Le voci di passanti, maghi e streghe e spettri, si perdevano al chiarore delle stelle: nei loro sussurri, nei loro commenti, nelle loro credenze, indistintamente mutavano in supposizioni, in dicerie, perfino in leggende. C'era chi passava silenziosamente accanto la logora staccionata che delimitava la Stamberga Strillante, il timore nel petto come compagno familiare, l'orma dei propri pensieri che sfidava il più umano raziocinio; c'era chi si dimostrava ben più coraggioso, l'istinto vinto da una curiosità che non aveva confronto, e si spingeva oltre la barricata, oltre il limite, oltre il proibito. Il prezzo della scoperta poteva essere un prezzo da pagare, purché il tesoro più ambito giungesse tra le proprie mani – un primo visitatore, un primo straniero, un primo cittadino. Apolide o meno che fosse, velava il suo sguardo di propositi, di aspettative, di fiducia. La mano destra così si sollevava appena, l'indice rinnegava il tremito di un freddo che freddo non era, e di un cuore – invece – che batteva con l'anelito di uno spavento possibile, estremo, tangibile.
Forse, cominciava allora. Forse, ripeteva. La bocca sciorinava sentenze, ma non aveva condanna, non aveva giustizia, non poteva. Avvinghiato da quello che non poteva vedere, spinto da quello che poteva invece
sentire. Era un racconto comune, tra i camini sempiterni delle abitazioni del sobborgo fino alle sale comuni del maniero alle loro spalle; tra i vagoni di treni in partenza e gli sgabelli di locali bagnati di idromele. Era un racconto comune, che girava e rigirava come la più classica tra le tempeste. Dicevano tutti la stessa cosa, spostavano tutti l'attenzione sulla baita abbandonata, alla periferia più prossima di Hogsmeade. Dove svettava una casetta fiabesca, il tetto pericolante, le travi discostate; vestita in legno, con l'ingresso nascosto dall'erbaccia, e la staccionata che ne vietava ogni avvicinarsi. Era lì, la Stamberga Strillante. Casa degli Spettri, Casa dei Fantasmi. Ma per l'avventuriero non c'era altro, e rassegnato tornava sui propri passi all'indifferenza della struttura. Così le braci del camino si spegnevano, le carrozze dei treni si chiudevano strettamente, e i banconi dei pub più in voga si svuotavano lentamente, fino a sera. Era soltanto una voce.
Canto straziante,
per chi sapeva ascoltare.
Dapprima parve il risveglio dei sensi, il corpo in estasi – tanto per l'uno, tanto per l'altra. Il piacere, divinità indiscussa, batté le palpebre e accolse il tremito di un destino che non doveva essergli concesso, né quel giorno né i giorni futuri. Si sciolse da ogni cappio, e fu brivido così libero – lungo la schiena fino alle braccia, la pelle d'oca di una paura che cambiava in vertigine; lungo il collo, al fremito della giugulare intatta, alle vene accentuate di carne diafana, e sulla mano, sul palmo aperto come scrigno, ad accettare pegno e premio, la maledizione e la benedizione di chi aveva scelto di spingersi oltre, oltre ogni confine, oltre l'umanità. Così Mya Lockhart vedeva colori che mai aveva visto prima, le ciglia brillarono del nero più scuro, assoluto, pece e inchiostro, e per pochi istanti le parve di mettere a fuoco quegli antichi spettri, nascosti e timidi, di cui tutti parlavano nella Stamberga Strillante, e che mai nessuno aveva incontrato per davvero. La sfera sensoriale si estese ben oltre il potenziale umano, l'odore del sangue – primo tra tutti – pizzicò le narici con intensità, e paradossalmente non trascinò con sé alcun istintivo rigetto, alcun disprezzo; al contrario, aleggiò come l'essenza della vita piena, profumo greve e leggero allo stesso modo, l'ambrosia che mai era stata svelata. Il dolore del morso, la carne strappata, il punto dolente, tutto sparì per un lungo istante, e Mya Lockhart assaggiò l'eternità. Ne desiderò altro, ne desiderò ancora, non avrebbe potuto reagire diversamente. Lei, donna e strega, assurgeva a divinità al sentore del sangue, al dolce, infinito bacio del Vampiro. Sapeva di essere sul punto di violare ogni confine, più di quanto non avesse già fatto, ma resistere alla bellezza, vincere il piacere, quella era una sfida che nessun umano avrebbe mai dovuto affrontare. Forte, impavida, decisa, cominciò la resistenza – contro di sé, ancor prima che contro il Vampiro.
Il raziocinio spezzava l'armonia dell'insieme, si imponeva come distacco necessario, e la sua bocca si sciolse al gemito di una richiesta, di un'imposizione, infine di un ordine vero e proprio. Il suono familiare, vivido, così umano, quel suono che Nathan Scott aveva già udito e conosciuto; quel suono che rivelava una vita che lui, Vampiro, non poteva mai più conquistare. Nessun rimorso, non per lui – la sua natura era il risveglio costante di ogni altra natura, non poteva pretendere di meglio. Ma quando mise a fuoco i contorni, la parte tuttora umana della sua identità si pose in primo piano. Non poteva procedere, non poteva assecondare completamente il suo istinto; la pena maggiore, il rancore, la consapevolezza di poter ferire, fino ad uccidere Mya Lockhart, si delineavano come possibilità vere.
Lento, si portò via, e il sapore del sangue carezzò la lingua, le labbra, la gola come il frutto maturo di un giardino proibito. Rivedeva, riviveva, ritornava – la stanchezza lasciava spazio all'energia più indomita, la spossatezza si ripristinava fino ad estinguersi, e i sensi,
tutti quei nuovi, dinamici, estremi sensi, anche loro finalmente si mostravano come mai dimentichi fin nel profondo. Portarono con sé la domanda più sciocca: perché,
perché fossero stati rinnegati, abbandonati, rigettati. Il nutrimento doveva avvenire prima, tutto quello non avrebbe potuto resistere ancora per molto. Lì, nella Stamberga Strillante, il Vampiro e la Strega tornavano alla vita e alla morte, e non c'era un confine stretto, non c'era distinzione che potesse dirsi completa. Il sangue zampillava come memoria tangibile, e non era amaro sulla bocca, non era macchia sulla pelle. Era ristoro, era cambiamento.
Il sangue era identità.