Everything's in the moment you live it., Esperienze, ricordi e momenti di Draven Enrik Shaw.

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view post Posted on 26/6/2022, 10:56
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Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts

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A Tutto Cinema, Universi Alternativi | Quarta Edizione


Draven Enrik Shaw
kguBA0E ATTRAVERSO I MIEI OCCHIL’angolo che Draven aveva sistemato per me nella sua camera mi era piaciuto sin da subito. Dalla finestra vicina al suo letto, lì dove c'è la mia cuccetta, si possono vedere spesso pesci stranissimi nuotare spensierati. Posso giurare di aver visto anche un tentacolo o due, qualche volta, ma non sono mai riuscito ad attirare testimoni per essere creduto. Nel castello gira voce che nei sotterranei in cui abitano quegli studenti chiamati Serpeverde si può osservare la vita della Piovra Gigante, nel Lago Nero che a me piace tantissimo. Draven non vuole che ci vada quando esco per le mie passeggiate, lo ritiene pericoloso, ma quando ero più piccolo ci andavo tutti i giorni lo stesso, a sua insaputa.
Nonostante quelle voci girino con una certa frequenza, soprattutto tra gli umani più piccoli, io non ho mai potuto confermare o smentire. Dopotutto, i gesti sono l’unica cosa che ho e, a dirla tutta, li limito perché sono faticosi. Non posso fare affidamento sulle parole, perché la mia lingua è piccola e ruvida e troppo corta per emettere suoni polisillabici. È utile solo per lavarmi il pelo e leccare la faccia di Draven, anche se non lo faccio così spesso, perché non gli piace. A essere onesti, non gli piace quasi niente di quello che faccio. Per esempio, a me è sempre piaciuto tantissimo sedermi sulla sua testa quando dorme, perché c’è tanto spazio tra fronte e orecchie, ma ogni volta che spero che non si accorga della mia presenza, lui si innervosisce e mi spinge via. Mi ritrovo con le zampe a terra a miagolare indispettito. Insomma, che fastidio mai sarà avermi sulla faccia mentre dorme?
È un umano così melodrammatico alle volte!
Ma va preso per quello che è.
Dopo anni insieme a lui, ho imparato a conoscerlo.
Draven è un mago e, poco dopo il mio arrivo nella sua famiglia, ci siamo trasferiti insieme nella scuola in cui studierà tutto ciò che gli serve per diventare il migliore.
Mentre dorme, a volte, parla nel sonno e l'ho sentito tante volte sognare di diventare il più grande mago di tutti i tempi!
Dovrà passare ancora molto tempo prima che ciò accada, ma io credo in lui e non vedo l'ora di imparare nuove cose di lui.
Per ora, so che torna in camera quando si accendono le fiaccole, il più delle volte, quindi se non sono troppo impegnato in giro per il castello cerco di farmi trovare già nella mia cuccetta al suo arrivo per le carezze quotidiane, visto che di prima mattina è intrattabile e finge sempre di dimenticarsi di me. Mi vendico graffiandogli il cuscino. Lui non lo sa, perché le creature simpatiche dalle orecchie a punta glielo aggiustano ogni volta che lo faccio, quando vengono a pulire la stanza e rassettano anche le mie cose. Non sa nemmeno che mi lasciano sempre qualche croccantino in più rispetto a quanti me ne dà lui quando siamo nell’altra stanza, quella che ha nella casa in cui vive l’umana bionda che chiama ‘Mamma’. Quando arriva, però, io sono sempre troppo stanco per dargli retta, quindi drizzo la coda e mi sistemo nel mio lettino. Lo aspetto solo perché voglio assicurarmi che stia bene e che mi dia la giusta quantità di coccole che mi spetta per essere stato un bravo gatto. Del resto, non mi importa; mi basta percepire il suo odore per stare tranquillo. Potrei riconoscerlo a metri e metri di distanza; per quanto si impegni a fare l’umano adulto, ha ancora lo stesso odore di quando era bambino. Profuma di carta e camomilla.
Mi era rimasto impresso nel muso già dalla prima volta che lo avevo incontrato.

Lui era in compagnia di un’umana più grande di Mamma, ma che le somiglia molto, e che lui chiama ‘Nonna’. Insieme a lei era entrato nel negozio in cui ero nato solo poche settimane prima. Di tutta la mia famiglia, ero l’unico a starsene in disparte. Ricordo che facevano un sacco di chiasso i miei fratelli e le mie sorelle, con un continuo miao miao che mi faceva venire il mal di testa! Io volevo solo mangiare, mi emozionavo tantissimo quando vedevo il latte, questo sì, devo ammetterlo, ma ero pacato e silenzioso. Forse questo aveva aiutato la scelta di Draven, quel giorno. Nonna aveva insistito tantissimo affinché scegliesse un animale e lui, quasi sul punto di piangere, le aveva detto che non andava d’accordo con gli animali, che si facevano male con lui perché era un mostro. Era uscito dal negozio che sembrava spaventato. Qualche giorno dopo - almeno tre, a giudicare dalle razioni di latte che mi erano state concesse in quel lasso di tempo - era tornata solo lei e aveva detto al commesso del negozio che il suo nipotino aveva scelto me. Mi ero sentito molto felice di essere stato notato, ma non avevo capito perché non era venuto lui a prendermi. Sin dalla mia nascita non avevo fatto altro che sentir parlare dei bambini umani che andavano lì, dove io vivevo, per prendere gli animali, ma non era stato lui a prendermi, non direttamente.


È il più bello.aveva detto il commesso, quando la donna mi aveva indicato.
Ma lo diceva sempre di tutti. Avevo smesso di credergli al terzo fratello mandato via.
Non potendo scegliere di restare con la mia famiglia, mi ero sentito felice che tra tante avrei fatto parte proprio di quella di Draven. Anche se, una volta arrivato a casa sua, mi ero avvicinato a lui con grande entusiasmo ed ero stato trattato malissimo! La sua paura mi spaventava, quindi per diverso tempo erano state Mamma e Nonna a prendersi cura di me. Draven mi teneva a distanza, mi guardava dalle scale che portavano alla sua camera, che avrei visto solo in seguito, e io non potevo far altro che guardarlo a mia volta.


Come vuoi chiamarlo?

Non voglio chiamarlo.

Andiamo, Draven. Devi portare un animale con te a Hogwarts! Devi farci amicizia. Dagli un nome, almeno.
Era stata la conversazione che ricordo mi aveva svegliato una mattina in cui faceva molto caldo e perdevo pelo ovunque. Fingendo di essere ancora addormentato, mi ero concentrato tantissimo per continuare a seguire il filo di quel discorso.

Dorme sempre in tondo.

In che senso… In tondo? Che significa?

Che si piega sempre di fianco, vedi? E si tocca il muso con le zampette dietro. Sembra una ciambella.

Chiamalo Donut, allora. Gli dona.
Draven aveva riso. Non lo avevo mai sentito felice da quando ero entrato a far parte della sua famiglia, quindi avevo voluto aprire gli occhi per vederlo.
Aveva un’aura diversa, quando rideva di pura gioia. Col tempo avrei imparato che, purtroppo, si trattava di un evento più unico che raro, ma all’epoca non potevo saperlo. Era ancora uno sconosciuto, impaurito dalla mia sola esistenza.
In un moto intrepido, però, avevo deciso di cogliere la palla al balzo – gioco in cui sono sempre stato molto bravo – e andare da lui. Mi aveva offerto un croccantino, che avevo accettato di buon grado e che avevo ripagato con delle fusa in prossimità di una delle sue caviglie. Quel gesto lo aveva fatto ridere ancora di più e, allora, avevo continuato a farlo finché non ci eravamo stancati entrambi così tanto da essere portati nei nostri rispettivi letti dalle sue umane.
In quel giorno eravamo diventati ufficialmente amici.
Avevo pensato che, da quel momento in poi, saremmo stati sempre insieme. Inseparabili.

Ma poi, era arrivata lei.

Il fatidico giorno della partenza per Hogwarts, avevamo raggiunto il binario del treno insieme a Nonna. Ricordo che ero molto arrabbiato, perché non mi piaceva il trasportino in cui mi avevano rinchiuso. Tenevo lo sguardo fisso su Draven in attesa che mi liberasse, ma lui non faceva altro che guardarsi i piedi, adocchiando di tanto in tanto gli altri bambini.


Mi raccomando: scrivimi ogni settimana, fammi sapere se hai bisogno di qualcosa e te lo farò recapitare in dormitorio. Hai preso tutte le tue cose? I tuoi libri?
Era stata Nonna a spezzare il silenzio, passando a Draven una valigia. Lui aveva annuito, finalmente alzando lo sguardo per poter guardare Nonna. Avevo miagolato, cogliendo il momento perfetto per attirare la sua attenzione.

Nemmeno a me piacerebbe stare lì, ma non posso lasciarti libero adesso… - mi aveva risposto Draven, come se mi avesse letto nel pensiero. Mi piaceva che riuscisse a capirmi anche se non ero in grado di parlare.
Quindi, più tranquillo di prima, ma comunque molto annoiato, avevo deciso di dormire. Visto che non potevo uscire, non c’era altro che potessi fare.
Ero stato svegliato da uno scossone del treno, perché nel trasportino rimbombava tutto, ma il caos nel vagone in cui mi ero ritrovato contro la mia volontà mi aveva impedito di riaddormentarmi.
Draven mi teneva sul sedile vicino a lui e dall’altro lato avevo una bambina umana un po’ più grande. Anche da seduta si vedeva che era più grande, aveva le gambe più lunghe. Era stata la sua voce squillante a impedirmi di riaddormentarmi.
Di fronte a Draven, invece, c’era una bambina come lui, con lunghissimi capelli biondissimi che illuminati dai raggi del sole quasi facevano male da guardare.
Avevo miagolato. Era stato istintivo, insomma, perché dovevo trovarmi proprio lì?


Oh. Sei sveglio. Vuoi uscire? Ci sono altri gatti sul treno, sta attento. mi aveva detto Draven, prima di aprire il trasportino.
Non erano tanto i gatti a preoccuparmi, quanto i gufi! La bambina da cui Draven non riusciva a togliere gli occhi di dosso, quella con i capelli super-biondissimi, aveva un gufo nero che gracchiava come un matto.
Me n’ero andato subito. Più per sgranchirmi le zampe che per altro. Avevo ingenuamente pensato di poter lasciare Draven da solo per qualche ora, ma al mio ritorno mi ero accorto che qualcosa in lui appariva in maniera distorta rispetto al consueto. Aveva una faccia diversa e l’avrebbe avuta per quasi i due anni seguenti da quel momento in poi, in qualche modo più simile a quando aveva riso il giorno in cui mi aveva dato un nome. Avrei scoperto solo molto dopo cosa fosse accaduto quel giorno; o meglio, non ho mai saputo nello specifico cosa fosse successo, ma a un certo punto era diventato chiaro che, per colpa di quel viaggio, non saremmo stati più solo noi due. Christelle, questo il nome della bambina dai capelli troppo lucenti, stava sempre insieme a Draven. Andavano a seguire le lezioni insieme. Si tenevano per mano quando andavano a passeggiare in giardino. Studiavano insieme in biblioteca e, anche se non potevano mangiare nello stesso tavolo per qualche motivo a me oscuro, si aspettavano sempre a vicenda per andare via insieme dalla Sala Grande. Lui l’aveva accompagnata spesso alla torre dei Grifondoro e, altrettanto spesso, lei aveva accompagnato lui nei sotterranei. In tutto ciò, Draven non si era mai accorto di me! Li avevo seguiti per mesi!
Anche il suo odore, in quel periodo, era cambiato. Era molto più dolce, di vaniglia e cannella, che poi avrei scoperto essere gli odori che associavo a Christelle.
In quel primo periodo nella nuova casa, non mi ero dovuto abituare alla presenza assidua di un’altra persona in famiglia, perché nel giro di poco tempo quei due erano diventati una cosa sola. Dove c’era l’uno, c’era l’altro. Quello che non riusciva a fare o dire uno, veniva completato dall’altro.
Per quanto in quel periodo Draven si fosse convinto che io lo odiassi, solo perché me ne stavo a distanza dalla sua fidanzatina, mi aveva confessato più e più volte di sentirsi sempre tanto emozionato quando era con ‘Chris’.
Ogni volta gli avevo vomitato addosso palle di pelo.
Ma per quanto si ritenesse intelligente, non aveva mai colto il significato di quelle mie reazioni.
Non mi fidavo di lei e, a un certo punto, ero dovuto venire a patti con me stesso: se lei faceva parte della sua vita, o io non ne avrei più fatto parte oppure avrei dovuto farmi andare a genio Chris.


Gli piaci. Con me non fa mai così.era stato il commento di Draven la prima volta che li avevo raggiunti in giardino. Mi ero solo messo a sedere sulle gambe incrociate di Chris, poi il resto era venuto da sé… Che mi piacesse o no, mi aveva fatto così tanti grattini sulla pancia che non ero riuscito a resistere. Ma evidentemente la situazione era stata interpretata in maniera diversa da come la vedevo io.
A me importava solo di Draven.


Non ti dispiace se gli voglio bene anche io, vero?mi aveva sussurrato lei in un momento in cui Draven ci aveva lasciati da soli.
Era stato uno di quei momenti in cui mi era veramente dispiaciuto tanto di non poter parlare. Non avevo voce in capitolo! Potevano fare qualsiasi cosa avessero voluto fare e il massimo con cui avrei potuto replicare sarebbe stato devastare le cose di Draven per vendetta, nella speranza che le creature simpatiche dalle orecchie a punta non avrebbero sistemato tutto come niente fosse.
Approfittando del fraintendimento, avevo dato modo di credere a Draven che avessi sincero piacere a stare più tempo con Chris, così, da quel giorno in poi era capitato spesso che mi portasse via con sé nel suo dormitorio. C’era molta, molta più luce di quanta ce ne fosse nella stanza di Draven e, anche se qui non avevano i pesci che nuotavano a filo delle finestre, avevano un sacco di uccellini simpatici!


Sei sicura che siete solo amici? Perché è molto carino.avevo sentito dire dalla bambina umana più grande, quella che in treno, il giorno della partenza, mi aveva indispettito con la sua voce squillante.
In questa occasione, avevo scoperto che era la sorella maggiore di Chris, anche se non si somigliavano per niente. Il suo nome era ‘Isla’.
Mentre Chris mi coccolava con i suoi soliti grattini sul pancino, me ne stavo zitto zitto ad ascoltare i loro discorsi su Draven. Da come ne parlava Isla, era strano che ‘a quell’età’ Chris non avesse una cotta, ma a sentire Chris, invece, sarebbe stato strano e imbarazzante averne. Soprattutto se l’argomento riguardava in qualche modo Draven.
Non mi piaceva che parlassero di lui quando non era lì con loro e mi dava ancora più fastidio che io sapessi quelle cose e non potessi riferirle.
A Draven piaceva Christelle, ne ero abbastanza sicuro. Così come, dopo aver spiato lei insieme a sua sorella, ero sicuro che a Isla piacesse Draven e a Christelle la cosa indispettiva, ma non al punto da intervenire.
Gli umani non sono così complicati come pensano di essere.
Parlano sempre senza problemi davanti a me, visto che sono solo uno stupido gatto, ma non si parlano mai tra di loro. Creano incomprensioni e diventano più irascibili di una gatta in calore!
Senza nemmeno rendermene conto, avevo avuto modo di ascoltare un sacco di conversazioni di Christelle e Draven, sia insieme che separati, finché qualcosa tra loro non si era… rotto. Un po’ come il cuscino di Draven che graffiavo ogni mattina e le creature dalle orecchie a punta riparavano per nascondere la mia malefatta: io lo sapevo che era un cuscino rovinato, nel profondo, ma da fuori non era percepibile.

A un certo punto Draven aveva iniziato a nascondersi da Christelle e se qualcuno gliela nominava diventava più furioso di un gatto denutrito!
Non potevo dire di essermi affezionato a lei quanto lui, ma avevamo raggiunto una certa sintonia. Per il bene comune, avevo finito con l’abituarmi a lei, ma avevo commesso un grosso errore… Avevo capito troppo tardi di aver sbagliato a non fidarmi della prima sensazione di diffidenza percepita nei suoi confronti.
Non che mi dispiacesse l’idea di tornare a essere solo lui e io, a dirla tutta… Però, era strano, tutto. Draven era diverso, emanava perenne tristezza e rabbia, il suo odore non era più lo stesso di un tempo, ma non aveva nemmeno più traccia di Christelle.
Niente più uccellini simpatici nella torre di Grifondoro per me. Niente più grattini sul pancino.
E, di nuovo, ero rimasto solo a contemplare l’andamento dei pesci nella sua camera. Non avevo potuto far altro che riprendere con le mie vecchie passeggiate per il castello e le mie visite nascoste nei pressi del Lago Nero. La nostra vita era tornata a essere quella che era stata sin dal principio, ma il mio amico era cambiato, mentre io ero rimasto sempre lo stesso.
All’accensione delle fiaccole, ecco che mi affrettavo, tutti i giorni, a tornare di corsa nei sotterranei per aspettare il ritorno di Draven, ma ogni giorno cambiava abitudine: a volte capitava che tornassi e lui stava già dormendo, oppure rientrava tardissimo, allo scoccare del coprifuoco; a volte gli era capitato di accompagnare una bambina, anche lei biondissima come Christelle, verso la sua stanza lì nei sotterranei, ma a un certo punto era sparita anche lei e la rabbia di Draven si era acutizzata. Poi, aveva iniziato a passare più tempo davanti allo specchio la mattina, prima delle lezioni, e a preoccuparsi di mettersi a letto pulito dopo il lavoro.

In un modo o in un altro, non aveva mai tempo per me.
Così, per un lungo periodo, avevo smesso di tornare in camera. Nei miei giri di ronda, avevo conosciuto tanti altri umani felici di coccolarmi e a lui non importava niente. Ero fortunato che non fosse un amante degli animali, non gli avevo mai sentito addosso l’odore di qualche altro amico indesiderato, ma mi dava fastidio che lui non si accorgesse delle attenzioni che ricevevo da tutti gli altri.
Avevo abbandonato l’impresa di vendicarmi graffiandogli il cuscino, visto che, dopo anni, avevo capito che in realtà davo fastidio solo a quelle simpatiche creature, e avevo smesso di richiedere le sue attenzioni.
Dopo l’ennesima giornata in solitudine, avevo deciso di tornare in dormitorio per il puro gusto di dormire nella mia cuccetta, solo perché ogni tanto ne sentivo la mancanza.
Ed eccolo lì, quel familiare odore di carta e camomilla.


Hey, che fai ancora in giro? Non dare fastidio a Mike.mi dice Draven a bassa voce, dando un rapido sguardo al letto del suo amico umano con cui condivide la stanza. Ecco, con lui non ho mai avuto problemi, è un umano a posto, non gli avrei mai dato fastidio, ma un miagolio mi esce spontaneo.
Mi è mancato quell’odore di tranquillità.
Drizzo la coda e mi metto nella mia cuccetta. Mi basta sapere che sta bene. Mi godo le mie meritate coccole e aspetto che si metta a dormire.
Nonostante il buonumore, mi ha buttato giù dalla sua faccia quando ho provato a dormirci sopra, ma da quel momento in poi avrei ripreso a farlo tutte le notti.
Posso sentire il ritorno della nostra normalità.
Mentre chiudo gli occhi e mi sistemo a terra, mi chiedo quanto ancora lo avrei visto cambiare e crescere.

codice role © Akicch; NON COPIARE - WANT YOUR OWN? GET IT



Breve riassunto della vita di Draven negli ultimi tre anni, raccontata dal punto di vista del suo gatto Donut. Ispirazione dal(la prima parte del) film Attraverso i miei occhi, 2019.
Il racconto-riassunto si ferma a prima delle vicende accadute nell'evento Euphoria.


