F r i s s o n, ~ Horus Ra Sekhmeth

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view post Posted on 27/2/2024, 19:06
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entropia.

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Continua da Prologo
Role retrodata rispetto all'evento straordinario di Horus
I riferimenti alla corsa in moto tra Nieve e Horus riconducono a Roadgame


– Frisson –
18 yrs – Lust – Himiko's

«Grazie per avermi salvato dalla sua guida di merda.» La frase mi esce di bocca con un accenno di sollievo, ché io e Isabella ci siamo appena lasciate l’appartamento dell’Umanoide alle spalle. «Non so se ha avuto il coraggio di raccontartelo, ma ha tentato di ammazzarmi su quell’affare.»
Il ricordo è così nitido che un brivido mi attraversa la spina dorsale. Mi stringo istintivamente nelle spalle e devo dare l’impressione a Isabella di essere infreddolita, perché quella mi mette in mano una giacca di jeans nella quale potrebbero entrare almeno tre Nieve Rigos.
«Non ho freddo. È solo che—»
Non faccio in tempo a finire. Mi zittisce con un gesto della mano e riprende a parlare, allacciandosi all’argomento principe della conversazione.
«Se ti consola ha tentato di ammazzare anche me una volta, quel disgraziato.» Ride, ogni forma di eventuale rancore lavata via dal bene che è evidente gli voglia. «"Isa mostrami come funziona l’autostrada Babbana” mi fa. E io, cretina, ignara di quanto corre su una scopa figuriamoci su una moto, gli dico “Sì, daje, molla ‘ncasco e si va”. Sto stronzo, appena ha capito e ha imboccato l’autostrada, ha tirato l’acceleratore ed è partito. Per poco me ribalto ma, poooh, ho tirato delle bestemmie che ‘nte dico.»
Non posso trattenermi dal ridere a mia volta. Isabella è incredibilmente teatrale quando si lascia andare nel racconto della disavventura, chiamiamola così. Gesticola per tutto il tempo del resoconto e io finisco per rimanerne affascinata. È proprio la sua spontaneità a cancellare la sensazione di fastidio insorta all’altezza del diaframma: l’amicizia con lei è stata coltivata; la nostra giace sepolta in un passato che mi ostino a non rievocare.
È una fortuna che la pietra sotto la quale abbiamo seppellito il nostro rapporto sia adombrata, ora, dalla compagnia irresistibile della mia interlocutrice.
«Ha fatto la stessa cosa con me, solo che io non avevo idea di cosa fosse quel mezzo e non si è sprecato a dirmi che dovevo sistemare la visiera — arriccio il naso senza rendermene conto — né dove mettere i piedi. Quindi, i moscerini hanno banchettato con i miei occhi e io sono quasi scivolata giù mentre correva come un dannato. E ti dirò di più: mi ha pure fatto la ramanzina quando si è fermato su una specie di piazzale al margine della strada. Una ramanzina urlata come nemmeno Peverell quando usa il Sonorus ai balli della scuola.»
«Ma che troglodita! Quand’è diventato così?!» commenta e la sua è una domanda retorica, ma non la vedo proprio allo stesso modo.
Infatti aggiungo: «Ah! C’era una versione non troglodita?!»
La risata che scuote il corpo di Isabella splende più del sole primaverile di Londra. La temperatura è mite. Sotto la giacca che non ho potuto fare a meno di indossare, si insinua di tanto in tanto solo qualche refolo frizzante.
«Stenterai a crederlo, ma sì! Non lo vedi com’è tutto signorino? Ahhh, e vedrai ora al giapponese!»
Ho già detto che amo il Caso per aver reso possibile il nostro incontro? Isabella mi sta fornendo talmente tanto materiale per infierire sull’Umanoide che non sarebbe bastata una vita intera a studiarlo per raccoglierlo.
«Guai a lasciare qualcosa fuori posto o a spostare un oggetto» le faccio eco. La mente mi restituisce le immagini della volta in cui, in preda all’irritazione, ho buttato giù la cornice — che ora so essere preziosa — posta su un mobiletto del salotto. Il suono del vetro infranto, allora, ha ridotto in pezzi la sua pazienza, ma non è riuscito a distruggere il fuoco divampante della nostra passione. «Anticipami qualcosa! Non posso perdermi l’occasione di sfotterlo e vedergli mettere il muso» la prego, gli occhi brillanti.
Il ghigno che si apre sul viso di Isabella è il segno che la nostra complicità non si è limitata a germogliare: sta crescendo ad una rapidità impressionante. «Vedessi il suo ufficio. Tutti i reperti allineati in perfetto ordine. Il mio archivio è ‘na merda» spiega e io mi domando se sia possibile adorare così tanto qualcuno che si è conosciuto da meno di mezz’ora. «Il signorino beve solo vino bianco con il sushi.»
Oh, Umanoide! Sei un esemplare di essere umano così prezioso per il mio diletto!
«Quindi, prima che arrivi, mi sembra d’obbligo ordinare una birra rossa. Ho capito bene?»
L’espressione sul viso di Isabella si fa pensosa. «Oh mamma! Anche se mi sento male all’idea di mangiare sushi con la birra» commenta, prima di proseguire. «Io comunque per dispetto mi diverto a ficcare la bacchetta nei suoi nigiri. Così!»
La osservo mimare il gesto di un accoltellamento e, che ci crediate o no, comincio a guardare alla serata che mi aspetta con un pizzico di leggerezza in più. Se è vero quel che dice, passeranno più tempo a battibeccare che a concentrare l’attenzione su di me. È con sorpresa, dunque, che mi coglie una riflessione: non avrei problemi a mangiare davanti a Isabella. So, in qualche modo, che saremmo entrambe così impegnate a chiacchierare e a ridere da rendere l’atto del mangiare un elemento superficiale. Con l’Umanoide, invece…
«La ordiniamo per lui, mica per noi» le dico, rassicurandola, non prima di aver mostrato il mio plauso per le sue abilità da assassina di nigiri.
D’improvviso si ferma. Ci troviamo in una zona pedonale in cui la gente passeggia placidamente, godendosi la fortuna di un tempo soleggiato con la consapevolezza che le nubi torneranno presto a posarsi su Londra. La imito, perplessa, ricambiando la fissità del suo sguardo con un’espressione interrogativa.
«Tu mi piaci, ragazza» esclama poi e mi sembra di tirare un sospiro di sollievo. Temevo di aver sconfinato, superando il valico del consentito nei termini del loro rapporto. «Ma, se lo conosco bene, ci guarderà così— e imita in modo talmente perfetto la reazione dell’Umanoide che lascio andare la risata cresciuta nel mio petto — e poi la berrà d’un fiato, tipo shottino. Così, per dispetto. Dopodiché ordinerà una bottiglia di Chardonnay.»
Riesco a immaginare la scena con una nitidezza tale da accrescere il mio riso. «Allora, vada per la birra. E, tipregotipregotiprego, uccidi i suoi nigiri. Lo stiamo facendo solo per lui, del resto.» Il ghigno sulle mie labbra smentisce le parole che ho appena pronunciato. «Così, smussa alcuni lati del suo carattere…»
Isabella tace e scorgo un velo di tenerezza sorgere nei suoi occhi. «Sì, è per questo che lo prendo in giro. Deve imparare a stare meno sulle spine» dice e sospira. «Ma devo dire che, da quando lo conosco, è cambiato tanto. In meglio. Quindi pensa te!»
Un’altra risata di gusto si appropria di Isabella e riprendiamo a camminare.
«Buono a sapersi» mi lascio scappare, sinceramente sorpresa. «E dire che io non riuscirei a immaginare peggio di quello che visto.» Sono onesta. Io e l’Umanoide abbiamo attraversato fasi di tale intensità che immaginarlo più brusco di com’è stato mi riesce impossibile. Eppure, ho intravisto il calore che emerge tutte le volte in cui guarda Isabella e ho avuta conferma del suo affetto per lei quando mi ha fermata sul ciglio della porta, non troppi minuti fa. La stessa tenerezza contagia il mio sguardo. «Ma so quanto ti vuole bene e non faccio fatica a immaginare che si sforzi per essere migliore… anche quando lo mandi fuori di capoccia.»
Perché non ho dubbi che lei ci riesca senza problemi di sorta.
«E io ne voglio a lui, lo adoro. È un bravo ragazzo, credimi. È che… ha dei modi rudi ed è freddo come un ghiacciolo se non lo conosci. Ma quando si scioglie è un pezzettino!»
La descrizione di Isabella dovrebbe provocare una certa perplessità nel mio animo e così è da principio. Poi, rammento il sandwich lasciato sull’isola della cucina, la coperta e il guanciale riposti sul pavimento della cabina armadio, i suoi occhi nel buio della notte…
«Quando non si scioglie ti punge e i suoi modi lo fanno sembrare più stronzo di quanto non sia. Gli ho visto salvare un’Archeologa schiantandola. Sembrava gratuito, ti giuro, noi così — mima lo sconvolgimento provocatole dalla reazione dell’Umanoide con la sua solita espressività — e invece aveva visto una linea a terra che noi non avevamo notato e che lei la stava per calpestare.»
«Se non mi conoscessi abbastanza da sapere che non ho idea di cosa facciano gli archeologi, penserei di essere stata io l’archeologa» mi scappa di bocca.
Isabella reagisce con un altro stop. Evitiamo lo scontro con i due passanti alle nostre spalle solo per la prontezza dei loro riflessi. Le considerazioni al veleno che ci dedicano non bastano a frenare lo sgomento di Isabella.
«Ti ha schiantata???» Batte le palpebre, incapace di accostare l’energumeno che ho appena descritto all’immagine del suo amico. «Ma così… gratuitamente?»
Le mie labbra si arricciano e una pennellata di malizia fa capolino sul bordo dei miei occhi. «Potrei averlo preso a pugni e aver scassinato la serratura di casa sua… ma la mia memoria non è molto affidabile, in effetti» è l’indizio che le fornisco per tracciare un quadro più preciso della situazione.
Potrei infierire sull’Umanoide in questo momento, ma non mi va di mentire a Isabella. È stata — e continua ad essere — così genuina e trasparente che sentirei di farle un torto a mancare di sincerità. Anche laddove lo facessi solo con l’intento di scherzare.
«AH!»» Un secondo di silenzio prima di vederla piegarsi in due, scossa da un divertimento che, di nuovo, contagia anche me. «Okay. Siete veramente fatti l’uno per l’altra, allora» asserisce d’impulso, senza pensarci, e una parte di me si irrigidisce.
Non voglio che si faccia un’idea sbagliata della relazione instauratasi tra me e l’Umanoide, pertanto mi affretto a contraddirla: «Ti assicuro di NO. Facciamo lo sforzo di sopportarci per il tempo necessario. Fine.»
Non la conosco abbastanza da sapere cosa pensi, ma il silenzio che segue e il cipiglio sul suo volto sono indiziari di una perplessità dilagante. Non posso sapere che, tacitamente, Isabella stia riflettendo sulla non credibilità della mia tesi: se fosse vero quello che ho detto, non riesce a spiegarsi perché Sekhmeth mi abbia portato nel suo appartamento. La correggerei ancora nel prendere atto delle sue riflessioni. E forse è per questo che preferisce censurare le proprie tesi. Non ha certo bisogno del mio, del nostro consenso per farsi un’idea sul ginepraio nel quale ci siamo ficcati.

