Peonies

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view post Posted on 28/7/2020, 23:02
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Ormai lo sapevano bene anche gli Elfi Domestici delle cucine di Hogwarts: se Jane metteva piede in quei locali, molto probabilmente era per chiedere una tazza di tè. Non c’era mai una richiesta aggiuntiva, nonostante ogni volta provassero ad aggiungere nel vassoio torte, biscotti e pasticcini, a lei bastava una teiera, una tazza e un sacchetto con l’infuso, tutto il resto era superfluo.
Bere una tazza di tè caldo per lei rappresentava un’abitudine, come la maggior parte degli inglesi, ma non solo: era come entrare in un rifugio sicuro, lontano dal mondo, una bolla di pace e tranquillità in cui isolarsi per qualche ora in compagnia solo di sé stessa e a volte di un libro.
Se la giornata non era delle migliori, se una lezione troppo pesante la stancava più del previsto, se si sentiva sopraffatta dagli eventi e dagli impegni, Jane scendeva dalla Torre di Divinazione e si recava nelle cucine a recuperare la sua personale soluzione a tutto: spesso finiva poi per nascondersi nel davanzale di una delle ampie finestre del Quinto Piano e passava un paio d’ore ad ammirare il paesaggio stringendo tra le mani la tazza calda di tè.
Erano a conoscenza di questa sua abitudine anche i suoi amici e i suoi compagni di casata, se avessero avuto bisogno di Jane sarebbe bastato controllare dove fosse la teiera – e il libro, mai scolastico – più vicina.

Negli anni aveva provato ad assaggiarne diverse varietà, dalle più pregiate a quelle più comuni, ma alla fine la sua scelta spesso ricadeva su una delle miscele più semplici, l’Earl Grey: adorava il sapore leggermente aspro del bergamotto che si fondeva con il gusto forte del tè nero.
Sembrava averlo intuito anche zia Mary, perché da quando Jane aveva iniziato a tornare a Manchester per le vacanze estive e quelle natalizie non mancava mai nella dispensa una consistente scorta di quell’infuso: inoltre, quasi potesse leggere nel pensiero della nipote, ogni volta che la ragazza provava ad interrompere quello che stava facendo per andare in cucina a prepararsi l’ennesima tazza di tè della giornata, ecco che zia Mary arrivava tenendone in mano una per poi posarla accanto a lei.

Per Jane quindi il tè era quasi un’àncora di salvezza, un’abitudine che sfiorava la dipendenza, ma non sapeva quanto quella sua passione rappresentasse un legame con il passato.
Lo scoprì una sera d’inverno, verso la fine delle vacanze natalizie dell’ultimo anno ad Hogwarts: la corvonero era seduta sul divano davanti al caminetto, immersa nella lettura di un libro, mentre lo zio Henry russava sprofondato nella poltrona poco distante.
Zia Mary sbucò lentamente dalla porta che collegava il soggiorno alla cucina, reggendo tra le mani un vassoio con appoggiate tre tazze: una tisana per sé, una camomilla per il marito e un Earl Grey per Jane.
Aveva mosso un solo passo in direzione della nipote che la tazza per Jane si sollevò in aria e volò fino al tavolino accanto al divano, vicino a lei: nel mentre la ragazza non aveva accennato il minimo movimento, troppo coinvolta dalla storia che stava leggendo. Venne riportata nella realtà dallo zio, che aveva smesso di russare e aveva accennato un colpo di tosse, cercando di attirare l’attenzione della nipote.
Jane alzò il viso dal libro e guardò lo zio con aria interrogativa: seguì lo sguardo dell’uomo, dalla tazza accanto a sé alla zia ancora in piedi con il vassoio tra le mani, e subito lo stupore prese spazio sul suo volto, a dimostrazione del fatto che non si era resa conto di quello che aveva appena fatto.

- Scusa zia, non me ne sono accorta. -

La donna non le rispose ma sorrise con aria bonaria, raggiungendola sul divano: porse la tazza di camomilla al marito, prese la sua, e prima di berne un sorsò mormorò: - Sei proprio uguale a lei… -

Aveva parlato tra sé e sé, lo sguardo fisso sulle fiamme che brillavano nel caminetto: dopo qualche attimo probabilmente avvertì su di sé lo sguardo della nipote, perché si voltò; Jane aveva posato il libro accanto a sé, la tazza di tè stretta tra le mani. Negli occhi della ragazza si poteva leggere chiaramente la richiesta di spiegazioni, e nel fondo anche una lieve paura: temeva di aver capito di chi stesse parlando, ma non sapeva se quello che voleva era conoscere quella storia.
Lo sguardo della strega si addolcì, e allungò una mano per stringere il braccio alla nipote, con gentilezza. Sospirò prima di parlare, quasi le costasse uno sforzo enorme spiegare le parole pronunciate qualche secondo prima.

- Sì Jane, sto parlando di tua madre. Le assomigli così tanto nei gesti e nei movimenti, che a volte mi sembra quasi di avere davanti a me Daphne, se non fosse che hai ereditato i tratti dei Read, e con quei capelli così scuri non potresti che essere figlia di tuo padre. -

Sorrise pronunciando quelle ultime parole: Thomas era suo cugino ma erano cresciuti insieme, le rispettive case confinanti, ed erano talmente legati che si era sempre fatta chiamare “zia” da Jane.

- Tua madre era proprio uguale a te: se avevi bisogno di lei, la trovavi immersa in un libro con accanto una tazza di tè. Le cinque del pomeriggio per lei erano un orario sacro, se non riusciva a bere la sua tazza di tè impazziva: tuo padre la prendeva sempre in giro, le diceva che sarebbe stata in grado di interrompere anche la più importante delle riunioni al Quartier Generale degli Auror se alle cinque non fosse riuscita a bere il tè. Ma esagerava, al lavoro era sempre impeccabile, come Thomas del resto… -

Si interruppe e un’ombra andò a cancellare dal suo viso la gioia dei ricordi che lo aveva illuminato fino ad un attimo prima: menzionare il lavoro dei genitori di Jane significava far entrare nella stanza la dolorosa realtà in cui tutti si trovavano a vivere.
Erano passati anni dalla scomparsa di Thomas e Daphne, ma se la corvonero non aveva alcuna memoria dei genitori essendo molto piccola all’epoca del loro omicidio, per Mary il peso dei ricordi era pari ad un macigno che si posava sul suo petto, bloccandole il respiro.

Jane si avvicinò alla zia, percependo il dolore che stava provando in quel momento, e l’abbracciò.

- Grazie. E’ sempre bello quando mi racconti qualcosa di loro. -

La zia ricambiò la stretta, per poi alzare una mano ed asciugarsi una lacrima che solitaria stava scorrendo lungo la sua guancia.
Finirono le loro bevande in silenzio, abbracciate, lo sguardo di entrambe fisso sul fuoco: dopo qualche minuto lo zio Henry si alzò e borbottando quello che per lui significava “buonanotte” sparì al piano superiore.

- Sai, quello che hai fatto poco fa, lo faceva sempre anche lei. -

La zia aveva ripreso a parlare, piano: Jane non si mosse né parlò, certa che ci sarebbe stata una continuazione.

- Quando scendeva con tuo padre a Manchester a trovarmi, le preparavo sempre una tazza di tè non appena metteva piede in casa, ma non riusciva mai a trattenersi e la tazza mi scivolava via dalle mani non appena avevo finito di riempirla. Era sempre impaziente quando si trattava del suo tè. -

Il respiro di Jane si fermò per un secondo, mentre un ricordo lontano fece capolino nella sua mente: le sembrava di aver già sentito quella storia da qualche parte, qualcuno che non aveva avuto la pazienza di attendere che il tè venisse versato, tazze e teiera in volo… solo che quel qualcuno non era sua madre. Era lei.
Aveva cinque anni all’epoca del fatto e ne avrebbe avuto un vago ricordo se la sua madre adottiva non le avesse spiegato tutte le stranezze che aveva fatto accadere da piccola prima di conoscere la sua origine magica.
Non aveva mai raccontato a nessuno il suo primo episodio di magia, nemmeno ai compagni durante i primi giorni ad Hogwarts quando uno degli argomenti più quotati nei discorsi da primini era “come hai scoperto di essere una strega?”: aveva preferito tenerlo per sé, custodirlo come il più importante dei segreti nonostante non fosse nulla di così terribile.
Forse zia Mary poteva costituire l’eccezione alla regola assurda che si era imposta. Quantomeno le era dovuto, viste le innumerevoli volte in cui aveva affrontato il dolore dei ricordi per permettere a Jane di conoscere i genitori che aveva perso a due anni.

- Zia, ti ho mai raccontato il mio primo episodio di magia? -

Attese una risposta dalla donna, ma questa si limitò a scuotere la testa: fece un respiro profondo prima di riprendere a parlare.

- Non ne ho un ricordo definito, all’epoca avevo solo cinque anni, ma la mia madre adottiva mi ha raccontato tutto quando ho ricevuto la mia lettera per Hogwarts. Un pomeriggio, proprio durante l’ora del tè, non ho avuto la pazienza di aspettare che mi venisse versata la bevanda e ho fatto prendere vita a teiera, tazze e piattini per servire il tè a tutti. A quanto pare non sono cambiata molto da allora… -

Non ci furono reazioni da parte della zia, e Jane attese qualche secondo per sciogliere l’abbraccio che la legava alla donna e guardarla in viso: sorrideva, ma una nuova lacrima aveva iniziato la sua discesa lungo la guancia.
Prima che la corvonero potesse aprire di nuovo bocca, la zia si mosse, e le diede un bacio sulla fronte.

- Non c’è dubbio, sei davvero uguale a lei. -
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L'ora del tè | Contest a tema, Luglio 2020
"Il rituale del tè, quel puntuale rinnovarsi degli stessi gesti e della stessa degustazione, quell'accesso a sensazioni semplici, autentiche e raffinate, quella libertà concessa a tutti, a poco prezzo, di diventare aristocratici del gusto, perché il tè è la bevanda dei ricchi così come dei poveri, il rituale del tè, quindi, ha la straordinaria virtù di aprire una breccia di serena armonia nell'assurdità delle nostre vite. Sì, l'universo tende segretamente alla vacuità, le anime perdute rimpiangono la bellezza, l'insensatezza ci accerchia. Allora beviamo una tazza di tè. Scende il silenzio, fuori si ode il vento che soffia, le foglie autunnali stormiscono e volano via, il gatto dorme in una calda luce. E, a ogni sorso, il tempo si sublima."
L'eleganza del riccio - Muriel Barbery


Se per caso qualcuno con i poteri da Mod passasse per di qua e potesse mettermi il titolo in corsivo e di questo colore #e6dff2 avrà la mia gratitudine e una fornitura di torte a vita 🌸
 
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view post Posted on 28/8/2020, 13:52
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m i r r o r | r o r r i m
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Il ticchettio della pioggia, attutito dal cappuccio del mantello scuro, era l’unico rumore che udiva e la sua unica compagnia da più di venti minuti: sollevò il braccio sinistro, cercando di leggere l’ora attraverso il quadrante dell’orologio ricoperto di gocce d’acqua con l’aiuto della flebile luce di un lampione lì vicino.
Il pomeriggio aveva lasciato posto alla sera, ma il tramonto quel giorno non aveva potuto farsi ammirare dagli esseri umani, nascosto dal temporale aveva preso posto ingombrante nel cielo qualche ora prima.
Era quasi giunto il momento.
Alzò lo sguardo, osservando attraverso le grate di un pesante cancello in ferro la villa a due piani che spiccava nel grigiore generale grazie ad alcune lanterne decorative piantate nel giardino: all’apparenza sembrava che non ci fosse nessuno al suo interno ed era certa che così sarebbe stato ancora per alcuni minuti.

Abbassò l’arto senza distogliere lo sguardo dalla casa, mentre la mano destra stringeva più forte la bacchetta e l’adrenalina iniziava a scorrere nelle sue vene: dopo lunghi mesi di attesa, giorni passati a rivedere il piano nei minimi dettagli, finalmente era a un passo dall’obiettivo.
L’aria fresca e umida le pizzicò le narici mentre inspirava profondamente, cercando di spezzare la tensione e di trovare la concentrazione necessaria per i passi successivi: attese un momento, uno soltanto, poi si mosse dal rifugio che aveva trovato nell’incavo tra uno dei pilastri di pietra accanto al cancello e la siepe che delimitava la proprietà.
Camminava con passi lenti e sicuri seguendo la staccionata in legno che si intravedeva attraverso i rami carichi di foglie, la bacchetta abbassata vicino al fianco, attenta a cogliere ogni rumore diverso da quello della pioggia ma con lo sguardo fisso sulle fronde alla ricerca di un dettaglio in particolare: un varco nel fogliame, nascosto agli occhi estranei da un incantesimo di illusione ma la cui posizione era impressa a fuoco nella mente di Jane; trenta passi dal cancello, sulla destra, proprio davanti ad un lampione che si trovava dall’altra parte della strada.
Avrebbe voluto rimuovere dai suoi ricordi il prezzo e le modalità con cui era venuta a conoscenza di quell’informazione, spinta da una rabbia così forte che non avrebbe mai immaginato di poter provare, ma era conscia di come fosse stato il primo passo nel pozzo oscuro in cui si era immersa da qualche mese e che per questo motivo non l’avrebbe mai dimenticato. L’odore marcio e lo sciabordio delle fogne di Londra scivolarono melliflui nella sua mente, ma non era quello il momento adatto per distrarsi e si sforzò di zittire la memoria che maligna le ricordava l’incontro di qualche mese prima.

Al trentesimo passo si fermò e dopo un ultimo sguardo alla strada vuota si immerse nella siepe, alzando il braccio destro che reggeva la bacchetta: la conferma di aver trovato il passaggio fu la completa assenza di resistenza da parte delle foglie e delle assi di legno che le permisero di passare attraverso di esse come se improvvisamente la ragazza fosse diventata un fantasma.
Attese qualche secondo immersa nel fogliame, controllando attenta che non vi fosse anima viva all’interno del giardino: una volta constatato che l’unico movimento proveniva dalle fiamme incantate delle lanterne e che l’unico rumore nei paraggi oltre alla pioggia era quello del suo cuore, uscì dalla siepe e si mosse rapida verso una quercia alla sua sinistra.
Una volta raggiunta la destinazione a pochi passi di distanza, si appoggiò al tronco dell’albero lasciando che si interponesse tra lei e la villa: chiunque avesse guardato in sua direzione da una delle finestre della casa non avrebbe avuto modo di notarla. L’aver fatto pochi passi esposta, con il rischio di venire scoperta, le aveva fatto venire il fiato corto per la tensione: alzò la testa e chiuse gli occhi, lasciando che qualche goccia di pioggia le bagnasse il viso, scorrendo sulla pelle pallida.

Fece un respiro profondo, l’ennesimo, concentrandosi sul percorso che avrebbe compiuto l’aria: narici, turbinati nasali, faringe, laringe, trachea, bronchi, bronchioli, alveoli e ritorno. Ne fece un altro ancora.
Negli ultimi mesi aveva dedicato gran parte delle sue giornate a pianificare quella serata e non poteva né voleva concedersi il lusso di provare ansia a pochi minuti dall’ora in cui avrebbe dovuto agire.
Il rumore secco di una Materializzazione la fece sobbalzare e aprì gli occhi di scatto: era arrivato.
Si girò e si sporse leggermente dal bordo del tronco giusto in tempo per udire il portone d’ingresso chiudersi e per vedere la luce illuminare improvvisamente le due grandi finestre che davano sulla porzione di giardino in cui si trovava lei.
Tornò a nascondersi e si rese conto che il rumore sordo che sentiva nelle orecchie era il suo cuore che improvvisamente aveva iniziato a battere più velocemente: strinse i denti mentre sul volto scendeva una maschera di risolutezza.

Ora o mai più.

Un passo deciso, poi un altro ancora, e silenziosamente si lasciò alle spalle la quercia che le aveva offerto protezione fino a pochi istanti prima, fino ad arrivare proprio davanti ad una delle finestre: poteva scorgere attraverso la tenda bianca la figura di un uomo seduto sul divano intento a leggere dei fogli.
Immaginò che si trattasse di un rapporto di missione di un Auror, oppure di una richiesta di qualche permesso particolare, come quella grazie alla quale Jane era venuta a conoscenza della verità.
Il ricordo di quella scoperta accelerò maggiormente il battito del suo cuore, mentre la rabbia si mescolò con l’adrenalina ricordandole il motivo per cui si trovava in quel giardino sotto la pioggia in una serata di fine agosto.
Quella sensazione angosciante che le aveva tolto il sonno, che l’aveva allontanata da qualsiasi altro obiettivo della sua vita, che le aveva impedito di pensare ad altro per mesi, tormentandola giorno e notte, solo quello le aveva permesso di andare avanti e proseguire in direzione del suo obiettivo, diventando un’ossessione.
Voleva una risposta alle sue domande ma le vie convenzionali non avevano portato ad alcun risultato: quell’uomo aveva evitato le sue richieste, non aveva mai risposto a nessuna delle sue lettere e non si era presentato a nessuno degli incontri fissati.
Risposte alle sue domande, non cercava altro, e quell’uomo continuava a negargliele: la delusione bruciava maligna nel petto di Jane, e la rabbia prese infine il sopravvento su qualsiasi emozione.

Allungò il braccio destro davanti a sé, la bacchetta stretta in mano.
Avrebbe ottenuto quello che voleva ed era pronta a pagare il prezzo delle sue azioni.

- Bombàrda! -

Si svegliò di soprassalto, il rumore dei vetri infranti ancora nelle sue orecchie, il cuore a mille: rimase distesa nel letto, ascoltando il respiro farsi sempre meno frenetico secondo dopo secondo e fissando il soffitto debolmente illuminato dalla luce che filtrava dalla finestra.

