R e w i n d, Concorso a Tema: [Settembre 2023]

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view post Posted on 22/9/2023, 19:28
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entropia.

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Nieve Rigos
18 anni
Mese di Agosto, poco prima dell'inizio del IV anno (bis perché bocciata l'anno prima)
Londra
Ambientazione: dopo Strike First. Strike Hard. No Mercy.; prima di Daedalus
Canzone d’ispirazione: x
TW: linguaggio esplicito


w5Lpd6X
Ieri ero quiete, mentre oggi sarò la tempesta
C’è un pensiero che non so se condividere. È personale, uno di quelli che vorresti soffocare fin quasi a dimenticartene. Lo guardo farsi sbuffo di fumo nel cielo umido di Londra, mentre riporto la sigaretta alla bocca.
Un gruppo di adolescenti ondeggia pericolosamente su stivali troppo alti e troppo pesanti per la fine di agosto. Sento l’odore dell’alcol dalla ringhiera di metallo che regge il mio peso. Noto lo sguardo giudicante di una coppia di turisti in là con l’età —temono per l’incolumità delle ragazze o, forse, non ne condividono l’abbigliamento succinto. Mi mordo un labbro. Sarei tentata di dare un colpo di reni, raggiungerli, alzare la maglia e mostrare loro i seni nudi. Pregusto lo sgomento sui loro visi, gioco con la lingua sul palato, umetto le labbra. La voce nella mia testa mi dice di procedere. Non è un’occasione che si può sprecare così. E lo do, il colpo di reni, ma…
«Nieve?»
Mi fermo. La mano che regge la sigaretta pende alla destra del mio fianco, la testa scatta in direzione della voce che reclama la mia attenzione. Mi basta la frazione di un secondo per riconoscerne il proprietario.
«Kurt» soffio, sorpresa. Una delle cotte più epocali che mi sia mai presa a scuola; e lui era felicemente fidanzato, ovviamente. È strano che stia trattenendo il respiro, nonostante siano passati tre anni dall’ultima volta che il suo cammino ha incontrato il mio? E che il mio cuore non abbia ancora trovato il coraggio di battere un altro colpo? «Che ci fai qui?!»
La sveltezza mentale non è proprio una prerogativa di questo genere di episodi, devo dedurre. Di tutte le cose che avrei potuto dire, ho usato una frase che lascia intendere non dico un fastidio, ma senz’altro non proprio il piacere di rivederlo.
Lui ride con quel suo modo comprensivo che vuole dire quanto prevedibile io sia rimasta ai suoi occhi, sebbene i giorni si siano trasformati in settimane, le settimane in mesi e i mesi in anni. Lo osservo alzare una busta di plastica. «Sono uscito a prendere un po’ di gelato per mia moglie. Sai, Florian chiude bottega presto e i babbani sono più svegli». Vorrei non aver sobbalzato quando ha usato quella parola, ma le mie spalle hanno sussultato e per la vergogna ho poi sbarrato gli occhi. Che stupida! Che sottona! Lui mi rivolge un sorriso accennato, come se si sentisse colpevole, e io arrivo a odiarmi sapendo di esserne la causa. «Ci siamo sposati poco dopo i M.A.G.O.» aggiunge timidamente.
Porto quel che rimane della sigaretta alla bocca e inspiro profondamente, una supplica silente rivolta ad aconito e belladonna. Quando espiro, gli sorrido e sto mascherando bene il dolore causato dal cavatappi conficcato nell’ammasso di nervi e fibre muscolari che si ostina a reagire alla presenza di Kurt.
«Sono tanto felice per te, Kurt». Con tutte le buone intenzioni del mondo, non riesco a parlare al plurale. Posso gioire per lui, ma non per la persona che… non so nemmeno io cosa. «Che gusti hai preso?» domando per spostare l’ago della conversazione verso lidi più tenui.