Himiko è affollato come sempre. Un vociare penetrante proviene dalla sala cinese, quella alla sinistra dell’ingresso. È più sommesso, invece, il chiacchiericcio che giunge dalla sala giapponese. Mi dico che non mi dispiace avere un po’ di tranquillità. Allo stesso tempo, mi chiedo se la confusione dell’ambiente dirimpetto non avrebbe potuto facilitare la missione impossibile alla quale mi appropinquo.
Presto, una cameriera si approccia a me e Isabella, che siamo ancora intente a disquisire sulla pericolosità della professione di Magiarcheologo. Provo un fascino infantile nell’ascoltare i racconti delle operazioni che l’hanno vista coinvolta; e, per un attimo, balza alla mia attenzione l’incertezza del mio futuro. Non ho mai pensato a cosa avrei fatto dopo la scuola. Non mi sono posta il problema di diventare qualcuno da grande. Ora che la realtà si avvicina, mi trovo sorpresa nel non riuscire a immaginare un mestiere che faccia al caso mio. I vincoli del Ministero, però, mi starebbero stretti e di questo sono certa.
Prendiamo posto a un tavolo lungo una parete dalle grandi finestre con vista sull’esterno. Non so dire se l’affaccio sia su Londra o se il panorama sia frutto di una magia. La collocazione, ad ogni modo, è intima.
Il sole che proviene dall’esterno bacia i nostri lineamenti. Riesco così a intravedere le sfumature nelle iridi di Isabella, ad apprezzare la forma definita delle treccine, a constatare l’imponenza del suo corpo.
«Sei proprio bella.» Finisco per trasformare in apprezzamento il pensiero che ha fatto appena in tempo a piangere il primo vagito. Dovrei essere imbarazzata dalla sfacciataggine con cui il commento si è manifestato — specie dopo essermi concessa tutto il tempo necessario a studiarla —, ma il mio carattere lo impedisce. L’imbarazzo non è ospite abituale in casa Rigos. «Ma tanto!»
Con la stessa naturalezza, alzo poi la mano verso la cameriera per richiamarla al tavolo. Le sorrido, amabile, sebbene le mie intenzioni siano tutto fuorché tali. «Potrebbe portarci una birra rossa, per favore?»
Ammicco in direzione di Isabella. Diamo inizio alle danze.

–Oh, you're in my veins and I cannot get you out–

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Edited by ~ Nieve Rigos - 27/4/2024, 15:52
 
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– Frisson –
|| London || March ||

Evening
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Mentre l’acqua mi scorre lungo il collo e scivola lungo la schiena, chiudo gli occhi e ripercorro mentalmente questi ultimi venti minuti. Una variopinta serie di improperi mi sale a fior di labbra e le freno poggiando i palmi delle mani e la fronte alle mattonelle calde della doccia. Ringrazio che il suono dell’acqua scrosciante sia abbastanza forte da nascondere l’eco dei pensieri e mi concentro sul calore che mi brucia piacevolmente la pelle nuda.
Mi sono pentito fin da quando ho aperto la porta a Isabella; il mio corpo si è mosso in automatico, ma a ben pensarci avrei dovuto far finta di niente. Le avrei spiegato domani a lavoro. Oppure sarei potuto stare zitto e lasciar andare via Nieve, senza farmi fregare dalla sua espressione stranamente delusa. E invece, rieccomi, a tenderle la mano ancora e ancora. Ogni volta che mi dico di non farmi coinvolgere anche solo superficialmente dai suoi palesi problemi relazionali e non, finisco a contraddirmi da solo e di contravvenire al nostro patto. Solitamente ricevo solo morsi e graffi, ma questa volta… questa volta è stato inaspettato e mi ha lasciato spiazzato forse più del mio gesto.
Mi passo le mani sulla faccia per nascondere un sospiro, come se volessi evitare che possa raggiungere Nieve ed Isabella, ormai fuori casa da un pezzo.

Nella cabina armadio fisso per un indefinito numero di minuti il cuscino e la coperta rigorosamente piegati sopra la cassettiera bianca. Mi sono accorto che in quelle rare volte in cui si ferma dormire da me, il Gattaccio si va a rintanare nell’unico luogo chiuso –bagno a parte s’intende– del mio appartamento. Per poco non mi è preso un colpo la prima volta quando ci sono entrato per prepararmi a partire all’alba per una missione di tre giorni in Italia. Svegliandomi e trovando il letto vuoto, ho dato per scontato che fosse andata via come al solito; invece l’ho trovata rannicchiata sul tappeto, con solo una mia maglietta addosso e tremante di freddo: stava dormendo. Ricordo di averla osservata per un po’ prima di decidere di Appellare ciò che mi serviva per non svegliarla.
Ancora adesso, mentre prendo la maglia a collo alto (vaffanculo Rigos) e la indosso, mi stupisco della sua somiglianza con un gatto. Così come si pone un riparo vicino la porta di casa per un randagio infreddolito, io ho fatto lo stesso decidendo di lasciare casualmente il famoso cuscino con la coperta nella mia cabina armadio. So che la usa perché anche se risistema tutto, le cose non sono piegate alla mia maniera.
Mentre mi vesto mi prendo il mio tempo perché, lo so, sono ancora troppo nervoso per potermi preparare alla serata che mi aspetta. Scelgo con cura i pantaloni, la cinta, gli anelli, le scarpe e, infine, il cappotto. Non ci metto una vita a prepararmi come dice Isa, semplicemente ci tengo a vestirmi bene. È sempre stato un mio appannaggio quello della cura negli abiti ed ora ciò che indosso è tutto completamente nero. Isabella capirà perfettamente il mio umore, penso con un sorrisetto irritato. Poi mi passo disordinatamente le mani fra i capelli lunghi e prendo il casco da un cassetto.
La comodità di essere maghi in una casa piccola è proprio l’utilità dell’Engorgio e del Reducio. Mi basta picchiettare una superficie con la punta della bacchetta e quella che era solamente una perlina, ora è un casco da moto. Lo stesso la cui copia il Gattaccio ha crepato quel giorno in autostrada.
Tolgo col dorso della mano un invisibile granello dalla superficie opaca; ripenso a noi sull’erba ai confini dell’autostrada, l’attacco di panico, il modo in cui mi ha aiutato ad uscirne.
Snudo i denti in un ringhio silenzioso mentre mi affretto ad uscire di casa, sbattendo la porta.
Se non ci fossimo mai persi di vista, se il rancore non avesse mai avvelenato e reciso la nostra amicizia, saremmo così, ora? Usciremmo insieme agli altri come se nulla fosse, senza il sesso a farci da unico legante?
E, mentre mi infilo il casco e il rombo della moto promette –finalmente– di cancellare i miei pensieri, se oggi non le avessi detto di rimanere con noi, quanto tempo ci sarebbe voluto prima che l’ennesimo passo fosse stato compiuto oltre il limitare del nostro silenzioso accordo?
Perché, mi acciglio accendendo il motore e lasciando il suo ruggito sopraffare tutti gli altri suoni della strada, sono io a varcare quel confine. Sempre.