E’ la seconda volta questa settimana.

Sbuffò piano e si mise seduta sul letto, avvicinando le ginocchia al petto e posandovi sopra la fronte: il nome della persona che abitava nella villa che aveva appena sognato, colui nei confronti del quale provava una rabbia così forte, echeggiava nella sua mente.

Alexander Heisenberg.

Lo aveva conosciuto in un pomeriggio di fine dicembre, mentre rovistava nei bauli polverosi della soffitta di zia Mary: dal fondo ad uno di essi aveva estratto una pesante cartella porta documenti nera e non aveva resistito alla tentazione di aprila e scoprire cosa contenesse al suo interno.
Mai scelta fu più errata.
Ritagli della Gazzetta del Profeta, dossier, lettere di richieste di incontri, risposte con rifiuti, moduli di adozione: davanti a Jane foglio dopo foglio si era aperto uno spiraglio sulla sua infanzia e sulla morte dei suoi genitori.
Aveva scoperto la sua vera origine tramite una lettera dei genitori adottivi ricevuta dopo alcune settimane di permanenza ad Hogwarts al suo primo anno ma c’era voluto del tempo prima che la verità apparisse nella sua interezza: infatti non aveva potuto incontrare zia Mary e il resto della sua famiglia fino all’età di quattordici anni, e da quel momento era venuta a conoscenza che il suo allontanamento dal Mondo Magico – insieme all’adozione e alla separazione dal fratello – erano il frutto di un tentativo di protezione da parte del Ministero. Zia Mary all’epoca si era limitata a spendere poche parole sui tentativi di mettersi in contatto con i nipoti negli anni precedenti al loro incontro e la ragazza aveva preferito non insistere, distratta dai sentimenti di gioia e felicità per l’aver ritrovato la famiglia a cui pensava di non appartenere più.
Ma se avesse voluto saperne di più, se avesse interrogato zia Mary chiedendo il perché di quelle decisioni avrebbe ottenuto solo un nome in risposta: Alexander Heisenberg.

Auror presso il Ministero della Magia, collega dei genitori di Jane, era il responsabile dell’indagine sulla morte dei coniugi Read e si era occupato di ogni singolo aspetto della vicenda: era lui che aveva suggerito di dare Jack e Jane in adozione e sempre lui aveva negato le richieste di ricongiungimento di zia Mary.
Non aveva mai provato una rabbia così forte nei confronti di una persona: quell’uomo nella sua mente rappresentava la causa del dolore provato nei primi anni ad Hogwarts, era il motivo per cui le era stata negata la sua identità di strega fino all’età di undici anni, il responsabile dei rapporti perduti con un fratello che non sapeva di avere.

Alexander Heisenberg era improvvisamente diventato un’ossessione per la ragazza: dopo un’ora trascorsa a leggere tutti i documenti nei minimi dettagli era scesa in cucina per chiedere ulteriori chiarimenti alla zia, ma la sua rabbia e le sue domande si erano scontrate con un muro di calma e tranquillità; per la donna aver ritrovato i nipoti era sufficiente e convivere con il dolore per la morte dei genitori di Jane era già difficile di per sé, senza aggiungere sofferenza con la ricerca di ulteriori risposte.

Ma Jane non voleva sentire ragioni, testarda come non mai voleva saperne di più: perché lei e il fratello erano stati dati in adozione a due differenti famiglie Babbane? Perché non erano stati affidati ai parenti più prossimi in vita, come zia Mary? E perché non aveva potuto incontrarla fino a quando aveva compiuto quattordici anni?
Aveva scritto una prima lettera all’Auror chiedendo un appuntamento in ufficio, dopo tre settimane un’altra ancora: ormai erano mesi che scriveva settimanalmente all’uomo senza ricevere risposta, la delusione cocente come unica compagna della rabbia che non accennava a scomparire.
Mai nei diciotto anni della sua vita avrebbe pensato di provare un sentimento così forte e violento nei confronti di qualcuno: era la prima ad essere stupita di sé stessa scoprendo un lato del suo carattere che mai era emerso dalle profondità del suo animo.

Alzò la testa e scese dal letto puntando le braccia sul materasso: accese la lampada sul comodino e notò che la sveglia segnava le quattro di notte; aveva caldo, anche se il battito cardiaco si era normalizzato e il respiro era tornato tranquillo sentiva ancora bruciare dentro di sé quel desiderio rabbioso che l’aveva animata mentre nel sogno lanciava il Bombàrda.
Si diresse lentamente in bagno, dove accese la luce sopra lo specchio, e una volta giunta nei pressi del lavandino aprì il rubinetto, lasciando scorrere per qualche secondo l’acqua fredda su entrambi i polsi: sospirò, poi congiunse le mani a coppa e le riempì di liquido fresco per lavarsi la faccia, nella speranza di spegnere l’incendio che sentiva sotto la pelle.

Non poteva continuare così, ne era consapevole ma non sapeva più come uscirne: da un paio di mesi ormai un nuovo incubo si era aggiunto agli abituali, e notte dopo notte nel sonno violava i confini della proprietà privata del Ministeriale e lanciava con rabbia quell’incantesimo contro una delle finestre.
Era da sempre stata convinta che la violenza non fosse la soluzione ai problemi che il Destino poneva davanti alle persone, e mai avrebbe pensato di poter veramente agire in quel modo: era forse il suo subconscio a parlare, suggerendole quale percorso intraprendere?

Raddrizzò la schiena, gli occhi ancora chiusi mentre il braccio destro si allungava ad afferrare una salvietta per asciugarsi la faccia: quando riaprì le palpebre si scontrò con il suo riflesso nello specchio.
Il pallore del volto risaltava alla luce fredda del neon appeso sopra la superficie riflettente, in netto contrasto con le occhiaie scure che segnavano la pelle sotto i suoi occhi: nello sguardo notò una scintilla di rabbia residua e se ne spaventò.

Cosa le stava succedendo? Sarebbe davvero stata in grado di agire in quel modo così violento nei confronti di uno sconosciuto?


Chi era davvero la ragazza che vedeva allo specchio?
contest a tema - agosto 2020


Per saperne di più:
Mi sono resa conto che per fin dalla prima partecipazione sto sfruttando questi contest di scrittura per sistemare la disastrata storia del mio PG frutto di anni in cui non ho mai seguito un vero e proprio filo conduttore: per questo motivo sono giunta alla “creazione” del personaggio di Alexander Heisenberg, soprattutto nel tentativo di dare un perché alla scelta di far dare in adozione Jane dopo la morte dei genitori (cosa non ci si inventa a 14 anni).
Ovviamente non c’è traccia On GDR di questo PNG ma ciò non toglie che un domani potrei richiedere al gentile Master di sviluppare ulteriormente questo aspetto con una quest di background :fru:

Nel caso fossi andata fuori tema o al di fuori delle regole del contest mi scuso in anticipo 🌸


 
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view post Posted on 30/12/2020, 23:44
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Come si può riuscire ad afferrare qualcosa che è lì, davanti a te, a pochi millimetri di distanza dalle tue dita? Quando hai una parola sulla punta della lingua e non riesci a ricordartela, nonostante tutti i tuoi sforzi, stringi gli occhi e provi a costringere i tuoi neuroni a connettere le sinapsi, a rievocarla dalle profondità della tua memoria, ma senza successo.

Una parola, un nome. Un ricordo.



Seduta sull’unico letto della stanza bianca e asettica del San Mungo, ginocchia al petto e braccia intrecciate intorno ad esse, la schiena appoggiata al muro, Jane sbuffò piano, alzando lo sguardo verso il soffitto: erano ormai passati dieci giorni dal suo arrivo in ospedale, dieci giorni passati a cercare una risposta che non era ancora arrivata. Perché si trovava lì? Cosa era successo?
Chiuse gli occhi, cercando di trattenersi dalla tentazione di muovere la mano destra, limitandosi a sfiorare con le dita le bende che le fasciavano il braccio sinistro: la ruvidezza del cotone a contatto con la pelle era l’unica cosa tangibile nel mare inesplorato di dubbi che erano diventati la sua quotidianità.
Esercizi mnemonici, sequenze di numeri da ricordare, forme da ricostruire, disegni da ricopiare: aveva trascorso giornate intere ad eseguire test sotto lo sguardo attento degli specialisti e a seguire le loro indicazioni, ma i risultati avevano parlato chiaro fin dal primo istante ed era apparso evidente che le sue capacità mnemoniche fossero perfettamente integre.

Eppure, non riusciva a ricordare.

Trascorreva ore intere a sforzare la mente, a rievocare gli ultimi istanti prima che l’oscurità prendesse il sopravvento: stava andando al ballo di fine anno, ricordava come si fosse organizzata con Jessica e Jane Evans per incontrarsi direttamente alla festa. Era una bella sera estiva, le stelle illuminavano il giardino del castello e mentre stava attraversando il prato in direzione del lago una brezza leggera le accarezzava le braccia.
L’istante successivo era a terra in un vicolo, la gamba destra dolorante e il braccio sinistro ricoperto di sangue, disorientata e spaventata. Nel mezzo, il nulla più assoluto.
Arrivava a fine giornata sfinita, con la nausea e l’emicrania, e si illudeva che il sonno l’avrebbe potuta aiutare a stare meglio, ma ogni notte si pentiva della speranza che riponeva in Morfeo.


Camminava a passi incerti lungo un corridoio malamente illuminato, stretto e alto: lo scorrere dell’acqua che trasudava dalle mura di pietra scura era l’unico rumore che riusciva ad udire, l’olezzo di fogna entrava con insistenza nelle sue narici e le mozzava il fiato, rendendole difficile proseguire.
Dopo ore di cammino - ma potevano essere anche minuti, la concezione del tempo impossibile da mantenere - arrivava davanti ad una porta di legno, chiusa: la vernice verde oliva era scrostata in più punti, come se fosse stata per anni sotto le intemperie, la maniglia e la serratura color ottone erano ricoperte di ruggine. Restava ferma ad osservala per qualche istante, poi la tentazione vinceva sul buon senso e allungava la mano destra in direzione della maniglia. Ovviamente, la porta era chiusa. Provava ancora una volta, due, ma il risultato non cambiava.
Allora giungeva il momento in cui si arrendeva, e si voltava per tornare indietro, ma non appena provava a muovere il primo passo uno scoppio secco la faceva sobbalzare, seguito da una risata malefica che la raggiungeva riecheggiando lungo il corridoio. Improvvisamente il panico si impossessava di lei, il battito cardiaco accelerava, il fiato ancora più corto, l’impellente necessità di aprire quella porta e fuggire diventava la sua unica ragione di vita.
Provava di nuovo ad aprirla, a forzare la maniglia: tirava fuori la bacchetta e lanciava contro la porta ogni incantesimo che conosceva, ma quella rimaneva sempre lì, davanti a lei, ineluttabilmente chiusa, nonostante le urla, nonostante le lacrime.
Inaccessibile.
Era solo nel momento in cui capiva che tutto era perduto, che non c’erano alternative, che la porta non si sarebbe mai aperta che allora si svegliava, sudata, le guance rigate dalle lacrime, pallida.


« Da qualche parte, lì nella sua mente, c’è il ricordo di quello che è accaduto, mi creda signorina. Ma, vediamo se riesco a spiegarle… » il Medimago che la stava visitando per l’ultima volta prima di dimetterla era un uomo sulla settantina, con folte sopracciglia bianche come la neve che ne incorniciavano lo sguardo, « E’ come se qualcuno avesse preso un lucchetto, chiuso la porta, e... »

« Buttato la chiave? » la ragazza, che durante l’intero colloquio aveva fissato il pavimento, lo sguardo assente, solo in quel momento aveva alzato il volto in direzione del mago che stava annuendo, come se improvvisamente si fosse risvegliata, « E… riuscirò mai a trovarla? »

L’uomo aveva sospirato, aprendo la porta dell’ufficio e porgendole la mano destra per salutarla, « Difficile, molto difficile, anche se si tratta di un Oblivion lanciato con apparente poca precisione. Ma non perda la speranza. La mente è uno dei più grandi misteri irrisolti della scienza, magari un giorno si sveglierà e improvvisamente ricorderà tutto. Le faccio i miei auguri. »



Quattro anni dopo.


E tu ci credi, alle loro parole. Ti convinci che le spiegazioni che hai ricevuto siano vere, che finalmente la chiave sia stata trovata, portata nelle tue mani da una persona che hai sempre reputato degna di fiducia. Il tassello mancante, la storia che prende forma, le pagine perdute del libro che vengono ritrovate.
Tutto ha un senso e per certi aspetti ne sei felice. Ti suggeriscono la parola che non riuscivi a ricordare, e ringrazi senza sapere che in verità la parola è sbagliata e la gratitudine dovrebbe essere l’ultimo dei tuoi sentimenti.



« Il tuo ricovero al San Mungo, la gamba rotta e la cicatrice che porti sopra l’avambraccio, sono tutte componenti mancanti di un puzzle che io stesso ho provveduto a cancellare dalla tua memoria... »

Le aveva sempre mentito, durante tutti gli anni trascorsi insieme Lucas le aveva nascosto la verità nonostante fosse consapevole di quanto soffrisse nel non ricordare nulla. Era uscita di fretta dalla Testa di Porco, cercando di mettere in breve tempo la maggiore distanza possibile tra lei e il Mangiamorte, camminando senza una meta precisa e senza guardare la direzione scelta: non appena una panchina fece capolino nel suo campo visivo vi si sedette, tremando.
Era come essere tornata al San Mungo, nella stanza vuota in cui aveva trascorso più di un mese: il respiro corto, la tachicardia, il sudore freddo lungo la schiena, improvvisamente era tornata la quindicenne spaventata che cercava invano di ricordare cosa le fosse accaduto. Trascorse una buona mezz’ora prima che riuscisse a rialzarsi e a raccogliere le forze per Smaterializzarsi e tornare a Londra.

E quella notte, la certezza di essere tornata indietro nel tempo prese lentamente forma nel lungo corridoio di pietra scura, nell’odore di marcio… e nella porta di legno verde che sembrava la stesse attendendo, nonostante fossero passati anni. La fissò, in silenzio, cercando di controllare il respiro, ripetendo a sé stessa che si trattava solo di un sogno, che bastava aspettare, prima o poi si sarebbe svegliata. Trascorse un minuto, poi due. E alla fine, cedette.
Allungò la mano, colta da un leggero tremore, la posò sulla maniglia corrosa dalla ruggine e poi la strinse con decisione. Contò per farsi forza, quasi per convincersi a riprovare nonostante il risultato fosse già scritto nel futuro.

« Uno, due… tre. » l’ultimo numero le morì in gola, la voce ridotta ad un flebile sussurro mentre il respiro le si bloccava nel petto. Lo sguardo incredulo, il volto pallido, la sorpresa e la paura compagne nel dipingerle il volto.

Dopo tanti anni, la porta finalmente si era aperta.


Per capirci qualcosa saperne di più:

La prima parte del contest è ambientata durante il ricovero al San Mungo di Jane dopo il sequestro da parte di Lucas (qui & qui le rispettive role): essendo una quest mai conclusa e avendo concordato il risultato finale purtroppo non c’è la prova scritta dell’utilizzo dell’Oblivion ma il fatto è sempre stato presente nel background del mio PG.
La seconda parte è invece il continuo di questa role.

In ogni caso se qualcosa non fosse chiaro mi scuso in anticipo e sono disponibile per ulteriori chiarimenti 🌸


 
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view post Posted on 30/1/2021, 15:43
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II passi risuonavano lungo il corridoio, ritmici e precisi, l’unico rumore udibile nel dormitorio a quell’ora del mattino: gli studenti di Corvonero erano tutti diligentemente distribuiti nelle varie zone del castello, chi a seguire una lezione di Trasfigurazione, chi nelle serre di Erbologia, chi a sfruttare un’ora buca per studiare in biblioteca.

Tutti, tranne Jane: una riunione con i responsabili della Casata l’aveva costretta ad assentarsi dalle lezioni di quella mattina, facendo sì che in quel momento fosse l’unica anima viva a camminare nel corridoio del dormitorio femminile. O almeno, così avrebbe dovuto essere.
Intenta a leggere con attenzione il resoconto dell’incontro, si stava dirigendo verso la sua camera, quando un tonfo sordo la fece fermare, cercandone l’origine: tornò indietro di qualche passo, notando solo in quel momento che la porta alla sua sinistra era socchiusa e che qualcosa – o meglio, qualcuno – si trovava al suo interno. Non appena lesse il numero color bronzo appeso sullo stipite sorrise, riconoscendolo: allungò la mano in direzione della maniglia, contò fino a tre e poi entrò decisa nella stanza.

« E così abbiamo deciso di saltare le lezioni stamattina, » lo sguardo serio, perfettamente in linea con il suo ruolo da Prefetto, la voce ferma, «… signorina Speranza? »

All’interno della camera c’era una ragazza, seduta alla scrivania intenta a scrivere in un quaderno, che non appena udì la voce di Jane sobbalzò, per poi voltarsi con lo sguardo spaventato: il volto di Emma passò dal candido pallore al rosso carminio in pochi secondi, mentre fissava l’amica sulla soglia.

« Non dovresti essere a Trasfigurazione? »

« Non dovresti esserci anche tu? »

Si fissarono in silenzio, una seria con le braccia incrociate, l’altra spaventata ma al tempo stesso con lo sguardo carico di sfida: dopo pochi secondi, però, la risata di entrambe spezzò la tensione che si era creata.
Jane lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, mentre un piccolo sospiro usciva dalla sua bocca e alzava gli occhi al cielo.