Kurt, tuttavia, serra le labbra. Non è questo che vuole da me. Lo comprendo dal gioco di ombre che si succede nelle profondità del suo sguardo, dalle piccole rughe che si formano ai lati della sua bocca. Com’è vero che lui conosce me, lo è altrettanto credere che io conosca lui. E so che le chiacchiere di circostanza non fanno per lui. Non con me almeno. Ciò che non sa è che non posso accontentarlo perché, la spontaneità e la fiducia che cerca —quelle cui era avvezzo—, le ho perdute lungo la via; come io devo aver mancato l’evoluzione che l’ha visto farsi, da ragazzo, uomo. Per questo rimango sorpresa quando mi toglie la sigaretta di mano, la butta a terra e raccoglie le mie dita tra le sue. Ispeziono i suoi occhi e lui fa lo stesso con i miei, adesso più vicino di un passo —forse due.
«Cos’è successo? I tuoi occhi... Chi?» È così diretto che il mio respiro si frammenta, inevitabilmente. «Dimmelo».
Batto le palpebre e mi guardo intorno alla ricerca di una via di fuga, ma lui stringe la presa. Vorrei dirgli che non può fare così, che non ne ha il diritto. Può avere pretese nei confronti di sua moglie, è lei che deve proteggere. Io sono una compagna di scuola che non sente da anni e che ha incontrato per caso all’uscita di un locale per le strade della Londra babbana. A fermarmi è il desiderio pressante che desta il mio imbarazzo —quello che vorrei seppellire nella buca dove giace la Nieve di un tempo, decrepita e decomposta: voler essere amata come lo era un tempo, da Roth.
La consapevolezza della Sua assenza mi colpisce. È feroce come il caldo nelle metropoli d’estate, come l’umidità che penetra i polmoni e li priva dell’ossigeno, come la falce della Signora di nero vestita col suo lungo mantello di anime rubate. Cosa può saperne, Kurt, felice in questa bella notte con una vaschetta di gelato e pronto a tornare da sua moglie? Cos'è questo preciso momento per lui?
I miei occhi si induriscono. «Torna da tua moglie o vuoi fare la figura del patetico e mostrarle che non sei nemmeno in grado di portarle del gelato senza che diventi un milkshake?»
La mia accusa stona brutalmente con la persona che sono stata, con il calore che gli ho usato finora, con l’augurio di felicità che gli ho rivolto. Lo spiazzo. Kurt perde stabilità e io colgo l’occasione per spingerlo via.
«Cosa ti è successo?» torna a chiedere, l’espressione adirata. È cocciuto come un mulo. «Non m’importa quanto tu possa fare la stronza. Dai spettacolo. Non mi spaventi».
Inclino la testa, placida. «Non c’è tempo per noi. Non c’è mai stato. Siamo solo due vecchie conoscenze che inciampano l’uno nell’altro una sera. Fine della parentesi».
Il colpo va a segno —Emma Woodhouse fa capolino tra i miei pensieri. Il senso di colpa imbratta i suoi propositi, che impallidiscono al cospetto della mia accusa. Le sue labbra si schiudono: vorrebbe pronunciare delle scuse, darmi delle spiegazioni, ma il mio ghigno lo ferma. Scuoto il capo. È evidente che ho messo un punto alla questione e anche lui capisce che probabilmente è meglio così. Cosa accadrebbe se a stasera seguissero altri incontri? Dove andremmo a finire?
«Ehi, amico…»
Un ragazzo appare alle sue spalle. Un’intromissione inattesa, che riporta entrambi alla realtà. Solo adesso scorgo il trio a qualche metro da noi e realizzo che, soli, non lo siamo stati mai.
Intervengo prima che Kurt possa proferire parola: «Kurt stava giusto venendo da voi. Portatelo via prima che il gelato si trasformi in una pappetta. È stato un piacere rievocare i tempi della scuola. Ci si becca in giro! Torno dentro dai miei amici!»
Agito la mano verso il gruppetto. Kurt, invece, non lo degno di uno sguardo. Non perché gli porti rancore, ma per timore di avere un ripensamento; di essere tradita dai miei occhi.
Entro nel locale con la sensazione di trovarmi sul filo sottile tra l’esistenza e l’inesistenza. Nel tempo che ho speso a distruggermi pezzo dopo pezzo, a lasciarmi vivere per inerzia, il mondo è andato avanti e io sono rimasta indietro. Ora che sono tornata, il posto che ricoprivo è stato occupato da nuove abitudini, altre persone, progetti che non mi riguardano.