Quando raggiungo Himiko’s, la nube del mio rimuginio è sempre lì, sopra la mia testa. Tuttavia, il viaggio, anche se breve, mi ha aiutato a ritrovare il controllo dei miei nervi. L’attenzione che devo porre alla guida è assai utile per ricalibrare i miei meccanismi. O i miei ingranaggi, come direbbe il Gattaccio. È per questo che, quando posso, preferisco usare la moto anziché Smaterializzarmi; che poi, ad essere onesti, lo detesto. Comodo, fantastico essere Maghi, ma lo odio. Mi fa venire la nausea, mi inquieta l’idea dello Spaccamento e quasi preferirei una Passaporta.
Un mezzo Babbano, per quanto limitato, è una soluzione per me sicuramente più congeniale. Senza contare che… beh, ho fatto apportare qualche piccola, piccola modifica da un amico di Ned che aggeggia con le cose Babbane. Se il Ministero mi scoprisse, sarebbe davvero da ridere.

Smontando dal veicolo ai margini del marciapiede di fianco al ristorante, sento bussare alla mia sinistra e voltandomi mi ritrovo, oltre la grande finestra davanti la quale ho parcheggiato, la faccia di Isabella che oltre il vetro mi fa “ciao ciao” con la mano.
Quant’è stupida! Ma la adoro: guarda lì, felice come una Pasqua perché siamo a cena nel suo ristorante preferito. Mi inonda nuovamente quella tenerezza e quel grande senso d’affetto che provo per lei ed istintivamente sorrido, senza rendermi conto che ho ancora il casco a nascondermi il volto. Lei gesticola e trovo divertente come io possa vedere le labbra muoversi senza udire alcun suono. Indica Nieve che le è seduta di fianco ed io mi irrigidisco. Sembra tranquilla e i lunghi capelli bianchi le incorniciano un volto sereno. Di quell’espressione addolorata, di quel tono mortificato di cui ho appena scorto uno spiraglio qualche ora fa, non c’è più traccia. Sbuffo, togliendomi il casco e mettendomelo sotto braccio.

Quando entro nel locale il chiacchiericcio mi stordisce per qualche secondo; una musica tipicamente orientale avvolge l’intero ambiente ma, in un qualche modo, lo rende più piacevole e disperde un po’ le voci degli avventori. Avviso la cameriera che mi è appena venuta incontro che ho già un tavolo e raggiungo Isabella e il Gattaccio nella sala giapponese.
« Ooooh ecchite! Quanto c’hai messo? » Mi saluta Isa, con la classe ed eleganza che da sempre la contraddistinguono.
« Il giusto. » Rispondo, mandandomi indietro i capelli con una mano, consapevolissimo di farla indispettire.
Scocco una veloce occhiata alla Rigos, poi il mio sguardo scende sulla giacca di jeans che sta indossando.
« Quella giacca mi è familiare. » Dico, ma guardo Isabella perché è stata lei a fregarmela l’ultima volta. Lei si stringe nelle spalle e allunga un braccio oltre quelle del Gattaccio, tirandola a sé.
« La pupa aveva freddo! Sta meglio a lei che a te. » Si giustifica stringendosi nelle spalle. Io sospiro: ho imparato a non essere possessivo con le mie cose quando c’è Isa nei paraggi perciò non aggiungo altro.
Mentre poso il casco sulla panca e mi tolgo lentamente il cappotto, fisso Nieve; è minuscola nella mia giacca, ma, effettivamente, le dona, come tutte le volte che indossa la mia roba. Anche se “le dona” non è proprio il termine che userei. Mi costringo a distogliere lo sguardo per evitarmi di ricordare altre situazioni in cui si è messa qualcosa di mio e mi lascio cadere sul divanetto; il casco è appoggiato sul cappotto accuratamente ripiegato di fianco a me e colgo il divertimento sul volto di Isa. Lì per lì penso sia per l’ennesima simmetria del mio modo di sistemare le cose, poi però noto la direzione dove puntano i suoi occhi.
C’è una birra davanti a me che prima non avevo notato. La condensa scivola giù dal boccale di vetro e il sottobicchiere è ormai umido, segno che è arrivata già da un po’.
Sono confuso: guardo perplesso prima Isabella, poi Nieve.
« Aspettiamo qualcun altro? » Chiedo, aggrottando le sopracciglia e guardando prima la birra poi verso il corridoio. Isabella si esibisce in un ghigno degno di Eloise Lynch.
« No, è tua. Te l’abbiamo ordinata perché sappiamo che ci sta na cifra bene col sushi. » Sghignazza.
Io, davvero, non colgo il motivo di tanta ilarità e batto le palpebre con la confusione a velarmi gli occhi.
« Ma seriamente? Lo sai che bevo sempre il vin— ah. » D’improvviso capisco e tendo le labbra in una smorfia.
« Ah, ah, molto divertente. Regine della comicità. » Arriccio il naso, ma Isabella continua a fissarmi con le labbra incurvate nel suo sorriso migliore. Io, dal mio canto, ignaro di cosa comporterà il mio gesto, mi porto il boccale alla bocca e bevo tutta la birra in un sorso.
Sono allenato dal fuoco di mille battaglie e di diecimila shottini, io.
Butto indietro la testa, finisco l’ultimo goccio e poi batto il bicchiere sul tavolo. A questo punto, Isabella, che vedevo trattenersi come in preda a degli spasmi, scoppia a ridere così forte che dei signori al tavolo davanti al nostro si girano indispettiti.
« Isabè ma che cazzo ti ridi? » Sibilo, sporgendomi in avanti e cercando di tirarle una manata.
Ma lei, niente, è inarrestabile. Si piega addosso a Nieve, scossa dai tremiti e poi, togliendosi una lacrima dall’angolo dell’occhio, tra un riso e l’altro le fa:
« Hai visto? Che t’avevo detto? Preciiiiiso! »E, unendo pollice e indice, tira un’immaginaria riga a mezz’aria.
Io, basito, guardo prima l’una, poi l’altra.
« Ma che diavolo vi siete bevute voi due?! »
Lo sapevo che avevo fatto una cazzata gigantesca, me lo sono ripetuto per tutto il viaggio; ma l’entità che sta assumendo sta raggiungendo volumi tali da lasciarmi totalmente e completamente sbalordito.
Un plauso a me stesso: complimenti, Horus, per aver mandato tutti i tuoi buoni propositi a fanculo!


|| You can't live without the fire 'cause you're born to live and fight it all the way ||

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view post Posted on 12/3/2024, 21:26
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Stiamo bene, io e te. Sedute al nostro tavolo, chiacchieriamo con disinvoltura e, se mai ce n’è stata una, ogni traccia di estraneità svanisce. A evidenziare la giovinezza di questo rapporto è soltanto l’intensa curiosità che ci dedichiamo l’un l’altra, nel tentativo di mettere insieme i pezzi del puzzle che compongono la nostra vita. Io voglio conoscere te, tu vuoi conoscere me. È così maledettamente semplice da sembrare irreale.
Quasi non me ne accorgo, mentre parliamo e ci avvantaggiamo sulla cena. Un piccolo entrée di benvenuto si materializza sul tavolo, pochi minuti dopo aver ordinato la birra, nelle sembianze di due nigiri di tonno e seppia. Incuriosite, ci pieghiamo sul piattino posto esattamente al centro fra noi due e guardiamo i cubetti di riso occhieggiare al nostro appetito. Senza aver preso nessun accordo, ci muoviamo in simultanea e ne portiamo uno ciascuno alla bocca. Non realizzo con quale serenità mi sia sono approcciata al cibo — neppure di aver compiuto il gesto, in realtà — finché…
«Porco fiordo» esclamo, lanciando lontano il nigiri e tenendomi il labbro inferiore.
Non mi aspettavo di essere morsa dal… be’, dal cibo! E neanche tu, con tutta evidenza. I chicchi di riso che sfuggono alla tua risata ne sono una dimostrazione lampante. Ti imito, gettando il capo all’indietro, inconsapevole della perlina bianca che hai piazzato al centro della mia fronte con una precisione da cecchino. Non sai se ti abbia fatto più ridere la mia espressione, mi confessi poco dopo, o se la mia strana imprecazione.
«Se avessi saputo che il pasto ero io, sarei stata forse più elegante» dico, ma mi affretto a precisare: «No, non è vero!»
È inverosimile ciò che sta accadendo. Ho quasi mangiato in tua presenza e non ho avvertito il blocco all’altezza dello stomaco presentarsi a rovinare il momento. L’avrei persino mandato giù, quel quadrotto paffuto, se la seppia non avesse deciso di cogliermi di sorpresa con il suo bacio ardente. Non è mai successo prima d’ora, con nessuno, nemmeno con Roth.
Chi sei e quali poteri eserciti su di me, Isabella?
Il mio sguardo volge in direzione della finestra e sono io a indicarti l’arrivo dell’Umanoide. Non dimenticherei mai quel casco di bronzo — metaforicamente parlando — né la posa dell’autista sulla moto. Eccolo, ora sì che il blocco si fa sentire e gli occhi cedono a una lieve inquietudine! Gli ho rivelato il mio punto debole, gli ho anche chiesto aiuto. Viene fuori, invece, che il problema è solo lui per quanto riguarda la serata che ci aspetta. Sono davvero sorpresa, in fondo?
Sei sempre tu, Isa, a smorzare la tensione. Picchietti sul vetro come una bimba che abbia visto la sua creatura preferita allo zoo; e in effetti, penso mordendomi una guancia per trattenere una risata, Sekhmeth potrebbe essere paragonato a mooolti animali tra quelli in cattività allo zoo di Londra. Allungo la mano per eliminare i chicchi di riso, tuoi proiettili, dalla superficie del tavolo. Lo faccio non avvedendomene, come se il mio inconscio volesse risparmiare una crisi di nervi all’Umanoide prima che si metta a sedere. Il che è paradossale se pensiamo alla birra rossa che sta appollaiata sul sottobicchiere nel posto a lui riservato.
Ci raggiunge in breve tempo sulle note che il locale vorrebbe sfruttare per ricreare un’atmosfera orientale, ma che il vociare delle persone finisce per coprire quasi del tutto. Alzo un sopracciglio, intrigata. Amo il suo corpo nudo — che stasera, Isa, mi hai impedito di profanare —, ma c’è qualcosa nei vestiti che indossa oggi in grado di titillare il nervo scoperto dei miei appetiti. Forse, quel qualcosa non è altro che la sensibilità del mio piacere al suo; o forse, sogghigno, sta nella soddisfazione che il toglierglieli di dosso mi arrecherebbe.

