Blow

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view post Posted on 6/3/2023, 23:32
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Ocean eyes.

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I fatti seguono The Roaring 20's, Ballo d'Inverno 2022.
Megan torna a Londra per le vacanze di Natale.

La Partenza
L’alba si fa avanti nel cielo illuminandolo. Le sfumature tenui e calde si allargano man mano che la luce sovrasta lo spazio. Hogwarts si spoglia delle vesti scure e riflette l’essenza di quel momento. Qualche minuto e gli uccelli inizieranno a cantare accogliendo il giorno, così ancora e ancora nel tempo.
Spiragli di luce avanzano nel dormitorio Corvonero, lì nella stanza situata a est della torretta; penetrano fra i lunghi drappeggi blu che sovrastano le finestre, illuminando l’interno.
I raggi accarezzano il mio viso; cerco di riprendere sonno immergendomi nel morbido cuscino ma alla fine cedo e apro gli occhi.
Sono le sette di mattina.
È il ventiquattro di dicembre: il giorno della partenza. L’Hogwarts Express partirà tra poche ore e Londra tornerà ad essere la mia casa per un po’.
La quiete permea nella stanza avvolgendomi. Il battito del cuore è lento, ne ascolto il suono profondo, lontano. Crollo di nuovo nel buio, qualche minuto soltanto; poi, sbarro gli occhi convinta di aver saltato la sveglia.
Sono le sette e dieci.
Il tempo non passa.
Mi costringo ad alzarmi, tolgo le coperte di dosso e un sospiro di sollievo esce dalle labbra appena schiuse. La temperatura della stanza avvolge le gambe nude. Rabbrividisco.
Grace ed Abigail dormono, Damon ha aperto gli occhi e mi guarda incuriosito ma non ha alcuna intenzione di assecondarmi: un miagolio appena accennato prima di rimettere la testolina tra le zampe. Lo osservo e sorrido; poi, mi alzo afferrando i lembi della tenda e schermo la luce quel che basta per prepararmi. Floki dorme nella gabbia nascondendo la testa tra il folto piumaggio color pece, sopra il baule in fondo al letto. A breve sarò fuori di qui.

Il paesaggio scorre veloce fuori dal finestrino. Macchie di colori spennellati su una tela bianca senza un ordine preciso rivelano la bellezza del mondo per chi le osserva. Ma io non guardo. Ho la testa poggiata sul vetro e mi lascio cullare dalle vibrazioni del treno in corsa: occhi chiusi, pensieri sconnessi. Ci sono altre due persone qui con me ma non le ascolto, le loro voci arrivano lontane come un ronzio fastidioso. E allora la sua assenza si fa sentire, pesa talmente tanto da lasciarmi un vuoto nello stomaco. Non ho fame.
Mi sollevo ritrovando la corretta postura: gambe accavallate, schiena dritta e appoggiata al sedile. Come fossero appena entrate, rivolgo alle presenti un sorriso. Loro sanno chi sono e forse si domandano per quale motivo abbia scelto di non stare nelle carrozze riservate a Prefetti e Caposcuola. Di rimando sorridono e la ragazza dai capelli rossi mi offre un biscotto. Non rifiuto, cerco di sbloccare l’assenza di fame e la ringrazio staccandone un pezzo.
Rivolgo l’attenzione su di loro ma taccio in attesa. Non so che dire e mi rendo conto di quanto la mia socialità si sia ridotta all’osso negli ultimi anni, circondandomi di effimeri rapporti che non hanno lasciato altro che vuoto e dolore.
Le due ragazze riprendono a parlare e l’imbarazzo si attenua sulle gote. Il viso si rilassa, sospiro silenziosamente: mi sembra di riprendere aria dopo minuti di apnea. Si saranno rese conto del mio disagio e ora parlano del più e del meno, discorsi che arrivano alle orecchie come una lunga lista di cose ridondanti. Non mi coinvolgono e va bene: non ho voglia di ascoltarle, mi annoiano.
Sarò a Londra nel tardo pomeriggio. Non ho mai desiderato così tanto di arrivare a Kensington: guardare mia nonna con un'espressione disgustata, entrare in casa e salire in camera isolandomi dal mondo.
Ancora due ore.
L’attesa è estenuante.

