Ieri ero quiete, mentre oggi sarò la tempesta
C’è un pensiero che non so se condividere. È personale, uno di quelli che vorresti soffocare fin quasi a dimenticartene. Lo guardo farsi sbuffo di fumo nel cielo umido di Londra, mentre riporto la sigaretta alla bocca.
Un gruppo di adolescenti ondeggia pericolosamente su stivali troppo alti e troppo pesanti per la fine di agosto. Sento l’odore dell’alcol dalla ringhiera di metallo che regge il mio peso. Noto lo sguardo giudicante di una coppia di turisti in là con l’età —temono per l’incolumità delle ragazze o, forse, non ne condividono l’abbigliamento succinto. Mi mordo un labbro. Sarei tentata di dare un colpo di reni, raggiungerli, alzare la maglia e mostrare loro i seni nudi. Pregusto lo sgomento sui loro visi, gioco con la lingua sul palato, umetto le labbra. La voce nella mia testa mi dice di procedere. Non è un’occasione che si può sprecare così. E lo do, il colpo di reni, ma…
«Nieve?»Mi fermo. La mano che regge la sigaretta pende alla destra del mio fianco, la testa scatta in direzione della voce che reclama la mia attenzione. Mi basta la frazione di un secondo per riconoscerne il proprietario.
«Kurt» soffio, sorpresa. Una delle cotte più epocali che mi sia mai presa a scuola; e lui era felicemente fidanzato, ovviamente. È strano che stia trattenendo il respiro, nonostante siano passati tre anni dall’ultima volta che il suo cammino ha incontrato il mio? E che il mio cuore non abbia ancora trovato il coraggio di battere un altro colpo?
«Che ci fai qui?!»La sveltezza mentale non è proprio una prerogativa di questo genere di episodi, devo dedurre. Di tutte le cose che avrei potuto dire, ho usato una frase che lascia intendere non dico un fastidio, ma senz’altro non proprio il piacere di rivederlo.
Lui ride con quel suo modo comprensivo che vuole dire quanto prevedibile io sia rimasta ai suoi occhi, sebbene i giorni si siano trasformati in settimane, le settimane in mesi e i mesi in anni. Lo osservo alzare una busta di plastica.
«Sono uscito a prendere un po’ di gelato per mia moglie. Sai, Florian chiude bottega presto e i babbani sono più svegli». Vorrei non aver sobbalzato quando ha usato
quella parola, ma le mie spalle hanno sussultato e per la vergogna ho poi sbarrato gli occhi.
Che stupida! Che sottona! Lui mi rivolge un sorriso accennato, come se si sentisse colpevole, e io arrivo a odiarmi sapendo di esserne la causa.
«Ci siamo sposati poco dopo i M.A.G.O.» aggiunge timidamente.
Porto quel che rimane della sigaretta alla bocca e inspiro profondamente, una supplica silente rivolta ad aconito e belladonna. Quando espiro, gli sorrido e sto mascherando bene il dolore causato dal cavatappi conficcato nell’ammasso di nervi e fibre muscolari che si ostina a reagire alla presenza di Kurt.
«Sono tanto felice per te, Kurt». Con tutte le buone intenzioni del mondo, non riesco a parlare al plurale. Posso gioire per lui, ma non per la persona che… non so nemmeno io cosa.
«Che gusti hai preso?» domando per spostare l’ago della conversazione verso lidi più tenui.
Kurt, tuttavia, serra le labbra. Non è questo che vuole da me. Lo comprendo dal gioco di ombre che si succede nelle profondità del suo sguardo, dalle piccole rughe che si formano ai lati della sua bocca. Com’è vero che lui conosce me, lo è altrettanto credere che io conosca lui. E so che le chiacchiere di circostanza non fanno per lui. Non con me almeno. Ciò che non sa è che non posso accontentarlo perché, la spontaneità e la fiducia che cerca —quelle cui era avvezzo—, le ho perdute lungo la via; come io devo aver mancato l’evoluzione che l’ha visto farsi, da ragazzo, uomo. Per questo rimango sorpresa quando mi toglie la sigaretta di mano, la butta a terra e raccoglie le mie dita tra le sue. Ispeziono i suoi occhi e lui fa lo stesso con i miei, adesso più vicino di un passo —forse due.