Ti guardo in viso solo adesso, Umanoide. Stai disquisendo brevemente con Isabella sull’appartenenza della giacca. Io, intanto, ottengo conferma a un’intuizione: Isa non ha un profumo simile al tuo; è proprio il tuo profumo che proviene dalle fibre di jeans. Notti spese sul pavimento della tua cabina armadio, circondata da tessuti che portano il tuo segno non solo nello stile ma anche nell’essenza di cui sono impregnati, rendono semplice sentirti anche quando non ti vedo. Quello, e le attenzioni che ho avuto modo di dedicare al tuo corpo sera, dopo sera, dopo sera. Non dovrebbe essere così, tra noi intendo. Comincio a conoscerti meglio di quanto sia lecito per gli accordi presi. Comincio a riconoscerti, in ognuno dei sensi che il termine porta con sé.
In qualche modo, è come se avessimo messo il punto a una frase e iniziato a scrivere su una nuova riga i tratti di questa storia senza storia. A un tempo, di te ho smesso di portare soltanto i ricordi del modo in cui avresti voluto “giocare con me” perché, stupidamente, abbiamo deciso di giocare entrambi. Così, il rosso dei tuoi capelli non è un rosso qualsiasi, il metallo delle tue iridi non si confonde con il grigio pallido di altri occhi e il tuo profumo non si limita a essere un prodotto da scaffale tra i tanti.
Lo fiuti anche tu, il pericolo?
Ricambio la tua occhiata penetrante ché Isa mi ha appena passato il braccio attorno alle spalle. Sotto le ciglia, i miei occhi scrutano la fissità del tuo sguardo e il significato del tuo silenzio. In passato, avrei confuso il messaggio, interpretandolo probabilmente come avversione e indispettimento. Oggi so con assoluta certezza, dalle vibrazioni che suonano l’aria tra noi, che non sono né l’una né l’altro a guidare i tuoi occhi dal mio viso alla giacca e dalla giacca al mio viso.
Sto pensando quello che stai pensando tu, stanne certo.
La birra ti salva — o, forse, dovrei dire che salva Isabella da un pasto in solitaria — e mi godo lo spettacolo della tua perplessità. Come lei, fatico a trattenere la risata che sobbalza tra stomaco e petto in attesa di raggiungerti e mi costringo a concentrarmi su altro: accavallare le gambe sotto al tavolo, ad esempio; sbirciare i piatti dei nostri vicini; godermi il calore del sole sulla pelle del collo. Se osassi guardare uno di voi due, non riuscirei a mantenere la facciata quel tanto che basta a riscontrare se l’imitazione di Isa abbia o meno la sua fondatezza.
La seguo a ruota allorché, infine, ci accontenti. Mi piego in avanti sul tavolo, nascondendo il viso dietro le mani, e lascio vagare liberamente le onde del divertimento sul mio corpo scosso dai sobbalzi. Quando Isa si protende verso di me, io l’accolgo d’istinto tra le braccia e mi chino sulla sua schiena, poggiandovi la fronte in preda a un riso non soltanto incontenibile ma prepotente. E lei, con la sua sguaiataggine, di certo non aiuta. Non mi accorgo, perciò, del fastidio degli altri commensali o del tuo piglio confuso, Umanoide. Riesco solo a mettere a confronto la supposizione di Isa di pochi minuti fa e annessa imitazione con la tua reazione di fronte alla nostra provocazione liquida.
Ricorderò questo momento — con immensa gratitudine — per sempre.
«Oddio, mi sento male» riesco a verbalizzare, non appena lo stomaco tira uno strattone per ricordarmi che tutto questo sollazzo ha un prezzo. Gli addominali stanno soffrendo gli spasmi così tanto che è il bruciore dei muscoli a indurmi all’impegno nella lotta contro l’ilarità. Potrei sentirmi male, e un po’ già ne sento, davvero se continuassi a ridere ancora. «Oddio, Isa, ti prego, smettila!»
Ma come posso, se lei mi fa notare quanto preciiiiisa sia la tua espressione rispetto a quanto ipotizzato? Pure la riga, come se non bastasse, fa da ciliegina a una torta che ho finito per mangiare a grandi bocconi.
Mi do un pizzico sulle guance, che hanno cominciato a dolere a loro volta, per recuperare compostezza. Io, poi, che non ho mai saputo dove stesse di casa e che, da due anni, mi sto solo limitando a scimmiottare. Mi trovi composta a letto, Umanoide? Ghigno. So che non è così.
«È che—» provo a spiegarti, ma un altro accesso di risa mi coglie e devo girarmi dall’altra parte per non guardare né te né lei, altrimenti so che ogni proposito di ripresa finirà nel fumo di un Incendio. Da quanto tempo non ridevo di pancia, di cuore? «Okay. Ci sono» mi incoraggio e torno a incrociare il tuo sguardo, ma il sorriso non riesce a scivolare via dalla mia bocca. E dire che dovrei, per quanto dolore mi scosta ogni contrazione! «È che Isa sa imitarti proprio bene» riesco a dire infine, mordendo il labbro arrossato dall’attacco del sushi. «Auch!»
Me ne ricordo solo adesso, in effetti, e porto le dita verso la parte lesa per tamponarla con le falangi fredde. Il contatto mi dà sollievo, ma la lingua sente il dovere di intervenire. La passo sulla stessa porzione di pelle, quasi che tanto bastasse a lenire davvero la piccola ferita che la fa pulsare. Una legge del contrappeso che opera con un certo anticipo a tuo beneficio, Umanoide, non c’è che dire. Ammetto che forse, solo forse, un po’ me lo merito. Isa ti avrebbe risparmiato la birra rossa, se io non avessi insistito. Eppure, sono sicura che sarà lei a ringraziarmi per averle regalato la magnifica visione dell’Umanoide fare l’Umanoide.
«Hai mai pensato al teatro?» chiedo a lei un po’ perché credo veramente che le sue abilità espressive siano notevoli e un po’ perché non allungare il brodo ancora per qualche secondo significherebbe lasciarsi già alle spalle questo momento di perla.
La tua permalosità, del resto, ci attende al prossimo giro di boa; forse, perfino a questo.

–Oh, you're in my veins and I cannot get you out
Oh, you're all I taste at night inside of my mouth–

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|| London || March ||

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A volte non mi capacito della tua abilità nel provocarmi. È incredibile come tu riesca a toccare qualsiasi mio nervo scoperto, in positivo e in negativo. Le tue risposte inaspettate, i tuoi commenti, il tuo modo di fraintendere ogni mio respiro. Sono, però, costretto ad ammettere che nell’ultimo periodo sei cambiata. Io mi ostino a far finta di non vederlo, tu –credo?– fingi di non essertene accorta. È come se tu stessi cominciando a decodificarmi e, inutile dirlo, la cosa non mi piace.
Quel che ti è sempre stato chiaro e che io non ho mai nascosto dal momento in cui abbiamo lasciato da parte gli insulti per abbandonarci ai nostri diletti, è l’effetto che mi fai quando ti vedo guardarmi con la malizia a illuminare il nevischio che imperversa nei tuoi occhi. Se non altro, questo ti è stato facile decifrarlo così come per me è facile comprendere i significati dietro le tue movenze. Per questo non posso credere che tu non sia consapevole di ciò che stai facendo adesso: sai perfettamente che io ti guarderò le labbra, rosse come i tuoi capelli quando le mie mani ti percorrono; studierò il segno di un morso (non il mio, penso con disappunto) che ne disturba la geometria perfetta e su cui vorrei infierire molto volentieri. Serro la mascella quando ti vedo passare la lingua sulla carne ferita e mi faccio violenza per distogliere lo sguardo da te per posarlo su Isabella che è ancora scossa dalle risate.
Prima la brutale interruzione di un pomeriggio che prometteva piuttosto bene, poi la mia giacca, ora questo. Se potessi, calerei il braccio sul tavolo come una falce e rovescerei tutto solo per poterti afferrare. Di certo non lo farei per rabbia. O forse sí?
Anche, mi rispondo, regalandoti, senza guardarti direttamente, un sorrisetto che conosci fin troppo bene.
Io, comunque, sono rimasto in silenzio e non ho partecipato né indagato sull’origine di questo teatrino che giusto ora comincia a scemare d’intensità, con tanti ringraziamenti degli avventori nostri vicini. Non ho approfondito, un po’ perché seriamente non ho capito cosa diavolo abbiate da scompisciarvi al punto da stramazzare soffocate e un po’ perché non credo di averti mai visto ridere così tanto.
Anzi, mi correggo, ti ho vista anni fa e ti riconosco oggi una volta di più. Trovo assurdo come ti incaponisci nel ringhiare che non esisti più, che non devo cercare più ciò che eri. Il punto è che io non ho bisogno di cercarti, Nieve, perché sei sempre stata qui, dove ora sei seduta.
Non sono io a doverlo accettare, sei tu.