Casa
Il treno arresta la corsa. Il fischio chiaro dei controllori accompagna l’apertura delle porte spinte dai bracci degli studenti in prima fila. Lascio uscire le due ragazze e rivolgo loro un sorriso di circostanza ma i miei occhi non celano la totale indifferenza che provo. Non ho che condiviso insieme ore irrisorie, alternando lo sguardo tra loro e il paesaggio invernale al di là dell’ampio finestrino.
Scendo dal convoglio e il senso di nausea torna puntuale a contorcermi lo stomaco. Ho fame adesso. Voglio sopperire la sensazione che ogni volta mi avvolge quando respiro l’aria di Londra.
Mi chiudo a riccio cercando riparo dal freddo e attraverso la stazione con il vento contrario a pungermi il viso, come piccoli e invisibili aghi di ghiaccio. Stringo un braccio attorno al busto e con l’altro mi aiuto a trascinare il carrello mantenendo lo sguardo basso e le dita ben salde. Un tempo amavo questa città, ora non provo altro che costante apatia.
«Bentornata.» La voce di Elizabeth mi sovrasta e freno lo spavento prima ancora di poterlo mostrare proiettandomi leggermente indietro. Stringo la mano sul carrello e alzo lo sguardo immediatamente: gli occhi ghiaccio mi osservano con severità. La pelle invecchiata dalle rughe accentua l’espressione austera. Mia nonna non sorride, la bocca è serrata.
«Non direi» rispondo dopo un attimo di silenzio. Dal tono della voce non traspare alcuna emozione anche se un brivido mi attraversa la spina dorsale, costringendomi a distogliere lo sguardo. Guardarla mi disgusta e terrorizza allo stesso modo.
Non dice altro e afferra il mio braccio, tempo di prendere i bagagli e l’ultima cosa che sento è un fruscio che mi avvolge, il senso di vuoto che si avvinghia nelle viscere e poi più niente.
Occhi serrati, cerco di aprirli lentamente appena torno a sentire la terra sotto i piedi. Casa appare distorta e il senso di nausea mi costringe a portare la mano sulla bocca; la bile risale lungo la trachea: ho il voltastomaco. Lascio il peso dalle mani e cerco di non crollare sulle ginocchia. Non riesco ad abituarmi alla smaterializzazione, ogni volta ho la sensazione che non torni del tutto integra.
«Prendi le tue cose ed entra, trovi qualcosa in frigo se hai fame» mia nonna avanza varcando la soglia.
Chiudo gli occhi e li riapro. Il sole è basso e la sera avanza. Le nuvole d’improvviso fanno spazio a una costola di luna che illumina l'ambiente, così le mie pupille si stringono di riflesso.
Casa.
Un profondo respiro e salgo i gradini.



