Il treno arresta la corsa. Il fischio chiaro dei controllori accompagna l’apertura delle porte spinte dai bracci degli studenti in prima fila. Lascio uscire le due ragazze e rivolgo loro un sorriso di circostanza ma i miei occhi non celano la totale indifferenza che provo. Non ho che condiviso insieme ore irrisorie, alternando lo sguardo tra loro e il paesaggio invernale al di là dell’ampio finestrino.
Scendo dal convoglio e il senso di nausea torna puntuale a contorcermi lo stomaco. Ho fame adesso. Voglio sopperire la sensazione che ogni volta mi avvolge quando respiro l’aria di Londra.
Mi chiudo a riccio cercando riparo dal freddo e attraverso la stazione con il vento contrario a pungermi il viso, come piccoli e invisibili aghi di ghiaccio. Stringo un braccio attorno al busto e con l’altro mi aiuto a trascinare il carrello mantenendo lo sguardo basso e le dita ben salde. Un tempo amavo questa città, ora non provo altro che costante apatia.
«Bentornata.» La voce di Elizabeth mi sovrasta e freno lo spavento prima ancora di poterlo mostrare proiettandomi leggermente indietro. Stringo la mano sul carrello e alzo lo sguardo immediatamente: gli occhi ghiaccio mi osservano con severità. La pelle invecchiata dalle rughe accentua l’espressione austera. Mia nonna non sorride, la bocca è serrata.
«
Non direi» rispondo dopo un attimo di silenzio. Dal tono della voce non traspare alcuna emozione anche se un brivido mi attraversa la spina dorsale, costringendomi a distogliere lo sguardo. Guardarla mi disgusta e terrorizza allo stesso modo.
Non dice altro e afferra il mio braccio, tempo di prendere i bagagli e l’ultima cosa che sento è un fruscio che mi avvolge, il senso di vuoto che si avvinghia nelle viscere e poi più niente.
Occhi serrati, cerco di aprirli lentamente appena torno a sentire la terra sotto i piedi. Casa appare distorta e il senso di nausea mi costringe a portare la mano sulla bocca; la bile risale lungo la trachea: ho il voltastomaco. Lascio il peso dalle mani e cerco di non crollare sulle ginocchia. Non riesco ad abituarmi alla smaterializzazione, ogni volta ho la sensazione che non torni del tutto integra.
«Prendi le tue cose ed entra, trovi qualcosa in frigo se hai fame» mia nonna avanza varcando la soglia.
Chiudo gli occhi e li riapro. Il sole è basso e la sera avanza. Le nuvole d’improvviso fanno spazio a una costola di luna che illumina l'ambiente, così le mie pupille si stringono di riflesso.
Casa.Un profondo respiro e salgo i gradini.
La porta si chiude dietro di me, un tonfo deciso e il meccanismo serra l’entrata. Il profumo assente invade i miei sensi ma non placa la nausea bensì l’alimenta.
Vuoto.
Non mi sento bene.
È come entrare in un luogo chiuso, stretto e caldo; cercare una via d’uscita grattando lungo il muro di cemento perché non c’è più ossigeno.
Non respiro.
Qui le bugie impregnano le pareti apparentemente pulite e una volta dentro vivere è una lenta tortura: segni sul corpo nascosti dalla magia per calmare la rabbia, per lasciar tacere la mente; il dolore sanguina sulla pelle come rigoli d'acqua da una piccola apertura, non ha colore.
Tutto si ripete.
L’odore del legno appena lustrato, poi, non fa altro che aumentare la sensazione che provo.
Non è cambiato niente. Sono in una gabbia piena di mobili ossidati di silenzio e dolore. Non so come fuggire.
Attraverso l’atrio e mi spingo in salotto. Elizabeth è in cucina, la guardo di sfuggita prima di salire la scala sinistra. Le dita poggiano sullo corrimano e mi aggrappo trascinandomi in cima. Damon mi supera correndo via e io faccio un paio di gradini ma poi mi fermo: «
Non ci sono a cena» dico ad alta voce.