« Oddio madonna, non ce la posso più fare, ohi ohi! »
Isabella, ignara, si schiaccia addosso allo schienale, tenendosi lo stomaco con entrambe le braccia, in una perfetta copia del Gattaccio. Io la guardo con un sopracciglio alzato e lei allunga le mani sul tavolo per prendere le mie. La ignoro.
« Dai su, è che avevo scommesso avresti fatto così! » E, profondendosi nella sua proverbiale espressività, alza il pollice e mima il gesto di bere, buttando indietro la testa come ho fatto io poco fa. Poi rivolge un gran sorriso a Nieve. La loro affinità improvvisa ha un che di preoccupante. Aggrotto la fronte mentre sento Isa risponderle con un cipiglio orgoglioso:
« No, niente teatro, ma ho sangue italiano! Sarà per quello? » Si sposta la cascata di treccine di lato, prendendo il menù e posandolo davanti al Gattaccio per leggerlo insieme a lei.
Sbuffo, appoggiando il gomito sul tavolo e la guancia sul palmo. Non rispondo nemmeno a Nieve, mi limito, con la mano libera, ad allontanare il bicchiere vuoto verso il bordo.
Lo so che sono permaloso, sono consapevole di questo mio difetto che, però, ho cercato di smussare, complici le prese per il culo di Isa e Ned. Ho imparato a ridere, a rispondere per le rime e, giuro, a non prendermi troppo sul serio. Mi riesce anche bene, di solito, ma oggi no. Oggi non ho le forze per resistere alla potenza di questo fuoco incrociato. Mi irrito nuovamente con Isabella che sa perfettamente che giornata di merda ho avuto e, poi, mi incazzo con me stesso per aver dato talmente tanto materiale alla Rigos che avrà di che divertirsi alle mie spalle per il resto della sua vita.
Ringrazio solo l’arrivo della cameriera che distrae momentaneamente le due compari.
« Allora! Io prendo… » Isabella, con gli occhi luccicanti, si strofina le mani e comincia enumerare una sequela infinita di piatti senza nemmeno più guardare il menù. Quando si parla di sushi, svalvola. Più del solito almeno, il che è tutto dire. Ancora una volta, scaccio l’irritazione a favore di una morbidezza che quella maledetta riesce sempre a tirarmi fuori. Le mie emozioni cambiano con una tale velocità, stasera, che è un miracolo che io non sia già scappato a semplificarle in forma di falco, dismettendo quelli di “Horus”.
« E per finire una decina di nigiri al salmone! Tu, bro? »
« Il solito. » Sospiro e mi passo una mano sul collo per massaggiare l’indolenzimento che questa tensione mi ha provocato. Premo lentamente le dita sui tendini irrigiditi arricciando il labbro in una smorfia di fastidio. Volutamente sfioro il bordo alto della maglia, abbassandolo il giusto per mostrare una striscia di pelle.
Scocco un’occhiata al Gattaccio: toh, uno a uno.
« Per lui allora, okonomiyaki e tamagoyaki. E un calice di vino bian–– »
« Una bottiglia. » La correggo, rivolgendo un sorriso alla ragazza che sta prendendo l’ordine. Isa mi guarda sghignazzando mentre sfiora la spalla di Nieve.
« E tu, stellina? Cosa prendi? »
Mi immobilizzo improvvisamente, ricordando la voce accorata di Nieve nel chiedermi, per la prima volta, un aiuto: “Puoi fare finta di nulla?”
« Oh, stronzola. » Richiamo in fretta l’attenzione di Isa dandole un buffetto sul braccio. Lei si volta, momentaneamente distratta da me; bene, mi dico, ora il Gattaccio può prendere quello che vuole senza che nessuno le badi.
Non la ritiro la mano che ha tentato una carezza che, per una volta, è stata accettata.
Non può più accusarmi di nulla, non stasera almeno.
« Dimmela. »
« Io sto ancora aspettando quella teglia di lasagne che mi avevi promesso. »
È una cosa stupida, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente. Sento Nieve ordinare e la cameriera ringraziarci, così mi rilasso. Fortunatamente sviare gli altri mi riesce molto bene. Con Isabella non è facile, ma ora è così eccitata dal cibo da abbandonare momentaneamente il suo fiuto da Crup.
Si batte una mano sulla fronte, sorpresa.
« Oddio! Me so scordata! Ce la siamo magnata tutta io e Emma! » La mano scivola sulla bocca, gli occhi spalancati dal senso di colpa. Io rido: non avevo dubbi.
« A proposito, quando vieni a trovarla? Emmina mi chiede sempre dov’è il suo “Horso”. » Continua con un sorrisetto divertito, ben consapevole di ciò che ha appena rivelato.
Sentendo nominare la mia figlioccia, la mia espressione si addolcisce. Ancora non mi capacito che Isabella abbia chiesto proprio a me di farle da padrino.
« Presto, promesso. Diglielo e dalle un bacio da parte mia. »
« Sará bene! »
Poi si volta verso Nieve e si affretta a spiegarle il nostro discorso, evidentemente per non farla sentire in disparte.
« Emma è mia nipote! Ha quattro anni ed è innamorata persa di Horso. » Ghigna indicandomi col mento. Io mi passo la mano sulla faccia, sconsolato. Isabella, non contenta, si fruga nella tasca della giacca ed estrae il portafogli.
« Ecco, guarda quant’è carina! » Estrae due polaroid che sventola sul tavolo: nella prima Emma ha tre anni. Ha i capelli biondi come l’oro e un sorriso sdentato. Strano ma vero, quella bambina con la pelle bianca come il latte, le guance paffute e gli occhi nocciola è proprio nipote di sangue di Isa che ne è, ora, la sua tutrice legale.
Solo io conosco la loro storia; e non è bella.
Nella foto Emma si stringe ad un peluche di un orso che, tra l’altro, gli ho regalato io.
Poi, Isa mostra una seconda foto*** e io spalanco la bocca nel vederla per la prima volta.
« Ma quella?! Quando me l’hai fatta? » Esclamo sbigottito ed imbarazzato. In questa foto ci sono io che alzo Emma verso l’alto e lei ride insieme a me.
Non mi piacciono i bambini, ma lei è così speciale che mi è impossibile non adorarla.
Tuttavia, sono contrariato perché questa cosa apre un’altra porta a Nieve che ci conduce allo sconfinare definitivamente dal nostro patto.
Mi sporgo per strappare di mano la foto a Isabella, ma lei, faina, se lo aspetta e si nasconde dietro di lei. La scena è veramente divertente visto che il Gattaccio è così sottile da essere grande più o meno come un braccio di Isa.
« Aha! Mi serve per testimoniare al mondo che anche tu, ghiacciolino, hai un cuore! »
Mancando l’obiettivo, mi stendo con le braccia sopra il tavolo ancora libero e vi nascondo la faccia.
« Mi rovini la reputazione. » Borbotto con la voce attutita dalla maglia.
Lei si delizia in una risata soddisfatta.


|| You can't live without the fire 'cause you're born to live and fight it all the way ||

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*** = In privato la foto incriminata. :bello:
 