«Cos’è successo? I tuoi occhi... Chi?» È così diretto che il mio respiro si frammenta, inevitabilmente.
«Dimmelo».
Batto le palpebre e mi guardo intorno alla ricerca di una via di fuga, ma lui stringe la presa. Vorrei dirgli che non può fare così, che non ne ha il diritto. Può avere pretese nei confronti di sua moglie, è lei che deve proteggere. Io sono una compagna di scuola che non sente da anni e che ha incontrato per caso all’uscita di un locale per le strade della Londra babbana. A fermarmi è il desiderio pressante che desta il mio imbarazzo —quello che vorrei seppellire nella buca dove giace la Nieve di un tempo, decrepita e decomposta: voler essere amata come lo era un tempo, da Roth.
La consapevolezza della Sua assenza mi colpisce. È feroce come il caldo nelle metropoli d’estate, come l’umidità che penetra i polmoni e li priva dell’ossigeno, come la falce della Signora di nero vestita col suo lungo mantello di anime rubate. Cosa può saperne, Kurt, felice in questa bella notte con una vaschetta di gelato e pronto a tornare da sua moglie? Cos'è questo preciso momento per lui?
I miei occhi si induriscono.
«Torna da tua moglie o vuoi fare la figura del patetico e mostrarle che non sei nemmeno in grado di portarle del gelato senza che diventi un milkshake?»La mia accusa stona brutalmente con la persona che sono stata, con il calore che gli ho usato finora, con l’augurio di felicità che gli ho rivolto. Lo spiazzo. Kurt perde stabilità e io colgo l’occasione per spingerlo via.
«Cosa ti è successo?» torna a chiedere, l’espressione adirata. È cocciuto come un mulo.
«Non m’importa quanto tu possa fare la stronza. Dai spettacolo. Non mi spaventi».
Inclino la testa, placida.
«Non c’è tempo per noi. Non c’è mai stato. Siamo solo due vecchie conoscenze che inciampano l’uno nell’altro una sera. Fine della parentesi».
Il colpo va a segno —Emma Woodhouse fa capolino tra i miei pensieri. Il senso di colpa imbratta i suoi propositi, che impallidiscono al cospetto della mia accusa. Le sue labbra si schiudono: vorrebbe pronunciare delle scuse, darmi delle spiegazioni, ma il mio ghigno lo ferma. Scuoto il capo. È evidente che ho messo un punto alla questione e anche lui capisce che probabilmente è meglio così. Cosa accadrebbe se a stasera seguissero altri incontri? Dove andremmo a finire?
«Ehi, amico…»Un ragazzo appare alle sue spalle. Un’intromissione inattesa, che riporta entrambi alla realtà. Solo adesso scorgo il trio a qualche metro da noi e realizzo che, soli, non lo siamo stati mai.
Intervengo prima che Kurt possa proferire parola:
«Kurt stava giusto venendo da voi. Portatelo via prima che il gelato si trasformi in una pappetta. È stato un piacere rievocare i tempi della scuola. Ci si becca in giro! Torno dentro dai miei amici!»Agito la mano verso il gruppetto. Kurt, invece, non lo degno di uno sguardo. Non perché gli porti rancore, ma per timore di avere un ripensamento; di essere tradita dai miei occhi.
Entro nel locale con la sensazione di trovarmi sul filo sottile tra l’esistenza e l’inesistenza. Nel tempo che ho speso a distruggermi pezzo dopo pezzo, a lasciarmi vivere per inerzia, il mondo è andato avanti e io sono rimasta indietro. Ora che sono tornata, il posto che ricoprivo è stato occupato da nuove abitudini, altre persone, progetti che non mi riguardano.