« Sul serio Emma… sai che non dovresti essere qui! Se invece di essere io a scoprirti ti facevi beccare da Cohen? O, peggio ancora, da Scott? »

La fissò negli occhi, speranzosa che l’amica capisse le sue preoccupazioni: Emma non era una studentessa indisciplinata, tutt’altro, era anche molto brava, ma tendeva a saltare qualche lezione per rifugiarsi in camera sua a scrivere: Jane era a conoscenza di questa sua abitudine e da quando era diventata Prefetto pochi mesi prima aveva sempre sperato di non dover mai essere lei a cogliere l’amica in flagrante. Evidentemente le sue preghiere non erano state ascoltate, e quella mattina ne era la prova. Non era il genere di Prefetto che metteva in punizione gli studenti con facilità, e non si lasciava nemmeno influenzare dalla casata di appartenenza, ma dover riprendere i suoi amici le era sempre sembrato più difficile e per questo sperava sempre di non doversi trovare in situazioni come quella in cui era appena finita.

« Per fortuna è stato il prefetto Read a trovarmi, » Emma le fece una linguaccia, per poi voltarsi ad afferrare qualcosa sulla scrivania, « e che so come corromperlo! »

Scoppiò di nuovo a ridere, lanciandole una mela rossa: Jane l’afferrò al volo, scuotendo la testa per farle capire che non condivideva le sue azioni ma che al tempo stesso ormai si era rassegnata. Sperò solo che non sbucassero l’altro prefetto o il caposcuola a beccare entrambe, ma era certa che fossero andati direttamente a lezione dopo la riunione con la loro capocasa.

« Sei senza speranza, non di nome ma di fatto! » si avvicinò al letto dell’amica, sedendovi sopra, « A cosa stai lavorando? »

Si sporse curiosa in direzione della scrivania, cercando di sbirciare quello che l’amica stava scrivendo prima di essere interrotta: Emma era una scrittrice con un’incredibile capacità di coinvolgere i lettori nelle storie che inventava, e ogni volta che le permetteva di leggere le sue creazioni Jane si sentiva onorata.
Il quaderno venne velocemente chiuso dall’amica, che lo fece sparire in uno dei cassetti della scrivania.

« Niente che possa essere di tuo interesse… per ora, forse! »

Jane fece spallucce, addentando la mela, sicura che prima o poi l’amica le avrebbe fatto leggere il contenuto del quaderno… a meno che non si trattasse di qualcosa di privato. Un’idea balenò nella sua mente, fugace, mentre il ricordo di una lezione di pozioni finita male emerse nella sua memoria, facendola sorridere.

« Non sarà mica una lettera per McConrad, quel Tassorosso in coppia con te a pozioni? »

Erik McConrad era un Tassorosso al primo anno che a lezione di pozioni condivideva il tavolo con l’amica: era un ragazzo timido e riservato, ma molto gentile, e Jane dal tavolo accanto aveva notato le occhiate fugaci che Emma gli lanciava quando era distratto. All’inizio non vi aveva dato troppo peso, ma quando Emma aveva fatto esplodere la pozione Addormenta Draghi che stavano preparando, un fatto insolito per una persona precisa come lei, e aveva notato che l’amica aveva iniziato a cercarlo anche durante i pasti in Sala Grande, l’idea che si fosse presa una bella cotta era diventata più consistente. Non aveva mai indagato oltre, ma il colore rosso acceso che dipinse le guance dell’amica e il peluche a forma di riccio che le venne lanciato addosso le bastarono come conferma.

« Non è vero! » esclamò la Corvonero a voce alta, facendo scoppiare Jane a ridere.

« In effetti, vi vedrei bene insieme, » le lanciò di nuovo il peluche, prima di addentare un altro morso di mela, e alzare lo sguardo, pensierosa, « Se vuoi chiedo a Jane Evans i suoi orari di lezione, sicuramente li conoscerà essendo la sua Caposcuola… così puoi farti trovare casualmente fuori dall’aula al cambio ora! »

« Non so cosa tu stia insinuando! » le guance dell’amica si scurirono maggiormente, mentre il suo sguardo si illuminò e un sorrisetto impertinente prese forma sulle sue labbra, « Piuttosto… come mai tu non sei a lezione? »

Jane finì di mangiare la mela, lanciando il torsolo nel cestino più vicino prima di rispondere, tranquilla.

« Riunione di casata, sai, per parlare dell’andamento generale… e per decidere come punire i corvi più indisciplinati! »

Le fece l’occhiolino, sperando che capisse: purtroppo per lei Emma non sembrò propensa a recepire il messaggio, perché lo sguardo divenne sempre più compiaciuto, mentre il sorriso sulle sue labbra si faceva sempre più ampio, il che poteva significare solo una cosa. Stava per restituire con tanto di interessi la frecciatina lanciata da Jane poco prima.

« Una riunione, eh? » si avvicinò maggiormente al letto, facendo strisciare la sedia sul pavimento di legno, « Non è che invece ti eri nascosta da qualche parte insieme ad un certo Corvonero di nostra conoscenza? Voci di corridoio dicono di avervi visti insieme in giardino l’altro giorno… devi per caso raccontarmi qualcosa? »

Fu il turno delle guance di Jane di diventare color rosso scuro, mentre dallo sguardo si capiva perfettamente che era stata presa in contropiede: non pensava che le voci potessero correre così in fretta nei corridoi di Hogwarts.

« Io, ecco... no, ti giuro, ero a riunione, ma… ma… esattamente, cosa hai sentito in giro? » guardò l’amica, confusa e implorante al tempo stesso.

« Niente di scandaloso... forse! » Emma scoppiò a ridere osservando la reazione dell’amica, e andò a sedersi accanto a lei, abbracciandola, « Dai Jane, sto scherzando! Lo sanno tutti ormai che c’è qualcosa tra te e Haryel Smith! Però alla tua amica potresti anche raccontare qualche dettaglio in più, che ne dici? Magari potrei aiutarti a scrivere una lettera anche per lui… »

« Aha! Allora stavi proprio scrivendo una lettera per McConrad! » lo scoccare della campana del castello risuonò in lontananza, interrompendo Jane ma al tempo stesso offrendole una via di fuga dall’interrogatorio da parte dell’amica, « Dico che forse è il caso di muoverci se non vogliamo fare tardi a Incantesimi! Dai, andiamo. »

Si alzò, porgendo la mano all’amica per costringerla a seguirla: Emma sbuffò, alzandosi controvoglia, ma senza perdere lo sguardo malizioso di poco prima. Jane scoppiò a ridere davanti quell’espressione, mentre il rossore sulle sue guance non accennava a diminuire.

« Potrei prendere in considerazione l’idea di raccontarti qualcosa… ma solo se mi farai leggere la lettera per McConrad! »

Lo sguardo di Emma si fece pensieroso, mentre in silenzio afferrò il libro di incantesimi e si diresse alla porta: giunta sulla soglia si voltò in direzione dell’amica.

« Non penso sia molto equo ma… andata! »

Si guardarono per un istante, entrambe rosse in viso, per poi scoppiare a ridere per l’ennesima volta.

« Non eravamo in ritardo? »

Jane si affrettò a seguire l’amica, prendendola a braccetto mentre uscivano dalla Sala Comune: stavano ancora ridacchiando quando raggiunsero i compagni di casata fuori dall’aula di incantesimi, inconsapevoli della bellezza dei tredici anni e dei primi amori che iniziavano a fare capolino nelle loro vite.

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view post Posted on 14/3/2021, 14:32
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Risate, abbracci, esclamazioni di gioia e felicità: tutto sembrava brillare attraverso il bicchiere di rosé che teneva stretto tra le mani, assumendo una sfumatura rosea delicata e intervallata da leggere bollicine che galleggiavano imperfette fino alla superficie per poi dissolversi. Jane sorrideva mentre osservava gli zii ballare nel mezzo della pista, i volti pieni d’amore e di gioia, la perfetta rappresentazione della vita coniugale che augurava a sua cugina e a Michael. Una leggera ombra passò sul suo viso, ma in fretta come era apparsa scomparve, perchè nessun pensiero maligno doveva oscurare quella giornata così luminosa: alzò il bicchiere e bevve un sorso del liquido frizzantino al suo interno, cercando di cancellare con l’alcool quella sensazione fastidiosa che avvertiva alle sue spalle, pronta a tornare a sorridere non appena si fosse avvicinato qualcuno.

« Guardali, quei due romanticoni! » Isabel si sedette accanto a lei, lo sguardo fra il divertito e il disgustato, « Sono talmente tanto sdolcinati che riescono a mettere i brividi pure a me! Se zia Eulalia fosse ancora qui sono certa che disapproverebbe borbottando tra sé e sé e cercando di incenerire entrambi solo con lo sguardo! »

Scoppiarono a ridere entrambe: la vecchia zia Eulalia li aveva lasciati poco più di un anno prima, una donna burbera e severa, sempre pronta a criticare gli altri e a regalare i suoi preziosi consigli; Jane negli anni aveva imparato ad evitarla quando riusciva, ma doveva ammettere che in fondo un po’ ne sentiva la mancanza e che fosse lo stesso per sua cugina. Le feste non sembravano più le stesse senza la zia che borbottava in sottofondo come un calderone sopra il fuoco.

« Ragazzina, cosa pensi di fare al San Mungo? E’ un lavoro da uomini, non il posto adatto ad una bambina! » Jane iniziò ad imitarla, la voce bassa e lo sguardo severo, e non ci volle molto prima che la cugina si unisse a lei, alzando il dito indice della mano destra con fare inquisitorio, « Isabel, ancora lavori al Ministero? Quando metterai la testa a posto e penserai ad una famiglia? »

Altre risate, ma questa volta vennero interrotte sul nascere da un paio di mani che afferrarono entrambe e le trascinarono nel mezzo della pista.

« Ragazze! Ma vi sembra il caso? » zia Mary le guardava seria, anche se lo sguardo la tradiva e mostrava che in fondo si stava divertendo anche lei, « Povera zia Eulalia! Era una donna molto dolce, bisognava solo comprenderla! »

Le due ragazze si guardarono, pronte a ridere ma consapevoli che avrebbero rischiato di offendere la zia: sapevano volesse bene a quella strega sempre pronta a sparare giudizi contro tutti, perciò si limitarono a scambiarsi uno sguardo divertito e a lasciarsi coinvolgere in una danza leggera, solo loro tre.

Sembrava tutto così perfetto che forse lo era anche troppo: Jane tra un passo e una giravolta si soffermò a guardare le due streghe, il cuore pieno di amore e gratitudine. Anni prima l’avevano accolta tra di loro come se non fosse mai stata lontana, le avevano fatto scoprire cosa significasse avere una famiglia, l’avevano fatta sentire amata e protetta, l’avevano aiutata più che potevano quando era stata in difficoltà e l’avevano supportata in ogni sua scelta; anche lo zio Henry, che ora sedeva a bordo pista e sorseggiava un bicchiere di rum con lo sguardo accigliato guardando il trio femminile, con i suoi silenzi e i suoi sguardi l’aveva sempre fatta sentire a casa.
Quei quattordici anni di distanza sembravano sempre più inconsistenti giorno dopo giorno, cancellati via dagli abbracci, dalle parole dolci e da quelle più severe, dai gesti inaspettati e da quelli quotidiani. Aveva mostrato a sufficienza quanto fosse grata alla sua famiglia? Era certa che avessero sempre compreso i suoi sentimenti, eppure sentiva di non aver ancora fatto abbastanza.
Si fermò, bloccando anche le due donne che stavano danzando con lei, e prese entrambe per mano.

« Zia… Isabel… » le guardò entrambe negli occhi, mentre le guance iniziavano ad arrossarsi, consapevoli di avere lo sguardo di tutti i presenti su di sé, « Io, ecco… volevo ringraziarvi. Sento di non averlo mai fatto come si deve. » Si fermò per un attimo, la bocca arida come il deserto per l’agitazione: perché le era così difficile esprimere i suoi sentimenti in pubblico? « Qualche anno fa mi avete accolta tra di voi, mi avete fatto sentire a casa, mi avete dato una famiglia. Mi avete fatto sentire parte di questa famiglia. » avvertiva uno strano calore nel petto, come se la gratitudine e l’amore che provava volessero uscire e mostrarsi alle due donne, « Non dimenticherò mai come mi avete fatta sentire il giorno che ho ricevuto quella famosa lettera. E non penso che riuscirò mai a dimostrarvi l’effetto che mi fa essere qui, in mezzo a voi, e sentirmi a casa. »
Un’altra pausa, un piccolo respiro profondo, « Vi voglio bene. Sono solo tre parole, lo so, eppure… mi sembra che possano dire tutto e io non saprei come dirvelo in un altr- »

Le parole le morirono in gola, ma le due donne dopo un attimo di esitazione e un velo di incertezza negli sguardi la avvolsero in un dolce abbraccio di gruppo.
Non c’era bisogno di risposte, né di parole. In quel piccolo gesto era racchiuso tutto l’amore che provava per la sua famiglia.

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→ Prova dell'amore n.2 ✓ ♡
 
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view post Posted on 30/3/2021, 23:17
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Fino a quando non diventano parte integrante della tua quotidianità non puoi dire di averli notati per davvero, in tutta la loro essenza. Se hai condiviso con loro la medesima condizione forse hai avvertito una certa vicinanza, un senso d’appartenenza, ma non hai potuto scorgere i dettagli più profondi perché tu stesso eri un dettaglio tra i tanti.
Ci vuole tempo per imparare a riconoscerli in mezzo alla folla, tra le scomode sedie di plastica rese opache dall’usura e le poltrone sformate che cercano invano di accoglierli e di sostenere i loro pensieri: serve quasi una sorta di allenamento per imparare a notare il fremito nelle mani, lo sguardo assente che si illumina ogni volta che una nuova figura compare nel campo visivo, il respiro lento, quasi rassegnato, le gambe stanche ma pronte a scattare.

Dopo qualche giorno riesci a riconoscerli dai dettagli, dopo qualche settimana ti capita di pensare di volerli evitare. Dopo qualche mese, capisci che sono diventati parte di te.

Gli occhi azzurro cielo spiccano nel viso pallido incorniciato da ciocche disordinate di capelli dorati: si muovono a scatti, inquieti, incapaci di accettare il loro destino: i denti candidi torturano senza pietà le unghie tinte di nero, le dita magre scivolano senza sosta sulle labbra rosse come se stessero danzando.
La sedia di plastica che le è stata indicata sembra essere di fuoco sotto le gambe che non riescono a stare ferme, si intrecciano, si slegano, si allontanano e poi si avvicinano di nuovo. I piedi sembrano impossibili da trattenere, esprimono chiaramente il desiderio di andarsene e lasciarsi alle spalle quella lenta agonia.

”Potrebbe volerci almeno un’ora. Aspetti qui, appena avremo notizie le faremo sapere di più.”

Un’ora, sessanta minuti. Spesso sono un semplice battito di ciglia, ma in quella sala, sotto quell’orologio squadrato e asettico che guarda tutti dall’alto, senza giudicare, possono diventare un’eternità. E quella che a prima impressione era apparsa come una stupida sfida tra amici si trasforma in un parassita che si attorciglia intorno al petto, che rallenta il respiro, che invade la mente di domande, dubbi, pentimenti e paranoie.

Lo sguardo viaggia, spaesato, si muove da un punto all’altro della stanza finché non nota il quadrante appeso sul muro azzurrino e in esso trova un antidoto temporaneo al mostro che ha preso possesso di corpo e mente.
Un’ora, solo un’ora. E poi il tormento troverà forse la pace.

Disciplina, pazienza e rigore: tre dogmi che nel corso degli anni hanno modellato con cura e sapienza il suo animo e che giorno dopo giorno si sono trasformati in compagni di vita. Ne avverte quasi la presenza alle sue spalle, intenti ad accarezzare le sue paure e a trasformarle in forza.
E’ seduto composto nella poltrona di pelle logora che ha dato supporto ad altri prima di lui, ma non si appoggia ad essa, resiste stoico nella medesima posizione da ore: i piedi fermi, posati saldamente a terra all’interno delle scarpe eleganti di cuoio marrone, la schiena dritta, il respiro regolare. La mano sinistra appoggiata sul ginocchio e la destra davanti a sé, sotto il suo sguardo calmo ma attento, intenta a tenere stretta alla vita l’amore della sua vita.

Nulla può distrarlo dal suo compito, è una guardia destinata a finire solo quando il Fato avrà deciso se gli innumerevoli anni trascorsi insieme sono stati sufficienti o se è concesso loro il privilegio di condividerne altri: lo scandire dei minuti è dettato dai respiri leggeri che riesce a percepire poco distanti da sé, un soffio debole che in quel momento gli è vitale. Non esiste altro per lui, è tutto sospeso e immobile nel mondo impalpabile dell’attesa.

L’ultima volta che le aveva regalato un mazzo di fiori aveva manifestato una gioia così luminosa che era rimasta per giorni impressa nella sua mente: era sempre stato convinto che le rose gialle fossero le sue preferite, eppure quel mazzo multicolore di ranuncoli le era piaciuto così tanto che c’erano voluti pochi istanti per scoprire che in verità era quello il fiore che più di tutti occupava un posto nel suo cuore.
Aveva approfittato di un suo attimo di distrazione, mentre i medimaghi la visitavano per un ultimo controllo era corso giù per le scale e si era letteralmente fiondato nella fioreria più vicina al San Mungo: era tornato indietro giusto in tempo per salutarla prima che entrasse in sala, il mazzo lasciato su una sedia seminascosto da una vecchia copia del Profeta, l’animo speranzoso e impaziente del momento in cui avrebbe offerto i fiori alla madre.

