirsi di acqua perchè l'esserino è fermo da un po' in quella posizione. Anche la gomma degli stivali è affondata nel fango, al punto che sembrano diventare un tutt'uno. Oltre le spalle dell'esserino puoi vedere una casa di dimensioni modeste, le pareti di pietra vestite di umidità ed edera, un tetto di ardesia si inclina verso di voi rovesciando a terra piccole cascate d'acqua. Una tettoia in legno sporgente appena un braccio protegge l'uscio di noce, mentre uno scalino di pietra nera tiene al sicuro la porta dal terreno umido. Dalle finestre incastonate nei muri spessi fuoriesce una luce calda e vibrante, all'interno un fuoco è acceso, e qualche ombra ogni tanto danza davanti alla luce interrompendone il movimento. La casa è abitata, è la sua casa.
Eppure l'esserino non muove un solo passo, nonostante la pioggia e il raffreddore che rischia di prendere, nonostante la ciotola di zuppa con le patate che l'aspetta sulla tavola.
Se la superi appena puoi vedere il motivo della sua esitazione.

FhJx8Ug
Una piccola polla d'acqua si è formata tra la fine del viottolo d'entrata e l'uscio di casa. Non era molto grande quando è arrivata, ma la paura l'ha paralizzata in quella posizione ed ora la pozzanghera è diventata un fossato che ha circondato da ogni lato il lastrone di pietra sopraelevato.
Non può raggiungere la porta, perché non può entrare nell'acqua, l'acqua è profonda, annegherebbe. È già successo, è andata giù nell'acqua, in profondità dove è buio, freddo e silenzioso. Si è sentita pesante, e sola, per un tempo lunghissimo. Ha avuto paura, una paura primordiale che parte dalla pancia e poi ti grida dentro fino a svuotarti i polmoni, per poi sentirli riempirsi di nuovo ma di acqua. È lì che la paura si mescola al dolore fisico, e anneghi nel terrore prima che nel tuo respiro.
Era stata salvata, ma quello sgomento era rimasto dentro di lei, fuori dai polmoni ma un po' più vicino al cuore. Ed ha continuato ad annegare di notte, per molte altre notti.
Ma di giorno sa di avere il controllo e può salvarsi, evitando le lagune d'acqua. Suo fratello ha provato a rassicurarla lanciando nella polla talvolta un sasso poco più grande di una mano, per dimostrarle che non andava giù. Che poteva essere attraversata senza pericolo, ma l'esserino ha rifiutato quell'incoraggiamento. L'acqua sceglie chi prendere, non avrebbe preso il sasso, è lei che vuole. Non andrà giù, deve solo stare attenta a dove mette i piedi.
Sarebbe certo più facile se quella stupida isola sulla quale vive non fosse sempre commossa, circondata dal mare e naufragata tra le piogge per otto mesi dell'anno. Vivere, per quell'esserino, deve essere davvero arduo.
Anche in questo tardo pomeriggio lo scroscio d'acqua non accenna a rallentare, ingigantendo minuto dopo minuto l'entità del suo problema. La loro casa non ha entrate sul retro, suo fratello e suo padre sono fuori per una commissione e sua madre sta armeggiando tra i fornelli, tra il rumore del peltro e della pioggia potrebbe non aver sentito il suo richiamo. Ma la verità è che l'esserino non ha provato nemmeno a chiedere aiuto, le sembra di non avere la voce, come quando era sott'acqua. Tiene la bocca chiusa per paura di bere, anche se è fuori. I suoi occhi continuano ad essere rapiti dalla superficie della pozza, che gorgoglia e ghigna maligna, perché ogni goccia la rende più grande e non può più essere nemmeno saltata.
Altre pozze si stanno formando tutte intorno a lei, lo stesso percorso di impronte che ha creato con il suo peso hanno iniziato a trasformarsi in un fiume, un serpente pronto a morderle le caviglie. Tra poco le possibilità di muoversi saranno finite, come una pedina degli scacchi non avrà alternative e perderà. Deve provare a spostarsi, magari raggiungere l'albero di pesco con i rami bassi, accoccolarsi su uno di essi e aspettare la fine delle piogge. La sua zattera nella tempesta.
Ma la sua zattera è sua madre che aprendo la porta la distoglie finalmente dalla pozza vibrante. Nel suo sguardo smeraldino la bimba non coglie spavento, solo un materno sorriso pieno di tenerezza. Non la ammonisce per essere stata fuori tanto a lungo da non essersi accorta della pioggia, al contrario rientra appena dentro l'uscio e trascina fuori un'asse di legno non più lunga di un metro. La posiziona sullo scalino e fa scivolare il piccolo ponte fino ai piedi dell'esserino. Non le chiede di essere coraggiosa e di attraversarlo da sola, ma è lei a farlo. Supera il piccolo ponte e porge la mano alla bimba, accompagnandola in quella lunga traversata terrificante, lasciandole la dignità di affrontare quella personale sfida a modo suo. Forse avrà bisogno di tanti ponti e tanto tempo per guarire, il cuore della mamma lo spera ogni giorno, e ogni notte. Fino a quel momento la accompagnerà fuori dall'acqua, tenendola per mano.


Londra, 15 anni dopo
Quello che vedi è una giovane donna di spalle, avvolta nel suo paletot, sotto un ombrello nero che la protegge dalla pioggia. Con gli occhi bassi osserva il suo riflesso nello specchio d'acqua che si è creato sul piastrellato di Regent street. Poco più avanti il marciapiede ha una piccola depressione e l'acqua si accumula avidamente, mentre dei ragazzini ci corrono dentro divertiti, sotto lo sguardo inferocito della madre.
Vorrebbe anche lei fare quel passo, il suo cervello elabora razionalmente i fatti, ma l'assurdità di quel pensiero la irretisce ogni volta. Guarda attraverso il velo d'acqua e intravede i contorni delle piastrelle e delle foglie depositate sul fondo, i cui bordi sporgono oltre il pelo della superficie. Potrebbe immergere un dito per saggiare la profondità, ma questo la farebbe sentire solo più sciocca. Percepisce l'irrazionalità di quella paranoia infantile, ne vede i limiti, i confini confusi come allucinazioni. Li vede, li comprende, eppure decide di spostarsi sulla destra e di proseguire lungo la strada più asciutta.

6mk3JOs








 
Top
6 replies since 29/6/2019, 17:02   357 views
  Share