Edited by Draven. - 5/5/2023, 13:47
 
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view post Posted on 21/8/2022, 23:21
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« We are the combined effort of everyone we've ever known »
P4boUssSomewhere I BelongEra rimasto a scuola il più a lungo possibile, continuando a procrastinare la partenza con scuse campate in aria, di ogni tipo: dai suoi doveri come Prefetto, a quelli da studente semplice che, non vivendo nella comunità magica, aveva bisogno di studiare con i libri della biblioteca, alla piccola innocente bugia che sarebbe stato senza tutori in casa. Era stato comunque cacciato via, a un certo punto, e costretto a prendersi le vacanze estive, che lo volesse o meno. Erano le regole, d’estate non poteva restare nessuno a Hogwarts. Era abbastanza certo che non fosse l’unico a odiare l’idea di passare quei due mesi fuori dal castello, ma si chiese se non fosse l’unico ad aver letteralmente supplicato il proprio datore di lavoro di raddoppiargli i turni pur di avere qualcosa da fare. Non aveva la benché minima voglia di andarsene in vacanza o di passare le prossime sei settimane a casa, da solo con sua madre. Nonna Lilien era passata a salutarlo il giorno in cui era tornato da Hogwarts, più per vedere di persona la spilla da Prefetto che per altro. Aveva colto l’occasione per avvisare che avrebbe passato gran parte dell’estate in Irlanda insieme al suo mini-me, l’unico essere umano in grado di tollerare la compagnia di Lilien per più di due ore di fila. Draven non aveva prestato loro molta attenzione, tra la stanchezza del viaggio e la depressione che era in grado di infondergli il semplice colorito grigio spento del cielo di Londra, ma gli era sembrato di capire che fossero stati invitati a prendere parte a una ricerca sull’uso del canino di drago come nucleo per le bacchette. Sarebbe stato un argomento piuttosto interessante, in un altro contesto; in quello specifico momento, invece, a Draven non poteva interessare di meno. Aveva tenuto le sopracciglia inarcate e le labbra arricciate in un’espressione di finta sorpresa, aveva alzato il pollice in direzione di Alec ed era poi andato a chiudersi in camera sua. Si era tuffato a pesce, di faccia e a pancia in giù sul letto e aveva dormito per le seguenti ventuno ore di fila. Quando finalmente aveva ripreso conoscenza, sotto lo sguardo sollevato di sua madre che lo aveva dato per morto, l’aveva avvisata che avrebbe lavorato per tutta l’estate a Diagon Alley, senza scendere in dettagli che, ovviamente, non gli erano stati nemmeno chiesti. Non solo Cecilia non era tenuta a sapere delle sue attività scolastiche, men che meno quelle extra, se riguardavano l’ambito magico, ma non poteva proprio informarsi in alcun modo di tutto ciò che riguardava quel mondo dal quale, molti anni prima, era stata esclusa con disonore. Era nonna Lilien il suo tutore ufficiale e nemmeno lei sapeva di Magie Sinister, anzi, non le aveva proprio mai detto che avesse un lavoro. Nonostante tutto, quel negozio continuava a costituire per lui un luogo di conforto. Lo stesso Sinister era diventato un punto di riferimento. Era strano a dirsi, considerando il tipo di attività trattata in quel negozio, ma aveva finito col farci l’abitudine a tutte le stranezze che lo riguardavano; non ci faceva nemmeno più caso e, anzi, a tratti lo divertivano. Per quanto il vecchio datore di lavoro si fosse rifiutato di aumentargli la paga, aveva acconsentito con grande entusiasmo ad averlo come schiavo anche per tutta l’estate e per più ore di lavoro rispetto a quando aveva le lezioni a scuola. Era sicuro di piacergli, a modo suo, e anche se la paga era ingiusta a Draven stava bene così. Sempre meglio dell’alternativa…

Mio Dio, Draven! Devo andare a lavoro!
Cecilia aveva continuato a bussare insistentemente alla porta del bagno per almeno cinque minuti, tempo che Draven aveva trascorso a guardarsi distrattamente allo specchio, concentrato sul filo dei propri pensieri. Se normalmente aveva tempi di reazione piuttosto lenti, a causa del caos che si generava nel proprio cervello iperattivo e razionale, di prima mattina era anche peggio.
Sospirò, aprendo la porta con un’espressione strafottente in viso: sopracciglia inarcate e labbra distese all’ingiù.
Draven era cresciuto di quasi dieci centimetri nell’ultimo anno e Cecilia odiava il modo arrogante in cui aveva preso a guardarla da qualche tempo a quella parte, dall’alto in basso come se fosse migliore di lei… solo perché era più piccola di almeno venti centimetri. Distese il braccio per poter raggiungere la nuca del figlio e dargli uno schiaffo educativo che bastò a far spostare Draven dall’uscio della porta del bagno, pur di schivarlo. Cecilia lo superò in scivolata con grande velocità e maestria.

Anche io devo andare a lavoro. – ribatté lui, con uno sbadiglio, mentre dall’altro lato della porta era già stata aperta l’acqua della doccia. Probabilmente non lo aveva nemmeno sentito.

Impara a darti una mossa, allora! Da domani entro in bagno prima io, sei lento!
Invece, lo aveva sentito eccome. Draven alzò gli occhi al cielo, ancora troppo assonnato per avere la forza di discutere con sua madre a quell’ora. L’unico orologio presente in tutta la casa, quello digitale sul davanzale della cucina, segnava le 6.50. Scattarono le 6.54 quando Draven si rese conto di essere rimasto completamente immobile in mezzo alla sala, a fissare il vuoto. Nel tempo che gli ci volle a reagire e raggiungere la propria camera da letto per vestirsi, sua madre era già uscita dal bagno.
Si sedette sul bordo del letto e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, le mani a sfregarsi il viso. Dai capelli ancora umidi caddero a terra delle piccole gocce d’acqua… O forse stava piangendo. Di nuovo. Piangeva un sacco, ultimamente. Erano passati solo tre giorni da quando aveva lasciato Hogwarts, ma gli mancava la scuola, la sua vita lì. Gli mancava Megan, anche se non ne aveva il diritto. Gli mancava tutto ciò che era stato in grado di provare lì, con lei. Quella a Londra non era vita e in quella casa si sentiva come un ospite indesiderato.
Si asciugò viso e capelli con un asciugamano pulito, poi riuscì a muoversi per potersi vestire. Jeans neri e camicia bianca, vans rosse a dare un tocco di colore. Senza la cravatta dei serpeverde sembrava un comunissimo cameriere. Per questo motivo, attirava l’attenzione tra le vie di Londra degli inglesi curiosi, che lo seguivano con lo sguardo come a chiedersi dove se ne andasse a piedi un cameriere dal passo spedito così presto al mattino. E veniva guardato storto quando poi arrivava a Diagon Alley, circa due ore di cammino dopo, perché non aveva l’aria da mago e, senza quella benedetta cravatta, nemmeno l’aria dello studente. Quando attraversava il vicolo per raggiungere Nocturn Alley, però, la cravatta era già al suo posto intorno al collo. Bastava così poco a farlo sentire meglio con se stesso: era un mago, un serpeverde che stava portando avanti gli studi con successo. Quantomeno, in quel mondo aveva il suo ruolo.




PCxI1nFgryffindor rageLa playlist che stava ascoltando nelle cuffie aveva appena mandato Bohemian Rapsody nella versione dei Panic! At the Disco. Si era ritrovato a canticchiarla senza nemmeno accorgersene. Un po’ perché era una delle canzoni più belle mai create, un po’ perché aveva sempre avuto il vizio di voler imitare la voce di Brandon Urie. Aveva iniziato da molto piccolo, insieme a suo padre che lo spronava a cantare accompagnandolo con la chitarra. Ecco, se c’era un’unica cosa che gli mancava durante i mesi a Hogwarts, era di studiare con la musica in sottofondo. Non si sarebbe mai abituato al chiacchiericcio perpetuo che si sentiva in sala comune e in biblioteca. Non esisteva un singolo luogo in tutta la scuola in cui riuscisse a stare nel silenzio, nemmeno in dormitorio visto che dal Lago Nero proveniva ogni genere di suono e rumore. Aveva scoperto presto che alle creature acquatiche piace parecchio chiacchierare, così come che alla piovra gigante piace pulirsi le ventose contro i vetri delle finestre in dormitorio. Non era riuscito ad abituarsi nemmeno a quello, causa delle pessime abitudini di sonno che aveva finito per acquisire. Non aveva problemi ad addormentarsi, si addormentava abbastanza facilmente e velocemente, il problema erano i sogni. Erano sempre incubi, li aveva da almeno un paio d’anni, ma ricordava di averci sofferto anche negli anni in cui suo padre si era assentato da casa. All’epoca, sua madre lo aveva mandato da uno psicologo; ricordava che alla prima seduta gli era stato chiesto di disegnare un albero e poi la sua famiglia. Aveva avuto sette anni. Non era mai stato bravo a disegnare, aveva un modo tutto suo di rappresentare su carta la propria realtà. Riportando alla memoria quell’occasione, poté ricordarsi dell’ansia che lo psicologo e la stanza in cui era stato lasciato da solo gli avevano generato e ne percepì l’eco alla bocca dello stomaco. Ricordava di aver trattenuto le lacrime a lungo… Doveva riconoscere che era sempre stato un gran piagnucolone… Comunque, era riuscito a trattenersi fino a casa. Sua madre non aveva mai avuto un’auto, non era nemmeno sicuro che avesse la patente di guida, e il viaggio di ritorno verso casa, in metro, circondato da tante, troppe persone lo aveva fatto agitare ancora di più. Una volta varcata la soglia, era esploso come un gavettone e aveva iniziato a urlare, disperato, che non voleva più andare a disegnare con quelle persone e non voleva più parlarci. Sua madre non aveva insistito e tutte le turbe psichiche, comprese quelle del sonno, erano rimaste dov’erano. Per assurdo, gli incubi si erano presi una lunga pausa dopo la morte del padre.
Alzò lo sguardo davanti a sé. Non gli era mai piaciuta quella casa, anche se dopo l’incidente nonna Lilien l’aveva riarredata, cambiando totalmente la disposizione della cucina. Forse per meccanismo di difesa o, forse, perché nonna Lilien aveva sempre ragione, crescendo in una cucina totalmente diversa aveva finito col dimenticare la vecchia e il modo in cui il padre ci era morto dentro. Teneva sempre tutte le luci accese quando era solo a casa e studiava per lo più proprio in cucina, perché era il punto della casa da cui poteva tenere d’occhio quasi tutte le altre stanze. Era il tipo che doveva sedersi di schiena contro il muro al ristorante perché odiava il passaggio delle persone alle proprie spalle. Doveva sempre sentirsi protetto e al sicuro, in qualche modo. Anche in casa sua, memore degli anni in cui nemmeno quelle quattro mura avevano rappresentato un luogo sicuro per lui.
Comunque, gli incubi erano tornati all’incirca nel periodo in cui aveva tagliato i ponti con Christelle, la sua prima amica a Hogwarts. Per anni aveva avuto la convinzione che fossero anime affini; l’aveva idolatrata e, nell’ingenuità prepuberale, le aveva dato tutto se stesso, finché non era risultato essere tutto inutile. Come chiunque altro nella sua vita, alla fine anche Christelle lo aveva abbandonato. Non ricordava nemmeno più con quale motivazione, ma ricordava benissimo quanto ci fosse stato male. Nonostante quel periodo non fosse stato dei più facili, sua sorella Isla aveva deciso di cogliere la palla al balzo e lo aveva seguito per mesi, forse con l’intento di consolarlo. Era sempre stato difficile sostenere la sua esuberanza, quindi Draven aveva imparato presto a ignorarla. Era più grande di loro di qualche anno, non sapeva nemmeno di quanti e non gli interessava. Gli aveva fatto da ombra per quasi un anno intero, finché un Draven quattordicenne non le aveva apertamente detto che non aveva il minimo interesse in lei perché aveva la voce stridula, era troppo esuberante e il colore dei suoi capelli gli ricordava quello del succo di zucca. Se l’era ritrovata in giro per i corridoi, qualche mese dopo, con una tinta rosso fuoco. Non solo era riuscito a togliersela di dosso, ma aveva finito con l’aiutarla a essere più affascinante. Se l’era cavata bene, dopotutto! E con quella convinzione, aveva smesso di pensare alle due sorelle e di svegliarsi col ricordo degli incubi. Gli era stato concesso un altro lungo periodo di pausa, prima del periodo peggiore che avesse mai vissuto. Tra poco sonno e tanti incubi, era stato malissimo nelle settimane seguenti la famigerata festa illegalissima di aprile. I pensieri su Megan e Casey avevano preso il sopravvento sul raziocinio; da allora, non aveva avuto pace. Si ritrovava spesso a fissare il vuoto o a piangere o a urlare contro il cuscino per scaricare la rabbia. Il destino aveva voluto che Isla tornasse all’attacco, più di due anni dopo, proprio in quel periodo. Quasi ogni giorno, per circa un mese, gli erano arrivati bigliettini via gufo che gli chiedevano “possiamo vederci oggi?” firmato Isla. Che poi, era assurdo come i gufi riuscissero a trovarlo anche quando cercava di nascondersi.
Alla fine, in un giorno di maggio, aveva ceduto e aveva acconsentito a vederla. Contro la propria volontà, poteva dire di conoscerla meglio anche di sua sorella e sapeva che avrebbe continuato a insistere anche all’infinito, quindi dargliela vinta era l’unico modo per togliersela di dosso. O almeno, ci sperava.
Dopo un lungo monologo su come Christelle e il suo fidanzato Daniel Qualcosa fossero rimasti a studiare negli Stati Uniti dopo uno scambio culturale, i compiti sempre più difficili, le lezioni del quinto anno e l’esame di materializzazione di suo fratello Oliver, Isla aveva cercato di salutarlo con un bacio sulla guancia. Draven si era scostato subito da lei, schifato, ed era stato accusato di trattarla male solo perché a sua sorella non era mai piaciuto. Non aveva senso. A parte che era sicuro che a Christelle fosse piaciuto e anche parecchio, non c’entrava niente quel rapporto con Isla. Se avesse pensato che quella ragazza potesse essere in grado di capirlo, glielo avrebbe spiegato; invece, era rimasto in silenzio. E si era poi sentito dire che era ingiusto il modo in cui la trattava, visto che tutti a scuola sapevano che aveva un debole per le Grifondoro… Inaspettatamente, aveva detto qualcosa di interessante. Quella frase lo aveva fatto riflettere parecchio, perché, forse, per la prima volta in vita sua, Isla non aveva detto una stronzata. Eccezion fatta per Megan che era Corvonero, la lista di donne Grifondoro che avevano fatto parte degli ultimi anni della sua vita, in un modo o in un altro, era veramente lunga; partendo da Christelle che era stata la prima, per arrivare ad Alice che era l’ultima, attraversando gli interventi minori come la nipote di un’amica di sua nonna che, dopo anni, ancora qualche ormone in subbuglio glielo dava, l’amica di Christelle su cui aveva ripiegato quando Christelle lo aveva ‘mollato’, la ragazza che al secondo anno lo aveva aiutato a superare le lezioni di erbologia... Fatto stava che Isla era gelosa di non essere mai stata tra queste. Fu certo di averla sognata quella notte perché, il mattino dopo, si era svegliato nervoso e con un gran mal di testa, del tipo che solo i logorroici sanno procurarti. La fortuna dei suoi incubi era che non si svegliava quasi mai con la consapevolezza di ciò che aveva sognato, il più delle volte era solo l’eco di una sensazione, che però gli pregiudicava l’umore del resto della giornata.

Venny, sei troppo pesante, non riesco a portarti in braccio a letto. Alzati, dai.
I toni sempre esagitati di sua madre, che era in grado di generare panico anche durante la scelta dei gusti del gelato, lo costrinsero a svegliarsi. Lo stava tirando per un braccio e sembrava che ci stesse anche mettendo forza, ma non lo aveva minimamente smosso. Si era addormentato sul tavolo della cucina, le cuffie si erano spostate dalle orecchie e, come un sussurro, gli fecero arrivare solo qualche nota finale di “Sad but true”, dei Metallica. Le spense e se le tolse, lasciandole ricadere sul tavolo con un gesto lento. Il solito e unico orologio digitale posato sul davanzale segnava le 2.24.

Dove sei stata fino a quest’ora? – si ritrovò a chiedere, con la voce impastata di sonno. Da sveglio e reattivo, non glielo avrebbe mai chiesto. Il rapporto con sua madre si limitava al minimo indispensabile. Invece, in quel momento cercò, addirittura, di mettere a fuoco la sua figura. Era truccata ed era sicuro che quella mattina, quando l’aveva vista uscire per andare al lavoro, non avesse indossato il vestito scollato rosso corallo che aveva indosso in quel momento.
Cecilia sembrò improvvisamente a disagio, ma un bagliore di lucidità si fece largo sul suo viso: conosceva poco di suo figlio, era una colpa che si portava dietro da anni, ormai, ma di una cosa era certa…

Ne parliamo domani. Andiamo a dormire.
…Appena sveglio, Draven non era in grado di memorizzare nulla. Si sarebbe dimenticato di sicuro di averla vista quella notte.
Cecilia seguì Draven, che si trascinò stancamente fino alla sua camera. Lo vide buttarsi sul letto a pancia in giù, ancora vestito. Non era andato a lavoro quel giorno, quindi era vestito comodamente con una t-shirt e dei pantaloncini che pensò potesse tenere anche per dormire. Gli sollevò le gambe in modo che fosse, almeno, disteso per intero sul letto e non con i piedi penzoloni oltre il materasso.
Si era messo in una posizione, a suo avviso, molto scomoda, con la faccia schiacciata sul cuscino e il corpo tutto storto, le spalle irrigidite. Cecilia rimase a fissarlo con dolcezza per diversi secondi; gli scostò delicatamente i capelli dalla fronte, prima di chinarsi su di lui e posargli un bacio sulla tempia. Sembrava così tenero, mentre dormiva. Ancora piccolo. Vulnerabile. Era cresciuto troppo velocemente.

Perché… basta Grifondoro…
Lo sentì biascicare in tono lamentoso, nel sonno. Non riusciva a stare tranquillo nemmeno quando dormiva.
Con un sospiro, si mise a sedere sul bordo del letto. Se Draven l’avesse scoperta, si sarebbe arrabbiato da morire. Odiava essere toccato dalle persone, da chiunque. Ma non riuscì a resistere all’impulso, era pur sempre sua madre e, nonostante tutte le difficoltà, sperava solo di vederlo felice: con estrema delicatezza, gli accarezzò il viso e continuò a farlo finché non vide i muscoli della schiena e delle spalle rilassarsi.



QoeTAPdpoint of view Le maniche della camicia erano risvoltate fin sopra i gomiti. Da bianca era diventata quasi trasparente da quanto ci stava sudando dentro ormai da ore. Il colletto lo aveva sbottonato poco prima, così come la cravatta era allentata in maniera disordinata per consentirgli di respirare più facilmente. Dentro quel maledetto negozio non filtrava aria nemmeno a pregarla. Aveva provato a tenere aperte porta e finestre per fare corrente, ma per come erano sistemate nel negozio non c’era verso che potessero generare circoli d’aria. Non potendo usare la magia, aveva chiesto a Sinister di incantare un ventilatore affinché generasse aria fredda senza corrente, ma l’idea di toccare o avvicinarsi o, addirittura, tenere in negozio un oggetto babbano lo aveva mandato fuori di testa. Morale della favola: Draven aveva continuato a sciogliersi giorno dopo giorno, crogiolandosi tra calore e noia. I clienti scarseggiavano; evidentemente anche i maghi oscuri andavano in vacanza. Chissà dove erano soliti andare in vacanza i maghi, in generale. Esistevano dei villaggi nelle zone di mare per soli maghi? Oppure ai purosangue non piaceva il mare e preferivano la montagna? O, ancora, magari erano più tipi da escursione campestre? Disteso sul bancone del negozio a mezzo busto, abbandonato completamente a peso morto con la testa ciondoloni, pensò che il cervello stesse subendo una mancanza di ossigenazione. Non si sarebbe sorpreso di scoprire di aver anche sviluppato un’allergia alla polvere, visto che con quell’afa si era ritrovato a ingoiare interi batuffoli contro la propria volontà. Era come se tutto, in quel negozio, gli remasse contro nel tentativo di mandarlo via e costringerlo a restare a casa un po’ di più. Si disse di non avere altra scelta e trovare un compromesso: quattro o cinque giorni a settimana di lavoro, andavano più che bene, e i restanti due o tre giorni a casa, a respirare vera aria e ossigenare il cervello. Aveva avuto pochissimo tempo per leggere e pochissime energie per poter fare qualsiasi altra cosa. Se aveva iniziato a chiedersi dove passassero le vacanze i maghi, era evidente che stava iniziando a restare a corto di neuroni.
Con la coda degli occhi intravide la figura di Sinister dirigersi a passo incerto verso la porta del negozio. Sorreggeva a fatica una grossa scatola contenente qualcosa di evidentemente pesante e rumoroso: ogni passo del negoziante veniva accompagnato con un sinistro clink, come di bottiglie che tintinnano tra loro.

La porto io! – scattò in piedi il giovane serpeverde, con ritrovato entusiasmo al pensiero di poter fare una consegna fuori da quel forno.
In tutta risposta, Sinister rischiò di inciampare sui propri passi talmente si era spaventato dall’improvvisa ripresa del garzone.

Credevo fossi morto. Stavi anche iniziando a puzzare come un morto.
Draven si limitò a fissare il vecchio datore di lavoro con uno sguardo carico di disprezzo. Non era colpa sua se lì dentro stava diventando invivibile; era, in effetti, un miracolo che fosse ancora vivo. Che entrambi fossero ancora vivi! Come faceva quel maledetto vecchio a non avere addosso nemmeno una goccia di sudore? Si chiese se nei meandri del negozio, lì dove se ne stava per ore e ore, non nascondesse un qualche tipo di elisir di lunga vita o un più semplice refrigeratore magico che non voleva condividere.
Avrebbe indagato in uno dei tanti giorni di noia. Per il momento, era meglio concentrarsi su quella consegna senza fare domande: aveva bisogno di prendere aria e uscire da lì il prima possibile.
Il vecchio aveva preparato una passaporta illegale per consentire a Draven di attraversare mezza città in un attimo, così da permettergli di effettuare la consegna in un battibaleno. L’idea di viaggiare in maniera non supervisionata, con i rischi che una simile azione comportava, sia fisici che legali, non lo entusiasmava affatto, ma considerava anche l’importanza della velocità e la totale ignoranza del negoziante sui mezzi pubblici babbani che, comunque, lui odiava prendere.
Alla fine, la passaporta non registrata aveva compiuto il suo dovere senza spaccarlo o farlo perdere nei meandri dell’etere. Se non fosse che durante la consegna una delle bottiglie nella scatola gli aveva scolato addosso qualsiasi cosa fosse che aveva fallito di contenere, e che aveva un odore nauseabondo, poteva ritenersi soddisfatto di come erano andate le cose. Considerando che Sinister aveva realizzato quella passaporta per un solo viaggio, quello di andata, si sentì pienamente in diritto di passare da casa per cambiarsi, prima di tornare a lavoro; evidentemente, non aveva tutta questa fretta di riaverlo intorno. Tra il sudore e quella roba viscosa su camicia e jeans, puzzava talmente tanto che le proprie capacità olfattive avevano smesso quasi subito di renderglielo presente, come se si fossero addormentate per salvaguardare la loro funzionalità, per evitare di bruciarsi per sempre o qualcosa del genere. Fortunatamente, aveva avuto la lucidità mentale di portare con sé la borsa scolastica; non solo perché teneva al suo interno le sigarette, e se ne accese una per scaricare un po’ di nervosismo, ma perché ci teneva anche le chiavi di casa.
Dalla zona in cui aveva recapitato il pacco di Sinister, per poter arrivare nel proprio quartiere aveva dovuto prendere la metro. Prima il treno dalla periferia per raggiungere la linea marrone, sei fermate la prima tratta più altre sei per raggiungere la coincidenza con la linea verde, poi altre quattro fermate per arrivare a destinazione. Per quanto odiasse prendere la metro e fosse stato un viaggio piuttosto lungo, non era stato troppo spiacevole perché nessuno aveva osato avvicinarsi a lui, presumibilmente a causa del pessimo odore che emanava, ma gli sguardi carichi di giudizio e disgusto lo avevano fatto irritare parecchio. Uscito alla sua fermata, si era acceso un’altra sigaretta e aveva camminato a passo talmente svelto che era arrivato davanti casa sua ancora prima di averla finita. Prese le chiavi dalla borsa e inserì quella più grande nella toppa superiore della porta d’ingresso; la girò mentre tirava un ultimo paio di tiri dalla sigaretta. Si chiese come mai la chiave non avesse fatto i tre giri con i quali era stata chiusa da lui stesso solo qualche ora prima, ma era troppo stanco e sporco per pensarci. Ne varcò la soglia che aveva ancora il fumo della sigaretta nei polmoni. Lo espirò via alzando lo sguardo davanti a sé e quasi gli andò di traverso.
Gli occhi avevano incontrato subito quelli terrorizzati di sua madre, prima di alternarsi in maniera frenetica, come la pallina di un flipper, tra la schiena nuda di Cecilia con indosso solo un paio di mutande seduta a cavalcioni per terra e la donna sotto di lei, altrettanto poco vestita e particolarmente colorata di tatuaggi, che la sorreggeva per le cosce. Non seppe capire, in quel momento, se la cosa più sconvolgente fosse stata la constatazione che sua madre avesse un’attiva vita sessuale o che l’avesse con una donna o che l’avesse sorpresa in procinto di, ma pensò che non sarebbe mai più entrato in casa senza preavviso.