Un tuono risuona con il senso di mancata appartenenza che mi opprime. Torno all’aperto, affamata d’aria, consumata dal bisogno di cancellare l’incontro con Kurt e il desiderio che ha rianimato. L’ultima volta che ho amato, mi sono ritrovata china sulla ghiaia con le iridi tinte di bianco e la disperazione fissa nel profondo dell’io. Mi sono ritrovata qui, fuori da questo pub, dove l’impronta della sua sagoma è tutto ciò che mi resta per ricordarlo.
Non voglio più pensare. Voglio solo esistere come corpo, carne e ossa.
Riesco a vedermi dall’esterno mentre riavvolgo il nastro e mi muovo al rovescio. Così, anziché procedere in avanti, è come se indietreggiassi e ripercorressi i passi di un momento già vissuto —la mente spenta, le tempie in fiamme, due palme invisibili premute contro la calotta cranica.
L’acqua scroscia sull’asfalto. Figure sfocate mi corrono intorno alla ricerca di riparo. Io, invece, retrocedo senza esitazione. I capelli bianchi rilucono alla luce irosa dei lampi —ne richiamano i sentieri incostanti tracciati sulla volta cupa. Marcio su Londra, impietosa, non per conquistarla ma per attraversarla; e per riuscirci mi necessita la sua collaborazione. Che gli angoli delle strade mi siano amici! Che le svolte mi facilitino verso la meta! Che le luci dei lampioni mi guidino per la via più breve!
Bayswater mi accoglie, placida e ordinata. Sorriderei della somiglianza con la persona che riceverà la mia visita nel cuore della notte, se non fossi concentrata sul bisogno di rifuggire lo sguardo di Kurt e il tocco della sua mano sulla mia. Guardo il portone che ho già attraversato una volta e aggrotto le sopracciglia. Non ho il tempo, la voglia, la pazienza per mettermi a scassinarlo. Non voglio trovare metodi alternativi. Non…
Il clangore del vetro rotto spezza la quiete impenetrabile della notte, mentre infilo rapidamente la mano nell’apertura che sono riuscita a creare e sblocco la serratura. Ignoro il taglio che la fretta mi procura sulla parte alta del polso e m’intrufolo nel palazzo. Salgo i gradini a due a due. L’attesa mi è insopportabile. Combatto tra l’esigenza di sparire e quella di aggrapparmi alla concretezza dell’esistenza.
Il pugno si abbatte con forza sulla porta. Suona lo stesso ritmo del mio cuore in subbuglio. Horus è la sola persona che possa aiutarmi a dimenticare il bisogno d’amore che anela al riconoscimento; l’unico capace di riportarmi allo stato triviale della carne, distruggendo ogni sfumatura di sentimentalismo.
Ha l’espressione confusa e assonnata quando decide di aprire l’uscio e porre fine alla mia pressante richiesta di udienza, ma il suo sguardo mantiene una traccia vigile —se di elemosinanti ne ha conosciuti, come gli piace pensarmi, spero di essere quella che gli ha rotto di più il cazzo. Nel buio di queste ore di velluto, riesco a scorgere la fiamma dei suoi capelli e il grigio brillante delle iridi adamantine. Mi faccio avanti e abbatto le distanze.
Trovo nel calore del tuo corpo la morbidezza del sonno, il pulito delle lenzuola. A contrasto, io sono fredda e zuppa. Porto la pioggia in casa tua, Umanoide, enormi cumulonembi d’argento e grovigli di pensieri. Il ticchettio placido delle gocce che stillano dalle ciocche dei miei capelli si amplifica nel silenzio sacrale della notte; la sua trama squarciata dal mio arrivo.
Sono acqua, una corrente brusca che minaccia burrasca. Divello gli argini, perdo il controllo. Stanotte, bagno il tuo sole.
perché anche gli angeli a volte han paura della morte