Un tuono risuona con il senso di mancata appartenenza che mi opprime. Torno all’aperto, affamata d’aria, consumata dal bisogno di cancellare l’incontro con Kurt e il desiderio che ha rianimato. L’ultima volta che ho amato, mi sono ritrovata china sulla ghiaia con le iridi tinte di bianco e la disperazione fissa nel profondo dell’io. Mi sono ritrovata qui, fuori da questo pub, dove l’impronta della sua sagoma è tutto ciò che mi resta per ricordarlo.
Non voglio più pensare. Voglio solo esistere come corpo, carne e ossa.
Riesco a vedermi dall’esterno mentre riavvolgo il nastro e mi muovo al rovescio. Così, anziché procedere in avanti, è come se indietreggiassi e ripercorressi i passi di un momento già vissuto —la mente spenta, le tempie in fiamme, due palme invisibili premute contro la calotta cranica.
L’acqua scroscia sull’asfalto. Figure sfocate mi corrono intorno alla ricerca di riparo. Io, invece, retrocedo senza esitazione. I capelli bianchi rilucono alla luce irosa dei lampi —ne richiamano i sentieri incostanti tracciati sulla volta cupa. Marcio su Londra, impietosa, non per conquistarla ma per attraversarla; e per riuscirci mi necessita la sua collaborazione. Che gli angoli delle strade mi siano amici! Che le svolte mi facilitino verso la meta! Che le luci dei lampioni mi guidino per la via più breve!

Bayswater mi accoglie, placida e ordinata. Sorriderei della somiglianza con la persona che riceverà la mia visita nel cuore della notte, se non fossi concentrata sul bisogno di rifuggire lo sguardo di Kurt e il tocco della sua mano sulla mia. Guardo il portone che ho già attraversato una volta e aggrotto le sopracciglia. Non ho il tempo, la voglia, la pazienza per mettermi a scassinarlo. Non voglio trovare metodi alternativi. Non…
Il clangore del vetro rotto spezza la quiete impenetrabile della notte, mentre infilo rapidamente la mano nell’apertura che sono riuscita a creare e sblocco la serratura. Ignoro il taglio che la fretta mi procura sulla parte alta del polso e m’intrufolo nel palazzo. Salgo i gradini a due a due. L’attesa mi è insopportabile. Combatto tra l’esigenza di sparire e quella di aggrapparmi alla concretezza dell’esistenza.
Il pugno si abbatte con forza sulla porta. Suona lo stesso ritmo del mio cuore in subbuglio. Horus è la sola persona che possa aiutarmi a dimenticare il bisogno d’amore che anela al riconoscimento; l’unico capace di riportarmi allo stato triviale della carne, distruggendo ogni sfumatura di sentimentalismo.
Ha l’espressione confusa e assonnata quando decide di aprire l’uscio e porre fine alla mia pressante richiesta di udienza, ma il suo sguardo mantiene una traccia vigile —se di elemosinanti ne ha conosciuti, come gli piace pensarmi, spero di essere quella che gli ha rotto di più il cazzo. Nel buio di queste ore di velluto, riesco a scorgere la fiamma dei suoi capelli e il grigio brillante delle iridi adamantine. Mi faccio avanti e abbatto le distanze.