Draven!
Il suo nome non gli era mai sembrato così cacofonico come in quel momento. La voce di Cecilia era venuta fuori dalle sue labbra in un sussurro tremolante che gli aveva fatto scorrere brividi gelati lungo la schiena e che aveva mentalmente paragonato al mugolio addolorato di un animale ferito.
Disse qualcos’altro, gli sembrò che anche la sua compagnia avesse detto qualcosa. Si erano ripetute il suo nome un paio di volte, non era riuscito a capire altro. Era rimasto sul ciglio della porta che, perlomeno, aveva avuto il buon gusto di chiudersi alle spalle prima di paralizzarsi come una statua di sale. Solo quando vide Cecilia accennare un movimento e incrociare le braccia al petto per coprirsi, nel presumibile tentativo di voltarsi verso di lui, riuscì a destarsi da quella specie di trance in cui era caduto. Deviò lo sguardo e i piedi, per suo immenso sollievo, ripresero a camminare per portarlo, spediti, verso il bagno.
Ci si chiuse dentro a chiave. Aprì l’acqua della doccia ancora prima di togliersi di dosso quei vestiti sporchi. Lo aveva fatto per istinto, come se avesse voluto proteggersi dal sentire qualsiasi suono o parola proveniente dall’esterno di quelle quattro piccole mura. Aveva imparato a fidarsi del proprio istinto, lo riteneva pressoché infallibile, ormai; non lo aveva interrogato nemmeno quando si era fatto spingere da lui dritto in bagno prima di passare in camera sua… Ciò significava che avrebbe dovuto attraversare di nuovo la sala per andare a vestirsi.
Non riusciva a credere a ciò che aveva appena visto e provò, addirittura, a dirsi che se l’era immaginato. Mentre l’acqua fredda prese a scorrergli tra i capelli e lungo il corpo, chiuse gli occhi e provò a tenere la mente occupata con canzoni e poesie che prese a ripetersi come un mantra, ma dietro le palpebre chiuse continuava a esserci solo e soltanto la scena a cui aveva appena assistito.
Draven non poteva saperlo, ma Cecilia era andata a rifugiarsi nella sua stanza. Sedeva, tutta raggomitolata su se stessa, tra i cuscini del letto. La donna tatuata era seduta vicino a lei, in ginocchio sulle lenzuola. Le accarezzava la schiena in un moto perpetuo, come a volerla consolare. Si erano rivestite entrambe.

È incazzato a morte.

È un adolescente, è incazzato a prescindere. Non puoi sapere cosa sta pensando se non gli parli.
Dalle labbra di Cecilia era sfuggita una risata amara. Aveva scosso la testa, prima di alzare lo sguardo sulla donna.

Tu non sai com’è. – iniziò a dire Cecilia, con la voce rotta di pianto. Era tornata subito a testa china sulle ginocchia, abbracciate contro il petto. Sembrava voler dire altro, quindi la donna di fianco a lei rimase in silenzio.

Quegli occhi freddi, iniettati di sangue… Suo padre era uguale. – proseguì, singhiozzando.
La donna tatuata sussultò appena, come se fosse stato scoperto un nervo particolarmente sensibile.

Non è vero. Non lo pensi davvero. È anche tuo figlio, non può essere solo come lui, no? E se ha ereditato qualcosa da te, deve avere qualcosa di buono.

Ci sopravvaluti entrambi.
La donna sospirò. Parlare con Cecilia quando era turbata era una causa persa, ma non aveva la minima intenzione di demordere. Con delicatezza le si avvicinò. La mano dalla schiena si era spostata dietro la nuca.

Non dire così. Non è vero. Sei una donna splendida, lo sa anche lui. Ti vuole bene. Dovete parlarne.

No. Non mi vuole bene. E non posso nemmeno fargliene una colpa…
La donna fu sul punto di controbattere, ma la porta del bagno che si aprì la fece ridestare. Cecilia fu scossa da un tremito e, in risposta a quel suono, si strinse ancora di più in se stessa; sembrava come se stesse cercando di nascondersi. O di sparire.
Draven raggiunse la sua camera in tre lunghe falcate veloci. Fu sollevato di non vedere le due donne in sala e gli tornò in mente l’ipotesi dell’allucinazione. Era una magra consolazione, ma era pur sempre qualcosa. Nei minuti passati sotto la doccia, tra citazioni e jingle, si era interrogato un po’ più a fondo sulla questione. Si era reso conto quasi subito che lo shock era stato istigato dal semplice fatto che sua madre avesse una vita sessuale. Aveva 34? 35? 36 anni? Giù di lì. Insomma, era ancora molto giovane, non c’era niente di strano… Solo che nessun figlio vuole scoprire i propri genitori a fare sesso; anche peggio se si trattava di un solo genitore impegnato a farlo con un totale sconosciuto. Considerando che per anni aveva portato avanti una relazione felice con suo padre, un uomo, si era chiesto se fosse stata costretta dai pregiudizi a tenere nascosto il suo orientamento sessuale, se lo avesse scoperto dopo o se, semplicemente, si era innamorata di quella donna a prescindere dal sesso. Ma soprattutto, riguardo l’ultima ipotesi, erano innamorate? Era una cosa seria? Da quanto andava avanti? Come e dove si erano conosciute?
Sbuffò, spostandosi tra comodino e armadio per prendere i vestiti. Considerando quanto poco si parlavano lui e sua madre, era improbabile credere che avrebbe ottenuto risposte a tutte quelle domande: lui non le avrebbe mai poste, lei non si sarebbe mai lanciata a dirgliele di sua iniziativa.
Mentre era intento ad abbottonarsi la camicia bianca, pulita, bussarono alla porta della sua stanza. Era completamente vestito, gli mancavano solo le scarpe, ma non disse niente perché non aveva la minima voglia di vedere sua madre in quel momento… Ma la porta si aprì comunque dopo qualche secondo di silenzio.
Draven volse lo sguardo, scocciato all’idea che Cecilia potesse fargli perdere tempo con chissà che discorsi imbarazzanti, ma si ritrovò a incrociare lo sguardo della donna tatuata. Gli occhi verdi si strinsero in due fessure, in un’espressione che definire adirata sarebbe un eufemismo.

Hey… ehm… Scusa l’intrusione. È che dai l’impressione di essere un po’ di fretta e ci tenevo a presentarmi prima di vederti andare via.

Chi cazzo sei per entrare in camera mia così?

Uh. Ok, siamo arrabbiati. Mi dispiace. Credo che abbiamo iniziato col piede sbagliato…?

Tu credi?!
La donna arricciò le labbra in un sorriso divertito che, palesemente, stava cercando di trattenere. Aveva l’aria di essere una persona incapace di provare nervosismo e quella prima impressione, per contromisura, non fece che rendere Draven ancora più furioso.

Mi chiamo Eliana. Ho ventotto anni compiuti da poco e sono nata e cresciuta a Londra. Tua madre mi ha parlato tanto di te, non vedevo l'ora di conoscerti.
La donna protese una mano in direzione di Draven con l’intento di stringerla e compiere il rito di presentazione, ma Draven non la degnò nemmeno di uno sguardo. Continuava a fissare i suoi occhi in cagnesco.

Esci immediatamente dalla mia stanza. – sibilò tra i denti, in un tono talmente minaccioso da risultare abbastanza convincente da far indietreggiare la donna, che alzò le mani in segno di resa. Draven si mosse, andandole incontro, solo per poterle sbattere in faccia la porta.
Con il cuore a mille e il respiro corto di rabbia, si mise a sedere sul bordo del letto per indossare le scarpe. Visto che aveva infilato in lavatrice anche le vans rosse, optò per le converse nere. Per sua fortuna, la borsa scolastica non era stata intaccata dalla pozione maleodorante, solo in parte sulla bretella; la cambiò con quella di un vecchio zaino che teneva sul fondo dell’armadio. Se la sistemò a tracolla e uscì dalla camera.
Eliana era ferma, in piedi, davanti alla porta della sua stanza, a braccia incrociate sul petto. Era alta la perfetta via di mezzo tra lui e sua madre, ma in quella posa aveva un che di imponente, come se fosse stata alta più di due metri. Non voleva proprio demordere; era testarda a livelli snervanti.

Fai sul serio?! Ma che cazzo di problemi hai?

Ok, allora arrivo al sodo: comportandoti in questo modo fai soffrire tua madre.

Saprà come consolarsi. Stava bene fino a poco fa…

Già. Stava bene, prima che tu reagissi così. Mi dispiace, sul serio, ma parlale, almeno.
L’espressione di Draven era un misto di disgusto e rabbia cieca. Non ribatté, perché la tipa tatuata aveva ragione. Ma era una situazione surreale! Non poteva credere che stesse davvero accadendo tutto ciò. Se Cecilia voleva parlargli, perché non c’era lei lì davanti a lui? Perché, come sempre, sperava che il tempo gli facesse dimenticare ogni dubbio, ogni domanda, ogni curiosità o necessità? Sperava che Draven passasse più tempo dalla nonna o alla scuola così da non averlo mai intorno? Il figlio non richiesto che gli bazzicava in giro per casa, mangiava il suo cibo e irrompeva nei suoi momenti felici.
Per un attimo, fu tentato di contattare Lilien e chiederle di andare da lei in Irlanda. Ma scartò subito l’ipotesi, per salvaguardare quel po’ di sanità mentale che gli rimaneva. Poteva chiedere asilo al Paiolo Magico finché non fosse arrivato il momento di tornare a scuola… ma non poteva permettersi di pagare tutte le notti che lo dividevano dalla libertà. L’unica via d’uscita era lavorare. Lavorare aveva la priorità, per la propria indipendenza economica così, magari, qualche notte fuori sarebbe riuscito a permettersela.
Senza aggiungere altro, si spostò di lato per superare la donna che gli stava bloccando il passaggio. Aveva totalmente perso la cognizione del tempo e doveva tornare da Sinister il prima possibile. Sarebbe stato costretto a prendere la metro per fare prima; due volte in un giorno, non gli succedeva dai tempi della scuola elementare. Prima di raggiungere la porta d’ingresso, però, una mano lo afferrò saldamente per un braccio per fermarlo.

Senti, mi dispiace. Dev’essere stato –
Le parole vennero interrotte dalla brusca reazione di Draven che, per scrollarsi la mano di dosso, destabilizzò l’equilibrio della donna.

Non mi toccare. Stai cercando una possibilità per scopare anche me, per caso?

Ugh… Prima cosa: ugh. – ribatté la donna, con un’espressione schifata in viso.
Draven era fuori di sé. Se avesse detto un’altra cosa sbagliata, non ci avrebbe capito più niente. Sentiva che tutta la rabbia repressa nel corso degli anni stava per uscire come lava da un vulcano in eruzione. Quelli erano solo i primi lapilli. Eliana non aveva la minima idea in cosa si fosse andata a cacciare.

Secondo: sei un bambino. Inoltre, non sono interessata al sesso maschile.

Lo avevo notato.

Punto terzo: mi dispiace, non avrei dovuto irrompere nei tuoi spazi così. Questa è anche casa tua e ti ho mancato di rispetto. Ma sono innamorata di tua madre e intendo stare con lei, che a te piaccia o no. È stato un incidente, non ricapiterà più una situazione come quella a cui hai assistito, ma avrei piacere di continuare a passare da qui quando tua madre lo vuole.
Cominciò a dire la donna, parlando molto velocemente, come per paura di non avere tempo di dire tutto ciò che voleva dire. Tempo che Draven le concesse solo perché, con la coda degli occhi, aveva visto sua madre uscire dalla camera da letto, il viso gonfio di pianto. Il cuore aveva mancato un battito a quella vista. Nonostante tutto, non gli faceva piacere che sua madre stesse male… Le rivolse un rapido sguardo, con quei freddi occhi verdi ancora ricolmi di furia, poi uscì di casa: accompagnato dalle parole di Eliana, che si ritrovò, di nuovo, una porta chiusa in faccia.




YZmx7rythe new normal La testiera cigolante del letto e il materasso con delle molle particolarmente aggressive lo avevano infastidito tutta la notte, ormai da due notti. Aveva provato a farsi cambiare stanza dopo la prima esperienza, ma sembrava che il Paiolo Magico fosse parecchio frequentato in quel periodo. Non era tornato a casa perché aveva bisogno di stare da solo, ma si era ritrovato comunque circondato da esseri umani. Era andato tutto storto, quel giorno; a partire dal caldo, proseguendo con l’incidente della pozione, l’altro incidente e infine i turisti. Era andato al Paiolo dopo aver finito il turno da Sinister. Aveva comprato un semplice bracciale in corda di cuore di drago in negozio e lo aveva rivenduto a una strega francese a Diagon Alley al doppio del prezzo, spacciandolo per un magico bracciale protettivo… Si era sentito un po’ stronzo a truffarla, ma non gli era sembrata a corto di galeoni, anzi; e lui ne aveva estremo bisogno. Poteva dormire sonni tranquilli sapendo di aver aiutato un ragazzo in difficoltà? Con quei soldi era riuscito a pagarsi due notti fuori. Forse, aveva fiuto per gli affari, o per le truffe, dipendeva dal punto di vista, probabilmente.
Subito dopo, era andato in un negozio babbano per comprare dell’intimo e un paio di t-shirt, visto che era uscito di casa senza portarsi dietro dei cambi; gli stava anche bene vivere come un senzatetto, ma non riusciva a tollerarsi sporco. In quanto a sterline, però, era messo anche peggio. Considerando il costo delle sigarette e di almeno un paio di pasti, gli era rimasto pochissimo nel portafogli.
Comunque, nonostante tutto, almeno quella prima serata era stata interessante. Dato che il cibo al Paiolo Magico aveva un aspetto riprovevole, era uscito a prendersi una pizza e si era ritrovato a pensare che fosse la pizza più buona che avesse mai mangiato in tutta Londra. Al rientro, aveva incontrato i suoi vicini di stanza, una coppia di Tokyo che lo aveva fermato per chiedergli informazioni. Erano stati educati e gli avevano fatto subito simpatia, quindi aveva deciso che per riportare il karma dalla sua parte, dopo la truffa, non poteva far altro che aiutarli. Aveva cercato di comunicare con loro, che allo stesso modo avevano cercato di farsi capire, ma era stato difficilissimo, vista la barriera linguistica. Aveva provato a chiedere loro della scuola magica in Giappone e gli aveva parlato di alcuni manga che leggeva sin da bambino, ma alla fine della conversazione aveva rischiato di addormentarsi lì in piedi, in corridoio, e il giorno dopo si era svegliato senza nemmeno ricordare le loro risposte. Poi la notte era stata infernale e aveva dormito malissimo. L’idea di tornare in quella stanza dopo un’altra giornata di lavoro lo aveva tenuto teso e nervoso per tutto il giorno. Non che avesse altre opzioni fattibili.
Quantomeno, quella specie di vacanza fuori porta gli era servita a fargli rivalutare molto della sua casa, della presenza di sua madre e della situazione in generale. Aveva appena scoperto che c’erano cose peggiori e che, nonostante tutto, potesse ritenersi fortunato; quantomeno, sia a Hogwarts che a Londra godeva di parecchi comfort. Non aveva mai vissuto nel lusso, ma non gli era mai nemmeno stato fatto mancare nulla. Fare il conto di quanti galeoni avesse ancora in banca non gli era piaciuto per niente. Fino a quel momento, la questione finanziaria non lo aveva mai toccato. Ne aveva tante da dire su Lilien e Cecilia, però da quel punto di vista non avrebbe mai potuto lamentarsi.
Aveva preso a girarsi e rigirarsi su quel maledetto materasso sgangherato, cercando una posizione che gli consentisse di dormire senza ottenere altri lividi ovunque. Dopo chissà quante ore, ci aveva perso le speranze. Forse perché il proprio cervello era consapevole del fatto che non meritasse di riposare, visto che il giorno dopo non doveva andare a lavoro e che, per mancanza di fondi, non poteva far altro che tornare a casa. Scese dal letto, spazientito, e si avvicinò alla borsa per prendere il cellulare. Lo aveva tenuto spento per due interi giorni… Prima di riaccenderlo, si interrogò sulla situazione. Se da una parte si aspettava che sua madre non lo avesse cercato, dall’altra sperava lo avesse fatto. Non si era mai mostrata preoccupata davanti a lui. Era sempre stata fredda e schietta. Vederla con gli occhi gonfi di pianto era stato shockante quasi quanto tutto il resto.
Non appena riaccese il cellulare, lo schermo prese a illuminarsi a intermittenza con una quantità di notifiche che non aveva mai visto. Contò trentasei messaggi che lo avvisavano di essere stato chiamato da sua madre in quel lasso di tempo. Provò a scorrere oltre, visto che sembrava che ce ne fossero altri, ma lo schermo sfrigolò. Draven provò a scuotere il cellulare, come se qualche colpetto potesse bastare a farlo riprendere a funzionare correttamente, ma gli si spense in mano dopo pochi secondi, senza dare più alcun segno di vita.

Maledetta barriera magica… - sibilò tra i denti, rimettendo il cellulare nella borsa scolastica, insieme a tutto il resto che aveva sparpagliato sul pavimento. Si era così concentrato sulle notifiche che non aveva nemmeno visto che ore fossero, ma non gli importava. Voleva tornarsene a casa sua.
Si vestì, prese tutte le sue cose e uscì.
L’aria era fresca e piacevole. Non c’era nessuno in giro, era piena notte.
Superata la zona del Paiolo Magico di qualche metro, riprovò ad accendere il cellulare. Fortunatamente, funzionava. Venne invaso da altre notifiche, ma non le aprì neppure. “Sto tornando”, scrisse e inviò il messaggio a sua madre. Immediatamente ricevette in risposta un “Ok”. Era evidente che fosse rimasta tutto il tempo a fissare il cellulare in attesa di sue notizie; o, almeno, così sentì lui di poter giustificare la pronta risposta. Alzò lo sguardo sull’angolo in alto a destra del telefono, lì dove era segnalata l’ora: erano le 2.24. Ebbe una specie di dejavu che non riuscì a spiegarsi…
Si infilò il cellulare in tasca e si avviò verso casa. La metro a quell’ora era chiusa e di prendere gli autobus notturni in mezzo a babbani ubriachi e molesti non era proprio il caso.
Cuffie alle orecchie, camminò a testa china per quel lunghissimo tratto di strada che faceva quasi tutti i giorni, ormai, da quasi un mese. Una quantità di canzoni e di sigarette dopo, finalmente giunse a casa. Esitò qualche istante, prima di aprire la porta. Sentiva di doversi preparare psicologicamente a dover affrontare non una, ma due donne presumibilmente sull’orlo dell’isteria. Sua madre di sicuro. A meno che la preoccupazione non avesse avuto la meglio, in quei due giorni.
La serratura scattò senza giri, proprio come nel giorno dell’incidente e nonostante avesse ripetuto più e più volte a sua madre di chiudersi dentro quando lui non era in casa.
Cominciava malissimo. Aveva i nervi a fior di pelle.
Non appena aprì la porta, si ritrovò subito con lo sguardo rivolto sul viso di sua madre, seduta in cucina. La vide alzarsi ancora prima che lui potesse mettere piede in casa. Quando superò la soglia e si chiuse la porta alle spalle, sua madre gli stava già davanti.
Aveva gli occhi gonfi di pianto fissati nei propri. La vide protrarsi verso di lui e pensò che stesse per abbracciarlo, ma sembrò ripensarci subito… In effetti, sarebbe stato strano. Non si davano dimostrazioni d’affetto da quando aveva tre anni o giù di lì.

Dove sei stato? – gridò Cecilia e Draven, in tutta risposta, alzò lo sguardo al cielo, sbuffando. Le volse le spalle senza ribattere; odiava il modo in cui gli si rivolgeva quando era nervosa. Urlava sempre, perché non sapeva dire le cose con un tono di voce che non fosse irritante? Era stato stupido a pensare, per un attimo, che l'avrebbe trovata felice che fosse vivo e illeso…
Prima che Draven potesse raggiungere la propria stanza, si sentì afferrare per un braccio e tirare forte dal verso opposto al quale stava camminando.

Dove credi di andare, ragazzino? Non puoi fare come ti pare. Mi devi delle spiegazioni.
Lo sguardo di Draven s’indurì di nervosismo e rimase a fissarla, in silenzio, con un’espressione accigliata. Non aveva le forze per discutere con sua madre alle quattro e mezzo di notte, dopo due intense giornate di lavoro e la carenza di sonno.