La porta si chiude dietro di me, un tonfo deciso e il meccanismo serra l’entrata. Il profumo assente invade i miei sensi ma non placa la nausea bensì l’alimenta.
Vuoto.
Non mi sento bene.
È come entrare in un luogo chiuso, stretto e caldo; cercare una via d’uscita grattando lungo il muro di cemento perché non c’è più ossigeno.
Non respiro.
Qui le bugie impregnano le pareti apparentemente pulite e una volta dentro vivere è una lenta tortura: segni sul corpo nascosti dalla magia per calmare la rabbia, per lasciar tacere la mente; il dolore sanguina sulla pelle come rigoli d'acqua da una piccola apertura, non ha colore.
Tutto si ripete.
L’odore del legno appena lustrato, poi, non fa altro che aumentare la sensazione che provo.
Non è cambiato niente. Sono in una gabbia piena di mobili ossidati di silenzio e dolore. Non so come fuggire.
Attraverso l’atrio e mi spingo in salotto. Elizabeth è in cucina, la guardo di sfuggita prima di salire la scala sinistra. Le dita poggiano sullo corrimano e mi aggrappo trascinandomi in cima. Damon mi supera correndo via e io faccio un paio di gradini ma poi mi fermo: «Non ci sono a cena» dico ad alta voce.
Sento il rumore di vetri infrangersi sul pavimento. Mia nonna potrebbe essere ferita e una parte di me desidera che sia così. «Tutto bene?» chiedo. Torno di sotto, supero la soglia e la vedo. Raccoglie i pezzi di un bicchiere pulito; sul bancone c’è una bottiglia di Whisky: ottima annata, distillato pregiato. Ne vorrei un bicchiere anche io.
«Dove vai?» mi chiede. Sono sorpresa e per un attimo rimango a fissarla.
Non rispondo, non le riguarda. La parte della buona e brava nonna interessata non funziona con me.
«Da quando ti importa?»
La sfido e avanzo di qualche passo. Ora, vicina al tavolo, afferro con la mano un fiore d’arancio dal vaso di porcellana. Lo porto al naso e ne avverto il profumo aspro e fresco: provo a sedare le sensazioni soffocanti dalle quali vorrei evadere.
«Hai bisogno di qualcosa?» aggiungo allora, indossando la più gentile delle maschere. La vedo tremare, torno a fissare le spalle esili e la testa china. Elizabeth si gira e mi rivolge uno sguardo di ghiaccio. Ha in mano un altro bicchiere, pieno questa volta, e butta giù un lungo sorso.
«Sei sempre più uguale a quello stronzo di tuo padre» si spinge in avanti venendomi incontro. È fuori di sé, di nuovo.
Immobile. Non riesco a muovere un muscolo; è una ferita che si riapre e torna a sanguinare.
«Guarda che fine ha fatto, eh?»
Impallidisco e le mani fremono. Il fiore si spezza, cade sul pavimento e il suono è un tonfo assordante che mi percuote. Il cuore è in fiamme, il respiro è bloccato.
«È colpa sua se ho perso tua madre» sputa ancora rabbia e gli occhi mi fissano, freddi.
Mi prende il viso tra le dita e si avvicina. Puzza d’alcol, provo a resistere a quell’odore disgustoso. Sostengo lo sguardo mentre le gambe tremano e ho solo voglia di puntarle la bacchetta alla gola.
«Non sai quanto mi costa rivolgerti lo sguardo, eppure lo faccio: provo a fare la nonna» stringe appena, le labbra si serrano ma poi molla la presa spingendomi il viso di lato. Torna con le mani lungo il fianco e mi supera. Quella donna non è più mia nonna e non riesco a ricordare come era prima di averla lasciata qui in lacrime, molti anni fa. Questo luogo è stato un tempo la mia vera casa ma non ne ho memoria, solo ritratti in qualche foto abbandonata in soffitta. Ricordi felici, probabilmente, ma io non sento nient'altro che il vuoto.
Mia nonna è un’estranea.
Mia nonna è l’unica cosa che mi rimane.
«Sforzati di essere una nipote e sii educata. No ho più pazienza con te, Megan.»
Mi lascia lì. Annuisco. Sento ancora la pressione lungo la mascella e i polpastrelli spingere nelle guance. Porto le dita ad asciugare una lacrima assente, mi mordo le labbra cercando di chetare il dolore per poi richiudere la ferita. Il cuore batte ancora forte, sembra voler venire fuori dal petto. Non posso ascoltarlo, devo pensare ad altro. Lo so, non ho il controllo.
Raccolgo il fiore e cerco di rimetterlo a posto, provo a rimediare per averlo spezzato tra le mani; d’improvviso, come si recide un rapporto con una singola e tagliente parola. L’angoscia mi assale e la consapevolezza mi restituisce l’amara realtà che mi circonda.
Non è cambiato niente.
Con uno scatto porto il braccio a spingere con forza il vaso verso il ripiano della cucina.
I fiori cadono.
Il vaso cade.
Io grido.



 
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view post Posted on 9/1/2024, 16:40
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I fatti seguono Blurred Lines.
Megan torna a Londra per il periodo estivo.