Sento il rumore di vetri infrangersi sul pavimento. Mia nonna potrebbe essere ferita e una parte di me desidera che sia così. «
Tutto bene?» chiedo. Torno di sotto, supero la soglia e la vedo. Raccoglie i pezzi di un bicchiere pulito; sul bancone c’è una bottiglia di Whisky: ottima annata, distillato pregiato. Ne vorrei un bicchiere anche io.
«Dove vai?» mi chiede. Sono sorpresa e per un attimo rimango a fissarla.
Non rispondo, non le riguarda. La parte della buona e brava nonna interessata non funziona con me.
«
Da quando ti importa?»
La sfido e avanzo di qualche passo. Ora, vicina al tavolo, afferro con la mano un fiore d’arancio dal vaso di porcellana. Lo porto al naso e ne avverto il profumo aspro e fresco: provo a sedare le sensazioni soffocanti dalle quali vorrei evadere.
«
Hai bisogno di qualcosa?» aggiungo allora, indossando la più gentile delle maschere. La vedo tremare, torno a fissare le spalle esili e la testa china. Elizabeth si gira e mi rivolge uno sguardo di ghiaccio. Ha in mano un altro bicchiere, pieno questa volta, e butta giù un lungo sorso.
«Sei sempre più uguale a quello stronzo di tuo padre» si spinge in avanti venendomi incontro. È fuori di sé, di nuovo.
Immobile. Non riesco a muovere un muscolo; è una ferita che si riapre e torna a sanguinare.
«Guarda che fine ha fatto, eh?»
Impallidisco e le mani fremono. Il fiore si spezza, cade sul pavimento e il suono è un tonfo assordante che mi percuote. Il cuore è in fiamme, il respiro è bloccato.
«È colpa sua se ho perso tua madre» sputa ancora rabbia e gli occhi mi fissano, freddi.
Mi prende il viso tra le dita e si avvicina. Puzza d’alcol, provo a resistere a quell’odore disgustoso. Sostengo lo sguardo mentre le gambe tremano e ho solo voglia di puntarle la bacchetta alla gola.
«Non sai quanto mi costa rivolgerti lo sguardo, eppure lo faccio: provo a fare la nonna» stringe appena, le labbra si serrano ma poi molla la presa spingendomi il viso di lato. Torna con le mani lungo il fianco e mi supera. Quella donna non è più mia nonna e non riesco a ricordare come era prima di averla lasciata qui in lacrime, molti anni fa. Questo luogo è stato un tempo la mia vera casa ma non ne ho memoria, solo ritratti in qualche foto abbandonata in soffitta. Ricordi felici, probabilmente, ma io non sento nient'altro che il vuoto.
Mia nonna è un’estranea.
Mia nonna è l’unica cosa che mi rimane.
«Sforzati di essere una nipote e sii educata. No ho più pazienza con te, Megan.»
Mi lascia lì. Annuisco. Sento ancora la pressione lungo la mascella e i polpastrelli spingere nelle guance. Porto le dita ad asciugare una lacrima assente, mi mordo le labbra cercando di chetare il dolore per poi richiudere la ferita. Il cuore batte ancora forte, sembra voler venire fuori dal petto. Non posso ascoltarlo, devo pensare ad altro. Lo so, non ho il controllo.
Raccolgo il fiore e cerco di rimetterlo a posto, provo a rimediare per averlo spezzato tra le mani; d’improvviso, come si recide un rapporto con una singola e tagliente parola. L’angoscia mi assale e la consapevolezza mi restituisce l’amara realtà che mi circonda.
Non è cambiato niente.
Con uno scatto porto il braccio a spingere con forza il vaso verso il ripiano della cucina.
I fiori cadono.
Il vaso cade.
Io grido.