Ho dormito al Paiolo Magico.

Che nome buffo per un hotel. Non lo conosco, dove si trova?
Entrambi Draven e Cecilia si volsero di scatto in direzione dalla quale avevano sentito provenire la voce. Eliana era sull’uscio della camera da letto di Cecilia; indossava una canotta nera e un paio di pantaloncini inguinali. Si stropicciò gli occhi e sbadigliò sonoramente, prima di riuscire a ricambiare il loro sguardo. Cecilia era ancora troppo arrabbiata con Draven per concederle uno sguardo più dolce, ma non gliene faceva una colpa; era lo sguardo del ragazzo a farle venire i brividi, non sapeva proprio decifrarlo: disgusto? Nervosismo? Entrambe le cose?

Può almeno tenersi addosso dei vestiti quando ci sono anche io?
Lo sguardo di Draven era tornato su sua madre. La donna, in evidente imbarazzo, sembrò essersi improvvisamente ricordata il motivo per cui suo figlio era stato via da casa per due giorni senza darle notizie. Si limitò ad annuirgli e gli lasciò andare il braccio.
Draven scoccò un’occhiata a entrambe e vide Eliana dargli le spalle mentre indossava, diligentemente, una felpa che la coprì più della canotta e degli shorts insieme.

Io me ne vado a dormire. Non fate casino. – sentenziò poi, dando le spalle a sua madre. Con la coda degli occhi la vide sussultare e volgere lo sguardo verso Eliana.

Buonanotte, Venny! – sentì dire ad alta voce dall'ospite, mentre si chiuse la porta di camera alle spalle. Odiava quel nomignolo sin da quando era bambino. Era incredibile come nelle poche interazioni avute con lei non avesse fatto altro che irritarlo in ogni modo possibile, sembrava ci trovasse gusto. La sentì addirittura ridere.
Come faceva sua madre a sopportare una donna del genere? Bella era bella, parecchio anche, ma era insopportabile.




oi6c3WNpineapple pizza Il pallone da calcio rimbalzava sul collo dei piedi di Draven in maniera alternata e ritmica. Aveva smesso di tenere il conto di quanti palleggi riuscisse a fare di seguito quando aveva capito che per formare le squadre ce ne stavano volendo troppi. Aveva smesso anche di seguire la vicenda. Se ne stava lì, vicino alla porta, una sigaretta tra le labbra e lo sguardo basso sull’erba. Gli era sempre piaciuto il modo in cui i raggi del sole si riflettevano su quel prato; era l’unica cosa bella del suo quartiere. Se si mantenevano bassi gli standard di bellezza: le tribune avevano gradini mancanti e altri rotti dalle intemperie, le porte del campo avevano le reti distrutte e la linea di metà campo era segnalata da bruciature sul terreno. Non era minimamente paragonabile al giardino di Hogwarts. Niente del mondo babbano era paragonabile a Hogwarts. Quelle persone intorno a lui, che stavano discutendo di come formare le squadre per fare una partita a calcio e dove andare a cercare qualche altro giocatore per essere undici contro undici, non avevano la minima idea di quanto divertente fosse il quidditch.

Non dovresti fumare.
La voce di una ragazza colse l’attenzione di Draven, che alzò istintivamente lo sguardo su di lei, prima di rivolgerlo intorno, spaesato, per assicurarsi che ce l’avesse con lui. Non la conosceva. E gli aveva appena fatto perdere la concentrazione sul palleggio.
In tutta risposta, Draven prese un lungo tiro dalla sigaretta e lo espirò sbuffando. Si chinò a raccogliere la palla e, come se niente fosse, riprese a palleggiare.

Non ti fa male, per correre?
Proseguì la ragazza, ma stavolta Draven nemmeno alzò gli occhi su di lei e rimase concentrato sul palleggio. Lui non doveva correre, giocava come portiere, poteva fumare quanto gli pareva prima di una partita. Non era di certo un professionista. Inspirò un altro tiro e il ricordo dell’esperienza con gli zombie vissuta insieme ad Alice gli balenò nella testa… In quell’occasione aveva fatto una fatica enorme a correre e ricordò di essersi ripromesso che avrebbe ripreso a fare sport con più costanza; all’epoca non aveva ancora ricominciato a fumare regolarmente, ma era risaputo che sigarette e attività sportive non andavano d’accordo. Colto, così, da un improvviso senso dell’onore, nei confronti di una vecchia promessa fatta a se stesso e che aveva finito col dimenticare, buttò a terra la sigaretta e la spense in un punto in cui il terreno era più arido, intorno a uno dei pali della porta. Evidentemente la ragazza fraintese il gesto, pensando che Draven avesse voluto seguire il suo suggerimento, perché gli si avvicinò per dargli una pacca sulla spalla. Il giovane serpeverde si ritrasse d’istinto come se avesse preso una scossa di corrente e alzò lo sguardo su di lei, con la sua solita espressione stizzita in viso. Corrucciò lo sguardo e rimase a guardarla storto per qualche secondo, prima di allontanarsi da lei, lasciando lì il pallone che lo aveva intrattenuto fino a quel momento.

Hey! Se non avete risolto entro cinque minuti me ne vado. – disse a voce alta, rivolto al gruppo di ragazzi che era rimasto lì al campo a discutere delle formazioni. Era sicuro che prima ce ne fossero di più; forse gli assenti erano andati in giro per il quartiere a cercare altri giocatori.
Aveva accettato di giocare solo per noia. Era tornato presto da un turno da Magie Sinister e aveva incontrato sua madre in casa, perché il destino aveva voluto che anche lei finisse prima di lavorare quel giorno. Dopo qualche minuto di imbarazzo in cui sua madre aveva detto di avere impegni per cena, lasciandogli intuire che potesse essere un modo implicito per chiedergli di restare fuori casa, Draven era uscito dicendole che aveva impegni anche lui e che l’avrebbe avvisata prima di rientrare. Aveva camminato verso il parco per abitudine, solo per perdere tempo, ma era stato incastrato in quella partita che, probabilmente, non sarebbe mai iniziata. Era rimasto lì perché non sapeva dove altro andare; la storia della sua vita a Londra, solo che se in passato era perché stare da solo in casa lo deprimeva, stavolta c’entravano anche sua madre e la sua fidanzata logorroica. La verità era che non gli era mai piaciuto frequentare i ragazzi del quartiere, ma ci era cresciuto insieme, avevano sempre svolto discretamente bene la funzione di distrazione. Era consolatorio anche il fatto che fossero bravi a giocare a calcio.

Non mi riconosci, vero?
Stavolta la voce della ragazza era giunta dalle sue spalle. Con un sonoro sbuffo, Draven si volse a guardarla storto, di nuovo. Per qualche motivo a lui oscuro, più cercava di ignorare le persone più queste insistevano col volere una reazione da lui. Era così difficile capire che non voleva essere infastidito?

Sono la sorella di Dan. – proseguì lei, indicando il ragazzo più alto del gruppo. Anche Dan giocava come portiere, aveva imparato guardando lui, da bambino. Era più grande di cinque o sei anni; quando sei un ragazzino, sembra una differenza di età abissale. Prima della morte di suo padre, quando frequentava la scuola elementare di Gloucester, Draven aveva fatto amicizia con i suoi fratelli più piccoli, due gemelli.

Sei Emily?

No, l’altra sorella. Jenny, nel caso non ricordassi il mio nome. – rispose lei, ridacchiando.
L’altra sorella che aveva avuto più o meno cinque anni l’ultima volta che l’aveva vista. Come pensava che potesse riconoscerla? Non sarebbe riuscito a riconoscere nemmeno Emily e Frankie con i quali aveva condiviso quattro anni di scuola elementare.

Non ti vedevo da tipo dieci anni…

Beh, sì. Sono un po’ diversa. Tu invece sei sempre uguale. – gli rispose la ragazza, a cui Draven finalmente dedicò uno sguardo meno arcigno. Doveva avere dodici o tredici anni, ma era vestita e truccata come una ventenne navigata.

Sei sempre stato schivo, anche se in effetti un po' sembri diverso: peggiorato, direi. – proseguì, continuando a ridacchiare in un modo che mise a disagio Draven. Aveva praticamente rimosso dai propri ricordi il periodo tra l’assenza di suo padre e la sua morte, come se quegli anni non fossero mai esistiti. Riportarli alla memoria gli provocò un moto d’ansia e capì perché aveva finito col dimenticarli.

Ok. – si limitò a risponderle, tenendo lo sguardo fisso in quei suoi occhi chiari e scuriti dalla matita nera. Se ne stava di fronte a lui, leggermente protesa in avanti, con le braccia incrociate dietro la schiena; quantomeno era sveglia e aveva capito che doveva mantenere le distanze, ma non accennava a lasciarlo in pace. Sempre più a disagio, Draven volse lo sguardo verso il gruppo di ragazzi. Ce n’erano altri, più o meno della sua età, seduti sulle tribune insieme ad altre ragazze. Quando era diventato così affollato?

Capita spesso che i gemelli parlino di te. È capitato un sacco di volte, nel corso del tempo. Sei stato la loro prima cotta, credo. Ma penso che l’uno non sappia dell’altro. Ci rimasero malissimo entrambi, però, quando fosti trasferito in un’altra scuola. Eravate così uniti!
Non si era mai chiesto cosa fosse stato riferito alla sua vecchia scuola elementare quando suo padre era morto, sua madre era stata arrestata e lui trasferito dagli assistenti sociali in un orfanotrofio. Ci aveva passato solo pochi mesi lì, ma con l’intervento poi di nonna Lilien non era più tornato in una scuola babbana.

Saranno felici di sapere che stai bene. Dan non ci parla mai di te. – proseguì, forse con l’impressione che a Draven potesse far piacere avere quella conversazione. Era incredibile come nonostante l’incapacità di nascondere le proprie emozioni attraverso la mimica facciale, le persone decidessero di ignorarle e continuare a parlargli quando chiaramente, dalle smorfie che faceva, non gliene poteva fregare di meno.
Stava decidendo se e cosa risponderle, pur di togliersela di torno in maniera educata per non istigare suo fratello, che era sicuro li stesse osservando mentre preparava la formazione, quando sentì il cellulare squillargli nella tasca dei jeans. Lo prese e guardando sullo schermo vide un numero che non conosceva; in altri contesti avrebbe ignorato la chiamata, ma in quel momento fu grato a chiunque fosse di aver interrotto quella conversazione. Anche se, ormai, l’angoscia lo aveva avvolto come un mantello.
Sventolò il cellulare davanti al viso della ragazza, come a dirle silenziosamente che doveva rispondere a quella chiamata, e riuscì ad allontanarsi da lei nel modo educato che aveva sperato.

Pronto?

Ven! Torni a casa per cena? Ho portato la pizza.
La voce squillante di Eliana all’altro capo del telefono lo riportò brutalmente alla realtà. Aveva avuto un tempismo eccezionale, ma non poteva dire di avere davvero voglia di parlare con lei. Continuava a prendersi delle confidenze che Draven non le aveva mai concesso. Ok, si stava frequentando con sua madre, erano affari loro, ma perché insisteva così tanto a voler avere un rapporto anche con lui? Nemmeno la sua stessa madre aveva un rapporto con lui!

Perché hai il mio numero?

L’ho rubato da tua madre. Allora, a che ora torni?

Non lo so, sto facendo una partita di calcio.
Non si sorprese del fatto che la sua esuberanza e la sua sicurezza l’avessero spinta a rubare dal cellulare di Cecilia il suo numero di telefono e a chiamarlo, ma era rimasto così sorpreso da quella domanda che si ritrovò a risponderle senza nemmeno esitare. Da che ne avesse memoria, nessuno si era mai interessato di sapere dove fosse o cosa stesse facendo in giornate qualsiasi.

Ok, non fare tardi. La pizza fredda fa schifo, cerco di tenertela in caldo.

Ok…?
A occhi sgranati, Draven era rimasto a fissare l’erba del campo come se da un momento all’altro potesse aprirsi una voragine che lo avrebbe riportato nel suo mondo. Perché era assurdo, per lui, avere una conversazione simile. Non poteva essere reale. Per di più con qualcuno che conosceva da due settimane o giù di lì e che aveva cercato in ogni modo di ignorare. Considerando che sarebbe tornato presto a Hogwarts, ammettendo pure che la relazione di sua madre sarebbe durata nei mesi seguenti, avrebbe rivisto quella donna… quanto? Due volte in un anno? Era più facile per tutti che restasse fuori dalle loro vite.

Drav! Ci siamo!
Uno dei ragazzi richiamò la sua attenzione e Draven si voltò verso di lui per annuirgli.

Devo andare. – disse poi rivolto a Eliana, riagganciando la telefonata prima che lei potesse dirgli altro.
Rimise il cellulare in tasca e andò a posizionarsi davanti la sua porta.
Il carattere di Eliana gli ricordò un po’ quello di Emily, ora che sua sorella gli aveva riportato a galla il ricordo. Per quanto non fosse mai riuscito a tollerare granché bene le personalità troppo estroverse, erano sempre state quelle in grado di tirare fuori da lui il meglio. Alla sola età di sei anni, Emily aveva preso per mano lui e il suo gemello Frankie, dalla sua stessa personalità timida e chiusa, e li aveva portati in giro per la scuola per i quattro anni seguenti per farli giocare e interagire con gli altri bambini; aveva fatto da apri pista in così tante occasioni che, a ricordarle tutte insieme, gli venne mal di testa. Ebbe l’improvvisa impressione che Eliana stesse facendo la stessa cosa, cercando di creare un ponte di comunicazione tra lui e sua madre.
Era così surreale al punto da estraniarlo.
La partita era cominciata e a malapena aveva seguito le prime azioni. Si destò dal filo dei suoi pensieri quando la palla gli passò di fianco ed entrò in rete senza che nemmeno se ne rendesse conto per tempo.
Rilanciò la palla in campo chiedendosi che pizza avesse preso Eliana per lui e se sua madre si fosse ricordata quale gli piacesse, o se lo avesse mai saputo, pensando che nel caso avrebbe dovuto trovare l’occasione per farlo sapere a entrambe.




7zbarvUREAL-EYES Era una tiepida giornata d’estate. Il sole risplendeva in cielo, circondato da qualche nuvola chiara. Quando era così, si stava bene a Londra. Sedeva all’aperto di un bar di Trafalgar Square; non frequentava mai il centro, ma si era sentito in dovere di portare Megan in un posto che fosse più alla sua altezza. E quel bar era rinomato. Non avevano ancora deciso cosa ordinare, ma non aveva alcuna fretta. Era bello poter stare in silenzio, senza sentirsi a disagio, scambiarsi qualche sguardo complice e poi tornare a leggere il menù. Sembrava così naturale da dargli l’impressione che non fosse la prima volta che uscivano insieme. Però era agitato, aveva sempre paura con lei di dire o fare la cosa sbagliata. Sin da quando aveva incrociato il suo sguardo per la prima volta aveva sentito l’esigenza di aprirsi a lei senza riserve, ma più passava il tempo più si sentiva terrorizzato all’idea di essere giudicato o che potesse non piacerle chi fosse davvero. Non lo conosceva, non sapeva niente di lui. Non voleva e non poteva perderla, ma non riusciva a decidere se fosse meglio essere semplicemente se stesso o fingere di essere una persona più bella, più piacevole. Ci pensava costantemente, pur essendo consapevole che non avesse granché scelta visto che smetteva completamente di ragionare quando la guardava negli occhi. Aveva sempre avuto questo vizio di fissare le persone negli occhi, ma mai nessuno gli aveva scaturito dentro quello che era in grado di fargli provare Megan.

Ok, ho deciso!
La voce di Megan gli arrivò ovattata alle orecchie, come se fosse stata in qualche modo manipolata. A guardarla bene, anche i suoi occhi non erano quelli di sempre…

Sì? Che hai scelto?

Scelgo Casey!
Draven rialzò di scatto lo sguardo su di lei e la vide rimettersi in piedi. Provò a fare altrettanto, ma si rese conto che aveva polsi e caviglie legate alla sedia, improvvisamente incastonata nel terreno.

Aspetta! In che senso? Che significa? – provò a dire, ma la ragazza gli aveva già voltato le spalle e sembrò non averlo neppure sentito. Al suo fianco apparve la figura di Casey e un brivido gelido gli attraversò la spina dorsale. Nessuna delle due gli rivolse neppure uno sguardo, avevano occhi solo l’una per l’altra. Quello sguardo… la stessa intensità dello sguardo che si erano scambiate alla festa, quando Draven si era sentito improvvisamente invisibile.

Casey? – provò a chiamare l’amica, la voce rotta da un’emozione che non riuscì bene a identificare. Sentiva il cuore pulsargli nel petto, il respiro venire meno. Non riusciva a muoversi, avrebbe almeno voluto gridare, ma quando vide le due prendersi per mano si accorse che a malapena riusciva a metterle a fuoco. La vista offuscata da lacrime silenziose che presero a scorrergli lungo le guance.
Ridevano. Felici in un modo che non aveva mai avuto il piacere di vedere, in un modo in cui lui non era mai riuscito a renderle.
Era stato di passaggio per entrambe?
Aveva rovinato tutto tra di loro e con loro.
Spalancò gli occhi nel terrore più assoluto, annaspando aria come se fosse rimasto in apnea per chissà quanto tempo. Il cuore gli batteva velocissimo fino a fare male e nel portarsi le braccia a stringere il petto, come se volesse impedire al cuore di esplodere, si accorse di essere madido di sudore. Il soffitto della sua stanza non era mai stato così rassicurante come in quel momento. Qualsiasi cosa avesse sognato, gli aveva fatto male fisico. Decisamente l’incubo peggiore degli ultimi tre mesi.
Gli ci vollero diversi minuti prima di riuscire a riprendere il controllo del respiro. Si mise a sedere cautamente, aveva un mal di testa lancinante e si accorse, scendendo dal letto, di avere anche le vertigini. Rimase fermo, in piedi, per qualche istante, per assicurarsi che non fosse sul punto di svenire, poi uscì dalla stanza. Lentamente, brancolò nel buio fino a raggiungere la cucina. Quando accese la luce, rischiò un altro infarto nel ritrovarsi Eliana seduta al tavolo, come se fosse del tutto normale starsene seduti così, in piena notte, in silenzio.

Che cazzo ci facevi al buio?

Non volevo disturbare. Sai che parli nel sonno? In realtà, hai urlato. Ho trovato strano che tua madre non si sia svegliata.

Evidentemente ci è abituata.
Era ancora troppo intontito di sonno per riuscire a contrastare la curiosità di quella donna. La risposta era venuta fuori spontaneamente e senza che si rendesse conto di che tipo di informazione avesse appena dato a una persona che restava, in gran parte, ancora una sconosciuta. Lo spavento di essersela ritrovata davanti all’improvviso quando aveva acceso la luce era stato più forte di qualsiasi altra cosa, ma non ancora sufficiente ad attivargli il cervello.
Sbadigliando, si avvicinò al lavello della cucina e prese un bicchiere, mentre con la coda degli occhi notò Eliana alzarsi in piedi e raggiungerlo.

Stai bene? Sei parecchio sudato, forse hai avuto un incubo. Dovresti fare una doccia.

E tu dovresti farti i cazzi tuoi. – ribatté freddamente, aprendo il rubinetto per far scorrere l’acqua. Non voleva guardarla, non voleva darle importanza. Era intenzionato a ignorarla, per quanto gli risultasse difficile visto che lo istigava costantemente. Con la coda degli occhi la vide sorridere.
Scosse la testa tra sé e sé. Era veramente impossibile da sopportare. Si riempì il bicchiere d’acqua e se lo portò alle labbra per mandare giù qualche sorso.

Chi è Casey?
Un brivido gelido gli attraversò la spina dorsale a sentire quel nome e, oltre a scatenargli una sensazione di deja vu, per lo stupore il bicchiere gli scivolò di mano. Cadde a terra e si ruppe scatenando un suono assordante, nel silenzio che si era generato subito dopo le parole di Eliana.
Quindi aveva sognato Casey? Pensava di aver superato la cosa, ma evidentemente il suo subconscio non era d’accordo.

Che è successo?
La voce di sua madre, che seppur impastata di sonno riusciva comunque a raggiungere picchi acuti di agitazione, lo ridestò dai propri pensieri. Si accorse solo in quel momento di essere rimasto completamente immobile a fissare il vuoto davanti a sé, mentre Eliana si era inginocchiata a terra per raccogliere uno ad uno i pezzi di vetro del bicchiere.

Oh, ti abbiamo svegliato, scusa! Tutto ok. Si è solo rotto un bicchiere. – disse la donna, rimettendosi in piedi per andare a buttare nel cestino i pezzi appena raccolti. Draven sentiva addosso il suo sguardo e anche quello di sua madre, ma non si mosse.

Attento alle schegge. – disse poi, posandogli delicatamente una mano sul petto per spronarlo a indietreggiare. L’assecondò e solo a quel punto incrociò il suo sguardo. Gli sorrise in un modo che, per qualche motivo, gli provocò il batticuore e gli fece venire gli occhi lucidi. Chinò la testa per nascondersi, rendendosi subito conto di quanto rassicurante, e al contempo spaventoso, fosse stato quel sorriso così… buono.
In totale silenzio, si ritrovò davanti sua madre con una scopa in mano e, a quel punto, riuscì a muoversi da solo e a spostarsi da lì. Nessuna delle due donne disse nulla per un bel po’ o, almeno, così gli sembrò. Si mise a sedere e incrociò le braccia sul tavolo della cucina, affondandovi il viso. Si sentiva un vero schifo.

Torna a letto, ci penso io. Non ti preoccupare.

Nah, sono le tre. Tra un’ora dovrei alzarmi per andare a lavoro, tanto vale che resti sveglia.