Il treno frena ed io mi sveglio di colpo. Il fischio interrompe la quiete dei miei sogni assenti. Muovo le mani così le gambe, cerco di riacquistare mobilità dopo ore ferma nella stessa posizione. Poi, il peso di Draven sulla testa e d’improvviso il ritorno, come un pugno nello stomaco, di ciò che per un momento avevo dimenticato.
«Siamo arrivati» dico con un sussurro, scivolo via da lui una volta che lo sento scostarsi assonnato. Con una spinta mi alzo e prendo i bagagli lasciati a terra e prima di uscire dalla cuccetta mi assicuro che lui stia bene in qualche modo.
«Ci sentiamo dopo?» mi chiede. Il cuore accelera. «» annuisco e gli rivolgo un piccolo sorriso, insicuro e imbarazzato.
Gli volto le spalle e passo dopo passo il dolore torna a farsi spazio. Comprendo di non poter sopportare a lungo quella situazione, no.
Scendo dal vagone solo dopo aver recuperato Damon, Londra mi accoglie con nuvole di fumo e il vociare allegro delle persone in attesa sulle banchine.
«Solo qualche giorno Dam, poi ce ne torniamo a casa e potrai giocare con Floki» dico con un filo di voce e le dita, tra le sbarre della gabbietta, accarezzano il suo musino. Il mio sguardo vaga da un limitare all’altro del binario sino a fermarsi su una delle colonne al centro esatto dell’ambiente: mia nonna è lì, la vedo. Ho voglia di scappare lontano ma i piedi seguono dritti verso di lei così da raggiungere la sua posizione, fermandomi a pochi passi.
«Bentornata, Megan.»
La voce, fredda e cupa, copre il vociare gioioso di molti studenti riuniti alle loro famiglie. Mi fermo, incontro il suo sguardo, Elizabeth mi osserva con austerità poi sposta la testa di lato; gli occhi indagano oltre le spalle, come se si aspettasse qualcun altro dietro di me.
«Non c’è» rispondo con tono rapido e distaccato, cerco di non mostrare il velo di tristezza che naviga nell’oceano dei miei occhi; lei mi rivolge un piccolo cenno con la testa, soddisfatta.
«Molto bene, andiamo. Ho molto di cui parlarti, dato che ho inutilmente inviato un gufo a Hogwarts qualche mese fa» mi afferra per il braccio e d'improvviso sento uno strappo all’altezza dell’ombelico e la nausea risalire in gola.
Apro gli occhi, la smaterializzazione dura qualche secondo. Tento di riprendere il contatto con la realtà. Il terreno sotto i piedi mi pare fatto di gelatina, più cerco di spostare il peso da una gamba all’altra più mi sento affondare lentamente.
«Se persiste ci sono chiodi di garofano e zenzero per un infuso» Elizabeth mi supera e la sua voce mi appare falsamente interessata alla mia salute. Inspiro ed espiro. Il peso nello stomaco non cessa di darmi nausea, cerco di concentrarmi altrove per non vomitare.
La casa ha sempre lo stesso aspetto, la stessa aurea fredda che riveste pareti e mobili d’una bellezza sterile. Attraverso la soglia, lascio i bagagli lungo il corridoio e subito l’odore di violetta e lavanda invade i miei sensi. Il cuore si stringe, è… Familiare.
«Sono passata nella tua vecchia casa» mi dice ed io alzo lo sguardo su di lei confusa.
«Cosa?»
«Sì, ho dovuto controllare che fosse ancora in piedi e con mia somma sorpresa, a parte alcune parti di intonaco venuto giù, è perfetta!» intona soddisfatta, poi prosegue: «Hai fame? Evie dovrebbe averti preparato qualcosa».
«Evie?» Mi sento visibilmente confusa.
«L’elfa domestica. Ricordi quando eri piccola? È a servizio della famiglia Milford da molti anni ma per altrettanti anni è stata fuori per… Alcune questioni».
Un pop sordo alle spalle e mi giro.
«Signorina Megan! È bello rivederla dopo tanto tempo, signorina. Era poco più alta di me, credo» la piccola creatura fa una risatina ed io rimango impassibile, accigliata.
«Mi spiace, non mi ricordo di te Evie» replico e abbozzo un sorriso di circostanza; no, non ho alcuna memoria di lei.
«Non c’è problema signorina Megan, avremo tempo per conoscerci di nuovo. Porto le valigie nella sua camera» la creatura risponde con cordialità e non appare offesa in alcun modo, poi svanisce.
Torno su Elizabeth. «Cosa è successo in questi mesi?» chiedo con curiosità e timore in egual misura. Proseguo in cucina ma non prendo posto su uno dei sgabelli, rimango immobile di fronte al ripiano mentre vedo mia nonna posizionarsi dalla parte opposta.
«Avremo modo di parlarne meglio durante questo periodo insieme ma ti anticipo che ho deciso di rilevare l’accademia di musica di Jaqueline» si siede e dal nulla appare un bicchiere di vino che afferra e fa roteare tra le dita. «Perfetto Evie, perfetto» aggiunge avvicinando il naso al calice, inebriandosi dapprima dell’odore.