La realtà però l’ha riportato con i piedi per terra e gli ha riempito il cuore di sassi pesanti spezzandogli il respiro: gli occhi che per due ore interminabili hanno atteso fissi sulla porta verde scuro si sono riempiti a poco a poco di lacrime che sono scese senza sosta lungo le guance pallide, per poi arrendersi e abbassare la linea dell’orizzonte fino al pavimento. Ora guardano senza vedere i petali colorati sparsi disordinatamente sulle piastrelle bianche, le scarpe ancora slacciate dopo la corsa per acquistare i fiori: sono occhi vuoti, la rappresentazione di quello che sente dentro di sé e che teme diventi l’unica sensazione percepibile per il resto della sua vita, o peggio, che lo risucchi in un vortice senza uscita che lo trascina giù, sempre più giù.

Gli dicono di pazientare, che non è detta l’ultima parola, che la speranza è ancora viva e lotta per lei, per lui, per la sua famiglia: ma dove si trova la forza di attendere quando il mondo è crollato?

Una tazza di tè caldo posata tra due mani che tremano, una stretta d’incoraggiamento sulla spalla: qualcuno che si siede accanto ad un cuore spezzato e prova con pazienza a ricomporne i pezzi mentre cerca di alleviare anche solo con la propria presenza l’agonia dell’attesa.

Se imparare ad individuarli in pochi attimi ti è sembrato difficile, capire come poterli aiutare appare un’impresa titanica perché li vedi lì, davanti a te, sospesi nel vuoto ma al tempo stesso con i piedi per terra, consapevoli in profondità della loro situazione ma cristallizzati in un’impasse che non fa sconti per nessuno.
Poi, all’improvviso, finalmente comprendi e tutto il resto perde importanza.

Non puoi fare altro che avvicinarti, sederti accanto a loro, prendere le mani tra le tue per fermare il fremito e scaldare le dita gelide: non ti restano molte alternative, sai che questo è l’unico modo per renderti utile. Fai un respiro profondo e inizi ad attendere insieme a loro.

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view post Posted on 30/6/2021, 23:01
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Scintillava vivido alla luce del sole, riscaldato appena dai raggi estivi che si erano fatti capolino tra le rade nuvole che provavano a ricordare che nonostante fosse ormai luglio l’Inghilterra rimaneva una delle lande con il più alto numero di precipitazioni annue e che quella giornata in fondo rappresentava solo una temporanea tregua. Un’ultima passata di lucido ed era tornato finalmente al suo antico splendore, pronto per scendere in campo: Jane accennò un sorriso osservando il lavoro ultimato, mentre sentiva crescere dentro di sé una sensazione che le era sempre sembrata impossibile da dimenticare, ma che per qualche strana ragione era finita seppellita tra gli strati del passato.

« Jane, ti dai una mossa? Stiamo aspettando tutti te! »

Una voce dall’alto la ridestò dai suoi pensieri, squillante e impaziente solo come la sua proprietaria sapeva essere: si voltò e alzò lo sguardo verso il cielo, dove Isabel galleggiava a mezz’aria insieme al resto della compagnia. Si assicurò che la cugina vedesse bene la sua espressione scocciata, poi le fece una smorfia prima di allungare la mano e afferrare la scopa a cui aveva dedicato la sua attenzione più completa negli ultimi istanti. Sentiva il legno sotto la pelle, solido e rassicurante: fece scivolare il pollice sopra una scanalatura guadagnata durante una delle sue prime partite di Quidditch, un gesto abituale che con il tempo aveva assunto una connotazione quasi scaramantica, poi con un movimento fluido montò sulla scopa. Una spinta dei piedi, leggera ma decisa, e la magia prese vita.

Quando aveva fatto ritorno da Hogwarts per le vacanze estive dopo il primo anno era riuscita a malapena a mettere piede fuori da King’s Cross prima che il suo padre adottivo, babbano, esaurisse la pazienza e le chiedesse incuriosito di parlarle della magia, di descriverla se non poteva mostrargliela. Se fosse stato permesso, all’epoca Jane gli avrebbe procurato un manico di scopa e gli avrebbe insegnato a volare. Nulla come la prima lezione di volo le aveva fatto capire di essere una strega e che la magia era reale, viva e pronta a meravigliarla giorno dopo giorno, scoperta dopo scoperta. I primi incantesimi erano stati interessanti, l’arte delle pozioni affascinante, ma il volo non aveva mai trovato validi rivali nel corso degli anni.

Un sorriso divertito prese spazio sul suo volto mentre nella sua mente si delineava il ricordo di una piccola Corvonero durante le prime lezioni di volo ad Hogwarts: lo stupore della novità, l’eccitazione della sfida, il vento che giocava con i capelli mentre il desiderio di salire sempre più in alto veniva soffocato sul nascere dagli ammonimenti del docente, che permetteva di volare solo all’interno del perimetro designato per la lezione.
Ma lì, in quel momento, non c’era nessun insegnante, nessun limite, nessuna regola.
Si chinò sul manico della scopa, stringendo la presa sul legno e prese velocità: diede una spinta leggera alla spalla della cugina quando le passò accanto, ridendo, modificando poi la direzione del volo verso l’alto, verso il cielo che sembrava attendere di essere esplorato proprio come il cortile del castello quando aveva undici anni.

Una volta che ebbe posto una distanza sufficiente tra lei e il resto della compagnia si fermò, sospesa, e chiuse gli occhi: una leggera brezza estiva le solleticò il collo mentre faceva un respiro profondo, quasi un invito a giocare con lei invece che con il gruppo che attendeva un paio di metri più sotto. Di nuovo bambina, sentì il desiderio di seguirla e sfidarla, di esplorare insieme il mondo che da lassù sembrava pronto a mostrarle i suoi segreti: sentiva che anche la scopa voleva partire, accompagnarla, darle il suo supporto con un leggero fremito. Era sul punto di assecondare l’istinto quando il fischio ben conosciuto di un Bolide le fece aprire gli occhi di scatto, costringendola ad uno scatto di lato per evitare di essere colpita.

« JANE! Muoviti! »

Non aveva più undici anni, eppure in fondo era rimasta sempre la stessa: un cenno d’intesa alla cugina, e scese verso il resto del gruppo, pronta a giocare.
 
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view post Posted on 24/9/2021, 22:50
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Fresco e pungente, il profumo degli aghi di pino le pizzicava il naso, trasportato dal vento autunnale che si divertiva a solleticarle le guance e a scompigliarle le ciocche castano scuro sfuggite dalla coda con cui aveva raccolto i capelli. Fece un respiro profondo, lento, chiudendo gli occhi mentre un sorriso disteso si delineava sulle sue labbra: la Scozia in autunno era meravigliosa.
Non appena aveva avuto il via libera per prendersi un paio di settimane di pausa dal lavoro non aveva esitato a lasciare la caotica capitale magica, e zaino in spalla, un libro e il minimo necessario per fare escursioni, era partita. Aveva atteso trepidante per mesi la possibilità di visitare le terre dove le radici della sua famiglia erano germogliate, ma nonostante le insistenze dei suoi parenti, subito disponibili ad accompagnarla in quell’avventura, aveva rifiutato ogni possibile compagnia. Era un viaggio che sentiva di dover fare da sola, senza esitazioni, senza possibilità di essere trattenuta davanti alla curiosità che sicuramente l’avrebbe spinta a fare delle scelte avventate. Non aveva stilato un itinerario preciso, ed escluse le zone più popolate, aveva deciso di lasciarsi trasportare dalle emozioni che giorno dopo giorno sarebbero state la sua guida.
Una sensazione particolare, pungente, era la causa del suo arrivo nei pressi di Allthenesis, un piccolo villaggio che si snodava sotto lo sguardo morbido del monte Càrn Eige: la Scozia del Nord l’aveva accolta come una madre severa che non vede il figlio da mesi, incapace di nascondere nel volto irrigidito il sollievo di abbracciarlo nuovamente e la gioia del ritrovarsi. Nel cielo grigio ferro, occupato da una distesa di nubi presagio di pioggia e temporale, i raggi del timido sole autunnale si facevano spazio tra uno spiraglio e l’altro, scivolando tra le foglie che ingiallivano sotto lo sguardo triste delle amiche sempreverdi. Seduta su una panchina di legno al limitare del bosco, osservava incuriosita le case del quartiere magico che si delineava di fronte a lei, appena dall’altro lato della strada. Un movimento catturò il suo sguardo, e con una punta di divertimento, incapace di abituarsi a certi aspetti della magia nonostante gli anni trascorsi ad Hogwarts, si ritrovò ad osservare un innaffiatoio sospeso a mezz’aria che con aria pomposa spargeva la sua acqua su un vaso di fiori azzurri posato fuori da una finestra. Facendo scorrere lo sguardo con più attenzione lungo la via, notò che le macchie azzurro cielo erano una costante sulla facciata delle case. Si alzò dalla panchina, incuriosita, e recuperato lo zaino attraversò il lastricato di pietre, avvicinandosi a una delle abitazioni.
Dopo pochi passi il profumo dolce e delicato dei fiori prese piede su quello pungente del bosco che si stagliava alle sue spalle, e non riuscì a trattenersi: azzerò la distanza tra lei e la finestra più vicina, incurante della possibile invasione della privacy degli abitanti della casa, e allungò la mano per accarezzare i piccoli fiori azzurri che facevano timidamente capolino da un vaso bianco. Morbidi al tatto e delicati alla vista, sotto i suoi occhi assetati di dettagli si delinearono le delicate sfumature cerulee, pronte a rievocare il cielo primaverile insieme all’essenza dolce che sprigionavano i petali. Avvertiva il desiderio impellente di poterli osservare più da vicino, ma proprio mentre muoveva un ultimo passo per avvicinarsi maggiormente il rumore secco della finestra che si apriva la fece sobbalzare e con uno scatto raddrizzò la schiena, facendo un passo indietro. Lo sguardo incuriosito di una ragazza si incrociò con il suo, mentre la cute sul volto di Jane assumeva rapidamente una sfumatura color ciliegia. Attimi di silenzio rimasero sospesi tra le due ragazze, simili per età a prima vista ma diverse nell’aspetto: i capelli color del grano della sconosciuta si contrapponevano a quelli scuri di Jane, gli occhi del medesimo azzurro dei fiori del vaso. La ragazza le sorrise, gentile, mentre la medimaga cercava nell’imbarazzo in cui era sprofondata le parole giuste per scusarsi per la sua intromissione.
« Io… ecco… volevo solo… » balbettò poche sillabe senza un vero senso, il rossore sul volto che ormai andava assumendo una sfumatura rubino, la bocca secca per la vergogna. Si guardava i piedi, intimidita dalla mancata reazione della ragazza davanti a sé e a disagio per l’ennesima pessima situazione in cui la sua curiosità l’aveva spinta. « Sono bellissimi, vero? » alzò timidamente lo sguardo quando la voce armoniosa della ragazza giunse alle sue orecchie: stava ancora sorridendo. « E il loro profumo non è da meno! Così delicato e al tempo stesso così… »
« …dolce. » ancora con il volto arrossato, l’ex corvonero riuscì finalmente a pronunciare una parola di senso compiuto senza balbettare, incoraggiata dall’atteggiamento gentile della ragazza.
« Esattamente, dolce. Non sei da queste parti, vero? » la giovane inclinò la testa, cercando di osservarla meglio. Jane si lasciò squadrare, nonostante si sentisse in soggezione, consapevole che in fondo era lei quella che aveva avuto la geniale idea di invadere una proprietà privata. « No, sono solo di passaggio. Vengo da Londra. »
Quando nominò la capitale magica lo sguardo della bionda si illuminò, « Londra, davvero? Sono anni che desidero andarci! Ti andrebbe di bere qualcosa? » prima ancora di ottenere una risposta aveva estratto la bacchetta e aperto la porta, con una noncuranza che stupì Jane. Non indossava nulla che facesse intendere le sue origini magiche, eppure la strega sembrava aver intuito le sue capacità senza averne prova. Indifferente al fatto che non conoscesse la ragazza, pervasa dalla fiducia che il suo atteggiamento cordiale emanava, esitò solo un istante prima di spostarsi dalla finestra e dirigersi alla porta d’ingresso.
Appena varcò la soglia, il profumo intenso dei fiori la colpì in pieno, disorientandola lievemente. « Vieni pure, sono di qua! » La voce della giovane risuonò alla sua sinistra, e dopo attraversato un piccolo ingresso bianco candido, spoglio ad eccezione di un mobiletto scuro, Jane svoltò l’angolo, ritrovandosi in cucina: il legno chiaro dominava la scena, ogni venatura sembrava pronta a raccontarne la storia. Agli occhi risaltava la fattezza pregiata, antica, tramandata di generazione in generazione. « Ti va una tazza di caffè? » Le parole della ragazza le fecero distogliere lo sguardo dall’ambiente, attirando la sua attenzione sul tavolo su cui la strega era appoggiata. Prese posto sulla sedia che le indicava, lasciando scivolare lo zaino sul pavimento: ancora prima di poter ringraziare una tazza blu scuro era stata riempita e posata davanti a sé, mentre dalla credenza uscirono un piatto e una fetta di torta, decorata da una particolare glassa azzurra. Solo un lieve rossore era rimasto sulle guance di Jane, stupita da tanta gentilezza. « E’ davvero troppo… grazie. » la mano scivolò a stringere la ceramica scura, alla ricerca del calore che il liquido emanava, « Ti chiedo scusa per prima, ma non avevo mai visto questa tipologia di fiori in vita mia ed, ecco… ero curiosa di osservarli da più vicino... Mi chiamo Jane, comunque. » Cercò di rimediare alla mancanza di educazione con una spiegazione a grandi linee, la giovane pronta a rispondere con un sorriso alle sue giustificazioni. « Non ti preoccupare, posso capirti. Io sono Aileen, piacere di conoscerti. » prese posto di fronte a Jane e con un gesto deciso della bacchetta aprì nuovamente le ante della credenza, dalle quali uscirono un mortaio color ghiaccio e una ciotola di legno colma di fiori azzurri. « Non li hai mai visti a Londra, vero? Immagino che tu non ne conosca la storia. »
Jane scosse la testa mentre sollevava la tazza, per poi bere un sorso di caffè caldo: era forte, amaro, e lo trovò la perfetta sintesi di quello che aveva potuto vedere del territorio scozzese fino a quel momento. « Questi sono fiori di lino. Solitamente non è una pianta di facile coltivazione in Scozia, nonostante prediliga il clima temperato. Allthenesis è l’unico paese qui nel nord dove puoi trovarlo. » Una domanda prese forma nella mente della medimaga, ma non fu necessario darle voce. « Posso raccontarti il perché, se ti fa piacere. » La strega annuì, entusiasta per la proposta, la gratitudine pronta a rivelarsi nel tono di voce, « Se non è un disturbo per te, mi piacerebbe molto. ». Una forchetta scattò improvvisamente fuori da un cassetto, posandosi accanto alla mano libera di Jane dopo averla punzecchiata con delicatezza. Aileen rise piano davanti alla scena, coprendosi la bocca con una mano, « Penso che ti stia dicendo che il dolce merita un assaggio, e non sono assolutamente di parte a concordare con lei. Del resto, l’ha fatto mia madre. Siamo d’accordo, quindi. Poi, se vorrai, mi racconterai tu qualcosa di Londra. » La ragazza si sistemò più comodamente sulla sedia mentre Jane afferrava la tazza con entrambe le mani, pronta ad ascoltarla.
« La presenza dei fiori di lino ad Allthenesis si intreccia con la storia di questo villaggio, e con quella della mia famiglia. Alcuni più che storia osano definirla una leggenda, ma sarei ingrata nei confronti dei miei avi se seguissi questo ragionamento. Secoli fa, quando ancora nelle nostre terre la magia non doveva essere nascosta dalla luce del sole, quando streghe e maghi vivevano in armonia con chi non aveva poteri, un inverno spietato iniziò a mietere vittime. Faceva freddo, un freddo strano, diverso dal solito, pungente, crudele. Nemmeno la magia sembrava essere in grado di aiutare gli abitanti di Allthenesis che giorno dopo giorno erano costretti ad affrontare il dolore della perdita dei propri cari, l’abbraccio infido della fame, il graffio spietato del gelo. La disperazione era diventata la quotidianità, ogni giorno sembrava di essere più vicini al burrone dell’arresa, alla fine di tutto. Allthenesis pareva ormai destinata all’oblio. » Aileen interruppe il suo racconto, abbassando lo sguardo sulla fetta di torta ancora intonsa: Jane si sforzò di staccare gli occhi dal volto della giovane, nonostante si sentisse catturata dalla storia, e prese un boccone di dolce, portandolo alla bocca. La ragazza e la forchetta non mentivano, era spettacolare. Soddisfatta dai gesti della medimaga, la strega riprese a parlare.
« La speranza però è un seme forte, resistente, capace di germogliare nel terreno più ostile, nel momento più inaspettato. E’ quando tutto sembra perduto che nasce, improvvisa e dolce. Quella volta fiorì nel cuore di una giovane strega, che un giorno capì di non essere disposta ad arrendersi, di voler lottare per il suo villaggio. L’alba aveva appena iniziato a schiarire il cielo quando uscì di casa, senza essere vista da nessuno, diretta nel cuore del bosco che circonda il paese. La notte precedente aveva nevicato, e questo rendeva ancora più difficoltoso il suo avanzare tra gli alberi, tra i sospiri gelidi del vento e il freddo feroce che le mordeva le ossa. Nemmeno uno degli incantesimi conosciuti sembrava essere in grado di aiutarla a scaldarsi. Camminò per ore nella neve alta, senza arrendersi, senza fermarsi: quando arrivò al centro esatto del bosco ormai aveva le labbra cianotiche, le punta delle dita bluastre, il respiro affannoso. Ma lo sguardo era luminoso, fiero, perché ad attenderla c’era la vera Speranza. » con gesti lenti, Aileen avvicinò a sé mortaio e pestello, iniziando a triturare una manciata di fiori di lino dopo averli recuperati dalla ciotola. « Al centro del bosco di Allthenesis c’è una radura, con piccolo lago dalle acque cristalline, apparentemente disabitato. E’ proprio sulle sponde di quello specchio d’acqua che la giovane trovò Lei ad attenderla. Ban-dia Màthair, la Dea Madre. Aggraziata, di una bellezza eterea, la pelle candida come la veste che indossava: si mimetizzava perfettamente con l’ambiente circostante, ad eccezione di un particolare: una corona di fiorellini azzurri che le decorava il capo, unico contrasto con i capelli nivei. Una ghirlanda di semi di lino. » Ormai rapita dalla narrazione, Jane non riusciva né a bere né a mangiare, e guardava Aileen emozionata, consapevole dell’unicità di quello che stava ascoltando. « La ragazza si inginocchiò di fronte alla dea, supplicandola di aiutare il villaggio ormai sull’orlo della fine. Non si conoscono esattamente le parole che pronunciò, ma si narra che nell’udirle la Dea Madre scoppiò a piangere, lacrime ghiacciate solcarono le sue guance mentre il suo cuore divenne pesante. Acconsentì di aiutare gli abitanti, ma questo gesto rappresentò solo un barlume della sua grandezza. E sai perché? Non chiese nulla in cambio. »
Aileen afferrò un’altra manciata di fiori dal contenitore in legno, continuando a sminuzzarli con gesti delicati ma precisi. Il silenzio scese sulla cucina e sulle due giovani, interrotto solo dal rumore del pestello sul marmo del mortaio. Jane attese, speranzosa che ci fosse un continuo, desiderosa di conoscere il legame della famiglia di Aileen con la storia di Allthenesis.
« Era il 24 dicembre quando la Dea Madre benedì il nostro villaggio con la sua generosità. E da quell’anno, quel giorno è dedicato alla Dea e alla sua bontà. Anche i Babbani, nonostante nel tempo abbiano dimenticato la nostra esistenza, festeggiano Ban-dia Màthair con una festa a lei dedicata. E’ quasi una fiera, che attira pochi turisti, ma devo ammettere che ha la sua bellezza. » si fermò, interrompendo i movimenti ritmici che avevano fatto le sue mani fino a quel momento, e avvicinando a sé con un gesto della bacchetta una bottiglia di vetro colma a metà di un liquido trasparente. Con un movimento delicato fece scivolare i fiori sminuzzati al suo interno mentre il contenuto iniziava a vorticare, ipnotico.
« Noi streghe e maghi, invece, continuiamo a ringraziare la Dea, ma a modo nostro. Un’ora prima dell’alba del 24 dicembre usciamo di casa, indossando le vesti tradizionali bianche come la neve, ghirlande di fiori di lino decorano i capi delle ragazze e delle donne. Seguendo una fila di lanterne magiche, visibili solo a noi, ci rechiamo nel cuore del bosco, nella radura dove la fanciulla secoli fa incontrò la Dea Madre. Intorno ad un falò dalle fiamme azzurre, intoniamo il nostro inno di ringraziamento, le stesse parole che gli abitanti di Allthenesis cantarono per la prima volta in passato. Le fiamme si spengono non appena il sole sorge, e alla nascita del nuovo giorno sotto la guida del cerimoniere spargiamo la cenere sulle rive del lago, insieme alle ghirlande. Infine, beviamo tutti un bicchiere di Màthairni, un liquore di nostra produzione, brindando alla Dea un’ultima volta prima di tornare alle nostre case. » Con un sorriso Aileen indicò la bottiglia che aveva appena riempito, svelando il mistero. « Purtroppo sarà pronto tra un paio di mesi e ogni anno ne produciamo di nuovo, altrimenti te lo avrei fatto assaggiare. Allora, com’era la torta? »
La brusca interruzione del racconto disorientò Jane, che fino a qualche istante prima aveva vissuto sospesa nelle trame della storia di Aileen, intrecciata ai fili che la strega aveva mosso sapientemente per tenere ancorata la sua attenzione. Ci volle un secondo più del normale per riuscire a rispondere, le labbra secche e la voce debole. « Era… era buonissima, davvero. Non ho mai assaggiato una glassa così dolce e delicata al tempo stesso. » a conferma delle sue parole vi erano le poche briciole rimaste sul piatto. Bevve velocemente un sorso di caffè, ormai tiepido, innumerevoli domande che le affollavano la mente e che cozzavano tra di loro per prendere voce. Come prima dell’inizio della storia però, Aileen anticipò ogni sua mossa, ogni suo quesito, e riprese a parlare.
« E’ una ricetta di famiglia, che viene tramandata di madre in figlia. Proprio come la preparazione del Màthairni. » chiuse con un tappo di sughero la bottiglia appena riempita, che con un saltello goffo prese il volo, sparendo dietro l’anta di un armadietto. « Ho iniziato a seguire mia madre nella preparazione di questo liquore quando avevo dieci anni. A undici, ho ottenuto il permesso di affiancarla nella preparazione del falò per Ban-dia Màthair. Solo a diciassette anni ho avuto la possibilità di indossare la veste del cerimoniere. Già, è proprio così Jane… » Un sorriso aveva mosso le labbra di Aileen in risposta allo sguardo della medimaga, che era scattato verso di lei quando aveva iniziato a collegare i fili tra di loro, « Ti ho appena raccontato la storia di come Allthenesis fu salvata dalla Dea Madre. Di come una semplice ragazza con il suo coraggio riuscì a salvare il villaggio. La storia della mia famiglia... la mia storia, in fondo. Perché quella giovane era una mia antenata. » La strega spostò una mano a raccogliere un piccolo fiore azzurro sfuggito al mortaio, lo sguardo fiero e malinconico al tempo stesso. « Sono stata cresciuta ascoltando questa storia fin dalla culla, mi hanno insegnato i miei doveri, il peso della mia eredità e come onorarla al meglio. Mi hanno educata a ringraziare la Dea, e a tramandare i suoi insegnamenti. Generazione dopo generazione, le donne della mia famiglia ricordano il gesto della nostra antenata e narrano la storia della salvezza di Allthenesis a chi non la conosce. »
Una tazza vuota fece capolino dalla credenza, posandosi davanti ad Aileen mentre un bricco versava del caffè bollente al suo interno: la ragazza bevve con calma la bevanda, in silenzio, osservando Jane in attesa di una qualsiasi reazione. La medimaga, da parte sua, si sentiva sopraffatta dalle emozioni più disparate e non riusciva ad ordinale con precisione. Era grata ad Aileen per aver condiviso con lei la sua storia e quella del suo paese, sentiva prepotente il desiderio di trovare una connessione più intensa con quel luogo così magico, così denso di leggenda e di potere. Non sapeva nemmeno da dove iniziare il suo discorso, ma avvertiva che la semplicità era forse la strada migliore da scegliere. « Io… non so che dire… grazie Aileen. Grazie, davvero. » Allungò la mano per stringere quella della giovane strega seduta davanti a sé, una stretta che cercava di esprimere tutto quello che provava. Per le altre domande, era certa, ci sarebbe stato modo e soprattutto, tempo.
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Words of Magic | Body, n° 3 | miscellanea, n° 5