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Giochi sporco, Umanoide, ma del resto lo faccio anch’io. È assurdo pensare che, in tutto il tempo passato a conoscerci, non abbia mai notato la tua avvenenza; non con uno scopo fisso in mente, almeno. Ero troppo impegnata a godere della tua amicizia, prima, e a odiarti poi. Invece, eccomi a subire un fascino irresistibile — l’effetto che mi fai ogni volta che ti guardo e stento a rimanere lontano da te.
Penso alle volte in cui ti sono letteralmente saltata addosso ché avevi fatto appena in tempo ad aprire la porta dell’appartamento, mossa dalla smania incontrollabile di averti. Alle volte che, insaziabile, ti ho cercato ancora nel fruscio delle lenzuola già sfatte. Alle volte che, senza preavviso, ti ho spinto contro il muro o sul divano o sul letto e ho preteso la tua bocca, le tue mani, la sensazione data dal contatto tra il tuo corpo e il mio. Per questo, tutto quello che posso fare è deglutire e fissarti con la stessa intensità dei miei scatti di passione, quando vedo il sorriso inclinare le tue labbra e la striscia di pelle scoperta dal tocco delle tue dita. Manco fossimo nel 1600 e mi avessi appena mostrato un polso o una caviglia.
Farei lo stesso, se proprio vuoi saperlo — anche se, in realtà, sono la prima a ignorare la convergenza delle nostre voglie; a poterla solo immaginare. Ti raggiungerei scavalcando il tavolo e mi siederei sul tuo grembo, le labbra premute contro le tue.
«Davvero? Adoro!» rispondo a Isabella, concedendoti una tregua. È buffo da parte mia reagire con tanto entusiasmo alla notizia delle sue origini, ma non avrebbe senso neppure trattenersi. Un po’ è perché non l’avrei mai detto e un po’ è perché l’Italia rievoca ricordi che custodisco con affetto. «La mia fam—» Mi fermo, consapevole che, una famiglia, oramai non ce l’ho più. Un velo di malinconia cala sui miei occhi chiari: sento la mancanza dei nonni come si sente la mancanza di un amico immaginario, dopo aver affrontato mille e un’avventura in sua compagnia. «Sono stata in Italia, qualche anno fa. Precisamente in Toscana, a Lari. È stata una delle esperienze più belle della mia vita, a parte l’insolazione.»
Con la stessa inconsapevolezza emersa dall’inizio di questo incontro, condivido con Isabella uno scorcio del mio passato — di una me che ha smesso di esistere e della quale, a momenti, rimpiango la dipartita. Me ne stupirei, se solo non fossi troppo impegnata a restituirle parte di ciò che mi ha donato con la moneta delle confidenze. A te, Umanoide, non ho mai aperto con tanta spontaneità spiragli su chi sono stata né su chi sono diventata.
E che dici dell’aiuto che hai domandato neppure troppi minuti fa?
L’Abisso è sempre lì, pronto a smentire le mie convinzioni. E tu gli fai seguito poco dopo. Lo noto che entri in scivolata per distrarre Isa, che ha praticamente palesato la sua intenzione di consumare tutto il pesce e il riso del locale. Sei dolce, devo concedertelo, e credimi che questa ammissione ha un costo. Mi costringe a prendere atto della verità: non è la prima volta che lo sei; che lo sei con me. Tutte le tue accortezze, quei piccoli gesti di cura che mi riservi nonostante le mie titubanze, portano la medesima sfumatura. Perché lo fai? Perché, nonostante i nostri patti, nonostante io provi a mantenere una certa distanza tra noi, ti avvicini — mi avvicini?
Distolgo lo sguardo da te e mi affretto a mascherare il sorriso accalorato di cui sei responsabile. Non va bene, Umanoide. Non va bene, Nieve.
L’attenzione è ora sul menù e sulla soluzione più comoda per affrontare l’ostacolo che il mio vissuto continua a trascinare con sé. Non voglio che la tortura duri più del previsto. L’ultima e unica volta che sono venuta da Himiko’s risale ai primi anni a Hogwarts, a un festeggiamento tra Grifondoro del quale avevo perso memoria. Non rammento quale trucco avessi utilizzato allora per arrivare fino alla fine del pasto, perciò non posso attaccarmi a un precedente.
Non ho il coraggio di pronunciare a voce alta l’ordinazione, quindi mostro alla cameriera la voce sul menù, puntandovi un dito. Un onigiri basterà a togliermi dall’impiccio. Le comunico inoltre, accostandomi a lei e tenendo la voce bassa, il desiderio di tenere il menù con me. Non passerò inosservata — dubito che Isabella non commenti la frugalità della mia scelta, specie considerata la sua voracità —, ma un metaforico tendaggio che mi nasconda alla vista di entrambi voi due è il meglio che possa fare per evitare di alzarmi e fuggire a gambe levate.
Mi lascio andare in un sospiro, esausta per la tensione che non mi sono resa conto di aver accumulato, e sono grata che la scenetta sulle lasagne mi fornisca la giusta distrazione. Siete buffi ma altrettanto belli. Il legame che scorre tra di voi è forte; splende alla luce del sole rimandando la stessa energia. Io e Thalia eravamo così due anni fa, unite da un nodo stretto che non teneva conto del sangue ma dell’amore. Io e Roth, invece, eravamo altro.
«Tua nipote è bellissima, Isa» non riesco a fare a meno di dire, quando la prima foto viene sottoposta alla mia attenzione. E rido nell’apprendere della storpiatura cui il tuo nome è sottoposto, Umanoide. Di nuovo, quella tenerezza che dovrei tenere alla larga da noi fa capolino sul mio viso. «E Horso è perfetto per un musone abbrutito come lui. Il suo verso non è tanto dissimile da quello dell’orso, specie ai margini di un’autostrada».
Grazie a Isabella, ho imparato il nome del luogo dove mi hai portato e sono quasi caduta dalla moto. Ti scocco un’occhiata penetrante e arricciò le labbra in un sorriso furbesco. La ramanzina che mi hai riservato, dopo avermi scaricata come un barilotto di birra sul pavimento erboso, non aveva nulla da invidiare all’urlo dell’animale cui riesco benissimo ad accostarti. Emma ci ha preso, mostrando la stessa prontezza di intelletto della zia.
È quando scopro della seconda foto che, inspiegabilmente, un movimento sospetto ha luogo nel mio petto. È una giravolta che mi coglie di sorpresa, lasciando dietro di sé un sentore che non sono brava a — o forse non voglio — interpretare. È strano vederti in queste vesti, sorridente e privo degli schermi dietro i quali ti trinceri. Hai tolto l’armatura con Emma e, dei bulloni, non c’è alcuna traccia. Allora, sai farlo, mh? Sai dismettere i panni dell’androide e abbandonarti all’umanità che ti ostini a rifiutare.
Sei ancora vivo, Horus. Il metallo non è riuscito a penetrare il tuo animo, lo sai, vero?
«Ah, ma quindi hai un cuore anche tu sotto la corazza di ferro» infierisco, impietosa. Lo vedo quanto ti costa essere messo a nudo da Isabella. Per un istante, mi chiedo se il gesto di lei non miri a dimostrarmi la sua tesi; a convincermi che, qualunque recita tu abbia imbastito sul palco, non sei freddo come vuoi apparire. O, forse, come vuoi che io ti veda. «Sai che lo chiamo Umanoide proprio per questo?» mi rivolgo a Isa, gli occhi ora alla ricerca dei suoi. «Perché non cede un centimetro, non mostra nemmeno un grano di sentimenti e si comporta come fosse di latta.»
Gioco sporco anch’io. È il mio turno, d’altra parte, e non saremmo noi se non ci alternassimo in una gara di colpi bassi. A voler essere onesti, non ho il diritto di criticare il tuo comportamento perché io non sono da meno. Fuggo, svicolo e mi isolo più di quanto non faccia tu, come nel timore di un attacco.
Attacco ai danni di cosa? Del tuo fisico o della tua emotività?
So cosa insinua l’Abisso. Vuole dire che, se solo mi concedessi di assorbire il significato dei tuoi piccoli cedimenti di tenerezza, rischierei di constatare che la fiammella che continui a rinfocolare esiste. Vuole dire che c’è un motivo se i miei capelli cedono al rosso quando mi tocchi e restano ostinatamente di neve quando a farlo è chiunque altro; e che la ragione sta nel calore che riesci a trasmettermi oltre la muraglia di ghiaccio alla quale mi appello per soffocare a morte ogni tentativo di avvicinamento. Ad opera degli altri. Ad opera tua.
«Diglielo che mi hai quasi slogato una spalla, la prima volta che sono venuta a casa tua?»
Un altra stangata ai tuoi reni. Sono brava a presentare la realtà a mio favore, ma gioco col fuoco — so anche questo. Non posso predire se mi renderai pan per focaccia, ma è impossibile trattenermi dallo stuzzicarti. Non riuscirei a non farlo nemmeno se m’impegnassi con ogni fibra di volere. Isa, per parte sua, sta rendendo il gioco più facile del previsto, più allettante del previsto. E tu provochi, benvestito della tua sicurezza; della consapevolezza di te che ostenti, impudicamente.
Allora mi dico che, se non posso averti ora, stuzzicherò la tensione che già scorre tra noi fino a che non raggiungerai il limite, in negativo o in positivo. Ché lo sappiamo entrambi come sfogherai la tua irritazione, non appena ne avrai l’occasione.

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Edited by ~ Nieve Rigos - 28/3/2024, 16:55
 