Trovo nel calore del tuo corpo la morbidezza del sonno, il pulito delle lenzuola. A contrasto, io sono fredda e zuppa. Porto la pioggia in casa tua, Umanoide, enormi cumulonembi d’argento e grovigli di pensieri. Il ticchettio placido delle gocce che stillano dalle ciocche dei miei capelli si amplifica nel silenzio sacrale della notte; la sua trama squarciata dal mio arrivo.
Sono acqua, una corrente brusca che minaccia burrasca. Divello gli argini, perdo il controllo. Stanotte, bagno il tuo sole.


perché anche gli angeli a volte han paura della morte


Edited by ~ Nieve Rigos - 22/9/2023, 23:35
 
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view post Posted on 9/12/2023, 15:09
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46A Queensway – London – Late night –
Non è raro che io arrivi a sera completamente stravolto.
Ho questo vizio di alzarmi sempre molto presto, un retaggio dell’adolescenza in cui dovevo farlo per cominciare il giro mattutino di ronda come Prefetto prima e, poi, come Caposcuola, per le scartoffie. Ad esser sincero, dopo la Battaglia d’Ottobre non ho mai più dormito come prima e sono molto rari in casi in cui mi sono svegliato dopo le nove. Ho imparato ad occupare quello spazio che intercorre fra alba e mattino, tra sospensione del tempo e inizio delle consuetudini lavorative e/o conviviali, con la corsa. Correre appena sveglio, nel silenzio della città ancora dormiente, udire i passi sull’asfalto o su un sentiero nel parco, sono l’inizio di giornata di cui ho bisogno. Sfoga quelle inquietudini che mi avvolgono come una coperta, la notte.
La giornata di oggi è stata particolarmente stancante tra la scorta di alcuni reperti provenienti dal Perù al British Magic Museum e una riunione tra gli Spezzaincantesimi e l’Inquisitore Supremo. Una palla esistenziale dove il Rompicoglioni Supremo voleva “tenerci aggiornati” con le nuove direttive. Io e gli altri abbiamo scommesso 15 Falci sul numero delle volte in cui avrebbe detto “ci appropinquiamo”. Io ho scommesso 30 in un’ora, ma ci sono andato vicino. Ha vinto Thompson con 27. Ci si è praticamente pagato la cena con quel che ha vinto, tra le nostre proteste e l’accusa di aver barato mettendosi d’accordo con l’oggetto delle nostre puntate.

Sbadiglio, portandomi una mano sulla faccia e posando il libro sul tavolino davanti al divano. Gli occhi mi si chiudono, ma la pigrizia di alzarmi e andare a letto è tale che sono rimasto qui ad appisolarmi ogni tre o quattro righe. Il pensiero di dover affrontare –di nuovo– una lunga giornata di riunioni mi sgomenta e forse per questo ho tardato ad andare a dormire: non volevo che domani arrivasse. Sbuffo e mi alzo, agitando la bacchetta per pulire al volo il calice di vino che mi sono versato e per riporlo in cucina. Mi trascino sul soppalco e barcollo verso il letto. Non mi accorgo nemmeno di quando la mia testa tocca il cuscino: il crescente ticchettio della pioggia è la ninnananna migliore.