 
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words of magic
spirit, n° 7
miscellanea, n° 5
La porta verde oliva si staglia davanti a lei: è solida, forte, vera. E’ conosciuta, l’ha vista così tante volte negli ultimi anni che ormai ne saprebbe riprodurre i dettagli nei minimi particolari, ad occhi chiusi riuscirebbe a riconoscere ogni imperfezione, ogni punto in cui la vernice si è rovinata nel tempo e lascia intravedere le venature del legno. E’ lei, sempre lei. Sa che se la apre il passato le si riverserà addosso, travolgendola e togliendole il respiro: è da qualche mese che si è accorta che non è più chiusa a chiave, non è riuscita a trattenersi innumerevoli volte dall’aprirla nonostante sapesse quello che la attendeva. Ed è per questo che con consapevolezza ingenua sta allungando la mano verso la maniglia arrugginita, un sospiro scoraggiato mentre accetta nuovamente di arrendersi, la sconfitta che brucia nel suo petto mentre si chiede per l’ennesima volta quando tutto finirà. Se finirà. Stringe la mano intorno al pezzo di ferro, la ruggine ruvida contro i suoi polpastrelli, una trama tanto conosciuta quanto odiata e rassicurante al tempo stesso. E’ stabile come teme che lei stessa non lo sarà mai, come la sua coscienza continua a ricordarle malefica, e le si spezza il fiato mentre la avverte arrivare alle sue spalle, pronta a rievocare i suoi errori del passato. E’ proprio in quell’attimo di tentennamento, mentre un brivido la scuote, che se ne accorge: qualcosa è cambiato, questa volta. C’è un’altra porta, proprio accanto a quella verde oliva.

La sorpresa non la colpisce improvvisa, ma prende spazio millimetro dopo millimetro sul suo volto, distende gli occhi che riportano su di loro tutta la stanchezza che prova, illumina lo sguardo esausto con una scintilla di vitalità. E’ una variazione inaspettata, quella. Un cambio di programma imprevisto, di quelli che ancora non sai come cogliere ma che accetti abbastanza in fretta, senza troppe lamentele, lasciandoti trascinare dalla ventata di novità. Ha ancora la mano stretta intorno alla maniglia arrugginita mentre osserva la nuova porta con attenzione, lo sguardo che ne segue la cornice alla ricerca di qualsiasi indizio che possa aiutarla a capire il perché di questo cambiamento. Ha un significato particolare? Il suo inconscio la sta mettendo forse alla prova, di nuovo? Deve aprirla, forse? Rimane ferma ancora qualche istante a soppesare ogni opzione, a cercare la forza ma soprattutto il coraggio di lasciare la strada conosciuta – per quanto ne conosca i pericoli – per esplorarne una nuova. Perché dovrebbe? Il cuore nel petto inizia ad accelerare solo all’idea di provare quel nuovo sentiero, il respiro si fa leggero, veloce e prima ancora di essere del tutto convinta ha lasciato scivolare la mano dalla maniglia di ferro e si è allontanata di qualche passo dalla porta che conosce così bene. E’ questione di pochi istanti prima di trovarsi davanti a quella nuova.
Il colore è sempre il medesimo: verde, con una gradazione più scura però, sembra quasi richiamare il colore profondo della Foresta Proibita di Hogwarts e le viene naturale chiedersi se ci sia un significato nascosto dietro, la sua curiosità sgomita per emergere in superficie e prendere in mano la situazione. La vernice che ricopre le tavole di legno è perfetta, non una minima imperfezione ad interrompere la trama liscia: la maniglia è d’ottone, lucida, pulita. E’ così facile considerarla più bella dell’altra porta, più invitante, quasi rassicurante visto l’aspetto, eppure ancora non è del tutto convinta. Lancia un’ultima occhiata alla porta verde oliva, uno sguardo quasi nostalgico nonostante tutto il dolore che le ha inflitto negli ultimi mesi. Quale certezza può esserci? Quale sicurezza che dietro la nuova porta non si celi ancora più dolore?
Sbuffa, spazientita con sé stessa: ha davvero intenzione di trascorrere tutta la notte a porsi quesiti le cui risposte sono ad un solo palmo di distanza? Vuole davvero lasciarsi catturare dalla paura dell’ignoto? Le domande sono troppe, continuano a formarsi, vorticare nella sua mente rumorose, fastidiose, e sa che c’è solo un modo per metterle a tacere. Allunga la mano sulla maniglia, e l’abbassa decisa: la porta è aperta. Non concede tempo alla sorpresa davanti a quella scoperta, i dubbi non hanno spazio di palesarsi di nuovo, ancora più consistenti: chiude gli occhi, due passi, e l’ha oltrepassata.

Torta di mele: il profumo arriva al suo naso ancora prima che riesca a capire dove sia finita. E’ dolce, armonioso, la avvolge in un abbraccio caldo e profumato che sembra significare casa. Apre finalmente gli occhi, incuriosita, ma è facile accorgersi che quella non è casa sua. Un rumore di stoviglie attira la sua attenzione, e individuare le ciotole che si stanno lavando da sole nel lavandino è immediato: senza muovere un passo sposta lo sguardo, cercando di cogliere indizi che possano svelarle il motivo della sua presenza in quella cucina. Una teiera è posata sul piano cottura, l’acqua per il tè pronta a bollire. Il sole filtra attraverso le tende candide di una finestra alla sua sinistra, ma non riesce a riconoscere il paesaggio all’esterno: al muro un orologio in legno scandisce il tempo, ritmico, regolare. Si accorge solo in quell’istante di quanto il ticchettio sia intenso, quasi anomalo, sovrapposto al battito del suo cuore. Un cestino di vimini è posato sopra il tavolo che occupa il centro della stanza, ricolmo di mele rosse e lucide: il suo stomaco brontola, improvviso e abbassa lo sguardo sorpresa. Da quando prova fame in quei momenti? Lo sente contorcersi un’altra volta, più intensamente. E va bene, vado. Si sente un po’ sciocca, a dire il vero, ma avverte che in quell’istante le priorità sono altre al prendersi in giro per le discussioni con il suo stomaco. Muove un passo in direzione del tavolo, ma il rumore di una porta che si apre improvvisamente la ferma a metà movimento. Le risate di due bambini irrompono nell’ambiente, seguite poco dopo dai loro proprietari: un maschio, più grande, e una femmina. Il primo sembra avere circa tre-quattro anni, e regge in mano un peluche a forma di Asticello. Dietro di lui gattona la bambina, più piccola, un sorriso sdentato che le illumina il visino. E’ facile notare la somiglianza tra di loro e collegare una parentela. Li osserva, ancora ferma a metà passo, interdetta tra la dolcezza che le scalda il petto alla vista di quella scena e la paura di spaventarli: dopotutto, non è che un’estranea in casa loro. Eppure, stranamente, non sembrano accorgersi di lei: il bambino le passa davanti ridendo, le sfiora le gambe ma non sembra notarla. Che strano. Il rumore di passi che si avvicinano la distrae dai due piccoli e quando rialza lo sguardo la vede. La porta verde scuro, di nuovo. Sulla sua destra, chiusa. Non riesce a capire, e si volta a controllare: alle sue spalle le piastrelle bianco candido della cucina le restituiscono il suo sguardo confuso. Com’è possibile? Un colpo improvviso la distrae, di nuovo: il bambino è caduto addosso alla sorellina, e entrambi scoppiano in un pianto disperato. « Bambini? Tutto bene? » Il rumore di passi ora è più forte, più vicino. Spaventata, in un moto di preoccupazione che improvvisamente la risveglia si sposta finalmente dall’angolo in cui ha passato gli ultimi minuti e in uno slancio raggiunge la porta. Se la sta chiudendo alle spalle mentre una voce femminile annuncia l’ingresso di una donna nella cucina. « Che succede qui? Jane? » Riconosce il suo nome con un secondo di ritardo: quando si volta la porta è già sparita e una natura morta la osserva incuriosita dalla sua cornice. Trascorre un minuto che sembra durare un’eternità a seguire con lo sguardo una mosca che ronza tra una pera e l’altra all’interno del quadro, il cuore che non accenna a rallentare. Quella donna stava chiamando davvero lei? L’aveva vista, forse? Perché la conosceva? Il rintocco di una campana la fa sobbalzare, spaventata, e spostando lo sguardo riconosce appeso accanto al quadro lo stesso orologio che c’era in cucina. Il ticchettio non è più intenso, mormora in sottofondo, ma rimane sincronizzato con il suo cuore. Un brivido scende lungo la sua schiena. La porta verde oliva, dopotutto, forse non era così male. Quel posto comincia a non piacerle e avverte il disagio iniziare a stringersi sul suo petto. Deve andarsene da lì. Si gira, pronta a cercare la porta scura, sperando che la riporti a casa, ma una nuova stanza la sta attendendo, nuove persone. Spalanca gli occhi, stupefatta.

Il primo dettaglio ad attirare la sua attenzione è il grande divano davanti a lei: il motivo floreale della stoffa è delicato e al tempo stesso appariscente, le piccole rose sembrano sbocciare ad intervalli regolari per poi perdere i loro petali delicati che si dissolvono nello sfondo ceruleo e rifiorire ancora. Una bambina, più grande di quella vista in cucina, si sta sporgendo dallo schienale, sfidando la legge di gravità in equilibrio su di esso: come poco prima, si stupisce di notarla solo ora. « Isabel! Hai intenzione di romperti la testa? Non penso che l’Ossofast poi possa funzionare, sai? » Il respiro le si ferma in una contrazione dolorosa dei muscoli del costato. Quella voce. La conosce. Che sia lei, davvero? Ma… cosa ci fa lì? Una nuova figura compare nel suo campo visivo, e nella stanza entra di fretta una donna che con un gesto della bacchetta fa comparire un grosso cuscino voluminoso sotto lo schienale del divano proprio un istante prima che la bambina cada, scoppiando a ridere per il soffice impatto. « Non c’è niente da ridere signorina! Forza, su, vai a dare una mano con il tè. » Ha iniziato a piangere e se ne accorge solo quando le lacrime le appannano la vista. « Zia Mary… » Ringiovanita di almeno quindici anni ma con il sorriso affettuoso di sempre, la strega si volta senza prestarle attenzione, come se non l’avesse vista: prova ad alzare una mano e muovere un passo verso di lei, ma non appena le sembra di essere abbastanza vicina l’orologio inizia a ticchettare più intensamente, accelera e con esso accelera anche il suo cuore. Si volta per cercare di capire cosa stia succedendo alle sue spalle, preoccupata, quando si accorge che accanto al pendolo sono comparse delle scale. E, in cima ad esse, di nuovo la porta. La osserva da lontano, confusa, ma non appena si convince che non merita la sua attenzione e torna a cercare zia Mary scopre che la donna è sparita. La stanza ora è deserta, anche la bambina non c’è più. Si guarda intorno alla ricerca di una via di fuga, ma non ci sono altre porte, né finestre. La luce ora è più soffusa, e sembra calare secondo dopo secondo. Con il cuore in gola, capisce che non ci sono alternative. Vorrebbe andare a cercare zia Mary, sua cugina Isabel, capire dove si trova e soprattutto perché si trova in quella casa che non conosce ma che al tempo stesso inizia a sembrarle sempre più familiare. Eppure, è certa di non avervi mai messo piede. Un nuovo rintocco di campana le ricorda delle scale che la attendono. Non può tirarsi indietro, ormai. Si sforza di muovere un primo passo, il suo corpo che come lei avverte la necessità di andare a cercare la sua famiglia: il secondo passo è più facile, il terzo meno difficoltoso. Senza quasi accorgersene è arrivata in cima alla scalinata. Allunga la mano verso la maniglia per l’ennesima volta in quelle che sembrano poche ore, e lancia uno sguardo speranzoso alla porta davanti a sé prima di abbassarla. La riporterà veramente a casa, questa volta?