Che lavoro fai?
Alla domanda seguì un silenzio talmente lungo che costrinse Draven a rialzare la testa per essere sicuro di non essere rimasto a parlare da solo in cucina. Si ritrovò davanti lo sguardo stupito sia di sua madre che di Eliana; quest’ultima, però, nell’incrociare gli occhi di Draven sembrò riprendersi immediatamente dallo shock.

Barista. Lavoro in un bar. Ho il turno della mattina, oggi.
Non gli sembrò di aver fatto una domanda così sorprendente. Era rimasto troppo offeso dall’incubo e non si era ancora del tutto svegliato per rendersi conto di quanto risultasse strana una domanda simile da parte sua. Era una domanda che mostrava un interesse che nessuna delle due donne credeva di poter ricevere da parte di Draven, essendo Draven! Eliana conosceva solo ciò che Cecilia le aveva raccontato su suo figlio e che fosse introverso, scorbutico e disinteressato era tra le cose che sapeva di lui.

Dove?

Al bar di fronte la sartoria in cui lavora tua madre.

Vi siete conosciute così?
Le parole stavano venendo fuori da sole, una dopo l’altra. Le domande che si era chiesto da quando aveva conosciuto Eliana, settimane prima, avevano trovato il modo di uscire.
La donna gli annuì. Lanciò una rapida occhiata a Cecilia, che era rimasta in piedi vicino al ripiano della cucina a bocca spalancata dallo stupore. Draven, invece, teneva lo sguardo fisso su di lei, a malapena batteva le ciglia. Aveva la fronte corrucciata, ma non sembrava esserci traccia di cattive intenzioni nei suoi occhi; piuttosto, era come se stesse studiando le sue reazioni e le sue parole, per soppesare la verità e conoscerla meglio.

Da quanto va avanti?

Quasi due anni. – intervenne a dire Cecilia, prima che Eliana potesse rispondere. Ripresa dallo shock di sentire suo figlio affrontare, finalmente, quell’argomento e interessarsi a Eliana, non era riuscita a trattenersi; aveva sentito di dover far parte di quella conversazione. Sia la donna che Draven volsero lo sguardo su di lei, ma in maniera diversa. Mentre ad Eliana si illuminò il viso di un’incomprensibile gioia, quello di Draven si indurì in un’espressione più cupa. Guardò sua madre come se si fosse appena ricordato che non gli piaceva parlare con lei.

Vi lascio parlare in pace. – provò a dire Cecilia, sentendosi improvvisamente di troppo. La comunicazione non era mai stato il suo forte, quando si trattava di Draven. Ma Eliana scattò subito in piedi e le si affiancò, circondandole la vita con un braccio per fermarla.

No, mangiamo qualcosa. Chi ha fame? Io ho fame. – cominciò a dire, velocemente, con un improvviso entusiasmo che fece sorridere Cecilia. La donna si portò una mano davanti la bocca, come a volersi nascondere, imbarazzata.
Draven lasciò rimbalzare lo sguardo dall’una all’altra donna. Era sicuro di non aver mai visto sua madre così.
Forse stava ancora sognando e non si era mai svegliato per colpa di un incubo.

Ho fame anche io. – disse, più per ricordare loro che era ancora lì, seduto in cucina, che le fissava incredulo e anche un po’ incuriosito. Stava iniziando a svegliarsi e non seppe dire se fosse un bene o un male.

Cereali? – gli chiese Eliana, senza però aspettarsi una risposta. Gli diede le spalle, mentre lui le annuì, e quando si voltò di nuovo la vide con in mano una tazza. Ci versò dentro i cereali e poi gliela passò. Cecilia lanciò uno sguardo a Eliana, come a cercare in lei una risposta a chissà quale domanda; Eliana le annuì, consapevole di qualsiasi cosa fosse che stava passando per la mente della sua compagna. Draven non si accorse della conversazione silenziosa; stava mangiando i cereali uno ad uno, finché Cecilia gli porse il latte e un cucchiaio.

Grazie. – disse, senza voltarsi a guardarla e, in realtà, rivolto a entrambe. Stava iniziando a sentirsi a disagio, segno che stava decisamente iniziando a svegliarsi, per cui cominciò a mangiare senza dire altro.
Eliana preparò altre due tazze di cereali e andò a sedersi al tavolo anche lei. Cecilia la raggiunse subito dopo, sistemandosi all’altro capo del tavolo, di fronte a Draven.

Tu che lavoro fai? – chiese Eliana, con un velo di incertezza nel tono di voce. Aveva già capito che a Draven non piacesse condividere molto di sé.
Prima di rispondere, e mentre decideva cosa avrebbe detto, Draven alzò lo sguardo a vedere la reazione di sua madre. Se la sua fidanzata avesse cominciato a fare domande particolarmente personali, si sarebbero trovati entrambi a camminare su un campo minato.
Cecilia, però, seppur palesemente a disagio e con lo sguardo basso a fissare la tazza di cereali come se fosse la cosa più interessante del mondo, non disse nulla.

Lavoro in un negozio… di antiquariato, diciamo.
Era un gran bel modo per definire il negozio di Magie Sinister in maniera vaga.

Oh, wow! Dev’essere molto bello! Ma, tua madre mi ha detto che frequenti un collegio in Scozia?

Sì…

E come fai con il lavoro qui a Londra? È un impiego estivo?

Mi sposto con la magia.
A Cecilia, che aveva appena preso una cucchiaiata di cereali, andò di traverso il boccone al suono delle parole di Draven. L’attenzione di Eliana fu subito spostata su di lei e andò a batterle un paio di colpi sulla schiena per evitare che si strozzasse. La donna, in segno di rimprovero, alzò lo sguardo su suo figlio, il quale si strinse nelle spalle accennando un sorrisetto che mise in mostra le fossette.
Quando Eliana tornò a guardarlo, si ritrovò a sorridere anche lei. Doveva aver pensato che Draven avesse senso dell’umorismo. Non aveva la minima idea di quanto Draven fosse serio, invece. E consapevole del fatto che il precedente compagno di sua madre aveva dato di matto quando aveva scoperto di avere un figlio in grado di usare la magia.
Chissà se Cecilia ci aveva pensato, prima di portare un’altra persona nella loro famiglia.
Senza più nemmeno l’ombra del sorriso, Draven riabbassò lo sguardo, improvvisamente anche lui interessato dal modo in cui i cereali galleggiavano nel latte. A furia di chiacchierare, avevano finito con l’ammorbidirsi troppo.
Lasciò ricadere il cucchiaio nella tazza e si mise in piedi, scostando bruscamente indietro la sedia. In silenzio, andò a posare la tazza nel lavandino. Non concesse nemmeno uno sguardo alle due donne, prima di uscire dalla cucina.

Buonanotte? – gridò Eliana, quando Draven si chiuse alle spalle la porta della sua camera da letto.
Non metteva più in dubbio il suo sincero interesse nei confronti di sua madre e, per un lungo istante, aveva davvero creduto che fosse in grado di renderla felice come non era stata mai. Per un attimo, aveva fatto sentire bene anche lui. Ma quella donna non li avrebbe mai accettati in pieno. Non faceva parte del loro mondo e mai avrebbe potuto entrarci. Averci a che fare era solo una perdita di tempo.




Jules; ©harrypotter.fc.net


Nelle sei settimane di vacanza estiva che è 'costretto' a passare con sua madre, Draven fa i conti con se stesso, riflettendo sulle persone, soprattutto le donne, che in un modo o in un altro hanno influito su di lui, mentre conosce la compagna di sua madre e le possibili conseguenze della sua presenza nella sua vita.


Edited by Draven. - 5/5/2023, 13:58
 
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view post Posted on 30/9/2022, 22:36
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I cereali nella tazza da colazione vorticavano nel latte ogni volta che Draven vi affondava il cucchiaio e se ne portava alla bocca una grossa manciata. Nonostante la casa fosse silenziosa e avvolta nella semi oscurità di un'alba che doveva ancora irradiarla, poté sentire i rimproveri di sua madre che gli diceva di masticare piano, che tanto il cibo non scappava mica via e si sarebbe fatto male alla pancia se avesse mangiato troppo di fretta. Lo riprendeva sempre per ogni minima cosa, perché per lei l'educazione veniva prima di qualsiasi altra: salutare, chiedere per favore, dire grazie, stringere mani come un bravo signorino e non mangiare di fretta. Aveva quattro anni e mezzo, era grande ormai! Lo sapeva che era solo una questione di buona educazione quella di stare composto a tavola senza strafogarsi e che non c'entrava niente il mal di pancia. Aveva imparato a darle retta, perché era giusto così, ma quella mattina aveva fretta di andare ad aprire i regali. Erano stati nascosti nel fondo dell’armadio. Non c'era sorpresa al mondo che potesse coglierlo alla sprovvista, era troppo curioso per non andarsene sempre in giro a fare mille domande e osservare ogni singola cosa che attirasse la sua attenzione. Evidentemente, Babbo Natale era stato di nuovo così oberato di lavoro da aver chiesto aiuto ai suoi genitori un po’ in anticipo sui tempi. Ma gli stava bene così. Allungando lo sguardo in corridoio, poteva vedere le impronte di borotalco lasciate sul pavimento che partivano dalla porta d’ingresso e si disperdevano un po’ ovunque nella casa. Quando si era svegliato e le aveva notate aveva fatto in modo di non calpestarle. Suo padre gli aveva detto che anche quando non riusciva a portare i regali nella notte giusta, Babbo Natale passava a controllare nelle case di tutti i bambini che i genitori avessero mantenuto la promessa di aiutarlo. Era una scusa per giustificare il ficcanasare del bambino che, anche l’anno prima, aveva trovato i pacchetti natalizi un po’ troppo presto. Ma Draven ci aveva creduto. Credere in quella magia era facile ed entusiasmante. A malapena era riuscito a dormire per via della frenesia!
Finita la colazione, si volse in direzione della finestra, lì dove sul davanzale interno era posato un orologio digitale che segnava le sei del mattino. I suoi si sarebbero svegliati presto come sempre? Anche se non era una giornata di lavoro? Non stava più nella pelle. Non avrebbe resistito un altro minuto. Saltò giù dalla sedia e, in quel momento, sentì aprirsi la porta della loro camera da letto. Si fiondò lungo il breve corridoio e andò a sbattere contro l'immensa figura di suo padre: altissimo, che sembrava toccasse il cielo con la punta dei capelli biondi e disordinati. Un ampio sorriso illuminò il faccino del piccolo Draven, mettendo in mostra le fossette sulle guance, quando alzò la testa a guardare suo padre. Avevano gli stessi occhi verdi e profondi, ma quelli di Barty erano circondati da finissime rughe di espressione. Draven lo vide arricciare le labbra e anche sulle sue guance si formarono due fossette tenerissime.

Chi ti ha svegliato così presto? – disse l’uomo, la voce bassa e ancora rauca di sonno, ma in tono divertito.

Io! Perché voglio aprire i regali! – rispose il bambino, mentre Barty si chinò su di lui per prenderlo in braccio.

“Vorrei”, non “voglio”. – esordì una voce femminile alle spalle dell’uomo, che con le spalle larghe ne copriva per intero la figura. Draven si aggrappò a suo padre per protrarsi in avanti e coinvolgere sua madre in quell’abbraccio un po’ strano. Cecilia stava litigando con un elastico per capelli che si era impigliato tra qualche ciocca, quando si protrasse di rimando verso il bambino, sollevandosi sulle punte per raggiungerlo lassù dov’era in braccio a suo padre, e dargli un bacio su una di quelle guance dolcissime e rosee di entusiasmo.

Buon Natale, tesoro.

Buon Natale!

Sì, ma non si mangia?

Io vorrei i regali.
Barty e Cecilia esplosero in una fragorosa risata, che la donna cercò di interrompere sul nascere nel vedere l’espressione confusa sul viso di Draven. Sembrava chiedersi perché stessero ridendo di lui, dato che aveva fatto una richiesta e l’aveva fatta nel modo giusto, stavolta.

Apriamo i regali mentre facciamo colazione? – propose Barty, cercando di volgere il viso in direzione di Cecilia, per quanto la posizione in cui li aveva bloccati Draven rendesse complicata un’operazione così semplice. Ma con la coda degli occhi riuscì a vedere la donna annuire e fargli cenno di andare avanti, presumibilmente in cucina così che lei potesse prendere i vari pacchetti senza farsi vedere dal bambino.

Lo so che avete nascosto i regali nell’armadio. – bisbigliò Draven, avvicinandosi all’orecchio di suo padre per non farsi sentire dalla mamma. Ancora con il sorriso sulle labbra, Barty si avvicinò all’orecchio del bambino per stare al gioco.

Babbo Natale è sempre tanto impegnato, ma non dirlo alla mamma che hai scoperto il trucco, sennò fa la spia. – rispose l’uomo, in un bisbiglio, tirando poi indietro la testa per incrociare lo sguardo del figlio. Lo vide giusto in tempo mentre si portava sulla bocca entrambe le mani, in un gesto teatrale che voleva esprimere assoluto silenzio. Rise di nuovo e gli scoccò un bacio sulla fronte.

Ma quando hai mangiato? A che ora ti sei svegliato, Venny?
La voce di Cecilia irruppe di nuovo dalle spalle di Barty, quando la donna raggiunse la cucina e posò lo sguardo sul tavolo, dove Draven aveva lasciato la tazza della colazione. Barty mise a terra il bambino in concomitanza con Cecilia che posò lì, vicino a loro, un sacco rosso bordato di bianco.

Erano le cinque quattro sette. – rispose Draven, con totale disinteresse, mentre si inginocchiò sul pavimento per tuffarsi dentro quel sacco ricolmo di pacchetti di ogni forma.
Cecilia aveva schiuso le labbra per dire qualcos’altro, forse un rimprovero, ma bastò un’occhiata di Barty a farla desistere. Con un’espressione totalmente diversa da quella che aveva con suo figlio: fredda, distaccata, che minacciava silenziosamente la donna di non dire niente, di non aprire proprio bocca, come se qualsiasi cosa detta da quel momento in poi avrebbe potuto rovinare la magia di quella giornata. Cecilia deviò lo sguardo con una scrollata di spalle, come se un brivido di terrore l’avesse scossa sin dentro le ossa, e si diresse verso il frigorifero, quasi senza fare il minimo rumore. Quando Barty si accorse che lo sguardo di Draven era rivolto verso di lui, sorrise di nuovo e si chinò sui talloni per avvicinarsi al sacco.

Allora? Siamo stati bravi quest’anno?
Draven ricambiò il sorriso e annuì, prima di rituffarsi nel sacco per mostrare a suo padre quanti pacchetti ci fossero lì dentro. Ne prese in mano uno più grande degli altri, rettangolare e morbido come un cuscino. Lo strinse forte tra le dita.
Il dormiveglia si mescolò al sogno, ma in qualche modo riuscì a non svegliarsi, a tenersi aggrappato a quel ricordo, vero o finto che fosse. Aveva detto al Professor Toobl, solo poche ore prima, di non avere ricordi prima dei cinque anni. Forse la sua mente aveva deciso di prenderlo in giro con una fantasticheria, oppure di dargli un po’ di sollievo.
Stava per svegliarsi, lo sentiva. Si arrotolò nelle lenzuola, le palpebre ancora serrate per paura che quel sogno sarebbe potuto svanire, se le avesse aperte, riportandolo a una realtà che di quella nostalgia non percepiva più nemmeno l’eco.


« HIRAETH »

Jules; ©harrypotter.fc.net


Edited by Draven. - 5/5/2023, 13:59
 
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view post Posted on 26/12/2022, 13:02
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Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts

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Concorso a Tema: Dicembre 2022
loop



“Forse, ero più nervoso di quanto credessi.”
Ho lo sguardo basso sulla scrivania mentre rispondo. Osservo le gobbiglie. Dal suono della mia voce traspare tutta la frustrazione accumulata dall’inizio del torneo. Durante la prima partita avevo abbracciato la Firebolt come fosse un’amante e mi ero lasciato coccolare dal suo andamento. Sicuro di me, degli allenamenti svolti. Mi ero sentito tranquillo. Concentrato al punto da isolare qualsiasi suono superfluo. E l’improvviso terrore di essere osservato da centinaia di persone era stata la mia rovina. Il cuore mi era arrivato in gola e il battito era stato così forte, così invadente, da non farmi rendere conto del bolide. Non è l’umiliazione pubblica che mi spaventa e di certo non mi arresto per un paio di lividi. Sono le voci, gli sguardi, i pensieri che immagino vortichino nelle loro menti. Paranoia. Probabilmente il lascito di genitori schizzati di testa. Succede così, ogni singolo istante della mia vita, ogni giorno, da che ne ho ricordo. Lì, in quel momento, era stato solo peggio del solito. Ma un re che difende il suo regno lo fa a testa alta, a prescindere da tutto. Tanto, fare finta di nulla, convincermi che sta andando esattamente come voglio io anche quando palesemente non è vero, rigirare le carte in tavola a mio favore… è ciò che mi riesce meglio. So come ottenere ciò che voglio anche dal peggio; diciamo così. Un meccanismo di difesa niente male.
Non volevo parlarne. Non volevo parlare, punto. Ma il Barone Sanguinario voleva i dettagli della mia mirabolante disarcionata... A quanto pare, è diventata famosa una canzone a riguardo, tra le mura del castello.
Sento i suoi occhi su di me e lo guardo male da sotto le ciglia. Lo fisso di rimando finché non è lui ad abbassare lo sguardo per primo. Ultimamente, vinco sempre io a questo gioco con lui.
Cazzo, quanto odio questo modo di fare nella gente. E non è per niente consolatorio constatare che se ce l’hai in vita come vizio, non lo perdi nemmeno da morto.

“Ero persuaso dall’idea che foste tutto d’un pezzo. Rigido e risoluto.”

“Anche nel marmo si fanno le crepe. Non per questo è fragile.” – rispondo, con l’attenzione di nuovo rivolta alle gobbiglie. Con la coda degli occhi, lo vedo inarcare le sopracciglia di stupore. Forse gli è piaciuta la metafora. O l’analogia. Non ho mai memorizzato la differenza tra i due termini, ma si può vivere anche senza ricordarlo.
Il fantasma di Serpeverde si riprende dalla meraviglia e mi indica la gobbiglia che vuole muovere. Eseguo per lui; senza imprimere alcuna forza, riesco a far fuori per suo conto due delle mie pedine.
Porca puttana. Come si fa a essere sfigati anche contro un morto?
L’osservo di sottecchi: ha gonfiato il petto e drizzato la schiena. Un malcelato sorriso sornione gli ha fatto sollevare gli angoli dei baffi.

“Mi sorprende. L’esimio Von Kraus mi è sembrato compiaciuto di voi. Dell’intera squadra, a dire il vero.”
Dubito fortemente che Vagnard si sia davvero espresso a riguardo; ma annuisco, tanto per.
Non so che gobbiglia muovere, perché da quando abbiamo iniziato la partita non ha smesso un secondo di parlare. Quello che già dieci minuti fa ho interpretato come un tentativo di sabotare la mia strategia di gioco, sta funzionando. Il discorso mi ha preso più del dovuto perché mi sento frustrato. Non dal quidditch, in realtà, ma dal modo invasivo in cui non riesco a smettere di pensare da quel giorno.

“Che onta indicibile un Serpeverde che si piange addosso. Un Prefetto, per giunta.”

”Non mi piango addosso.”
E anche fosse, non sarebbero cazzi vostri. Non ho nulla da recriminarmi. Non c’è niente che potessi fare diversamente in partita. Razionalmente, lo so. E, a dirla tutta, nemmeno mi frega poi così tanto. Vincitori o vinti, il quidditch è fine a se stesso. Non è proprio questo il problema...
Spingo una gobbiglia verso il suo angolo. Non colpisco nulla se non il mio orgoglio…

”Sono solo nervoso. Ultimamente.” - dichiaro, con poca pazienza e inaspettata schiettezza. La carenza di sonno inizia a farsi sentire.
Mi indica la gobbiglia che vuole che io muova per lui; dunque, agisco di nuovo in sua vece.
Faccio fuori una mia pedina.
Quindi, è constatato: non sono scarso, sono solo sfigato.

“Vi capita spesso di sentirvi così? Non è molto… degno dei precetti di Serpeverde.”
Ci mancava solo l’essere giudicato un inetto dal fantasma di casata. Come se i miei stessi pensieri non fossero abbastanza intrusivi per conto loro.
Sospiro spazientito e appoggio il gomito sul lucido legno della scrivania, a sorreggermi il viso nella mano.

“Non riuscite nemmeno a godere dei piaceri mortali.”

“Dormire non è un piacere mortale.”

“Sì che lo è.”
No, non lo è. Per quanto mi piaccia dormire, è solo qualcosa di funzionale. I piaceri mortali sono altri. Il sesso, ad esempio. Ma decido di non insistere perché so che perderei. La presunzione secolare lo ha convinto di avere sempre ragione su tutto, una caratteristica su cui proprio non cede. Non con me, almeno, che non ho alcun interesse a distoglierlo dalle sue convinzioni.
Con un sospiro, mando avanti una gobbiglia.
Fuori.
Ma che cazzo.

Non mi preoccupa il quidditch, comunque.
Di sottecchi, mi sembra di vedere i suoi occhi vitrei accendersi di un entusiasmo che trovo un po’ fuori luogo, ma non passa molto tempo prima che capisca a cos’è dovuto.

“Che questo tedio dell’animo dipenda dalla vostra dama, dunque?”
Megan. Resa dama di riflesso per il fantasma della sua casata. Il Barone Sanguinario ha una strana ossessione per i Corvonero; probabilmente dipesa dal fatto che accecato d’ira uccise la Dama Grigia e poi se stesso. Così mi raccontò Lilien* una volta, ma non ho mai indagato sulla questione con lui direttamente. Una volta, al primo anno, gli chiesi quale fosse il suo vero nome e, facendomi attraversare da una delle sue catene, mi aveva risposto di non insinuare l’appendice nasale onde non fosse il mio intento esiziale. Oltre ad aver passato i venti minuti seguenti sul dizionario per arrivare a capire che mi aveva minacciato di farmi i cazzi miei se non volevo finire male, avevo capito anche che fargli domande personali, per quanto innocenti, fosse un tasto dolente. Avevo imparato ad assecondarlo da allora; mai errore fu più grave.