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Onestamente non so cosa mi lascia più senza parole nel lasso di questi brevi minuti. Quanti ne sono passati? Venti? Trenta? Partono da ora o da quando Isabella è piombata in casa mia?
Sono comunque troppo pochi per tutto questo, troppo pochi per le informazioni che, involontariamente, ci stiamo scambiando.
Il fatto che sei stata in Italia, la tua conferma sul timore di mangiare in pubblico, la tua richiesta di aiuto, il tuo ridere così genuino, di cuore, come mai hai fatto da quando ci siamo rivisti.
È tutto troppo da processare per me. Non voglio conoscerti così a fondo, non voglio superare quel muro che diventa impalpabile solo quando i nostri corpi collidono, per poi tornare tangibile una volta che i vestiti rifanno la loro comparsa. Eppure continuiamo imperterriti, picconata dopo picconata a buttare giù quei mattoni ed Isabella non è altro che colei che ci ha dato gli strumenti per farlo.
Nascosto dalle braccia, alzo una mano e vi mostro ancora una volta il mio dito medio, quello circondato dall’anello in cui è stata incastonata Hagalaz.
Ecco qualcosa che Isabella non sa e non saprà mai; come non saprai mai tu, sebbene l’abbia vissuta per ben due volte sulla tua pelle. Una delle quali, tra l’altro, proprio nell’autostrada da te tanto odiata.
La mia amica ride, mi tira una manata e mi scompiglia i capelli come si fa con un ragazzino ed io riemergo molto contrariato, sistemandomeli dietro un orecchio.
« Come siamo permalosi, oggi! » Esclama, rimettendo le foto nel portafogli.
« Chissà perché. » Sottolineo con gli occhi ridotti ad una fessura.
Lei fa spallucce e si volta verso Nieve sbattendo le palpebre per la sorpresa, prima di regalarmi un’occhiata penetrante. Io ascolto il Gattaccio con un sopracciglio alzato, infastidito da come riesca a intortare la gente semplicemente omettendo determinati fatti. Tamburello con le dita sul tavolo mentre Isabella si lascia andare ad un rumoroso: « Nooo! Non me lo dire! »
Poi si gira di scatto. « Ma sei scemo? Le hai urlato in autostrada? »
« Se lo meritava. » Rispondo asciutto. Dille, Gattaccio, che cosa hai fatto. Dille come pur di non toccarmi ti sei ostinatamente aggrappata al retro della moto, rischiando di lasciarci la pellaccia.
Dille che proprio tu, dopo avermi riempito di insulti, ti sei sdraiata accanto a me e…
No, non dirglielo.
« Mi ha quasi spaccato il casco solo perché non ho dato per scontato che non sapesse cos’è una visiera. » Mimo il gesto di abbassarne una invisibile. « Sai, quella roba che hai anche nei caschi da Quidditch quando piove a dirotto? Proprio quella. » Aggiungo, sarcastico.
Isabella scuote il capo, massaggiandosi una guancia. I suoi occhi rimbalzano da me alla Rigos, come fosse davanti ad una partita di tennis e non vedesse l’ora di scoprire chi sarà il prossimo a segnare il punto.
« Certo che… » Mi guarda per un po’, lasciando passare qualche secondo di silenzio. Forse, mi dico con ingenua speranza, ha finito di infierire.
« Calcolando quanto mi c’è voluto per scioglierti e sbullonarti, Umanoide ti sta proprio bene come nome. » Ghigna e fa una carezza sulla testa di Nieve. « Fantasiosa la piccola! Brava! »
Forse no.
Io chiudo gli occhi e conto mentalmente fino a dieci. Ma tutto sfuma quando per l’ennesima volta quando il Gattaccio fa sfoggio delle sue doti da furba oratrice. Ora, però, non mi faccio trovare impreparato. Potresti dirle, anche qui, come mi hai per l’ennesima volta attaccato come fossi il peggiore dei mostri, tanto per cominciare. O potrei farlo io: non so se l’hai notato ma non sto replicando aggiungendo dettagli. Non voglio che Isabella si renda conto ancora di più di quanto stiamo sconfinando.
Questa volta sono io a ghignare; snudo i denti e mi verso un bicchiere di vino, appena portato gentilmente dalla cameriera.
« Oh, non le dici nulla di nuovo. » Rispondo alla provocazione con incredibile tranquillità, rispetto a come ho accusato fino ad ora le vostre battute.
« Isabella sa che non sono tipo delicatino da smancerie a letto anzi… tutt’altro. » So che non è questo a cui fai riferimento, ma perché fornirti un assist proprio ora che ho l’occasione per farti ricordare in quale senso intendo?
Senza alcun pudore guardo per un attimo prima te, intensamente, poi lei che arriccia il labbro nell’ennesimo sorriso, per nulla imbarazzata. « Eh già! » Sghignazza sventolando una mano e versandosi anche lei un po’ del mio vino.
« Qualche trucchetto te l’ho consigliato io. Ringraziamo la mia ex che me l’ha insegnato. » Con l’ultima specifica, Isabella chiarisce che no, non siamo mai andati a letto insieme e, rabbrividisco così come farebbe lei, non ci pensiamo neanche.
A lei piace la stessa cosa che piace a me. Forse di più.
« Dovresti ringraziarla anche tu, sai? » Mi rivolgo a te, stavolta, abbassando il calice con un sorriso sghembo a farla da padrone sotto il brillio delle iridi d’argento.
« Prova ad indovinare quali. » Nel mettere giù il bicchiere mi sfioro velocemente il labbro inferiore col pollice. Vuoi provocare la mia pazienza? Molto bene, io provocherò i tuoi nervi perché ho notato come mi hai guardato, quando ti ho mostrato innocentemente il collo.
Potrebbe sembrare strano, visto quanto Isa mi riprende per la mia vita sregolata in fatto di donne, ma è stata proprio lei a dirmi che “ogni tanto una scopata fa bene al corpo e alla mente!
Perla di saggezza che forse potrei aver preso troppo alla lettera e che potrei rivelare, ma preferisco tenerla per me per ovvie ragioni e annegare il tutto in un generoso sorso di chardonnay. Tra me e Isabella, comunque, non c’è la ben che minima traccia di riserbo.
Finalmente ci viene servito da mangiare e gli ordini di Isa sono così tanti da riempire completamente il tavolo.
« Daje regà! » Esplode in un ruggito felice allineando in maniera sconclusionata tutti i piattini. È un tripudio di uramaki, futomaki, nigiri, tartare: praticamente è stato sterminato tre quarti dell’oceano per sfamare Isabella che non si fa scrupoli e impugna le bacchette.
I miei due piatti vengono brutalmente incastrati in un angolo ed io, abituato, trovo il modo di ottimizzare gli spazi. Non mi risulta difficile visto che in tempo zero quella fogna della mia amica ha fatto fuori già un vassoio di nigiri al salmone.

Quando la cameriera torna, serve il tuo ordine. È un piattino con un solo onigiri sopra. Io ti guardo con la coda dell’occhio e intuisco cosa potrebbe succedere. In confronto a noi, il tuo pasto è misero. E, quindi, non faccio nemmeno in tempo a mandar giù il boccone che Isabella, per la seconda volta inconsapevole di ciò che va a risvegliare, indica con la bacchetta la polpetta di riso.
« Ma tu mangi so–– »
« Isabè, ti si spappola il riso! » Ringrazio mentalmente il fatto che sia rozza come un troll e le indico rapidamente il disfacimento del suo pezzo di uramaki vicino la giacca di Nieve. Anzi, la mia giacca. Lei si affretta a ficcarselo in bocca e io trattengo l’ennesimo sospiro. È più faticoso del previsto cercare di distrarla senza che sembri palese e benedico i miei riflessi nel trovare il modo di sviare in maniera tanto fluida. Anche io non posso non notare che il pasto di Nieve è incredibilmente frugale, ma non me ne stupisco e di certo non andrò a insistere affinché mangi altro.
« Faffè e che farà mai! » Isa deglutisce rumorosamente e riparte all’attacco dell’ennesimo pezzo di sushi.
« C’è che fai un casino. E smettila di inzupparlo dalla parte del riso! » Stavolta sembro io il genitore perché mi sporgo in avanti per tirarle un colpetto sulla mano. E lei, dispettosa come una scimmia, ne prende un altro pezzo e lo intinge in mezzo litro di salsa di soia.
Il problema è che nel tirarlo su, il riso si sgretola come sabbia e l’uramaki ricade nella ciotola con un sonoro “plof”. La salsa schizza su tutto il tavolo ed io, per evitarla, faccio un balzo indietro, schiacciandomi sullo schienale. Tutti e due ci guardiamo con gli occhi spalancati, alzandoli dal luogo del delitto, fino ai nostri visi. Poi scoppiamo a ridere sonoramente, senza riuscire a riprenderci per un po’.
Ti guardo rapidamente, Gattaccio, prima di tirare un tovagliolo pulito in faccia a Isa.
Mangia. La distraggo io.
Anche se, stronza, non te lo meriteresti.

|| You can't live without the fire 'cause you're born to live and fight it all the way ||

code ©Horus.






Ebbene signorine cameriere, ecco il nostro ordine:
- Antipasti e contorni
x10 nigiri al salmone;
x3 temaki maguro
x5 hosomaki
x6 maki
x1 nigiri
x2 takoyaki
x3 Uramaki tempura
x1 onigiri

- Primi piatti
x1 tamagoyaki

- Secondi piatti
x1 okonomiyaki
x1 omurice
x1 sashimi misto
x1 sake flambé
x1 sushi misto


In più ci prendiamo la licenza di ordinare fuori menù:

x1 birra
x1 bottiglia di chardonnay *FRUFFRI

Tutto sul mio conto da pappone, grazie. :bello:

 
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view post Posted on 21/4/2024, 12:55
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entropia.