Mai riporre le proprie speranze in una porta di legno. Dopo tutti quegli anni di innumerevoli incontri con la porta verde oliva, dovrebbe averlo imparato per bene. Eppure, quasi ci aveva sperato davvero. Una nuova stanza si apre davanti a lei mentre la porta si chiude alle sue spalle con un colpo secco, la maniglia di ottone che le scivola di mano quasi ad impedirle di trattenerla e provare di tornare indietro. Si volta a controllare anche se ha già capito cosa è appena successo: la porta non c’è più, può solo proseguire. L’ambiente è buio, e fatica a distinguere i contorni del mobilio: le sembra di intravedere una libreria alla sua destra, il profumo della carta aleggia nell’aria e come per la torta in cucina la avvolge in una dolce stretta familiare. Inspira a fondo, cercando di calmare il battito cardiaco che non accenna a rallentare. Poco più avanti riconosce la cornice di una finestra, le tende tirate: fuori è buio. Che strano. Eppure, qualche istante prima in cucina il sole splendeva attraverso i vetri. Da quanto tempo è lì? Quasi richiamato solo dal pensiero del concetto che rappresenta, il ticchettio ritmico ricompare nell’aria e si intreccia infido con il suo cuore. Una lampada viene accesa all’improvviso, e grazie ad essa può vedere che l’orologio ora è appeso accanto alla finestra, sopra una scrivania alla quale siede una giovane donna. E’ di spalle, e non riesce a riconoscerla. Pergamene fitte di appunti volano sospese in aria intorno a lei, una piuma d’oca che continua a scrivere sopra una di esse mentre la donna sembra intenta a spostare libri e portadocumenti. « Dove diamine è finito quel rapporto… » Sposta ogni oggetto sulla scrivania con frenesia, continuando a mormorare tra sé e sé improperi e maledizioni. « No no, non ora. Morgana dove è fin- » Una tazza si solleva dal tavolo e le si avvicina, ma lei la scaccia via con un gesto della mano, spazientita. « Daphne? Daphne ci sei? La cena è pronta, ti stiamo aspettando! » Una voce, maschile, lontana, interrompe il borbottio della donna: si volta immediatamente, ma Jane non la vede. Non riesce a vederla anche se vorrebbe. Daphne. E’ il nome di sua madre. Ma allora, quella casa… « Sto arrivando, Thomas! Inizia a dare da mangiare ai bambini intanto! Hai visto per caso dove è finito il rapporto dell’ultima missione con Alexander? » Thomas. Suo padre. E l’altro nome, Alexander. Che sia quell’Alexander? Alexander Heisenberg, il capo ufficio dei suoi genitori? Ogni tassello che prende forma e si incastra con l’altro, costruendo la visione d’insieme e la consapevolezza del luogo dove si trova è anche un frammento della sua forza d’animo che la sta abbandonando. Si sente improvvisamente debole, confusa. Sa che basterebbe un piccolo sforzo per capire quello che sta vedendo, ma al tempo stesso non pensa di poterci riuscire, anche se vorrebbe. Le lacrime iniziano di nuovo a solcarle il viso mentre il respiro si fa spezzato. Vuole solo tornare a casa e se avesse cinque anni probabilmente starebbe sbattendo i piedi per terra. Ma non è più una bambina, è cresciuta, e sa anche che non è quello il modo in cui riuscirà a tornare indietro. Inizia a guardarsi intorno, agitata, il cuore che continua a battere veloce nel suo petto in sincronia con l’orologio, il cui ticchettio aumenta ancora di intensità: vorrebbe trovare la porta scura, la sua via di fuga. E’ mentre la cerca disperatamente che si accorge che la ragazza – sua madre – si è alzata dalla scrivania e improvvisamente si trova in piedi davanti a lei, fissandola. La può vedere, quindi? La riconosce? Sa chi è? Le tende una mano, un timido sorriso che fa capolino sul suo volto gentile, lo sguardo incoraggiante. Una sensazione piacevole la avvolge, simile ad un abbraccio caldo che lenisce tutto il dolore che sente nel petto: solo guardandola sua madre sembra essere in grado di mettere tutto a posto. Non può che allungare una mano a sua volta, speranzosa: se da un lato chiedersi a cosa porterà è naturale, dall’altro avverte il semplice desiderio di avere un contatto di cui non ha alcun ricordo. Si muove lentamente, timorosa, mancano solo pochi centimetri di distanza ormai…

Il suono fastidioso dell’allarme di una macchina la fa sobbalzare, il cuore in gola. E’ di nuovo nel suo letto, a Londra. Distesa, il respiro accelerato, le lacrime che continuano a correre lungo le sue guance. Erano così vicine. Perché si è svegliata proprio in quell’istante? Chiude gli occhi per qualche istante, cercando di calmarsi anche se le sembra impossibile: il suo cuore non accenna a rallentare, a fatica riesce a fermare le lacrime. Arresa all’evidenza che ormai non riuscirà più a riprendere a dormire, si mette seduta, sospirando. Accanto a lei Persefone dorme serena, il posto lasciato dall’assenza di Lucien prontamente occupato per poter riposare al caldo: le accarezza delicatamente le orecchie, il gatto che per tutta risposta si raggomitola ancora di più. Quanto invidia la sua serenità. Si alza, e si dirige in cucina. Con un gesto pigro della bacchetta la teiera prende posto sul fornello, l’acqua pronta a bollire, le bustine d’infuso che escono dalla credenza insieme alla sua tazza preferita. Basterà un tè per ritrovare la calma? Mentre prende posto sul tavolo, nota la piuma e la pergamena rimaste posate sulla superficie lignea dalla sera prima. ”Cara zia Mary, …” Sul momento, non ricorda il perché di quella lettera, e forse nemmeno più le importa. Un’idea inizia lentamente a prendere forma nella sua mente, e prima ancora che sia definita ha già ripreso in mano la piuma e sta scrivendo velocemente. Le domande affollano la sua mente, si incastrano tra di loro, si sovrappongono, si intrecciano e la confondono: ha perso la strada, ne è consapevole. Ora però, è giunto il momento di trovare le risposte.


→ delucidazioni per aiutare la lettura:
Ho accennato per la prima volta alla porta verde oliva nel contest di dicembre 2020, che si trova qui.
Alexander Heisenberg, e il collegamento con i genitori di Jane, si trova invece nel contest di agosto 2020, qui.
Ovviamente resto a disposizione per ulteriori chiarimenti, se necessario 🌸
 
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view post Posted on 1/11/2021, 16:10
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Niente è peggio di venire svegliati nel bel mezzo di un sonno profondo, soprattutto se è stato regalato da alcuni aiuti del caso: l’emicrania è pronta a fornire una punizione per l’interruzione e la giornata parte fin da subito in salita. Lo sapeva bene anche Jane, per questo aveva allontanato il fruscio di carta che le solleticava le orecchie con un gesto svogliato della mano e si era voltata dall’altra parte, sollevando il lenzuolo a coprirsi il volto. Il respiro ritmico di Lucien steso accanto a lei le permise di ricadere in pochi attimi tra le braccia di Morfeo, ma non era destinata a dormire ancora a lungo: il fruscio divenne un ronzio più intenso e iniziò a spostarle i capelli. Arresasi davanti all’evidenza di doversi svegliare, aprì gli occhi e si mise seduta, cercando l’origine di quella sveglia così fastidiosa. Un colibrì di carta le svolazzava intorno e fu facile riconoscerne l’autrice: allungò la mano, in attesa che il volatile si posasse su di essa e rivelasse il messaggio che conteneva. ”Arrivo tra dieci minuti, ho portato la colazione! Ricordati che non possiamo fare tardi.” La strega impallidì, e lanciò un’occhiata veloce al docente ancora immerso nel sonno: non aveva mai incontrato sua cugina Isabel e non le sembrava il caso di interrompere questa abitudine proprio quella mattina, soprattutto quando la maggior parte dei vestiti del mago erano sparsi in giro per la camera. Ma soprattutto, non aveva alcuna intenzione di essere sottoposta ad un interrogatorio della cugina di prima mattina, non con l’emicrania che aveva iniziato a fare capolino e a stringerle le tempie. Doveva fermarla prima. Recuperò la bacchetta dal comodino, e castò un incanto per recuperare una penna. ”Aspettami pure di sotto, sono quasi pronta! Scrisse velocemente quella piccola bugia, poi con un gesto della bacchetta il colibrì riprese vita, e volò fuori dalla finestra. Ora, non restava che trasformare la menzogna in realtà. Cercando di fare il minor rumore possibile scivolò fuori dal letto, e mentre richiamava a sé alcuni vestiti con la bacchetta sparì in bagno: lo specchio le restituì il riflesso del suo sguardo stanco, una sfumatura bluastra sotto gli occhi e il pallore che solo una notte insonne poteva generare. Aggiungendo l’emicrania che il vino francese della sera prima – regalo della cugina, tra l’altro – le aveva lasciato come ricordo, aveva davvero un aspetto pessimo. Cercò di mimetizzare il più possibile le sue condizioni, ma quando si chiuse il portone di casa alle spalle Isabel aveva già svelato ogni segreto. Afferrò la tazza di caffè che le stava porgendo, bevendone un sorso prima di ringraziarla con un sorriso riconoscente. « Hai finalmente assaggiato quel famoso vino francese, eh? Spero non da sola, sai che spreco? » Il tono squillante della cugina le perforò i timpani tanto che non riuscì a trattenere una smorfia addolorata mentre questa poi scoppiava a ridere. « Isabel, ti prego. » mormorò supplichevole, bevendo un altro sorso della bevanda calda, « Sicuramente ha del potenziale. L’hai considerato per il matrimonio? » Si incamminarono lungo la via, svoltando in breve tempo a Notting Hill. « Non so se sono disposta ad assumermi il rischio di vedere i miei colleghi dopo due bottiglie di quel vino… E comunque non è quello che ti ho chiesto. Mi stai nascondendo qualcosa? » Finì di bere il caffè prima di risponderle, lasciandola cuocere per bene nella sua curiosità. « In effetti, non ero sola… » osservò divertita la sorpresa prendere spazio sul volto della cugina, per poi scoppiare a ridere, « Sono passati Thomas e Grace ieri sera, i miei due colleghi! Che pensavi? » Seconda piccola bugia della giornata: ricevette uno spintone per tutta risposta e quando arrivarono alla loro destinazione Isabel non aveva ancora finito di borbottare offesa.

La cabina telefonica che costituiva l’ingresso dei visitatori al Ministero della Magia le accolse con la consueta voce metallica e Jane attese che la spilla con il suo nome uscisse dallo sportello delle monete per poi appuntarsela sul cappotto. Jack, suo fratello, era arrivato in Inghilterra da pochi mesi e aveva trovato lavoro presso l’Ufficio Misteri grazie al notevole curriculum che si era costruito in America, il paese dove era cresciuto. Quella mattina avevano appuntamento nell’atrio nel Ministero poco prima dell’inizio del turno di Jane: il mago aveva rinvenuto negli scaffali del suo dipartimento quattro fiale di un antidoto rarissimo e non potendo allontanarsi dall’ufficio aveva concordato con il responsabile del San Mungo che fosse sua sorella a portarle in ospedale. Quando le porte della cabina si aprirono non fu difficile individuarlo tra la folla dei ministeriali che si recavano in ufficio di primo mattino: la tunica nera come la pece era in netto contrasto con la sua carnagione pallida, i capelli scuri impeccabili nonostante Jane fosse sicura che non avesse dormito nelle ultime ventiquattro ore tanto era dedito al suo lavoro. Se ne stava fermo immobile nei pressi della fontana, una valigetta scura in mano: Isabel lo salutò con un cenno della mano e strinse il braccio a Jane prima di immergersi nella folla, diretta al lavoro. I rapporti tra lei e Jack erano ancora agli inizi e la medimaga aveva capito che il tempo avrebbe fatto maturare quel frutto acerbo: lei stessa i primi mesi aveva fatto fatica a legare con quel mago alto e magro che condivideva i suoi tratti ma che era cresciuto dall’altra parte dell’oceano, ma nel tempo erano riusciti a trovare i loro punti in comune e a recuperare gli anni persi. « Sorellina, cosa hai combinato ieri sera? » a differenza di Isabel lo sguardo di Jack non era divertito, anzi, una vaga ombra di delusione sembrava oscurargli il viso, « Ti sembra di essere nelle condizioni di svolgere il tuo lavoro? » La squadrò da capo a piedi mentre la strega gli si avvicinava e lo salutava con un bacio sulla guancia. « Buongiorno anche a te, Jack. Da quanto non dormi? » scrutò con più attenzione il volto del fratello, i segni della stanchezza ben visibili alla luce dei riflessi generati dall’acqua vicina, « Non ti preoccupare, sto bene. Allora, sono qui gli antidoti di cui mi parlavi? » Abbassò lo sguardo sulla valigetta che il fratello le stava porgendo con aria seria, allungando una mano per afferrarla. « Mi raccomando, sono fragili. Ho castato tutti gli incantesimi del caso, il vostro esperto di tossicologia dovrebbe riuscire ad aprirla senza problemi. Fa’ attenzione! » La strega annuì alle raccomandazioni del fratello, ma prima ancora che potesse rassicurarlo a voce questi le aveva lasciato un bacio leggero sulla testa e si era allontanato, ben visibile nella folla, diretto nuovamente alle viscere dell’Ufficio Misteri. Un orologio sul muro batté le otto, e Jane capì con improvvisa ansia di essere in ritardo. Si diresse velocemente verso la fila di camini ai lati dell’atrio, conscia di non avere il tempo di risalire in superficie per smaterializzarsi: attese impaziente il suo turno in fila, e quando finalmente riuscì a mettere piede nel camino afferrò con troppo entusiasmo una manciata di Polvere Volante, raccogliendone una quantità eccessiva. Il risultato fu che mentre la faceva cadere un colpo di tosse le tolse il fiato, tanto che ebbe non poche difficoltà a pronunciare la destinazione con precisione. « S-san… coff… San Mun-go! » Chiuse gli occhi che lacrimavano, maledicendo sé stessa per quell’inalazione poco piacevole ma convinta di aver comunque compiuto ogni azione nel modo più corretto. Che ingenua.

La Metropolvere rientrava nelle poche invenzioni magiche che Jane durante gli anni non aveva mai imparato ad apprezzare particolarmente – insieme al torrone sanguinolento, grazie ad uno scherzo mal riuscito quando ancora andava a scuola – perciò tenne gli occhi serrati mentre veniva sballottata qua e là, finché non avvertì il pavimento sotto i suoi piedi. Fece un passo incerto in avanti mentre li apriva, ma dopo pochi istanti si fermò, interdetta: quello non era l’atrio del San Mungo. Assi di legno sollevate dall’umidità e vagamente marce si trovavano sotto le sue scarpe al posto del pavimento bianco candido dell’ospedale, il chiacchiericcio in sottofondo dei pazienti in sala d’attesa sostituito da un silenzio surreale. Si guardò intorno, sconvolta: era finita in quello che appariva in tutto e per tutto come un rudere abbandonato da un numero di anni indefinito; come potesse essere collegato alla Metropolvere, rimaneva un mistero. Presa momentaneamente dal panico, si affrettò ad uscire dalla casa, camminando in avanti senza preoccuparsi minimamente di guardarsi intorno o di smaterializzarsi all’istante, anche perché finché non avesse capito dove fosse finita azzardare un altro spostamento magico avrebbe potuto rivelarsi un brutto errore. All’esterno, il paesaggio la lasciò ancora più attonita di prima: si trovava al limitare di quello che sembrava essere un piccolo boschetto nel bel mezzo della campagna; una strada di terra battuta si snodava poco distante davanti a lei, limitata da una recinzione in legno. La fissò per un paio di secondi, indecisa sul da farsi: l’ansia del ritardo con cui ormai era palese che si sarebbe presentata al lavoro iniziò a scemare, mentre la curiosità per il paesaggio circostante prendeva il sopravvento. Si incamminò, stringendo meglio la valigetta in mano, e raggiunta la strada sterrata iniziò a percorrerla, lasciandosi il rudere e la macchia di vegetazione alle spalle. Dopo una decina di minuti abbondanti di passeggiata immersa nella campagna inglese la strada svoltava bruscamente, terminando nei pressi di una solida casa di pietra. La strega si fermò, vagliando le possibili opzioni: azzardarsi a chiedere informazioni o tornare indietro e smaterializzarsi – con tutti i rischi del caso – senza conoscere dove si trovasse?