Coperto dal bubolare dei tuoni, non sento il vetro rompersi, giù all’ingresso. Con le finestre chiuse è certamente cosa complessa udire qualsiasi rumore avvenga al di sotto del mio appartamento, ma da quando la data della mia partenza per l’Egitto si sta avvicinando, i miei nervi sono molto più all’erta. Continuo a dormire in un sonno senza sogni che però non lascia scampo ad un dormiveglia persistente. C’è solo questo maledetto rimbombare… Mi giro dall’altra parte, aggrottando le sopracciglia man a mano che la consapevolezza mi sveglia.
Un pugno più forte sulla porta mi spinge ad aprire gli occhi e battere le palpebre più volte, prima di rendermi conto che il rumore è reale.
« Che cazzo…? »
Impreco mentre, ancora instabile, prendo la bacchetta e scendo gli scalini, mi ravvio con la mano i capelli arruffati e raggiungo la porta. Una parte di me si mantiene vigile, perché il senso d’allerta è sempre sveglio, anche e soprattutto a fronte dei rischi che corro negli ultimi anni; non ultimo, quello che mi appresto ad affrontare. In effetti… forse il matrimonio tanto voluto da mia nonna è il pericolo più impellente, allo stato attuale.
Tuttavia succede, ogni tanto, che la moglie del vicino al piano di sopra –un anziano distinto ma dalla parlata molto arzilla (anche troppo)– si svegli nel cuore della notte. Ogni tanto viene da me, altre volte va dalla donna al piano di sotto: è sonnambula e anche un po’ affetta da demenza senile, poveretta. È lei che mi aspetto di trovare quando apro la porta. Non di certo Nieve Rigos, zuppa d’acqua come se fosse appena uscita dalla doccia. Ai suoi piedi c’è una piccola pozzanghera che bagna lo zerbino, ma sono troppo assonnato –e sorpreso– per farci caso.
Mi viene in mente il parallelo con un gatto randagio –un paragone che ho fatto spesso, anche in quella cazzo di sera in cui siamo finiti a letto e poi ne siamo rimasti entrambi sconvolti per come tutto è degenerato in fretta, prima e dopo. E dopo ancora.
Non ci siamo più visti, né sentiti.
Abbiamo –ho?– sfogato la nostra rabbia finché non ci siamo completamente annullati, finché non abbiamo perso concezione né del tempo trascorso, né dello spazio fra di noi, totalmente svanito in collisione di una catastrofe che ci ha visto fautori e vittime.
Ho guardato più volte la cornice che ha rotto, con un nodo alla gola stretto al collo come un cappio.
La furia per quel gesto ha superato persino la mortificazione che ho visto nei suoi occhi; la punizione che le ho inflitto, l’ira che ho sfogato di nuovo sul suo e sul mio corpo non è bastata. Ho veicolato l’odio e il rancore che provo quando guardo quella foto sul mio stesso letto.
Letto in cui ho lasciato dormire l’autrice di quell’immenso sgarro. Un letto dove nessuno può dormire perché questa è la mia casa, non ha spazio per altre persone, neanche per una donna. Eppure dopo anni e mentre lei dormiva sfinita, io mi sono ritrovato sul divano, rannicchiato come quando ero piccolo ad osservare la mensola dove ho posato la cornice ancora rotta. Mi sono addormentato così e quando mi sono svegliato, non sono andato a correre benché l’alba fosse vicina.
Sono andato a lavoro e quando sono tornato Nieve e la bacchetta, che le avevo lasciato sul comodino, non c’erano più.

Ed ora lei è qui, proprio di fronte a me, proprio quando pensavo che non ci saremmo più visti. Mi sono sentito sollevato di non averla più sentita perché ho rimuginato più volte (e troppo) su quanto è accaduto. E per quanto il mio corpo ricordi quelle sensazioni che mi hanno tanto disturbato per il piacere che ho provato quella notte, mi sono giurato che non sarebbe mai più successo. Del resto, non avremmo avuto motivo: è stata l’apoteosi di un solo momento.
La mia convinzione è l’ennesimo mattone sul muro che sto costruendo fra me e il resto del mondo.

« Rigos? Cosa diav… »
Non la finisco la frase. Il suo sguardo è vuoto, ma il suo passo, quando varca la soglia, è più sicuro di quanto mi aspettassi e di quanto sembrasse dalle sue condizioni.
Vengo messo a tacere, brutalmente, da un bacio umido, che sa di pioggia e… necessità. Indietreggio, confuso, la prendo per le spalle e la allontano dal mio viso, mi stacco da quest’urgenza che sembra invocare come vitale; ora sì, che sono completamente sveglio. La guardo con i capelli bianchi attaccati alle guance simili a lingue d’acqua di un fiume straripato; il suo respiro agitato mi sfiora la faccia e non so se questo affanno è dovuto alle scale che ha fatto –come caspita è entrata?– o per qualcosa che, è più probabile, le è successo.
I miei occhi la scrutano per un momento, le iridi saettano da una parte all’altra del suo viso, ma prima che lei si accigli e io ci pensi troppo, al diavolo, la bacio e assecondo il suo bisogno senza proferire una parola, senza chiederle niente. Mi dico che, come l’altra volta, non c’è nulla di sentimentale tra di noi, ma solo un’impellenza fisica, un desiderio nudo e crudo. Un’impellenza che non ho mai rifiutato, perché obbligatoria per annullarmi. In fondo mentirei a me stesso se dicessi che non ho più desiderato di provare quelle sensazioni. Né più, né meno di quello che ricerco quando vado a letto con qualche donna il cui nome, spesso, nemmeno mi ricordo.
La differenza è che… è Nieve?
No, penso, mentre mi faccio sfilare la maglietta ed il suo corpo bagnato preme contro il mio. Il suo tocco gelido mi provoca un brivido di freddo. È preludio di una lotta che combatteremo in ben altre vesti… quelle che giaceranno a breve a terra.
Non è più Nieve. È una di quelle donne il cui nome, spesso, non ricordo.