“No.”
Sì.
Lilien mi aveva detto anche che il Barone trascina quelle catene dall’aria pesante come tentativo di espiazione per i propri peccati. Mi chiedo se dopo seicento e più anni non speri ancora nel perdono della donna che ha amato e ucciso. Avrebbe potuto tenere le mani in tasca invece di strangolarla e non si sarebbe ritrovato sei secoli dopo a proiettare le sue mancanze su un sedicenne insonne.
Mi ripeto nella mente la storia della sua vita, perché non voglio pensare alla mia. Una distrazione, qualcosa che mi impedisca di riprendere a rimuginare su me stesso...

“Non c’è da fidarsi delle donne Corvonero.”

Della mia, sì.
Merda. Mi ha istigato di proposito. La carenza di sonno mi rende stupido e impulsivo. Voleva andare a parare proprio lì e gliel'ho servita su un piatto d'argento.
Lo vedo sogghignare. Una risata bassa, gutturale, riempie la Sala Comune. Ha raggiunto il suo scopo, il maledetto. Deve proprio essere noiosa la sua esistenza da fantasma se si interessa così alle vite altrui...
Mi innervosiscono le persone che fanno troppe domande e lo stesso vale per quelle che non hanno più un corpo materiale, ma ignorare la sua curiosità significherebbe farmelo nemico e farmelo nemico solo perché mi fa girare i coglioni non sarebbe conveniente.
Merda!

“Dunque, vi soddisfa?”

“Sì.” – rispondo senza esitazione. Non c’è da pensarci su; mi soddisfa eccome.
Non posso far altro che dargli un contentino. Stare al suo gioco è l'unico modo che ho per uscirne illeso. Ed evitare che le conseguenze delle mie pessime scelte di sopravvivenza si ripercuotano su Megan in qualche modo.
Ci manca solo che per stizza inizi a parlarci alle spalle anche il Barone Sanguinario...

“È appagante?”

“…Sì.” – rispondo con la stessa intonazione decisa, ma con qualche istante di ritardo. Perché mi appaga stare con lei, è tutto ciò che voglio e che potrei mai desiderare, ma se nella scuola ci fosse un posto decente in cui poter andare a scopare, senza avere foglie e terra addosso, mi sentirei anche meglio.

“Vi rende felice?”
Ecco. Siamo arrivati al fulcro del problema.
Speravo proprio di evitare di pensare ai miei pensieri... Per quanto possa sembrare senza senso.
Sento il cuore saltare un battito. Per un istante mi manca il respiro.
Giocare a gobbiglie doveva essere una distrazione.
La domanda non è così complicata come sento essere la risposta. “Mi rende felice”, cosa?
Stare con lei? Sì. La sua semplice esistenza? Sì. Essere il suo ragazzo? Sì.
Vivere ogni cazzo di secondo annaspando aria in attesa di rivederla? No. Vivere la giornata con la convinzione che da un momento all’altro si stuferà di me? No. Essere consapevole che per ogni minuto passato in sua compagnia, sto incazzato per un’ora da solo perché mi odio a morte e senza di lei me ne ricordo all'improvviso? No. Decisamente no.
La mia testa è un casino che lei nemmeno immagina, perché quando stiamo insieme è tutto diverso. Non mi rendo conto di ciò che accade, non per davvero, come se ogni istante con lei sia un sogno a occhi aperti. Posso toccarla, posso baciarla ed è reale. Appena mi allontano, la mia testa si rifiuta di ricordarlo. Come quando ti svegli di soprassalto e, piano piano, vedi le immagini di un vivido sogno appena vissuto sbiadire fino a svanire. E ricado nei miei brutti pensieri. Perché so di non meritarla una così… Non ho nulla da offrirle, a parte sorrisi ebeti e il cazzo duro ogni volta che mi guarda con quegli occhi eterei.
Sto con lei e penso di essere felice. Profuma di tranquillità. La sua pelle sa di buonumore.
Ci salutiamo e torno sotto terra come un verme. Ogni volta che mi separo da lei mi sento peggio della volta precedente. So che ha una sua vita, che non può dipendere esclusivamente da me, ma a quanto pare la mia dipende dalla sua... È un’ossessione, una vera e propria dipendenza. Quando succede così, mi ritrovo a fine giornata nel mio letto a fissare il soffitto e penso che non è possibile che sia accaduto davvero. Non capisco come sia riuscito a convincerla di essere degno di lei. Non riesco a dormire perché, per la prima e unica volta nella mia vita, ho paura di sognare; la mia fantasia non potrebbe mai generare tanta bellezza. Ho paura di dormire e risvegliarmi in una realtà che non è più questa. Perché non è possibile che mi voglia davvero, che ci tenga a me; dev'essere un brutto scherzo. Se riuscissi a dormire, cancellerei questi vaneggiamenti; sento che al risveglio mi ritroverei di nuovo in treno a sentire Megan che nella sua gentilezza non mi dà un due di picche diretto, ma ci tiene a dirmi "non c'è verso che tu possa piacermi". D'altronde, perché dovrei piacerle? Perché potrei? Non piaccio a nessuno perché mi ci metto d'impegno a essere odioso. Le ragazzine che mi sbavano dietro non fanno testo; il fatto che trovino affascinante uno che le tratta di merda è solo deprimente, e irrilevante. Megan è oculata; troppo intelligente, acuta e riflessiva per non vedere che la mia arroganza non nasconde nulla. Non ho niente sotto la superficie. Sono il nulla. Le labbra si distendono in un sorriso, appaiono le fossette tanto tenere e carine, gli occhi verdi si illuminano e fanno la loro porca figura. "Con un sorriso e una solida stretta di mano puoi conquistare il mondo", mi dice sempre Lilien. In un certo senso, è quello che credo di aver fatto con Megan... Non è un pianeta, mi sembra evidente, ma è comunque tutto il mondo, il mio almeno.
A un certo punto, devo essermi convinto di poter ambire a un'esistenza più rilassata e meno cupa. Oserei dire proprio felice. La vita di una persona normale, per quanto 'normale' possa essere un mago che studia a Hogwarts. Svegliarmi e andare a fare colazione; salutare la mia ragazza ovunque si trovi e indipendentemente da chi ci sia intorno a lei; accompagnarla a lezione e passare poi a salutarla tra un cambio d'ora e l'altro; uscire insieme a fare un giro a Hogsmeade. Ogni volta che le vado incontro penso di potercela fare; finisco col passare il tempo con lei di nascosto, perché mi rode che la gente possa parlare di me, peggio ancora il pensiero che possa parlare di lei. Almeno, però, in quegli attimi sono tranquillo, sì: sono felice. La sensazione è splendida, è come se vederla sorridere aspirasse via ogni mia preoccupazione. Non appena mi allontano da lei scatta lo tsunami. Mi torna tutto addosso e peggio di prima. Oltre alle mia inseparabile compagna Paranoia, mi si palesa nella mente la concretezza di ogni cosa sbagliata appena avvenuta con lei. Un disagiato che sbatte di sua volontà contro un muro e, barcollando e ferito, si porta con sé i frammenti dello schianto andando via.
Non voglio e non posso coinvolgerla nel mio maremoto. Andrebbe via, perché non è malata come me e non voglio perderla. Non credo sopravviverei... Eppure non riesco a farne a meno. Continuo a inseguirla, continuo a volerla, continuo ad amarla anche se so che mi distruggerà.

Vado a letto.

E la partita?

Tanto ho perso.
Perdo sempre. Le persone come me non hanno il lieto fine.
Tiro indietro la sedia con un fastidioso stridio sul pavimento. Mi alzo in piedi e mi sento peggio di prima, più pesante di prima. Sono le quattro passate e c'è silenzio nella Sala Comune; eppure, ho un mal di testa da rave.

Rivincita domani?

Perché no...
Tanto ci trovo gusto a infierire su me stesso. Anche se non posso fare a meno di chiedermi che senso abbia provare a insistere in un loop eterno. La speranza è di uscirne vittorioso e senza il peso di rimorsi e insicurezze. Da una partita a gobbiglie. Da un amore che non merito...



*Lilien è la nonna di Draven, storica della magia


Edited by Draven. - 5/5/2023, 14:00
 
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view post Posted on 3/3/2023, 14:12
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Warning: il seguente post include parolacce a profusione, allusioni sessuali e dark humor.

Ambientazione alla Vigilia di Natale, giorno dopo il ballo anni '20.

yZY3RAs cTVdP8PIt's beginning to look a lot like...Fanculo. Era meglio se non dormivo. Mi ritrovo sudato, alle quattro di mattina, a stringere i denti dal dolore, per non fare casino mentre cerco di farmi passare un crampo. Potrebbe essere colpa degli allenamenti di quidditch, ma è più probabile sia dovuto al modo in cui i miei muscoli sono rimasti tesi per tutte e quattro le corpose ore di sonno che mi sono concesso. Qualsiasi cosa abbia sognato, non dev’essere stata bella. Mi alzo dal letto dopo un tempo interminabile. So di essere in ritardo e non potrebbe fregarmene di meno. Per via della brillante idea avuta dalla fidanzata di mia madre di passare le vacanze di Natale in Spagna dalla sua famiglia, mi trovo costretto a tornare a Londra prima degli altri. Non voglio nemmeno sapere come sia riuscita a convincere le autorità babbane a consentirmi di avere un passaporto d’emergenza lo stesso giorno della partenza, così come spero di non sapere mai come mia madre si sia gestita la cosa con mia nonna, visto che ciò che mi riguarda è a sua esclusiva decisione e non della donna che mi ha generato. Fatto sta che tra dieci minuti devo essere a Hogsmeade e non arriverò mai in tempo, perché la valigia non è finita e ho il bisogno impellente di fare una doccia.
Circa mezz’ora dopo sono fuori dal castello che passeggio con molta calma insieme al mio baule e alla gabbia di Donut. Tanto, ormai, sono in ritardo e di correre non ho la minima voglia. Il gatto dorme tranquillo perché non ha preoccupazioni di sorta, mentre io penso che doversi comportare come umani funzionali a un orario in cui il sole non è ancora sorto sia qualcosa di atroce di per sé. Senza contare la lunga giornata che mi si prospetta davanti e che non ho la minima voglia di affrontare. L’idea che sto facendo tutto questo per poter passare otto lunghissimi giorni in compagnia di gente che non conosco e che nemmeno parla la mia stessa lingua mi fa accapponare la pelle.
Quando arrivo a casa di mia nonna a Hogsmeade è così incazzata che nemmeno mi saluta. E io non dico niente. Azzardo solo una rapida occhiata a Rufur, quando mi si avvicina e fa svanire le mie cose con uno schiocco di dita.

Q-quando è p-pronto, signorino D-draven. – balbetta il povero elfo. Non capisco il perché della sua improvvisa insicurezza nei miei confronti, l’ho sempre trattato con più rispetto di quanto riservi alla sua padrona, finché non noto le sue dita gonfie e nere, come se avessero del sangue pesto. Come se le avesse schiacciate sotto un peso. Come se qualcuno lo avesse punito.
Rialzo lo sguardo sul viso di mia nonna: il suo è carico di rabbia e rivolto all’elfo, che per un istante sembra farsi ancora più piccolo e denutrito.

Tanto perché tu lo sappia, io non sono d’accordo.

Di cosa, esattamente?
Mi vengono in mente almeno un paio di cose su cui io non sono d’accordo e il mio sguardo torna per qualche altro istante sull’elfo, ma già cammino su un precipizio così, senza che abbia davvero fatto o detto qualcosa per far irritare il mio tutore legale. A parte arrivare lì in ritardo rispetto agli accordi presi, ma una cosa del genere può capitare, soprattutto se all’alba. Decido di non commentare.

Che Cecilia ti porti via per le vacanze. La legge babbana non lo consentirebbe se non fossi io a concederglielo.

È mia madre…
Non ci posso credere che debba davvero difendere il ruolo di Cecilia, però il puntare i piedi di mia nonna mi pare ridicolo. Oltretutto, nemmeno mi va di andare in Spagna, ma non ho voglia di opporre resistenza e rischiare di passare le vacanze con Lilien e il suo club di maghi altolocati.
La quantità di volte che Eliana mi ha scritto negli ultimi mesi, da quando l’ho conosciuta, ha superato di gran lunga il quantitativo di lettere ricevute da mia nonna negli ultimi cinque anni e Cecilia mi avrà scritto forse due o tre volte in tutto. È invadente in modo patologico, ma almeno lei… si interessa? È una babbana ignorante che, con molta probabilità, scapperà a gambe levate quando saprà la verità su di me, sul mondo magico, ma il rischio non si corre perché Cecilia non ha la minima intenzione di essere onesta con lei. Forse accetto i suoi atteggiamenti perché mi fa pena. Ad ogni modo se, come penso, l’idea di andare in Spagna è stata sua e mia madre si è detta d’accordo, ha lo stesso diritto di Lilien di decidere per me. Non tanto un diritto legale, quanto biologico. Che è meglio di niente.
Per fortuna, tra pochi mesi sarò maggiorenne e potrò fare il cazzo che mi pare. Almeno nel mondo magico. Senza dover rendere conto a nessuno. E con ‘nessuno’ intendo per lo più Lilien, che resta inebetita a guardarmi come se darle conferma ad alta voce del fatto che mia madre, in quanto tale, ha comunque il diritto di prendere decisioni su di me sia la cosa più sconvolgente mai detta.

Durante le vacanze sto sempre da lei. Londra o Barcellona mi cambia poco…
Aggiungo all’ovvio sottinteso di qualche istante fa, per renderle più chiaro il concetto, e faccio spallucce, come a dire che sono scelte che non dipendono da me. Cosa comunque molto vera, tristemente.

Perché proprio Barcellona?! Non ti ha mai portato nemmeno a Brighton per una giornata di mare!
Molto triste anche questo, quanto vero. Ma la domanda serve solo a farmi capire che mia nonna non sa assolutamente nulla della vita di sua figlia. E non sarò io a farglielo presente. Non è un mio problema. Ho smesso di fare da mediatore tra loro due all’età di dieci anni.

Brighton è piena di turisti e sporcizia, comunque.
È il mio unico commento alle sue parole, tanto per dire qualcosa. Prendo per mano Rufus e gli faccio un cenno di assenso prima che Lilien possa elaborare una risposta adeguata e proseguire con quel discorso. Alle sette devo essere in questura dall’altra parte di Londra e ci vuole una vita per arrivarci; sono a corto di sonno, ancora indolenzito per il crampo e già abbastanza in ritardo per voler anche perdere tempo ed energie per sopportare gli scleri di mia nonna. Anche perché la mia soglia di sopportazione è stata ampiamente superata durante la mia permanenza al ballo la scorsa sera. Se ci ripenso mi viene da vomitare, ma appena riacquisto stabilità dopo la materializzazione con Rufur mi ritrovo a farlo davvero. Davanti casa mia.
Rufur sparisce prima che possa anche solo provare a ringraziarlo e quando si apre la porta davanti a me capisco che lo ha fatto perché ha sentito i passi di Eliana.

Oddio, stai male? Che è successo? Non dovevamo venire a prenderti alla stazione?

Ho preso un taxi.

E le tue cose? Hai lasciato le tue cose nel taxi? Chiamo subito la compagnia. No, prima ti porto dentro e pulisco qui, poi chiamo la compagnia.

Alzo una mano a zittirla. Quanto cazzo è caotica. Sto ancora in ginocchio a occhi chiusi sui gradini di casa che cerco di capire come potrò mai riuscire a superare l’esame di materializzazione se quella è la reazione del mio corpo ogni maledetta volta che l’ho fatta con qualcun altro, quando lei prende a muoversi come una trottola senza sapere a cosa dare la priorità.

Non possiamo rimandare l’aereo, Venny! Non è rimborsabile! Vado a comprarti qualcosa per il mal d’aereo. E il mal d’auto, a quanto pare. O è stato il treno? Magari c’è una medicina che basta per tutto.
Balordo Merlino. Ma che ho fatto di male per meritare una simile logorroica come pseudo-matrigna?!
Mi rimetto in piedi in silenzio. Sento la pressione delle sue mani sulle spalle nel tentativo di volermi aiutare e, con un’espressione indifferente, decido di fingere di stare più male di quanto non stia: mi appoggio a lei quasi con tutto il peso e manca poco che rischiamo entrambi di capitombolare a terra. Mi scappa un risolino ed Eliana mi lancia un’occhiataccia. So che pensa che sono uno stronzo, il che mi fa accennare un ghigno.
Forse sono ancora un po’ fatto dalla quantità di canne che ho fumato con Lyvie ieri sera mentre aspettavo che Megan si liberasse dai suoi obblighi sociali.
Chissà come sta, probabilmente ancora dorme.
Una volta rimasti da soli, dopo il ballo, è andata anche meglio del previsto. Per certi versi, almeno.
In un’aula vuota al terzo piano, ormai testimone di gran parte dei nostri incontri, abbiamo avuto modo di parlare… Non mi aveva mai toccato prima, non così, e ho rischiato di venire nei pantaloni per il solo fatto che abbia preso lei l’iniziativa. Ma abbiamo parlato, anche. Più che altro io ho parlato. Non voglio che stando con me si privi di qualcosa, ma non sopporto la confidenza con cui metà della scuola osa rivolgerle la parola o anche un solo sguardo. È un cazzo di problema serio che non posso nemmeno confidarle senza sembrare sociopatico, cosa di cui forse si è già fatta mezza idea vista l’ansia sociale. Per cui, mi sono concentrato su questo di problema: l’essere andato in tilt per via della troppa gente nello speakeasy. Ovviamente, bypassando sul trigger di vetri e stoviglie infrante contro la mia faccia e quella di mia madre quando ho sentito l’esigenza di allontanarmi dalla rissa al bancone. Posso affrontare un solo disagio alla volta e, l’averla trascinata via dai suoi amici quando mi aveva fatto capire che era qualcosa a cui teneva, è stato un picco basso della serata. Non il peggiore, se considero la probabilità di averle fatto male stringendole la mano. Quando gliel’ho chiesto si è ritratta a riccio, evitando il discorso, e tanto è bastato a farmi capire che avevo fatto una cazzata imperdonabile. “Ho sempre paura di farti male così. Non sarebbe dovuto succedere.” le ho detto, a un certo punto, e il discorso si è chiuso lì. Non me lo ha fatto pesare; per controsenso, mi sono sentito anche peggio che se mi avesse accusato esplicitamente di essere stato aggressivo. Ho passato le due ore seguenti ad abbracciarla. Non c’è cosa peggiore del doversi scusare dopo un errore che non avresti proprio dovuto commettere in principio.
Magari provo a chiamarla dallo specchio prima che salga sull’Hogwarts Express. Per essere sicuro che sia tutto ok.

Fai una doccia e mangia qualcosa di secco per sistemare lo stomaco. Hai solo venti minuti, poi dobbiamo correre.
Mi dice Eliana, quando mi molla davanti la porta del bagno. Non ho voglia di fare un’altra doccia, ma penso di averne bisogno. L’incidente sui gradini di casa mi ha scatenato un sudore freddo lungo la schiena.