Non ci fu il tempo di riflettere a lungo sulle possibili opzioni, perché una donna anziana, i capelli grigi nascosti da un cappello di paglia, era appena uscita dalla porta d’ingresso e le stava venendo incontro. Un sorriso gentile illuminava il volto solcato dagli anni, vestiti semplici ma pratici rivelavano le molte ore trascorse all’aperto a lavorare: indossava un paio di guanti da giardino, e reggeva una cesoia in mano. « Signorina, tutto bene? Posso fare qualcosa per lei, ha bisogno d’aiuto? » Jane avvertì un fremito nel petto di fronte a tanta gentilezza da parte di una sconosciuta, e impiegò qualche attimo in più del previsto a rispondere mentre un leggero rossore le colorava gli zigomi. « Io, ehm… ecco. » era una Babbana o una strega? Come poteva spiegare la sua situazione senza creare scompiglio? « Io… » indugiò ancora davanti allo sguardo cordiale della donna, « … stavo andando a Londra e la mia macchina si è rotta. » Bugia numero tre della giornata: pregò Morgana e Merlino che l’anziana le credesse. « Mi saprebbe dire dove mi trovo? » « Oh, a Londra cara? Archie! Vieni qui! C’è una ragazza che ha bisogno del tuo aiuto! » la donna si voltò in direzione della casa, alzando il tono di voce, e dopo qualche istante comparve un uomo dall’aspetto gioviale nonostante l’evidente età avanzata. Una volta che si fu avvicinato, la signora riprese a parlare mentre lui squadrava Jane dall’alto in basso. « Questa giovane stava andando a Londra e le si è rotta la macchina… che ne dici di andare a dare un’occhiata al mezzo? Magari la puoi aggiustare! » La medimaga sbiancò nell’udire quelle parole: non esisteva alcuna macchina! « No no, non è un problema, davvero! Posso mandare qualcuno a recuperarla più tardi, ora l’importante per me è riuscire ad arrivare al lavoro, a Londra. Quanto dista da qui? E’ possibile arrivare in autobus, per caso? » Ti prego ti prego Merlino fa’ che non sia arrivata dall’altra parte del paese. si ritrovò a pensare agitata, mentre l’uomo scoppiava a ridere. « Autobus? A Saint Munton non passano autobus da almeno venticinque anni, figuriamoci! » L’anziana gli diede una gomitata, interrompendo il suo scoppio d’ilarità, « Però, ecco… » l’uomo riprese il discorso, dopo essersi schiarito la gola, leggermente imbarazzato, « Se vuole a circa mezz’ora a piedi da qui c’è Saint Michael, con una fermata dell’autobus. Se non sbaglio dovrebbero passarne per Londra, ogni tanto. Dovrebbero essere tre ore di viag- » « Archie però ti può accompagnare in paese, sai? » la donna lo interruppe, lanciandogli un’occhiata carica di significato, « Deve passare dal medico a ritirare una ricetta, non sarebbe un problema. Vero, Archie? » L’uomo boccheggiò qualche secondo, guardando la donna accanto a lui con aria smarrita prima di rispondere. « Ehm, credo… credo di sì! Posso accompagnarla io, con il furgone… ecco. Sì, va bene. Forza, seguimi! » Senza preoccuparsi di controllare se avesse accettato o meno il suo aiuto, si era già incamminato verso il veicolo parcheggiato a pochi metri di distanza. Jane lo seguì con lo sguardo, pronta ad imitarne i gesti, ma non si dimenticò le buone maniere. « Grazie davvero, signora. Spero di riuscire a ricambiare il favore, un giorno. » La donna scosse la testa, sorridendo, « Per così poco, ci mancherebbe! Quando vieni a recuperare la macchina però passa per un saluto, va bene? » l’uomo interruppe i convenevoli, chiamandola a gran voce dal finestrino abbassato, « Allora signorina, andiamo? » Un ultimo sorriso all’anziana prima di voltarsi e dirigersi in fretta sul furgone mentre l’uomo lo metteva in moto. Fu un viaggio scomodo, alquanto imbarazzante con il silenzio come terzo passeggero nell’abitacolo, ma dopo quindici minuti finalmente Archie la lasciò davanti alla fermata dell’autobus. Profusi ringraziamenti riuscirono a piegare le labbra dell’uomo in un sorriso – del resto, non era così scontato trovare due sconosciuti pronti ad aiutare in situazioni del genere, e con un ultimo cenno della mano Jane lasciò l’uomo ai suoi impegni. Attese che il furgone svoltasse l’angolo per incamminarsi: prendere l’autobus era assolutamente fuori questione. Camminò una decina di minuti nei dintorni, la valigetta ancora stretta in mano, finché non individuò un vicolo chiuso tra le vie del paese: a giudicare dal quantitativo di sacchi neri maleodoranti dava sul retro di un locale, ma non era quello il momento in cui essere delicati. Una volta trovato il punto più appartato, si guardò intorno con attenzione per qualche istante, poi si smaterializzò.

Destinazione. Determinazione. Decisione. La caotica Londra la accolse nel suo abbraccio confusionario, ma Jane si sentì pervadere dal sollievo. Uscì dal magazzino dismesso che molti suoi colleghi come lei utilizzavano per materializzarsi nelle vicinanze dell’ospedale, e alzò lo sguardo verso la facciata imponente del San Mungo, che sembrava pronta a rimproverarle il ritardo. Accelerò il passo, entrando di tutta fretta nella sala principale. « Jane! Ti stavamo aspettando! Dov’eri finita? » Grace, l’unica tra i suoi colleghi che aveva il privilegio di poter definire anche amica, le corse incontro. « Il responsabile di tossicologia ti aspettava un’ora fa nel suo ufficio! E la consegna di cui parlava, dov’è? » Jane alzò la valigetta davanti a sé, calmando in parte l’ansia che vedeva sul volto della giovane. « Eccomi, scusami. Non penso mi affiderò mai più alla Metropolvere in vita mia, mai più. » Si incamminò velocemente verso la scalinata, pronta a salire al terzo piano senza nemmeno passare in spogliatoio a cambiarsi. « Corro subito a consegnargli tutto. Com’è la situazione qui? Dwight si è accorto che non ci sono? » La collega le strinse un braccio con fare rassicurante, un sorrisetto che le piegava le labbra. « Gli ho detto che mi avevi avvisata che stavi poco bene e che saresti arrivata più tardi. Un virus francese, così mi pare di avergli raccontato. » Scoppiarono a ridere all’unisono mentre Jane arrossiva leggermente. « Ti devo un favore. Vado, prima che Harris decida di farmi fare da cavia per i suoi antidoti sperimentali. Spero di tornare presto, a dopo! »
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Tis the night - the night | Of the grave's delight
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→ 31 Ottobre, tarda serata.
Pioveva a dirotto, ed era dannatamente in ritardo: lo sapeva, sapeva che non era stata una grande idea accettare quell’invito, non dopo un turno di dodici ore, non dopo una settimana così intensa. Grace aveva lavorato un intero mese all’allestimento della festa di Halloween nel suo appartamento, occupato per una notte da un cimitero spettrale: aveva addirittura trasformato il bagno in una palude infestata e cercato di convincere Edgar, il maggiordomo fantasma che viveva nella sua casa di famiglia – in uno dei quartieri più antichi di Londra – ad invitare un paio di amici a trascorrere la serata in quella stanza. Jane le aveva dato una mano quando poteva, rari attimi tra un turno e l’altro visto che quel mese la responsabile sembrava avercela con lei per un motivo non ben definito e di conseguenza poteva dire di aver spostato la residenza al San Mungo. Si fermò in un angolo della strada, sotto un lampione, scostandosi una ciocca di capelli bagnati dal viso e coprendosi meglio con il cappuccio del mantello che indossava per cercare di salvare il salvabile del travestimento che aveva scelto. L’anno precedente all’evento organizzato da Zarathustra e Himiko’s Taste si era calata nei panni della Regina Maria di Scozia in lutto – con tutte le conseguenti prese in giro di Isabel – ma quell’anno si era lasciata ispirare dal pallore che il lavoro le aveva regalato: qualche modifica ad un vecchio abito della cugina, uno strato leggero di cerone, e la sposa cadavere era pronta a trascorrere la serata nel cimitero di Highland Street, numero sedici. Prima però aveva un’ultima missione da compiere.

Non aveva capito esattamente con quale stratagemma l’amica l’avesse convinta, eppure si ritrovava a camminare tra le anguste e oscure vie di Nocturn Alley sotto la pioggia battente alla ricerca di una locanda clandestina presso cui doveva ritirare un quantitativo non meglio precisato di una bevanda che prometteva effetti spettacolari. Le scommesse su quanti invitati avrebbero concluso la loro serata in ospedale erano aperte, e il fatto che la maggior parte di loro appartenesse ai dipendenti del San Mungo rendeva la sfida ancora più intrigante. Già si immaginava lo sguardo impassibile di Paul Dwight nel vedere ricoverati i medimaghi assunti più di recente uno accanto all’altro nei lettini del pronto soccorso. Un sorriso le piegò le labbra solo ad immaginare la scena, ma ebbe vita breve: ancora sotto il lampione, mentre cercava di decifrare le indicazioni che l’amica le aveva scritto su un minuscolo foglio di pergamena, notò poco distante da sé una figura incappucciata, che sembrava fissarla, immobile. Un brivido scese freddo lungo la sua schiena mentre le più disparate congetture facevano capolino nella sua mente. Non serbava i migliori ricordi dell’ultimo incontro con delle figure avvolte in mantelli a Nocturn Alley e lo spettro del passato sembrava pronto a tornare a farle visita. Si sforzò di distogliere lo sguardo e dopo un'ultima occhiata alla pergamena, riprese a camminare. "Dal negozio di fertilizzanti svolta due volte a destra, poi a sinistra. C’è una specie di statua di qualche creatura, mi sembra una piovra no, secondo me è la sorella bella di Mrs. Hills, la caposala del quarto piano. Comunque, a tre passi dovresti riuscire a riconoscere la porta nel muro. C’è un cartello appeso sopra, ma non ne sono certa. Forse prima devi svoltare di nuovo a destra? Non importa, so che ce la farai! Mi raccomando non fare tardi! Aveva estratto la bacchetta per cercare di leggere meglio quell’insieme sconclusionato di indicazioni, e si morse la lingua per non imprecare. Tanto ordinata e precisa nel lavoro, ma terribilmente caotica nella vita privata. « Maledizione Grace! » le parole sfuggirono dalle sue labbra socchiuse, e non appena finì di pronunciare l’ultima sillaba udì un rumore di passi alle sue spalle. Voltarsi fu naturale, e si sforzò di non alzare la bacchetta davanti a sé. Nocturn Alley non era effettivamente conosciuta per la buona reputazione degli avventori abituali, ma era conscia che alzare l’arma sarebbe equivalso a giustificare un eventuale attacco da chiunque ci fosse alle sue spalle. Sbiancò sotto il cerone non appena riconobbe la figura: mantello scuro, cappuccio lungo calato a celare il volto. Di nuovo lo sconosciuto. Abbassò lo sguardo, inorridendo quando notò alla luce fioca della bacchetta puntata a terra che sembrava non avere nulla dove avrebbero dovuto esserci i piedi, l’orlo del mantello che nonostante la pioggia battente si muoveva smosso da un vento inesistente. Si sforzò tornare a guardare la figura in faccia – o dove si supponeva si trovasse il volto – sentendosi fissata con insistenza. « Ha… ehm… Ha bisogno di qualcosa? » L’approccio cordiale le sembrò il più adatto, anche se la consistente convinzione che avrebbe potuto succederle qualcosa di molto brutto da un istante all’altro non l’aveva abbandonata nemmeno per un secondo. La figura alzò un braccio, scatenando l’ennesimo brivido lungo la sua schiena, e una lunga e magra mano scheletrica fece capolino dalla stoffa scura che scivolò lungo l’arto. La cute era pallida, tendente quasi ad un malsano color verde da quanto riusciva ad intravedere. Era un saluto, quello? Doveva andarsene, subito. « Oh. Ehm, va bene. Le auguro una buona serata. » Pronunciò quelle parole trattenendo il leggero tremore che sembrava essersi impossessato di lei – era irrazionale, lo sapeva, ma non riusciva ad essere ragionevole, non in quel momento – e si voltò, incamminandosi con tutta la dignità che le gambe solide come gelatina le consentivano. Attese di essere ad una distanza dignitosa prima di accelerare il passo, quasi temesse che la figura avrebbe potuto offendersi. Sbuffò, prendendo in giro sé stessa: a volte era davvero una fifona. Svoltò una volta a destra, come indicato dall’amica, poi dopo aver percorso quasi correndo la via stretta e buia tra due case svoltò nuovamente a destra: si fermò, interdetta. Era arrivata in un vicolo cieco. Ma, peggio ancora, a pochi passi di distanza da lei, accanto ad un bidone dell’immondizia rovesciato a terra c’era di nuovo la figura incappucciata. Il cuore della strega accelerò, improvviso, mentre un lampo squarciava il cielo, seguito da un tuono prepotente: la stava seguendo, per caso? Avvertì una stretta alla gola, faticava a respirare eppure non alzò la bacchetta nemmeno in quella circostanza. Preferì voltarsi, di nuovo, fingendo di non aver visto lo sconosciuto e tornando sui suoi passi il più velocemente possibile. Ad occhi esterni la situazione era spettrale al punto giusto per la notte di Halloween, ma al momento non riusciva a vederla da quel punto di vista e probabilmente ci sarebbero voluti mesi per rievocare la situazione senza tremare. Sempre se sarebbe arrivata viva a qualche mese di distanza.

Dopo dieci minuti di camminata frettolosa e incerta l’insegna del negozio di fertilizzanti, debolmente illuminata, fece capolino nel suo campo visivo. Si fermò sotto di essa, e fece un respiro profondo, cercando di calmarsi. Poteva, anzi doveva trovare quella maledetta locanda, prendere l’ordine di Grace e smaterializzarsi alla sua maledetta festa di Halloween. Rilesse un’altra volta le indicazioni sulla pergamena che iniziava ad essere zuppa di pioggia, e si prese un istante per riflettere: era evidente che le indicazioni dell’amica fossero errate… e se avesse provato a seguirle al contrario? Chiedere informazioni era fuori discussione, soprattutto perché non sembrava esserci anima viva nei dintorni... per fortuna. Si guardò intorno con circospezione prima di riprendere la sua ricerca, e dopo essersi assicurata che nessuna figura strana fosse nei paraggi si incamminò. Prima svolta, sinistra. Una via incredibilmente illuminata per gli standard di Nocturn Alley si aprì davanti a lei, e la attraversò con passo deciso, lo sguardo fisso davanti a sé e concentrato sull’obiettivo: di tanto in tanto lanciava però un’occhiata alle sue spalle per accertarsi che non ci fosse nessuno. Un atteggiamento un po’ troppo paranoico per i suoi standard, ma era pur sempre meglio prevenire che curare. Strada deserta dietro di sé e davanti a sé. Perfetto. Arrivata in fondo alla via, svoltò a destra: questa volta la attendeva di nuovo un vicolo stretto e male illuminato, simile a quello cieco che aveva percorso qualche minuto prima. Si fermò, indecisa: e se fosse stata un'altra strada senza uscita? E se… ci fosse stato di nuovo lo sconosciuto alla fine? Si sarebbe limitato ad osservarla, anche questa volta? Mentre l’ansia di nuovo le stringeva lo stomaco alzò la bacchetta davanti a sé, pronta a non farsi cogliere impreparata nel caso di incontri spiacevoli. Proprio mentre alzava il braccio una folata di vento la colpì, smuovendole il mantello e abbassandole il cappuccio: mentre si affrettava a ricoprirsi udì un fruscio sinistro alle sue spalle, mentre un odore rancido le colpiva con prepotenza le narici. Sapeva già cosa avrebbe visto ancora prima di voltarsi, ma stupidamente volle comunque assicurarsi della veridicità dei suoi presagi. Lo sconosciuto incappucciato, di nuovo, la mano alzata in sua direzione. Ora cominciava ad averne abbastanza di tutta quella storia. « C’è qualche problema? » La voce le uscì più dura di quanto volesse, ma era la paura a governare le sue azioni: per tutta risposta la figura abbassò la mano, senza muoversi da dov’era. La sensazione di essere osservata ricomparve, e iniziava ad infastidirla. Non si preoccupò di continuare il discorso, né di sembrare gentile. Si voltò e riprese a camminare a passo spedito, attraversando il vicolo buio con la bacchetta tesa davanti a sé a farle luce. Arrivata in fondo, svoltò di nuovo a destra in una piccola piazzetta al centro della quale si trovava un lampione e un’opera di arte contemporanea. Dove Grace avesse trovato somiglianza con la signora Hills una piovra non riusciva a capirlo, ma non le interessava per niente perché la presenza della statua significava che la locanda era vicina e anche il suo allontanamento da Nocturn Alley e dallo sconosciuto… che proprio in quel momento comparve accanto alla piovra. Stava diventando una persecuzione e la paura lasciò velocemente spazio alla rabbia. Ne aveva abbastanza. Alzò la bacchetta, pronta a lanciare un qualsiasi incanto che facesse sparire lo sconosciuto o che quantomeno la liberasse dalla sua presenza: mentre si arrovellava su quale formula scegliere però, la figura alzò il braccio sinistro. Alla debole luce del lampione fece la sua comparsa un lungo dito, pallido e scheletrico come la mano che aveva visto nei precedenti incontri. Stava… indicando una direzione? Sorpresa, seguì la via tracciata da quel segno inaspettato. Due case si stagliavano su quel lato della piazza, due edifici vecchi e sul punto di crollare – come apparivano la maggior parte delle abitazioni a Nocturn Alley, del resto – in mezzo ai quali si intravedeva una porta. No, era impossibile. Come faceva lo sconosciuto a sapere quello che stava cercando?