Questa volta non ho avuto le forze per alzarmi dal letto e andare a dormire sul divano, sono stravolto dalla stanchezza.
Odio ammetterlo, ma per quanto io fossi stato esausto per la giornata trascorsa, avevo bisogno anch’io di tutto questo perché i miei sogni erano troppo agitati, troppo angoscianti e troppi volti si rincorrevano dietro la coltre onirica. Avevo bisogno di non pensare più ad altro, ad arrivare ad un punto di stremo tale da addormentarmi profondamente senza mezze misure.
È, però, una serie di sussulti vicino a me a destarmi improvvisamente.
Vedo la schiena nuda di Nieve vibrare, le spalle muoversi e un singulto –assai diversi da quelli che ho sentito per gran parte della notte– muoverle le labbra.
Mi giro sul fianco e allungo una mano per toccarla, ma le dita si trattengono a mezz’aria quando volta il viso verso di me in un’espressione contrita. I capelli, ancora umidi, sono sparsi sul cuscino e le ciocche rosse –che ormai ho capito venir fuori quando la tocco– si arricciolano attorno alle gote.
E lì, nel chiarore dell’alba che penetra dalla finestra, noto un lucore sulla guancia. Le mie dita allora si liberano dell’immobilità e ne sfiorano la pelle tiepida. Raccolgo quella che capisco essere una lacrima e mi guardo confuso il polpastrello umido.
Per quanto io sia assonnato, non ci vuole una scienza per capire che sta avendo un incubo.

Cazzo, Rigos, non erano questi i piani, non è dovere mio consolarti; siamo qui solo come carne e sangue, nient’altro, ricordi? Schiudo le labbra: cosa si fa in questi casi? Sono io, di solito, ad avere un sonno inquieto e di certo non c’è nessuno con me ad assistervi. Grazie agli Dei.
Le sfioro con l’indice la linea della colonna vertebrale, dove sento i solchi lasciati dai miei morsi tra le scapole; l’accenno delle vertebre mi disturba ancora e le evito. Poi sobbalza e io ritraggo la mano veloce, come se avessi toccato qualcosa di proibito.
Non so se sia meglio che io finga di dormire in questo momento che percepisco di enorme, gigantesca fragilità. Ma poi penso a come mi ha stretto la mano, a come si è sdraiata di fianco a me, alla dolcezza che mi ha riservato quel maledetto giorno in autostrada. E non è per un superficiale bisogno di ricambiare il favore che le tocco il braccio piano, con la delicatezza che di certo non le ho dovuto durante il sesso distruttivo cui licenziosamente ci siamo concessi. Non so nemmeno io, perché lo sto facendo, perché semplicemente non mi limito a farmi gli affari miei.
« Non c’è nessuno. » Sussurro, ignaro di quali possano essere gli incubi che l’animano. Mi è inevitabile, però, usare un tono di voce calmo, come si fa –per l’appunto– con i gatti spaventati. Tento di avvicinare la mano con cautela sul suo avambraccio, ma lei lo sfila via, scuote la testa e la criniera di capelli, ora del tutto bianchi come le mie lenzuola, ondeggia come spuma marina.
Lo vedo l’accenno della fuga, lo scatto verso il bordo del materasso, il desiderio di raccogliere i vestiti e andar via così come è arrivata: in fuga da qualcuno.
Rimango a guardarla seduto sul letto, immobile, gli occhi fissi. La studio muovere i passi verso il piano di sotto finché non sparisce dalla mia vista. Potrei seguirla, parlarle, cercare di capire se è in uno stato catatonico dettato dal sonno. Invece mi volto verso la finestra, dove la pioggia scroscia rumorosa: non è compito mio. Non è sonnambulismo, i suoi occhi erano vigili: nelle iridi chiare c’era lo stesso disagio che animava le mie, quando mi sono ripreso dall’attacco di panico.
Mi rimetto giù senza dire altro e guardo il soffitto, come la prima volta che siamo stati a letto insieme. Lo guardo con la stessa perplessità.
Vengo preso da un moto di stizza perché ho rischiato di contravvenire con facilità alle silenziose regole che ci siamo appena imposti.
Non c’è altro, fra noi. Il patto è ancora stipulato, gli errori sono ancora lì, stabili, lontani dall’ingigantirsi.
Mi rimprovero con nervosismo, portandomi un braccio sulla faccia così da coprirmi gli occhi.
Manca ancora un po’ alla sveglia. Finirà anche questa notte.