***
Sei lunghissime ore dopo sono di nuovo a casa, con un passaporto stampato nuovo di zecca, una foto da tossico nella prima pagina e tante altre vuote al seguito che, dopo questa toccata e fuga natalizia in Spagna, sono sicuro resteranno intonse. In qualche modo, ho convinto Eliana a non chiamare la compagnia di taxi per chiedere dei miei bagagli; ho imbastito la cazzata più credibile che abbia mai dovuto inventarmi spiegandole di essere entrato in casa a posare le mie cose ed essere scappato fuori a vomitare perché la strada era più vicina del bagno in quel momento. Non sono certo che mi abbia creduto del tutto, ma tolta la preoccupazione per le mie cose e il mio gatto, al sicuro in camera mia, è riuscita a far decadere il discorso.
In tutto ciò, Cecilia si è resa passiva spettatrice dei siparietti della sua compagna. Mentre non mi ha detto altro se non un “Bentornato” sussurrato a mezza bocca, Eliana ha compensato per lei. Tra vari “Allora, come stai? Come va a scuola? Come sta la tua ragazza? Quando hai gli esami? Mangi abbastanza? Sei più alto ma anche più magro” e la mia preferita “Lo sai che d’inverno in Scozia c’è poco sole, potresti avere carenza di vitamina D, prendi degli integratori?” la mattinata passa veloce. Rispondo solo che Megan sta bene ed è sul treno per tornare a Londra. Sul resto, fingo di non aver sentito per via degli auricolari con una musica spaccatimpani che mi sono infilato nelle orecchie appena uscito dalla doccia e mai più tolto. Mentre la donna si preoccupa di aggiungere le vitamine per me alla lista delle cose da comprare, ripenso a quanto vorrei poter passare le vacanze con Megan, lontano dalla scuola, solo noi due e, invece, mi tocca andare in Spagna. Con la scusa dell’essermi svegliato troppo presto per avere la forza di andare in giro, che tanto scusa non è quanto un’osservazione, riesco a convincere le mie mamme a lasciarmi a casa a dormire mentre loro escono a fare gli ultimi acquisti prima della partenza. In realtà è una scusa, perché ho di meglio da fare e poco tempo per farlo. Appena vanno via, scendo dal mio letto e corro in camera loro. Rubare i soldi di Cecilia non rientra tra le cose che mi rendono orgoglioso, ma se glieli chiedessi si rifiuterebbe di darmeli e mi servono trecento sterline. L’ultima volta che l’ho fatto è stato per comprare la droga a mio padre. Sono abbastanza sicuro che, nonostante l’incidente di quell’ultima volta, Cecilia non abbia cambiato posto, né combinazione, alla sua piccola cassaforte. D’altronde, dopo aver ucciso il compagno, nonché padre di suo figlio, il massimo che è riuscita a cambiare è stato il ripiano in marmo della cucina su cui gli ha fatto sbattere la testa. E solo perché si era irrimediabilmente macchiato dei suoi fluidi corporei. Non molto igienico.
Devo aver ripreso da lei la tendenza alla monotonia e alle abitudini. Nonché la pigrizia ad accettare i cambiamenti.
Apro l’armadio e quasi mi torna la nausea alla vista di una scatola ambiguamente rosa brillante, che non avevo mai notato prima. Se i porno mi hanno insegnato qualcosa è che alle donne piacciono i sex toys. Non voglio sapere se mia madre e la sua compagna rientrano nella casistica.
Credo che da questa riflessione ne deriverà una pudicizia di cui non avevo affatto bisogno.
Mi chino sui talloni e scosto la famigerata scatola con una gomitata. Sbatto il pugno chiuso su un angolo dell’asse nell’armadio e questa si solleva al comando, scoprendo una specie di botola a combinazione sul terreno. Devo aver ereditato da lei anche la paranoia, ma non deve averne abbastanza se dopo le esperienze del passato non ha fatto nulla per spostare questa cassaforte. O, forse, semplicemente sopravvaluta la morale di suo figlio.
11 a destra. 7 a sinistra. 3 a destra. 3 a sinistra. 9 a destra. 11 a sinistra.
In maniera molto poco fantasiosa, la combinazione è costituita dai nostri compleanni: il mio, il suo e quello di mio padre.
Per un attimo, penso che potrebbe averla cambiata per inserirci Eliana al posto del defunto Barty – il che sarebbe un cazzo di problema, perché non ho la minima idea di quando sia nata Eliana – ma appena finisco di inserire la combinazione, lo sportellino scatta e si solleva. Ad accogliermi ci sono una quantità di documenti che sento di dover scrutinare, prima o poi, ma ho poco tempo, per cui decido di ignorarli e di cercare i soldi. Con mio immenso stupore, ne trovo molti di più di quanto avessi immaginato e immediatamente, come prima cosa, penso di avere una genitrice più stupida di quanto credessi; considerando la mole di criminalità nel quartiere, se qualcuno riuscisse a rubare questa cassaforte sarebbe a posto per anni. Ci sono solo mazzetti da cinquecento sterline, per cui non ho altra scelta che prendere una banconota di quel taglio. Dato che si avvicina il suo compleanno, con le altre duecento sterline, che non mi servono e che per non essere scoperto del furto non potrei ridarle come ‘resto’, penso che potrei comprarle un regalo. Magari apparo il karma così. Richiudo tutto e risposto la scatola misteriosa di nuovo sull’asse toccandola con la punta della scarpa.
Prendo il cellulare e accendo l’app del cerca iPhone per controllare in che parte della città si trovino Cecilia ed Eliana. Il cellulare di mia madre mi dice sono ancora in movimento e se, come penso, stanno andando al centro commerciale a Westfield dovrei avere almeno un paio d’ore di tempo per portare a termine i miei impegni prima della partenza.
Faccio partire una chiamata a un numero senza nome. Appena smette di squillare, mi arriva in risposta un rutto.

Chi si risente. Ven! Come andiamo?

Mi serve un cellulare. Duecentocinquanta e un fiore che ti basta per una settimana.

Ooooh bello. Tu sì che sai come toccare le mie corde.

Che schifo.

Riaggancio la telefonata con un brivido di puro disgusto che mi attraversa la spina dorsale. Dan è una di quelle persone su cui da ragazzino mi sono ritrovato a fare affidamento nell’assoluta ingenuità. Lo evito come si tende a voler evitare di contrarre una malattia venerea, ma essere cresciuto sotto la sua ala protettiva mi torna tremendamente comodo. Gran parte di ciò che conosco e so fare lo devo praticamente a lui. Anche se saper mistare l’erba e rollare canne non sono skills di cui andare particolarmente fieri.
Torno in camera mia a prendere il suo fiore, che altro non è che una cima dell’erba più buona del South Kensington. Rindosso la giacca ed esco.
La musica spaccatimpani torna a infondermi linfa vitale dalle orecchie nel breve tragitto che mi porta a casa di Dan. Gli scrivo un messaggio per farlo uscire e porto rapidamente a compimento l’operazione di scambio con lui. Con le altre cinquanta sterline ipotizzate dal mio preventivo, tornando verso casa passo a comprare una scheda telefonica, un paio di cuffiette bluetooth e una custodia trasparente per il mio cellulare. È praticamente nuovo, considerando quanto poco lo abbia usato da quando mi è stato comprato un anno fa, per cui intendo spostare tutti i miei dati sul cellulare che Dan ha rubato e ha appena rivenduto a me, così da poter regalare il mio a Megan. Non posso permettermi di meglio e mi sono già guadagnato un posto in prima fila per l’Inferno rubando i soldi a mia madre per questo, ma non sono riuscito a trovare un’alternativa migliore. Lo specchio comunicante è stato, ed è, d’immensa utilità entro i confini della scuola, ma non potrei usarlo intorno alla famiglia di Eliana; anche ammesso che riesca a trovare dei momenti di privacy, mi darebbe incredibile fastidio dover aspettare e sperare di averne per sentire Megan. Quindi, impartirle una rapida lezione su come si inviino e ricevino messaggi, chiamate e videochiamate è ciò che di meglio posso ottenere per compensare a questi otto lunghissimi giorni lontani da lei.
Trasferiti tutti i miei dati sul cellulare della vergogna, resetto il mio per renderlo all’effetivo completamente nuovo. Lo riavvio per poterlo preparare con tutti i dati di Megan e renderlo perfettamente operativo, poi lo impacchetto in una scatola rettangolare bianca e nera, molto elegante – che mi è costata solo venti centesimi nel negozio “Tutto a 1 penny” qui all’angolo – e ci metto dentro anche le nuove cuffiette e la custodia, su cui ho disegnato un fiore per renderla meno impersonale. A quel punto, non mi resta che ingannare il tempo.
Donut mi segue mentre mi sposto in sala; solitamente sparisce non appena arriviamo a Londra, deve aver capito che non ci vedremo per qualche giorno e deciso di voler passare queste ore in casa con me. Mi piazzo davanti alla playstation a osservare, con sdegno, i nuovi blocchi di salvataggio di Eliana nei miei giochi preferiti. So che sono i suoi perché a mia madre non piace giocare a Skyrim. Ho fatto tutto ciò che dovevo fare, compreso lo spostamento di vestiti dal baule di Hogwarts a un anonimo trolley babbano. Non posso fare altro che aspettare pazientemente che le ore passino e che Megan mi avvisi di essere arrivata a casa sua. Eliana ha prenotato i biglietti per l’aereo in anticipo, ma non abbastanza da trovare un orario decente per la partenza, per cui dovremo essere a Heathrow non prima delle nove stasera. Dunque, ho tempo per passare a salutare Megan prima del volo.
Iniziando a frenquentarci, mi ero imposto di non farmi speranze con lei e di non abituarmi alla sua presenza costante; quindi, ovviamente, ho finito col fare l’esatto opposto.
Dopo circa un paio d’ore, come previsto, vedo rientrare Eliana in casa carica di buste insieme a mia madre. Decido di alzarmi dal divano per andare ad aiutarla, perché sono stato educato così, ma ignoro colei che ha insistito per sedici anni a educarmi proprio così. Ricevo in cambio da Cecilia uno sguardo furente e mi sento subito nutrito. Dimentico di aver saltato il pranzo da quanto sazio mi rende il suo astio nei miei confronti. Mentre setaccio tra le buste - con una spesa con soli beni di prima necessità - e vari regali - pro-consumismo che hanno comprato per la famiglia di Eliana - il mio solo scopo è di trovare i miei cereali, così da poterli nascondere nello scaffale più in alto e potenzialmente per loro irraggiungibile in cucina. Trovo accidentalmente la scatoletta quadrata di una gioielleria. Mi scordo temporaneamente dei miei cereali, anche se ho sopravvalutato l’odio di mia madre e inizia a brontolarmi lo stomaco e ne mangerei volentieri una tazza. Un regalo così costoso stona parecchio tra portachiavi e calzini. Ho l’impressione di non voler sapere dove quella scatolina possa portare, per cui la nascondo in fondo alla busta con la speranza di dimenticarmi presto di averla mai vista. Prendo i cereali e, senza dire niente, vado a chiudermi in camera mia. Sono le quattro di pomeriggio, tra un paio d’ore dovrebbe arrivare a King’s Cross l’Hogwarts Express. Devo solo sperare che le due ore prima che debba raggiungere l’aeroporto siano sufficienti a far capire a Megan come funziona un cellulare, altrimenti sono fottuto. E non nel senso piacevole del termine.

***
Quando Megan mi chiama dallo specchio e mi avvisa di essere quasi arrivata in stazione, in realtà mi trovo già nel parco del suo quartiere, a cinquanta metri da casa sua. Le chiedo di richiamarmi quando può uscire e me ne resto seduto a gambe incrociate su una panchina a fumare per ingannare l’attesa, nella speranza che basti questo a tenere alla larga da me bambini e rispettivi genitori. Sembra funzionare per un po’, ma a un certo punto un paio di madri hanno l’audacia di sedersi comunque al mio fianco, mentre tengono d’occhio i loro marmocchi. Una di loro prova addirittura a fare conversazione, chiedendomi se sono lì perché sto badando a un fratellino o a una sorellina. Rispondo che sono lì perché mi piace guardare i bambini che giocano e osservo precisamente l’espressione che speravo di ottenere con le mie parole: assoluto disgusto. Alludo a qualcosa di aberrante e, nel dubbio, non fatica a crederci nonostante nei venti minuti passati lì io abbia sempre tenuto la testa china a guardare nient’altro che fumo di sigaretta e fasci d’erba senza alcun interesse per i miei dintorni. Non riesce a ribattere. La vedo alzarsi e andare a riprendere suo figlio per andare via da lì. Forse l’altra mamma ha sentito lo scambio di parole con la sua amica o reagisce per puro istinto materno, ma vedendola andare via prende anche lei sua figlia ed esce dal parco. Nella speranza – per loro – che abbiano l’intelligenza di segnalare la presenza di un pedofilo alla polizia, ho altri dieci minuti per finire la sigaretta in silenzio e comodamente seduto, prima di dovermi alzare per evitare una brutta rogna.
Mi rendo subito conto che scherzare sulla sicurezza di bambini innocenti è stato crudele. E mi scappa uno sbuffo divertito.
Ho un pessimo senso dell’umorismo.
Per compensare, mi comporto da bravo cittadino e allungo il tragitto verso l’uscita del parco solo per andare a buttare la sigaretta nel cestino. Un cane di razza piccola mi ringhia contro; è probabile che lo faccia con chiunque per senso d’inferiorità, ma gli animali reagiscono tutti aggressivamente con me. Ci sono abituato. Mi sono fatto l’idea che sia perché, a differenza degli umani, percepiscono più facilmente la mia aura negativa. Il mio stesso gatto, buono e affettuoso con chiunque, tende a evitarmi il più delle volte.
Mi avvicino a casa di Megan, ma resto a distanza. Mi ha chiesto di aspettarla all’angolo opposto alla strada principale e così faccio.
La vedo fuori dal cancello e l’espressione di totale indifferenza e apatia che caratterizza solitamente il mio viso sparisce non appena incontro il suo sguardo. So che gli occhi mi si illuminano mentre le labbra si curvano in un sorriso, perché mi sento immediatamente appagato da quella semplice visione.
Dopo circa dieci minuti di abbracci, pomiciate intensive e palpatine varie, riesco a scollarmi da lei per chiederle com’è andato il viaggio e dirle che le ho preso una cosa. Senza entrare troppo nei dettagli del mio prolisso modo di non riuscire a concepire il consumismo natalizio, le spiego che non le ho fatto un regalo di Natale, ma un semplice regalo per facilitarci la vita nei prossimi giorni. Troviamo un pub vicino; per mia fortuna ha dei tavolini all’aperto nonostante le rigide temperature inglesi e chiedo quello più vicino a un fungo calorifero, per evitare di uccidere per assideramento la mia ragazza a causa delle mie ansie sociali che le impediscono di sedersi comodamente all’interno del locale. Ordino un hamburger, Megan prende fish and chips e nell’attesa che i nostri ordini arrivino ne approfitto per porgerle il regalo. Le do il tempo di scartare il pacchetto e aprire la scatola, di reagire alla sorpresa e ringraziarmi, anche se ci tiene a farmi presente che non sa usare i cellulari. Ma lo so già. Così come sapevo che non ne aveva già uno. Ho una pessima, pessima memoria, ma non dimentico nulla di ciò che mi dice lei e avevo memorizzato questa informazione durante il nostro primo appuntamento la scorsa estate, quando aveva chiesto di usare il mio cellulare per leggere il menù del Coco Momo. Non ho dimenticato nemmeno il ridicolo nome di quel posto, in cui vigeva un riprovevole abuso di avocado in ogni pietanza.
Le faccio vedere come si accende e si spegne. Le mostro come tenere d’occhio la batteria e quando ricaricarla. Mi assicuro che assorba quelle informazioni di base, prima di insegnarle dei messaggi e delle chiamate. Mentre mangiamo, continuo a farle vedere le potenzialità di quell’utilissima tecnologia. Le spiego come usare e collegare le cuffie per sentire la musica che le piace e le prometto di inviarle un video tutorial su come trasferire la sua musica dal computer al cellulare. Il fatto che, almeno, sappia usare un computer semplifica le cose. Facciamo un paio di prove di invio e ricezione dei messaggi. Memorizzo il suo numero, le memorizzo il mio e ci aggiungo tutta una serie di cuori prima e dopo il mio nome con la scusa di farle vedere come si usano le emoji. Ridiamo un sacco e mi sembra di saltare sulle nuvole.
Quando Cecilia mi chiama per farmi presente che è quasi ora di andare, capitombolo faccia a terra sul terreno dall’altezza spropositata di quelle soffici nuvole di gioia. Un mattone d’angoscia mi si insidia al centro del petto e sento l’esigenza di chiederle di passare a prendermi, pur di avere qualche altro minuto con Megan. Se tornassi a casa perderei venti minuti e, al momento, mi sembrano tantissimi. Appena riaggancio la telefonata, le invio l’indirizzo di Megan e mia madre mi avvisa che passeranno a prendermi con un’auto a noleggio, perché il taxi fino all’aeroporto ci costerebbe troppo. L’informazione non mi tange, ma è un sollievo che con Eliana qualcuno in questa famiglia abbia una cazzo di patente di guida.
Dopo aver pagato il conto, con Megan percorriamo a ritroso la strada fatta in precedenza e ci fermiamo in prossimità di casa sua. In qualche modo, riesco a riportare l’attenzione su di noi e finiamo a pomiciare contro il muretto di una casa privata. Non gira un’anima su quella strada, per cui al suono di un clacson ci ritroviamo entrambi a sobbalzare per la sorpresa. Se in un primo momento penso che Megan preferisca sotterrarsi piuttosto che affrontare mia madre che ci ha appena colto in flagrante a mangiarci le vicendevoli facce, la vedo ignorare con classe il rossore del suo viso e seguirmi verso l’auto senza esitare. La percepisco in imbarazzo, per cui d’istinto mi sposto davanti a lei, come a volerla schermare dalle due donne che mi stanno aspettando in macchina.
Mi ci vuole un po’ per ricordarmi che ha già conosciuto mia madre, quando è andata nella sua sartoria per la riparazione di un vestito, ma mi ci vuole anche di più a realizzare che insieme a lei c’è anche Eliana, che proprio non vedeva l’ora di conoscere Megan di persona.

È anche più bella di quanto mi avessi detto. Mio Dio, ha degli occhi da paura!
La sento commentare e, per sua fortuna, capisce al volo di non dover dire altro incrociando il mio sguardo con la coda degli occhi. Megan le saluta entrambe, con un cipiglio imbarazzato sul viso, mentre io continuo a guardare storto la donna alla guida. Si schiarisce la gola e abbozza un sorriso carico di disagio, prima di voltarsi verso mia madre. Quest’ultima, dopo aver salutato Megan con un sorriso che sembrava piuttosto genuino, si gira dal lato del suo finestrino; improvvisamente, mi sembra abbia un’espressione triste, quasi dispiaciuta e non capisco se dipenda dal fatto che non le piace Megan o se dal fatto che le piace troppo e pensa che io non sia abbastanza per lei. Probabilmente la seconda.
Prendo Megan per una mano e l’attiro via dal covo di vipere, senza dire nulla. Mi piazzo davanti a lei, dando le spalle all’auto per coprire la visuale alle due donne. Incornicio il viso della mia ragazza tra le mani e le accarezzo le guance mentre le do un ultimo, super casto, bacio.
Mi sento morire all’idea di lasciarla. Mi rendo conto di essere esagerato. Non sto andando in guerra. Otto giorni non sono così tanti. Razionalmente lo so. Emotivamente… Sono pronto a dare fuoco all’aeroporto pur di non partire.
Con un sospiro profondo mi costringo ad andare via, perché purtroppo la mia attuale sopravvivenza economica nel mondo babbano dipende da quanto riesco a essere assertivo con Cecilia. Considerando che normalmente faccio un pessimo lavoro che porta pessime conseguenze solo su me stesso, mi sono imposto di fingere che questo viaggio non mi dia il fastidio che, invece, mi genera.
Credo di aver detto qualcosa a Megan e credo che lei mi abbia detto qualcosa a sua volta, ma so solo di aver annuito senza aver capito un cazzo.
Entro in macchina senza guardarmi indietro e mi distendo sui sedili posteriori a occhi chiusi.
Le due donne davanti a me, per una buona volta, capiscono che ho bisogno di silenzio e me lo concedono fino all’arrivo in aeroporto.

***
Nonostante rientrino entrambe in una fascia d’età che non dovrebbe ancora dar loro problemi di senilità, sia mia madre che Eliana faticano un casino a capire il concetto di check-in online, per cui mi sono divertito a lasciarle in difficoltà. Questo giochino mi è costato una buona ora di tempo con Megan e, col senno di poi, non credo ne sia valsa la pena, perché non è divertente come avevo sperato. Ho solo finito col renderle isteriche e la cosa, inevitabilmente, mi si ritorcerà contro. Megan mi ha scritto mentre ero ancora in viaggio verso l’aeroporto e ho rischiato che il cuore mi scappasse via dal petto. Intanto, perché non me l’aspettavo; in seconda istanza, perché ha scritto cose strane per via del correttore automatico e mi ha associato a una “w mojo” con occhiali a fondo di bottiglia, baffi e sopracciglia folte. Mi ci è voluto un incredibile autocontrollo per non scoppiare a ridere e dare motivo alle due donne in auto insieme a me di curiosare sui cazzi miei. Mi sono addormentato poco dopo e ritrovato a camminare come uno zombie in giro per l’aeroporto, finché le due non sono riuscite a trovare il nostro gate di partenza. Penso che guardandomi in faccia abbiano desistito dalla sola idea di chiedermi aiuto e, nonostante mi tocchi ora sentirle lamentarsi della burocrazia britannica e bla bla bla, mi ritengo soddisfatto. Finisco col riaddormentarmi in sala d’attesa e il tocco della mano di Eliana che mi sveglia, per quanto delicato, mi fa scattare in piedi come una molla. Uno degli hostess ci indica la navetta da prendere per raggiungere l’aereo e mi sembra crudelmente stipata quanto i vagoni per i campi di concentramento. Mi rifiuto di salirci e non mi interessa dell’imbarazzo in cui vedo riversare mia madre mentre si scusa con la testa di cazzo che continua a insistere che non c’è altro modo per arrivare all’aereo.
Nonostante l’insistenza perdo la battaglia, ma ottengo un posto in piedi tra il guidatore della navetta e un ampio finestrino aperto, riservando il mio spazio personale senza che nessuno possa toccarmi e darmi motivi per commettere una strage.
Appena raggiungo i nostri posti nell’aereo, non serve nemmeno che lo chieda e le mamme mi concedono il posto dal lato del finestrino. Mi fa sentire più al sicuro, quantomeno distante dal resto della marmaglia lì presente. Questi cazzo di sedili sono troppo stretti e io ho le gambe troppo lunghe, per cui mi ritrovo a doverle piegare fin quasi ad abbracciarmi le ginocchia, poggiando i talloni sul bordo del mio sedile. Al primo steward che viene a rompermi il cazzo per la posa astrusa gli sputo in un occhio. Mi dico che un’ora di volo passa in fretta, soprattutto se riesco a dormire, e mi distraggo dal via vai dei passeggeri riprendendo a messaggiare con Megan. L’avviso che, a un certo punto, potrei sparire perché intendo auto-sedarmi per far passare velocemente il volo, ma mentre aspetto la sua risposta mi ritrovo a cercare su Wikipedia le statistiche sugli incidenti aerei.

È più probabile che tu muoia per uno squalo che per un incidente aereo.
La voce di Eliana mi raggiunge l’udito, nonostante gli auricolari pressati contro i miei timpani.

Non vado al mare. - rispondo, rendendo vano il suo tentativo di tranquillizzarmi.
È più brava di mia madre a capire quando sono nervoso o, più semplicemente, meno discreta di lei a spiare oltre la mia spalla per leggere lo schermo del mio cellulare.

Ok, beh. Le probabilità di morire su un aereo sono tipo una su undici milioni.

Una di troppo, non ti pare?

La vedo alzare gli occhi al cielo e mi sembra stia sbuffando, ma non ne sono sicuro perché un riff di James Hetfield cattura tutta la mia attenzione uditiva.
Si concede l’arroganza di potermi sfilare via una delle cuffiette e mi giro verso di lei per guardarla in cagnesco, sperando che basti per farla stare zitta e ferma.