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18 yrs – Lust – Himiko's

«Vecchietto, dev’essere un po’ che non giochi a Quidditch, perché stai facendo confusione. Uno, sono gli occhialini a proteggerti da vento e moscerini. Due, l’elmetto non ha nessuna visiera. Va indossato, appunto, con gli occhialini.»
La mia arringa ha il suo fondamento. Non è passato troppo tempo dall’ultimo torneo di quidditch — dove i Grifondoro hanno misteriosamente perso ogni partita per tutta gioia degli avversari, dei rigori inesistenti ottenuti grazie alla benevolenza dell’arbitra e dei falli mai visti o segnalati. Perciò, la mia preparazione sugli accessori usati per il gioco più amato del mondo magico è ineccepibile. In realtà, lo sarebbe anche se il torneo non si fosse mai giocato. Sfrecciare nel cielo a bordo di una scopa è uno dei più grandi appagamenti cui la vita da strega mi abbia permesso l’accesso. Mi alleno perfino quando, di allenamenti, non ne ha pianificato nessuno.
Lascio cadere il discorso, assecondando Isabella nel passaggio a un altro argomento. Il suo plauso mi spinge a inclinare il capo in segno di gratitudine. È complicato non indugiare sul ricordo dell’attimo in cui le tue difese sono crollate sotto la spinta del mio attacco. Rivedo il tuo volto avvicinarsi al mio, le tue dita raccogliere una ciocca d’argento e l’accoramento dietro la tua richiesta — “E tu cosa vuoi che faccia questo automa?”. È complicato soprattutto ricacciare indietro la memoria della nostra frenesia, del modo in cui ci siamo posseduti nell’ingresso di casa tua.
Trattengo un sospiro, lo stesso che ha abbandonato le mie labbra quando, prima dell’interruzione di Isabella, la tua mano è scivolata sulla mia coscia, superando la protezione della gonna. Sono passati mesi, ma il tempo non è riuscito a diluire la bramosia che ci conduce sempre sull’orlo del baratro. È per questo che mi ostino a tornare. È per questo che mi attiri a te, dopo aver professato a lungo distanza.
Tu non aiuti, Umanoide. Lo sguardo che mi riservi, il richiamo alle tue maniere da drago muovono i carboni ardenti nel mio focolare. Una scintilla scappa alla presa del legno arso; si solleva una lingua di fuoco. Le torturerei, quelle labbra su cui lasci una carezza con il chiaro intento di provocarmi. Ci riesci, se vuoi saperlo. Le mie gambe, sotto il tavolo, subiscono uno spasmo; un’involontaria contrazione che reagisce all’esortazione del piacere. Odio questa distanza. Odio il tavolo che ci separa. Odio l’attesa logorante che vorrei sfidare, ora, nei bagni del locale o nel vicolo che fiancheggia questo edificio. Perfino lì, nel punto in cui stai seduto a recitare la parte dell’offeso. Saprei io come toglierti quell’espressione immusonita dalla faccia, trasformandola nelle fiamme dell’inferno con le quali accelero il battito del tuo cuore e la corsa frenetica del sangue nelle tue vene.
«Be’, non mi dispiacerebbe se mi dessi una lezione pratica. Sono sempre aperta al miglioramento.»
Parlo con Isa e le dedico un’espressione maliziosa, ammiccando. Abbiamo sempre precisato che il nostro rapporto non è esclusivo, Umanoide, no? Immagino che non sarebbe un problema condividere la tua amica con me. A fini esclusivamente scientifici, s’intende.
L’arrivo della cameriera getta acqua sulle mie voglie e, presto, subentra il panico. Il momento che ho a lungo temuto è giunto e io… io non sono pronta. Percorro con gli occhi il ristorante gremito, ne studio gli ospiti e conto mentalmente gli sguardi che potrebbero ricadere su di me. Il fiato si accorcia, ma non voglio che voi due lo vediate. Perciò, incrocio le braccia al petto e lascio vagare lo sguardo fino a raggiungere la finestra.
Ho bisogno di aiuto.
E tu me lo fornisci, Umanoide, distraendo Isabella con una solerzia di cui ti sono grata e che saprò ricompensare a tempo dedito. Ma adesso… adesso è il tormento a velare le iridi lunari, a rievocare le sensazioni che ho provato da bambina quando, china sulla strada, ho mangiato con voracità i rimasugli gettati nella spazzatura. Mi guardereste con lo stesso sdegno che ha impietrito e disgustato gli abitanti di Borgarbyggð, se avvicinassi alle labbra l’onigiri? Mi trovereste ripugnante?
«Arrivo subito» esclamo, mentre il suono delle vostre risate complici tenta di scacciare il martellare sordo del cuore nelle orecchie. «Mi sembra di aver visto una persona che conosco. Vado a salutarla un attimo, prima di perderla di vista.»
Mi alzo con uno scatto secco e non vi do occasione di replicare, di cogliere la mendacità della mia scusa. Rimanete seduti, felici di godere della vostra reciproca compagnia, e datemi il tempo di riprendere fiato ché ne ho perso il controllo.
Mi accosto a un passante, sfiorandogli la spalla non appena l’aria tiepida mi accoglie e il frastuono del traffico si fa più intenso, non più attutito dalla musica giapponese. «Ciao! Scusa il disturbo, ma devo chiederti un favore.» Non me lo deve. Non può capire. Infatti, aggrotta la fronte e schiude le labbra per ribattere, ma ha bisogno di un attimo per riprendersi dalla sorpresa. Io colgo l’occasione per proseguire. «Ho bisogno che tu finga di conoscermi. Vedi la finestra alla tua sinistra? I miei amici sono seduti lì e io sto avendo un attacco di panico. Mi serve un secondo per riprendermi senza che loro se ne accorgano.»
Tituba. E come potrebbe essere altrimenti? Non capita tutti i giorni di essere fermati per strada da una perfetta sconosciuta alla ricerca di aiuto. Eppure, la sua espressione si ammorbidisce e mi rivolge un cenno del capo. Io sospiro di sollievo e gli sorrido, riconoscente.
«Ti va di muovere qualche passo in direzione di quel vicolo? Così posso nascondermi un attimo…»
«Sei in pericolo?» mi domanda e la preoccupazione sul suo volto mi intenerisce.
«No, davvero. È solo difficile spiegare agli altri qualcosa che non sai spiegare nemmeno a te stessa.»
«Lo capisco» dice, al che passa un braccio sotto il mio e mi sorride con più leggerezza. Dev’essere un mio coetaneo, infuso di una leggerezza che mi è comoda in questo momento
La recita è appena iniziata e lui ha mosso i primi passi verso la viuzza, mia meta. Lo ringrazio accoratamente, mentre fingiamo di chiacchierare del più e del meno. In realtà, mi sta chiedendo se sto bene, se può fare qualcosa per me. Io lo rassicuro. Starò meglio, posso giurarglielo.
Lascio il suo braccio quando siamo a ridosso dell’angolo della strada e mi insinuo rapidamente nella protezione che mi offre. «Non sai quanto ti sia... boh, debitrice, tipo?» sussurro, poi sospiro. «Mi hai salvato da un’ondata di preoccupazione che non avrei potuto reggere.»
In realtà, non credo che sarebbe andata così, anche se avessi avuto davvero un attacco di panico. Non posso rivelargli che la mia è una scusa per ottenere un supporto del quale, sì, non posso fare a meno. Se ne va, infine, non senza avermi offerto un’assistenza che non ti aspetteresti da un estraneo; non senza aver voltato il capo nella mia direzione un’ultima volta.
«Tilly!»
Tengo stretto tra le dita il cimelio della famiglia Morgenstern che mi permette di richiamare la mia elfa domestica ogni qualvolta senta il bisogno della sua presenza. Mi trovo a metà del vicolo, nascosta da un cassonetto dell’immondizia più grande di me. Uno schiocco annuncia l’arrivo della mia salvatrice.
«Tilly, ho bisogno di una fiala.» Parlo senza darle il tempo di chiedere. Non voglio destare sospetti. Non voglio correre il rischio di essere beccata. Desidero soltanto trovare il conforto che le sostanze a me care possono darmi. Tilly si rabbuia. «Subito» aggiungo.
Non è il tempo dell’assennatezza — con me, non lo è mai. Per questo, cogliendo la perentorietà nel mio tono, la piccola si limita ad annuire e a scomparire. Io, nell’attesa del suo ritorno, mi guardo intorno per assicurarmi di essere ancora da sola: nessuno affacciato alle finestre, nessuno interessato a indagare la semioscurità del vicolo chiuso in cui mi trovo.
Un terzo schiocco conferma il suo ritorno. La fialetta che stringe tra le dita rachitiche solletica il mio sollievo. Neppure mi avvedo del sorriso che poggia sulle mie labbra solo alla prospettiva del suo consumo.
La sensazione inebriante mi raggiunge non appena il liquido sfiora la mia bocca e discende lungo la gola. Allora, la zavorra piazzata sul mio petto si alleggerisce e, piano piano, si sfoca. Le pupille si allargano, costringendo l’iride all’angolo dell’occhio.
Ringrazio l’elfa. Le mie dita tracciano una carezza gentile sul suo viso, allorché la congedo. Non è tranquilla. Non ama sapermi da sola in preda all’effetto degli intrugli cui devo la sopravvivenza. Non sa, però, che non sono sola stavolta e che è proprio la compagnia — che tutti, lei compresa, ritengono un rimedio ai miei affanni — a sollecitare i miei demoni.
Torno sui miei passi, senza fretta, ora più tranquilla. Quando rimetto piede nel locale e, da ultimo, riprendo posto al tavolo, non do spiegazioni. Mi limito a prendere il calice che sta di fronte al mio piatto e a farlo scivolare verso di te, Umanoide.
«Ti dispiacerebbe condividere?»
Mi riferisco allo Chardonnay, il rinforzo di cui ho bisogno per affrontare questo stupido onigiri.
Ti prego, dicono i miei occhi. Ne ho bisogno.

–Oh, you're in my veins and I cannot get you out
Oh, you're all I taste at night inside of my mouth–

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