Tornò con lo sguardo sulla figura incappucciata, osservandola con attenzione, ma nonostante il probabile aiuto che le aveva appena dato la terribile sensazione di paura mista a rabbia non riusciva a lasciare il suo animo. Si sentiva ancora fissata, intensamente. Si costrinse a distogliere gli occhi dal tessuto scuro che ricopriva lo sconosciuto, e sforzarsi di muovere i primi passi fu un’impresa ma riuscì a raggiungere incolume la porta tra i due edifici. L’ennesima sorpresa della serata fu notare che effettivamente esisteva un cartello sopra di essa, proprio come aveva indicato Grace, anche se la scritta riportata era illeggibile. Allungò la mano, pronta a bussare, ma prima che riuscisse a compiere l’azione la porta si aprì, e un uomo dall’aspetto poco raccomandabile fece capolino sull’uscio. « Per fortuna che i Medimaghi sono delle persone responsabili! Ragazzina, è mezz’ora che ti stiamo aspettando! » Sì, era decisamente nel posto giusto. Si voltò, alla ricerca della figura sconosciuta, pronta a scusarsi e a ringraziarla, ma… era sparita. Fissò per qualche istante la piazzetta, ormai vuota. Chi era? Perché l’aveva aiutata? « Allora, non entri? La prossima volta il prezzo sarà doppio, avvisa pure la tua amica… » Si affrettò a varcare la soglia, distogliendo lo sguardo dal lampione e dalla statua, la mente piena di domande ed enigmi che probabilmente non avrebbero mai trovato una risposta.
Jane Read | 19 y.o. | healer

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view post Posted on 20/1/2022, 23:43
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Celestina Warbeck cantava uno dei suoi brani più famosi tra vocalizzi e armonizzazioni e sembrava fosse esattamente davanti a Jane ad esibirsi: peccato che in realtà a separare la strega dalla radio che trasmetteva i successi più conosciuti della cantante ci fossero le assi del pavimento in legno di casa sua. La coppia di maghi di mezz’età che abitava nell’appartamento sotto il suo aveva organizzato una piccola festa di Natale con i colleghi dell’ufficio del Ministero della Magia dove lavoravano – per essere precisi, Applicazione della Legge sulla Magia, sezione Anagrafe Magica – e ormai i festeggiamenti erano decollati tra vino elfico e rhum invecchiato. La tazza di tè posata sul ripiano della cucina tremò appena all’ennesimo acuto della cantante che fece sobbalzare Jane, facendole rovesciare la boccetta di inchiostro sulla lettera che stava scrivendo. Imprecando sottovoce, si affrettò a recuperare la bacchetta per rimediare, ma ormai il danno era stato fatto: il biglietto che aveva iniziato a scrivere era illeggibile, e con un colpo dell’elce prese fuoco, accartocciandosi su sé stesso. Sospirò. Avrebbe dovuto ricominciare da capo. Spiegare a zia Mary che quel Natale non avrebbe potuto recarsi a Manchester per festeggiare in famiglia non era affatto semplice: aveva anche provato a scambiare il turno con uno dei colleghi, proposto di lavorare l’ultimo giorno dell’anno, ma non c’era stato modo di trovare una soluzione. Il venticinque dicembre la attendeva un lungo turno di dodici ore e non avrebbe riso alle solite barzellette sciocche che lo zio Henry amava raccontare al secondo bicchiere di gin. Come se non bastasse, anche Isabel sarebbe stata assente quell’anno, la missione all’estero per il Ministero prolungata di mese in mese. Bevve un sorso di tè, e si fece coraggio. Doveva avvisare gli zii, ormai il tempo stringeva.

Caro Babbo Natale,
com’è possibile che più si cresce e più si impazzisce a cercare di tenere tutto insieme?
Da piccola non vedevo l’ora di diventare grande per poter risolvere problemi: pensavo che gli adulti fossero questa specie magica di esseri umani dotata di super poteri – ovviamente, prima di scoprire che la magia esiste davvero – sempre capaci di trovare una soluzione, la parola giusta al momento giusto. Ora che mi ritrovo tra di loro, mi rendo conto di essere stata davvero una sciocca.
Il mondo dei grandi è costellato di sfide quotidiane. Di doveri e responsabilità. Uno cresce convinto di conquistare un po’ di più sicurezza in sé, di riuscire finalmente a gestire emozioni, pensieri, famiglia, lavoro, casa… e invece si ritrova a trascorrere le proprie giornate in costante equilibrio su un filo sospeso tra due alti grattacieli, senza bacchetta magica e senza scorciatoie. E’ una bella fregatura, sai?
Mi chiedo come tu ci riesca. Da millenni compili le tue liste, scrivi con precisione “buono” o “cattivo” accanto al nome di tutti i bambini del mondo, consegni i regali in una sola notte… lo so che la magia aiuta, ma dimmi, come fai ad essere così organizzato in ogni aspetto?

Ecco, ho trovato! Dopo anni di mancate lettere (per cui mi scuso, ovviamente), ritorno a farti una piccola piccola richiesta. Niente libri, questa volta. Niente cuccioli (anche se ancora sto aspettando il mio cane, da quasi dieci anni!) e niente polveri misteriose per riuscire a ricordare tutto l’eterno programma di storia della magia. Ti chiedo solo un suggerimento. Un’indicazione. Un bigliettino che riveli il segreto per restare in equilibrio. O una rete, che se devo cadere almeno sto tranquilla.
Spero di non averti chiesto troppo, anche se temo sia così.

Mancano pochi giorni al grande evento, immagino sarai preoccupato, eppure sono certa che sarai impeccabile… come sempre!
Al prossimo anno,
Jane

Ancora prima di rendersi effettivamente conto di quello che aveva iniziato a scrivere, la lettera era conclusa. Rise piano davanti a quell’accozzaglia di parole, e con un gesto della bacchetta piegò più volte la pergamena fino ad ottenere un colibrì. Il metodo di comunicazione tra lei e Isabel, il modo più dolce per sfrecciare nell’aria che divideva le loro case. Ma ora, Isabel era lontana. Chissà, se il volatile di carta sarebbe arrivato fino a lei. Non restava che scoprirlo. Si alzò, e aprì la finestra. Un ultimo leggero gesto dell’elce, e il colibrì prese il volo nella gelida notte londinese.


Iniziativa Candele di Natale, “Letters to Santa" ✓
 
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view post Posted on 30/3/2022, 18:20
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il sonno della ragione genera mostri
contest a tema - marzo 2022

Il buio è un mantello pesante che avvolge il tuo corpo senza chiedere il permesso: si infila tra gli spiragli invisibili che riesce a trovare, si insinua nelle crepe della tua anima e le salda con linee d’inchiostro denso e appiccicoso. Ne avverti il peso sulle spalle, senti ogni singola goccia della sua essenza scorrere lungo le tue braccia, lasciare scie gelide lungo la tua schiena talmente fastidiose da spingerti a continuare a camminare nonostante l’impellente bisogno che senti di fermarti. Di piegare le ginocchia, di crollare a terra, chiudere gli occhi e implorare che tutto finisca il prima possibile. Eppure, stai camminando.

Non ricordi esattamente come sei giunta in questo vicolo di Nocturn Alley, non ti sembra di riconoscerlo e in effetti parrebbe che sia la tua prima volta tra le mura scrostate e sudicie delle case disabitate che creano i confini del tuo orizzonte. Sai di essere uscita dal lavoro dopo l’ennesimo turno trascorso a riempirti ogni istante libero per fuggire dai tuoi pensieri. Hai accolto il dolore altrui, hai tentato di cancellarlo con un gesto della bacchetta o il tintinnio delle provette contenenti pozioni potenti e semplici al tempo stesso. Hai salutato i tuoi colleghi, ma il calore del sorriso non si è esteso ai tuoi occhi, ormai apatici davanti alle vicissitudini del mondo. Sei uscita dal San Mungo e poi il vuoto.
Una risata riecheggia alle tue spalle, ti raggiunge prima che la tua mente possa averne anche solo sfiorato il concetto, ti investe come una secchiata d’acqua gelida e il tuo corpo viene scosso da un tremito. Devi continuare a camminare, o… non sai cosa succederà, ma senti che non è il caso di scoprirlo. Acceleri l’andatura, i tuoi passi però non sembrano risuonare sul lastricato impreciso del vicolo: il fiato si accorcia, una fitta dolorosa inizia a pungerti il fianco sinistro mentre nei polmoni l’aria si fa ghiaccio rovente che brucia lungo la gola. La sensazione di essere sul punto di cadere in una trappola si fa sempre più consistente, la tua coscienza ti sussurra infida all’orecchio tutte le spiacevoli possibilità che una giovane strega può incontrare in quella zona di Londra e il tuo cuore inizia ad accelerare sempre più. Proprio quando sembri essere arrivata al punto di rottura, quando avverti che il prossimo passo potrebbe essere l’ultimo, una porta aperta fa capolino nel tuo campo visivo. Ti infili con un movimento fluido, il cappotto che indossi sfiora le assi di legno marcio che costituiscono l’uscio e una macchia di muffa verdastra trova casa nella stoffa grigio cenere che non è riuscita a proteggerti dal freddo che continua a pungerti il corpo. Il cigolio dei cardini alle tue spalle ti fa voltare di scatto, ancora con il fiato spezzato, e l’orrore si fa strada sul tuo volto pallido mentre gli occhi si scontrano con la sconcertante visione di un muro grigio e vuoto. Della porta non è rimasta alcuna traccia.

« Jane… »

Un sussurro leggero, una voce di donna sospira il tuo nome come brezza primaverile, talmente impalpabile e delicata che se potessi darle forma si tramuterebbe in seta nivea. I tuoi capelli vengono smossi da un vento inesistente, e ancora una volta senti il tuo nome. Ti guardi intorno, il richiamo dell’ignoto che smuove ancora una volta la tua curiosità mettendo quasi in secondo piano la paura, che tuttavia non vuole essere scordata così facilmente e lascia il tuo cuore ancora tachicardico. La stanza in cui ti trovi è spoglia, ad eccezione di due candele di cera giallognola che illuminano l’ambiente, sospese a mezz’aria ai due lati di una porta. Sì, ragazza ingenua, è davvero una porta quella, pronta ad aprirsi davanti al tuo sguardo sorpreso. E’ un corridoio vagamente illuminato quello che appare oltre l’uscio, e ancora prima di valutare le possibili conseguenze stai già camminando alla luce tremula delle poche candele che decorano le pareti spoglie e incolori. Pochi passi, e ti accorgi che c’è qualcosa che accarezza il silenzio che aleggia nell’aria: un ticchettio ritmico, acquoso, apparentemente amplificato nonostante lo spazio angusto in cui ti stai muovendo. Un gemito dolorante fende l’aria, ed è in quell’istante che la tua coscienza decide di ricordare il giuramento fatto da pochi anni, spingendoti ad accantonare ogni dubbio e a correre in direzione del suono. Un nuovo scenario prende posto sul palco, una stanza il cui candore ti costringe momentaneamente a socchiudere gli occhi mentre le pupille si restringono in reazione alla luce: hai appena il tempo di abituarti alla luminosità del luogo prima di avvertire il cambio di consistenza del terreno sotto i tuoi piedi. Improvvisamente la debole rigidità delle assi di legno è stata sostituita da qualcosa di denso, a tratti viscido: abbassi lo sguardo e finalmente noti di aver interrotto la strada ad una scia di sangue. Con il cuore che ormai sembra destinato a scappare dal tuo petto tanto corre veloce i tuoi occhi iniziano a percorrere il sentiero cremisi alla ricerca della sua origine, e quando si scontrano con due figure accasciate ti affretti a raggiungerle, la bacchetta in mano pronta a castare gli incantesimi del caso. Eppure, ogni tua intenzione, ogni tuo proposito, si rivela inutile perché sono entrambi morti. Un uomo e una donna, legati a due sedie arrugginite da catene che scintillano alla luce asettica della stanza: sono appoggiati l’uno sull’altra, i capelli di lei coprono i volti di entrambi. I tuoi occhi non riescono a smettere di fissare i tagli netti che entrambi mostrano a livello del collo – della carotide, che sai bene essere il punto migliore per una morte tanto veloce quanto violenta – e ti costringi ad ignorare l’orrore che attende il momento più propizio per saltarti addosso e farti crollare a terra. Respiri a denti stretti, sofferente, e ricominci a tremare mentre ti avvicini maggiormente ai due e allunghi la mano sinistra per scostare i capelli della donna dalle guance.

No, Jane, non vuoi farlo davvero. Ascoltami una volta tanto, accetta di vivere nell’ignoto, non è così necessario fare luce su ogni singolo mistero. Non… troppo tardi.
E’ il volto di tua madre quello che esponi alla luce fredda e sì, quello accanto è proprio tuo padre. Stai guardando in faccia i tuoi genitori, hai risposto troppo lentamente al loro richiamo e non sei riuscita a salvarli. Hai fallito, e li hai delusi. Lo senti questo nodo che ti preme in gola? Si chiama rimorso, inetta che non sei altro. Le lacrime si rifiutano di scorrere dai tuoi occhi tanto grande è il senso di sconfitta che sta prendendo spazio nel tuo animo, e mentre rimani immobile a fissare il risultato dei tuoi sbagli, la bocca socchiusa incapace di dare voce al grido che ti scuote dentro, qualcuno inizia a battere le mani. Ogni applauso risuona dolorosamente nelle tue orecchie, e ci vuole quasi un minuto prima che tu trova la forza di spostare gli occhi dai volti esangui dei tuoi genitori per cercare la fonte di quell’elogio.
E’ un sorriso crudele che conosci bene, uno sguardo tagliente quello che ti guarda con approvazione. Lucas Scott applaude davanti alla tua sconfitta e annuisce con convinzione, compiaciuto: davanti al tuo sguardo esterrefatto accenna ai tuoi vestiti, e solo allora noti che sono ricoperti di sangue, il liquido scuro ha macchiato anche le tue mani, e grida la parola colpevole davanti al giudice della tua coscienza. E’ colpa tua, Jane. Sarai mai in grado di convivere con questo peccato?

Improvvisamente, tutto diventa più del troppo da accettare e davanti a quel quadro grottesco dalle tinte fosche ritrovi te stessa, riprendi il controllo sul tuo corpo e ti liberi dall’impasse in cui sei rimasta intrappolata. Indietreggi, pochi passi incerti prima di riuscire a voltarti e a correre lontana da quella stanza troppo illuminata, troppo importante, troppo. Le lacrime finalmente trovano la via d’uscita e iniziano a scorrere impietose lungo le tue guance, cadono sul cappotto andando a diluire il sangue dei tuoi genitori – il tuo sangue – mentre percorri a ritroso il corridoio vuoto, dimenticandoti di essere una strega, dimenticandoti che con una semplice smaterializzazione potresti porre chilometri di distanza tra te e l’orrore. Ma scappare non è così semplice, e non appena metti piede nella stanza dove la porta d’ingresso è ricomparsa non hai modo di vedere le assi di legno marcio delineare la tua fuga. Una mano interrompe la tua corsa, ti afferra con decisione per il braccio e ti costringe a voltarti, facendo perno sulla suola scivolosa delle tue scarpe. Alzi lo sguardo annacquato dal sale delle tue lacrime, e ti scontri con il freddo glaciale degli occhi di Lucien. Indecifrabile, il francese ti osserva senza parlare mentre stringe ancora di più la presa sul tuo braccio. Non riesci a comprendere, non vuoi provare a capire il senso della sua presenza come ti sei rifiutata di accettare tutto quello che hai vissuto fino a quell’istante. La tua coscienza non poteva sperare di ottenere un’occasione migliore, ed ecco che le ultime parole del mago riemergono dalla memoria, un’altra coltellata che ti spezza il respiro già irregolare di suo. Svenevole bontà. Era così che aveva definito la matrice di ogni tuo gesto, vero? Eppure, com’è che il sangue dei tuoi genitori ti decora i vestiti, cara Jane?
Lucien molla improvvisamente la presa, e mossa da una volontà che ti è quasi estranea sfrutti l’occasione e provi ad arretrare, ad allontanarti da lui e dal dolore sordo che si aggiunge a quello che già provi, l’ennesima ferita che riprende a sanguinare accanto a quella che senti essersi appena formata. Riesci a fare solo un passo però, e al secondo il piede perde la presa sul pavimento, il sangue che ti sporca le suole punisce le tue scelte e scivoli a terra. Chiudi gli occhi, pronta ad accettare l’impatto con la realtà, ma la caduta dura eterni istanti di attesa.

Riapri gli occhi, confusa, e l’abbraccio delicato delle lenzuola del tuo letto ti riporta alla realtà. Sei a casa, Jane. Il miagolio incuriosito di Persefone ti sfiora l’orecchio mentre il felino ti si avvicina e prende posto tra le tue braccia, le fusa pronte a portare armonia nella notte. Perché il tuo cuore allora non riesce a smettere di correre? Perché fatichi così tanto a respirare? Allunghi lentamente la mano verso il pelo lucido del gatto, ma non trovi sollievo nella morbida sensazione che avvertono i tuoi polpastrelli. Senti il sudore freddo scendere lungo la tua schiena, i capelli appiccicati sulla fronte ma non hai la forza di spostarli. Sei sconvolta da quello che hai appena vissuto, ma nemmeno questa sensazione riesce a frenare la tua mente. Le domande, infatti, hanno già iniziato a germogliare, pronte a crescere rigogliose e a toglierti il sonno per le notti che verranno. E’ stato solo un sogno, continui a ripetere a te stessa come un mantra. Un brutto incubo destinato a far compagnia ai suoi simili nella folta collezione che conservi nella tua memoria. Solo un sogno.

Allora Jane, perché senti che in fondo la realtà non potrebbe essere tanto diversa?


Lucas e Lucien sono stati inseriti in questa one shot con il permesso dei rispettivi player.
Il sottofondo musicale per me è sempre fondamentale quando cerco di trascrivere le mie idee, in questo caso qui si può trovare la “colonna sonora” che mi ha fatto compagnia per questo scritto.
 
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