Quando però apro gli occhi per l’ennesima volta, sono a pancia in giù con il viso totalmente rivolto verso la parte opposta alla finestra da dove sento provenire un fastidioso ticchettio. Impiego qualche minuto per guardare, oltre il vetro, un allocco particolarmente innervosito che sta picchiettando col becco. Balzo sul letto improvvisamente, lanciando le lenzuola in fondo, completamente sveglio.
« Porca troia! » Esclamo, prendendo veloce l’orologio sul comodino e controllando che cazzo di ore sono. Gemo quando vedo che sono le dieci passate e lo lancio sul materasso.
Mai, mai, mai nella mia vita ho fatto tardi. Sono sicuro che l’allocco è del Ministero –o di Isabella– che mi chiedono dove diavolo io sia finito, visto che la riunione iniziava alle otto.

Corro in bagno per fare la doccia e colgo di sfuggita il mio riflesso allo specchio: ho la faccia distrutta dalla stanchezza.
Ho come l’impressione che Isa non crederà alla balla della notte insonne per stress.
Impreco e maledico Nieve con ogni fibra del mio corpo.
Scendo di corsa dal soppalco abbottonandomi in fretta la camicia e poi, guardando verso il terrazzo, lancio un grido di sorpresa.
« Rigos, che diamine ci fai ancora qui? »
La sua figura è rivolta verso il vetro della porta finestra. È rimasta lì tutta la notte?
*Questa cosa è veramente inquietante.*
Non posso fare a meno di pensarlo, ma nonostante la fretta cui sono preda, lascio a metà i bottoni e mi avvicino con lentezza a lei. Non la tocco, non devo, mi impongo, e nemmeno lo voglio. Ma mi accuccio dietro di lei, vedo il mio riflesso sulla finestra insieme al suo.
« Vado a lavoro. » La avviso, come se non si fosse capito.
« Tornerò stasera. Su ci sono degli asciugamani, se ti servono. » Corrugo la fronte, paragonandola ancora ad un gatto. Mi è capitato di parlare con Nofret e questo tono usato mi rimanda a lei. Poi mi rialzo, finendo di chiudere la camicia.
« … Puoi rimanere, se ti serve, fintantoché io non ci sono. » Concludo, dopo un attimo di esitazione.
Esco, lasciandomela alle spalle, col senso di stizza che si mescola al fastidio del primo ritardo a lavoro della mia vita. Ed è colpa sua. Solo non ho la forza –ma nemmeno il coraggio– di farglielo presente; probabilmente perché dovrei ammettere che ha avuto una qualche ripercussione, la sua presenza qui. Ed è proprio questo il punto: la sua stessa presenza qui, in casa mia.
Chiudo la porta dietro di me e sospiro di sollievo per essere uscito prima che io potessi avere la malsana idea di intromettermi.

So, dentro di me, che quello di stanotte non sarà un episodio isolato: accadrà di nuovo; e so anche che io le aprirò ancora la porta di casa e ricambierò il suo bacio di perdizione.
Code © Horus

 
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