«Da quanto è che non suoni Megan? È molto tempo che non ti sento farlo, mi farebbe piacere se una sera di queste ti esibissi per me e per le mie amiche» prosegue con finta cortesia e mostra un sorriso che mi fa raggelare.
«Non credo che lo farò» rispondo di getto e senza guardarla.
«Peccato… È davvero un gran peccato. Vedi, Megan, è per celebrare il nuovo acquisto» Elizabeth beve un sorso di rosso. La ignoro e lei si alza. Un pugno nello stomaco e il senso di angoscia che mi assale.
«Bimba mia» mi dice ed io rabbrividisco ancora, per il disgusto questa volta. Questa finta dolcezza mi indispettisce ma non dico niente, giacché conosco i modi poco ortodossi di mia nonna.
«Te lo dico in maniera chiara e voglio che tu mi ascolti: ho bisogno di soldi e tu firmerai il contratto per la vendita della casa a Lambeth, ho già degli acquirenti interessati. Aspettavo una risposta mesi fa e per questo ho dovuto ritardare la trattativa. Ci sarà una festa in memoria dei tuoi genitori, ovviamente, e tu ti esibirai in un concerto dove sarai entusiasta e ben lieta di poter ricordare tua madre e tuo…padre.»
Mi sento raggelare, non può averlo detto davvero. Indietreggio mentre lei avanza.
«Non puoi chiedermi una cosa del genere, non firmerò mai!» rispondo a denti stretti mentre stringo gli occhi preparandomi ad uno schiaffo dritto in pieno volto. Elizabeth rimane in silenzio e ride. Scuote la testa, beve un altro sorso e poi mi volta le spalle.
«Vai in camera Megan, credo che tu abbia molto a cui pensare. Ci sono alcune cose che ho riportato da lì, diciamo che è la mia offerta in cambio di ciò che ti ho chiesto. Ovviamente ci sarà anche l’altra parte che è ancora in casa».
Il cuore si ferma. Foto e oggetti appartenenti alla mia infanzia, i ricordi più tangibili del miei genitori, sono nella mia stanza in questo momento. Non li vedo da così tanto tempo che il solo pensiero, ora, mi terrorizza.
«No» rispondo. Gli occhi sono fissi su di lei, scuoto la testa e mantengo il punto.
«Non fare la difficile. Le maniere forti non ti hanno mai piegata ma, forse, questo lo farà» sorride con soddisfazione ed io tremo. «Brucerò tutto… Ogni cosa, Megan. E non avrai più niente» aggiunge con un tono perverso, poi porta di nuovo il calice alle labbra.
La testa inizia a girare. I pugni si stringono, il carico di emozioni che mi porto dentro dapprima implode e poi esplode nei polmoni tanto da farmi urlare: «NO! NON PUOI! NON LO FARAI!»
È una frazione di secondo. Prima ancora che io possa rendermene conto, la bacchetta di ciliegio punta contro Elizabeth e il bicchiere le esplode tra le mani.
«EXPELLIARMUS!» lei grida tirando fuori a sua volta l’arma con una velocità che mi stupisce.
«PROTEGO!» rispondo e il catalizzatore rimane tra le mie dita.
«La prudenza non è mai troppa con te e devo ammettere che sei preparata. Hogwarts ancora è un’ottima insegnante a distanza di così tanto tempo» sorride e un rivolo di sangue le cola sulla guancia, ha un taglio abbastanza profondo sotto l’occhio.
«Cosa avevi intenzione di fare esattamente?» ride e lecca via il sapore del ferro dalle labbra. Rimango ferma e seguo ogni suo movimento. Giriamo in tondo per qualche istante, come due cani pronti a sbranarsi, poi lei avanza ed io indietreggio superando la soglia della cucina e ritrovandomi nel salone. «È quello che ti insegna quel ragazzino che frequenti? Quello della foto» mi canzona, «mi chiedo come faccia uno come lui a stare con una come te. Cosa hai da offrigli? Come mai ancora non si è stancato di te?» ride sprezzante, la bacchetta continua a tenermi sotto mira ed io questa volta abbasso la guardia.
Il cuore batte forte. Draven diventa la mia debolezza.
Come fa a stare con una come me?
Elizabeth fa un ulteriore passo avanti e sento una forza improvvisa spingermi indietro di qualche metro. Dura pochi istanti, cado con violenza sul tavolino di marmo e urlo per l’improvviso dolore al fianco destro. Mi piego di lato, la bacchetta è ancora stretta nella mano e a fatica riesco a mettere a fuoco ciò che mi circonda. Un fischio assordante invade le mie orecchie, non smetto di gridare e contorcermi su me stessa.
Fa male, cazzo fa male! Fatelo smettere! Fatelo smettere!
È una tortura che raggiunge l’apice e poi...
«Sembrerebbe due costole fratturate, Signora Milford» sento in lontananza la voce di Evie.
«Portala in camera sua e dalle ciò che le occorre, avrà bisogno di riposare» sono le ultime parole che sento prima di svenire.








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