Lo so che questo viaggio ti pesa, ma vale molto per me che tu ci sia.
Resto deluso della mie capacità intimidatorie e sono abbastanza sicuro che sul mio viso si sia formata una smorfia di disgusto, nemmeno mi avesse appena detto di dover mangiare ragni vivi per il resto della vita. Mi accorgo di avere la fronte corrugata, il naso arricciato e un angolo delle labbra sollevato a scoprire i denti, come se fossi sul punto di ringhiarle contro. Contemplo la possibilità di gridare aiuto e urlare che le due donne mi hanno rapito per farmi scortare via da questo aereo, ma nonostante l’età sia dalla mia parte, l’aspetto mi fotte male. Eliana è alta, quasi quanto Megan, ma è magra come un chiodo e il suo peso è costituito dalla sola quarta di seno, mentre mia madre se arriva al metro e sessanta per quaranta chili è forse perché la sto elogiando. Nessuno mi crederebbe. Roteo gli occhi verso l’alto con un sonoro sbuffo. Mi rimetto al suo posto la cuffietta presa in ostaggio e giro la testa verso il finestrino, braccia incrociate contro il petto.
Chiudo gli occhi e, in pochi secondi, cado preda di un sonno leggero. Sento il cellulare notificarmi qualche messaggio di Megan e la vibrazione verso il basso ventre non fa altro che alimentare la fantasia erotica su di lei con la quale mi sto addormentando.
Spero di svegliarmi e rendermi conto che è stato solo uno stupido incubo tutta l’idea di questa vacanza, ma quando Eliana mi scuote con gentilezza e apro gli occhi, mi accorgo che la mia playlist nelle orecchie si è stoppata e riesco a sentire senza nessun disturbo sonoro una voce maschile darci il benvenuto a Barcellona.
Fanculo.


Le cosine che riguardano Megan sono state concordate.


Edited by Draven. - 5/5/2023, 14:03
 
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view post Posted on 23/9/2023, 11:45
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Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts

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Concorso a Tema: [Settembre 2023]

Nell’appartamento vige un silenzio spezzato dai soli colpi d’arma da fuoco, mirati male, sia da me che da Eliana. Mi annoio, terribilmente, e nemmeno giocare a CoD mi entusiasma come dovrebbe. Lo scomodissimo divano in pelle finta, appiccicoso come una caramella tenuta al sole, è stato coperto da un lenzuolo rosa che riflette i pochi raggi che filtrano dalle tapparelle abbassate. C’è stata una lunga discussione riguardo le finestre: aperte, nel tentativo di far circolare aria, o chiuse, per non far entrare aria calda? E ancora: le tapparelle tutte abbassate, per evitare che la luce scaldi l’ambiente già di per sé parecchio afoso, oppure alzate, per non avere l’impressione di sopravvivere in una catacomba? Passato il momento di maggior disagio intorno all’ora di pranzo, la mia “seconda mamma” ed io abbiamo concordato per una diplomatica via di mezzo: finestre aperte e tapparelle abbassate a metà, per schermare i raggi del sole ma, al contempo, consentire all’aria di circolare. Fa comunque caldo, ma con tutte le accortezze prese è, quantomeno, tollerabile.
Ad ogni modo, qualsiasi sia la corrente d’aria che, secondo Eliana, si sarebbe dovuta generare tra la finestra dietro la tv e le finestre in bagno e in cucina, dal lato opposto della casa, non arriva tipo per niente da noi sul divano. Me ne sto seduto, scomodamente, con le ginocchia al petto e le braccia appiccicate ai polpacci. E a Eliana non va tanto meglio: con la nuca appoggiata sul bracciolo e le gambe distese, storte, rivolte verso lo schienale su cui tiene appoggiate le caviglie, incrociate l’una sull’altra perché temo che anche lei si sia appiccicata.

Non ti stai minimamente impegnando. – esordisce, con un tono apatico che discosta parecchio dall’esplosione e le grida che ne conseguono nel videogioco. Dovrei spiegarle che non trovo affatto divertente averla vinta e che, se con questo gioco mi intrattengo ogni estate da tre anni, è solo perché ho deciso di rovinare e perdere nei peggiori e più fantasiosi modi possibili ogni singola missione in cui mi trovi invischiato, ma non ne ho la benché minima voglia; lascerò che sia l’esperienza a insegnarle che giocare con me è frustrante.
Metto in pausa il gioco e mi alzo.

Vado a bere. Vuoi qualcosa?
Eliana appoggia il suo joystick sul tavolino che separa la tv dal divano-caramella. Con la nuca ancora appoggiata al bracciolo, inclina la testa all’indietro per poter incontrare il mio sguardo.

Mi porti una birra?

Alle tre del pomeriggio?!

Non giudicarmi, ragazzino. Mi annoio. È il mio giorno libero. Tua madre sarà via per altre cinque ore almeno. Dammi una gioia…

Alzo gli occhi al cielo, sbuffando, ma eseguo senza commentare ulteriormente. Raggiungo la cucina, mando giù tre bicchieri d’acqua di seguito e, quando sto per aprire il frigo per prendere a Eliana la sua “gioia”, un grido di puro terrore irrompe nel silenzio. Appoggio il mio bicchiere sul ripiano e torno in sala a passo spedito.
La prima cosa che vedo è un gufo sul tavolino. La seconda è Eliana raggomitolata su se stessa, con le ginocchia strette al petto, in bilico sullo schienale del divano come se, per istinto, avesse cercato di allontanarsi il più possibile dalla creatura, fallendo miseramente.
La prima cosa che penso, mentre Eliana continua a gridare e inizia a piangere, è che dev’essersi spaventata; non capita propriamente tutti i giorni che un gufo ti plani in casa. La seconda, invece, mi fa andare in panico; per paura, ma non per i motivi che stanno terrorizzando Eliana... Ho paura che possa intuire ciò che sono.
Di fianco al gufo, sempre lì sul tavolino, c’è una busta dall’aspetto pesante. Non so se il rapace stia arruffando nervosamente le piume per aver dovuto sfacchinare a consegnare quel pacco o se perché le grida di Eliana gli stiano dando sui nervi tanto quanto a me.
Dovrei dire qualcosa, giustificare quella scena, ma l’unica cosa che mi viene di fare – per abitudine – è andare a cercare nel baule della scuola se ho qualche biscotto gufico da dare all’animale così da evitare che ci becchi per dispetto. Nel momento in cui mi volto, le grida di Eliana si fanno più acute, almeno di un paio di ottave, e mentre mi paro le orecchie, deciso a ignorarla, me la ritrovo di fianco. Mi si aggrappa alla t-shirt con una tale veemenza da spingermi all’indietro di un paio di passi.

DOVE VAI? NON PUOI LASCIARMI DA SOLA CON QUEL COSO!

DEVO ANDARE IN CAMERA MIA!

VENGO CON TE.

NO. ASPETTAMI QUI.

NO, DRAVEEEEEN. TI PREGO, MANDALO VIA.

SMETTILA DI GRIDARE!

STAI GRIDANDO ANCHE TU!

Con un improvviso e lancinante mal di testa, rivolgo un’ultima occhiata al gufo che sta palesemente aspettando di ricevere una ricompensa.
Prima o poi, realizzo, sarebbe dovuto succedere. Che Eliana venisse a contatto con una qualche parte del me magico, intendo. Solo che non avevo mai pensato sarebbe potuto accadere per un gufo: non ho persone che mi spediscono lettere. Megan e Alice le sento per telefono nei periodi lontani dalla scuola e non parlo con nessun altro fuori l’ambito costrittivo di Hogwarts.
Mentre un moto di curiosità mi si forma alla bocca dello stomaco all’idea di sapere cosa contenga quella busta dall’aria pesante, mi rendo conto di aver sbagliato a prendere in maniera così superficiale la questione. Forse dovrei cercarmi un appartamento nel mondo magico e trasferirmi appena compiuti i diciassette anni per evitare qualsiasi tipo di problema tra Eliana e mia madre, che con tanta premura ha minacciato di uccidermi con le sue stesse mani se mi fosse mai venuto in mente di mettermi in mezzo alla sua favola amorosa. Eliana è una babbana e, in quanto tale, non può venire a sapere della magia. L’ultima volta che un babbano della nostra famiglia ne è venuto a conoscenza, non l’ha presa bene… Ed Eliana potrebbe non avere una reazione diversa da quella che ebbe mio padre.
Sa che frequento un collegio particolare, in cui non è concesso nemmeno l’uso dei cellulari, per cui potrei inventarmi qualcosa su come anche la posta sia gestita in maniera antica. Non sono mai stato bravo a dire cazzate, ma con lei sto imparando per necessità. Mi sento un po’ in colpa all’idea di mentirle; penso che sarebbe bello, una volta tanto, essere aperti e sinceri con un familiare che non ti giudichi… Ma se, invece, finisse male? Non piaccio alla mia stessa madre, mio padre mi ha usato come pungiball per anni, mia nonna mi usa come fossi un trofeo… Perché mai dovrei piacere a una sconosciuta che mi conosce appena e sa chi sono solo perché la sua donna mi ha generato?
Forse per via di un moto di coscienza derivante dal filo dei miei pensieri, non me la scrollo di dosso. Lascio che mi stropicci la t-shirt, che si tenga stretta a me come fossi il suo bodyguard e avanzo verso la mia stanza. Man mano che i passi lenti e misurati, per non indispettire il rapace, ci allontanano da esso, il pianto convulso di Eliana si placa, così come anche il mio mal di testa.
Sennonché, aprendo la porta della mia camera, mi ritrovo davanti Rufur, l’elfo domestico di mia nonna. Mi paralizzo sull’uscio e anche l’elfo resta un attimo interdetto. Non so se per un’improvvisa realizzazione o se per panico, ma erroneamente l’elfo reagisce alla vista inaspettata di Eliana… materializzandosi via.
Succede tutto così velocemente che nemmeno mi rendo davvero conto, sul momento, di cosa stia accadendo, ma la stretta di Eliana si allenta e il tonfo che ne consegue mi spinge a voltarmi verso di lei. È svenuta, così, senza preavviso, senza un ‘gasp’ che mi allertasse di essersi accorta della presenza e poi evanescenza dell’elfo dalla porta socchiusa della mia stanza. Mi chino a terra e un istinto un po’ irrazionale mi spinge a verificare che ancora le batta il cuore, che non le sia venuto un infarto, che sia ancora viva. Cerco di prenderla in braccio per sollevarla da terra, ma non mi era mai capitato – e spero che non mi ricapiti mai più – di dover sollevare a peso morto un corpo adulto: pesa un fottio. Quindi, l’afferro da sotto le ascelle sudate che mi provocano un conato di vomito che, per non peggiorare la situazione, mi trovo costretto a trattenere con tutta la forza di volontà di cui dispongo, e la trascino fino in sala. Con lo stesso meccanismo, riesco a sollevarla e trascinarla a distendersi sul divano.

Torna domani. Ti farò avere dei biscotti, promesso. – mi volto a dire al rapace che, stoico e totalmente disinteressato alla sequenza di eventi, se ne sta ancora lì sul tavolino a penne arruffate. Emette un bubbolio che mi sa di frustrazione; che abbia capito o no ciò che gli ho detto, comunque si volta ed esce dalla stessa finestra dietro il televisore da cui è entrato.
Corro in bagno a lavarmi le mani, perché già di per sé odio terribilmente che le persone mi tocchino e non le tocco se posso evitarlo, figuriamoci la mia ipocondria quanto sia lieta che abbia dovuto toccare un’Eliana sudata… Devo rimuovere il ricordo il prima possibile.
Poi, vado in cucina e inumidisco una vecchia pezza. Riempio anche un bicchiere d’acqua.
Quando torno in sala, vedo Eliana con ancora il viso gonfio di pianto e gli occhi rossi che si sta sollevando con il busto. Si tocca la nuca emettendo strani suoni lamentosi.

Hai battuto la testa? Chiamo un’ambulanza?
Per un lunghissimo momento, nel quale mi ritrovo a trattenere il respiro, Eliana non mi risponde. Mi metto a pensare di tutto, in quel breve frangente di silenzio: che mi odi per riflesso a ciò che ha visto nella mia stanza, proprio come a un certo punto tutta la mia famiglia ha iniziato a odiarmi per la mia appartenenza al mondo magico; che sia talmente terrorizzata dalla situazione da non volermi nemmeno parlare, da volersene andare per sempre da casa nostra; che abbia un trauma cranico e mia madre finirà per uccidermi davvero.
Riprende a piangere, ma silenziosamente. Delle lacrime le scorrono sulle guance a fiotti, come se non riuscisse a impedirselo ma, al contempo, non volesse darlo a vedere. Non mi guarda nemmeno e tiene la testa china. Mi bruciano i polmoni, ma non riesco a riprendere a respirare. Sono fermo, impalato, di fianco al divano, di fronte a lei, con in mano uno stupido bicchiere d’acqua e un’inutile pezza bagnata.

Venny… Che cos’era?
Quando finalmente parla, lo fa con un sussurro. Il suono dell’aria che ho trattenuto e che, finalmente, riesco a espirare mi sembra più assordante del tono sommesso della sua voce.
Mi avvicino al tavolino per poggiare il bicchiere e la pezza. Mi accorgo che sta tremando.
Mi si spezza qualcosa dentro. Per qualche motivo, mi addolora aver avuto ragione pensando che sia così spaventata da non tollerare nemmeno la mia vicinanza. Anche se io non ho fatto nulla in maniera diretta.
Indietreggio di qualche passo.
Forse dovrei fingere che abbia avuto un’allucinazione, dare la colpa alla botta presa in testa o al panico per il gufo.

Era un elfo.
È invece ciò che dico. Non so cosa mi aspettassi da lei, non so perché non sia riuscito a dire un qualche tipo di scusa, so solo che non mi aspettavo di vederla scoppiare a ridere.
Mi rendo conto di aver tenuto lo sguardo basso quando, al suono della sua risata, muovo gli occhi con l’intento di incontrare i suoi. Sul viso rigato di lacrime ha un’espressione contorta, strana, che non riesco a decifrare. E ride, proprio di gusto.

Non ho preso una botta così forte come pensi.
Si mette a sedere con i piedi a terra, ma il movimento è lento, è come se le costasse fatica, e d’impulso scatto al suo fianco per poterla aiutare. È un gesto che non mi rendo conto di aver fatto finché non mi posa una mano sulla mia e mi accorgo di averla stretta intorno a un suo braccio per sostenerla.

Che cos’era, Draven? Dimmi la verità, per favore. Non… Non trattarmi da pazza. E non mentirmi. C'era qualcosa in camera tua. E succedono sempre cose parecchio strane in camera tua, lasciatelo dire, ma questa... cosa...
Torna subito seria, sembra quasi preoccupata, e io esito. Non so davvero come cazzo uscire da questa situazione.
Dopo un intenso scambio di sguardi, mi convinco di doverle qualcosa. Anche se non so cosa.
Mi metto a sedere davanti a lei, sul tavolino che spero regga il mio peso senza fracassarsi a terra generando l’ennesimo imprevisto di una giornata che pareva noiosa a livelli indecenti.

Non posso dirtelo.

Perché no?

Sospiro, profondamente, e mi perdo nei ricordi che hanno traumatizzato la mia infanzia.

C'è un motivo per cui Cecilia non parla mai di mio padre.

Che c’entra tuo padre adesso?

Te ne ha mai parlato?

Eliana scuote la testa per dire di ‘no’, si stringe nelle spalle. È a disagio. Mi chiedo, con sincera curiosità, cosa le abbia raccontato mia madre…

No. Insomma, non molto. So che era un tossicodipendente. So che…
La vedo esitare, puntare lo sguardo a terra; credo sia indecisa su cosa ritenga opportuno dirmi e cosa no.

So che vi picchiava, entrambi.
Rialza lo sguardo a incontrare il mio e non ho idea di che tipo di espressione io abbia in questo momento, ma qualcosa in essa la sconvolge. Credo di stare a sorridere, perché raccontare che “mio padre ci picchiava” è l’eufemismo del secolo e la cosa mi diverte.

Sai perché?
Scuote di nuovo la testa, incassata tra le spalle quasi sperando di potersi nascondere dall'argomento.

Draven, non dovremmo parlare di questo senza che tua madre sia presente. È inopportuno da parte mia… Vorrei solo che mi dicessi cos’era quel…

Ci sto arrivando.

Replico seccamente, perché non è che io stia morendo dalla voglia di parlarne.
Sto cercando il modo più opportuno per raccontarle un vissuto che, solo esprimere ad alta voce, mi dà la nausea ma che, purtroppo, fa parte di me e del motivo per cui non può in alcun modo venire a sapere del mondo magico.

Non è sempre stato così. Mio padre, intendo. È… diciamo, cambiato, nel momento in cui ha capito che intorno a me succedevano cose strane.
Nello sguardo di Eliana appare curiosità. Qualcosa nei suoi occhi mi lascia intendere che il suo interesse alla questione è dettato da qualcosa come la pietà.

Non fare domande e andrà tutto bene. Se succedono cose strane, ignorale. Non sono pericoloso... Quantomeno non per te.
Aggiungo, accennando addirittura un mezzo sorrisino ad alleggerire un po' il peso del discorso.
Non posso dirle altro. Non voglio rischiare che impazzisca nel venire a sapere dell'esistenza di maghi, streghe, magia e tutto il resto di un mondo che, comunque, non avrebbe a che fare direttamente con lei.
Mi rimetto in piedi e prendo in mano la grossa busta portata dal gufo. Mentre inizio a scartarla, mi sento addosso lo sguardo di Eliana. Nel silenzio che ci circonda mi sembra di sentire gli ingranaggi del suo cervello mettersi in moto.
All'interno del pacco recapitato dal gufo ci sono due biglietti, una lettera e una bottiglia di Jack Daniel's. A giudicare da quest'ultimo ho come l'impressione di sapere già il mittente ancor prima di verificarlo dalla lettera o di leggerlo dall'esterno della busta. Ad ogni modo, non ho tempo di fare nessuna delle due cose. Eliana si alza e mi si affianca, ancora con quello sguardo stralunato negli occhi.

E se volessi sapere tutto comunque? Vorrei sapere tutto di te e "strano" non significa niente, per me. Non ti giudicherei. So che sei buono. Un po' stronzo, misantropo, fobico e arrogante, ma nessuno è perfetto.
Mi dice all'improvviso, con il suo solito tono giocoso e l'espressione che è un po' tornata alla normalità.
Le porgo la bottiglia di whisky; mi sembra più opportuna della birra. Senza dire nulla, lei l'afferra e si butta di peso all'indietro per tornare a sedersi sul divano.
C'è una parte di me che vorrebbe davvero dirle tutto, più di quanto voglia ammettere anche a me stesso. Perché non ho mai avuto una famiglia, qualcuno che tenesse a me in maniera incondizionata come sembra fare lei, che mi conosce da poco più di un anno e con cui non condivido alcuna parentela effettiva. È una sensazione nuova; sopprimerla mi fa fatica.

Ha a che fare con la tua scuola, vero? Tutta la tua stranezza? Pensavo che fossi solo un genio reclutato in un qualche college esclusivo, anche se non hai l'aria del genio.

Beh. Grazie.

Torno a sedermi anche io sul divano e lei si sposta sul lenzuolo rosa in modo da incrociarvi sopra le gambe e voltarsi verso di me, per guardarmi meglio.

Sai che non devi dirmi nulla che tu non voglia. Ma sai anche che non sono il tipo che demorde.
Stappa la bottiglia di Jack Daniel's e ne prende un lungo sorso. Non mi aspettavo niente di meno da una barista, indipendentemente dalla circostanza. Anzi, forse proprio a causa di essa, mi sorprende anche meno il gesto.

Un gufo ti ha portato una bottiglia di whisky e un coso strano è apparso nella tua stanza. Oltre a un paio di sorsi di questo, mi devi anche un po' di fiducia. Senza contare che hai perso spudoratamente nella missione di prima solo per farmi declassare. E poi, perché un gufo?! I piccioni viaggiatori non vi piacevano? Che cazzo. Odio gli uccelli, tutti, ma i rapaci...
Continua, concludendo con una scrollata di spalle come se il solo ripensare a quel povero gufo ignaro le avesse provocato un brivido.
Considerando che l'animale che mi fa più schifo al mondo è un uccello che nemmeno sa volare, chi sono io per giudicare?
Uno sbuffo di divertimento mi sfugge dalle labbra.

Credo la mandi Alice.
Mentre prende un altro sorso di whisky, prima di passarmi la bottiglia - come se potrei mai bere dove si è attaccato già qualcuno - vedo qualcosa baluginare nei suoi occhi.

Anche Alice è come te, quindi? Qualsiasi cosa voglia dire.
Annuisco e con un tocco della mano le riavvicino la bottiglia. Beve ancora.

Anche Megan?
Annuisco di nuovo e, a quell'ulteriore informazione vaga, segue un altro sorso di whisky.

Anche... Tua madre?
Questa è una domanda un po' più complessa, perché Cecilia è una strega, ma le è stato impedito di usare la magia anni fa. Non fa più parte del mio mondo da prima che io nascessi, non la riguarda davvero.

Non puoi parlarne con lei. Mai.

Posso parlarne con te, almeno? Non devi dirmi tutto, tutto insieme. Un passo la volta? Magari senza altri gufi di mezzo?
Abbozzo un altro sorriso e annuisco.
L'idea di abituarla, gradualmente, ad accettare le stranezze che mi riguardano... Non è affatto male. Per essere andata in panico alla vista del gufo ed essere svenuta per il povero Rufur, sta affrontando la cosa con una calma sorprendente.

Ok. Proviamo con un passo la volta.
Vediamo come va.

Non assicuro l'assenza di altri gufi, però.
Con un'altra scrollata di spalle per l'ennesimo brivido al solo ricordo di quella creatura, la vedo sorridere. Sincera. Gli occhi sono ancora goffi di pianto, ma sul viso è tornata la sua espressione di sempre.
Allunga il braccio verso il tavolino e posa la bottiglia di whisky.

Ok. Posso accettarlo. Almeno so cosa aspettarmi. È comunque un passo avanti.


WANDERLUST
 
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5 replies since 26/6/2022, 10:56   905 views
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